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Dono e Mistero il libro di Giovanni Paolo II da leggere

Ultimo Aggiornamento: 25/07/2016 08:41
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09/06/2014 18:27
 
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III


INFLUSSI SULLA MIA VOCAZIONE



Ho parlato ampiamente dell'ambiente seminaristico, perché esso fu certamente quello che ebbe maggior rilievo nella mia formazione sacerdotale. Allargando tuttavia lo sguardo su un orizzonte più ampio, vedo con chiarezza che da tanti altri ambienti e persone mi sono venuti influssi positivi, attraverso i quali Dio mi ha fatto giungere la sua voce.


La famiglia


La preparazione al sacerdozio, ricevuta in seminario, era stata in qualche modo preceduta da quella offertami con la vita e l'esempio dai genitori in famiglia. La mia riconoscenza va soprattutto a mio padre, rimasto precocemente vedovo. Non avevo ancora fatto la Prima Comunione quando perdetti la mamma: avevo appena nove anni. Non ho perciò chiara consapevolezza del contributo, sicuramente grande, che ella dette alla mia educazione religiosa. Dopo la sua morte e, in seguito, dopo la scomparsa del mio fratello maggiore, rimasi solo con mio padre, uomo profondamente religioso. Potevo quotidianamente osservare la sua vita, che era austera. Di professione era militare e, quando restò vedovo, la sua divenne una vita di preghiera costante. Mi capitava di svegliarmi di notte e di trovare mio padre in ginocchio, così come in ginocchio lo vedevo sempre nella chiesa parrocchiale. Tra noi non si parlava di vocazione al sacerdozio, ma il suo esempio fu per me in qualche modo il primo seminario, una sorta di seminario domestico.


La fabbrica Solvay


In seguito, dopo gli anni della prima giovinezza, seminario per me divennero la cava di pietra e il depuratore dell'acqua nella fabbrica di bicarbonato a Borek Falecki. E non si trattava più soltanto di pre-seminario, come a Wadowice. La fabbrica fu per me, in quella fase della vita, un vero seminario, anche se clandestino. Avevo cominciato a lavorare nella cava dal settembre 1940; dopo un anno passai al depuratore dell'acqua nella fabbrica. Furono quelli gli anni in cui maturò la mia decisione definitiva. Nell'autunno del 1942 intrapresi gli studi nel seminario clandestino come ex studente di Filologia polacca, al momento operaio alla Solvay. Non mi rendevo conto allora dell'importanza che ciò avrebbe avuto per me. Soltanto più tardi, da sacerdote, durante gli studi a Roma, imbattendomi attraverso i miei compagni del Collegio Belga nel problema dei preti-operai e nel movimento della Gioventù Operaia Cattolica (JOC), compresi che quanto era diventato così importante per la Chiesa e per il sacerdozio in Occidente — il contatto con il mondo del lavoro — io l'avevo già iscritto nella mia esperienza di vita.


In verità, la mia non fu esperienza di «prete operaio» ma di «seminarista operaio». Lavorando manualmente, sapevo bene che cosa significasse la fatica fisica. Mi incontravo ogni giorno con gente che lavorava pesantemente. Conobbi l'ambiente di queste persone, le loro famiglie, i loro interessi, il loro valore umano e la loro dignità. Personalmente sperimentavo molta cordialità da parte loro. Sapevano che ero studente e sapevano anche che, appena lo avrebbero permesso le circostanze, sarei tornato agli studi. Non incontrai mai ostilità per questa ragione. Non dava loro fastidio che portassi al lavoro i libri. Dicevano: «Noi staremo attenti: tu leggi pure». Questo capitava soprattutto durante i turni di notte. Dicevano spesso: «Riposati, staremo di guardia noi».


Feci amicizia con molti operai. A volte mi invitavano a casa loro. In seguito, come sacerdote e vescovo, battezzai i loro figli e nipoti, benedissi i matrimoni e officiai i funerali di molti di loro. Ebbi anche occasione di notare quanti sentimenti religiosi si nascondessero in loro e quanta saggezza di vita. Questi contatti, come ho accennato, restarono molto stretti anche quando terminò l'occupazione tedesca e poi in seguito, praticamente fino alla mia elezione a Vescovo di Roma. Alcuni di essi durano tuttora in forma di corrispondenza.


La parrocchia di Debniki: i Salesiani


Debbo ancora fare un salto indietro, al periodo che precedette l'entrata in seminario. Non posso, infatti, omettere di ricordare un ambiente e, in esso, un personaggio da cui in quel periodo ricevetti veramente molto. L'ambiente era quello della mia parrocchia, intitolata a San Stanislao Kostka, a Debniki in Cracovia. La parrocchia era diretta dai Padri Salesiani, che un giorno furono deportati dai nazisti nel campo di concentramento. Rimasero soltanto un vecchio parroco e l'ispettore della provincia, tutti gli altri furono internati a Dachau. Credo che nel processo di formazione della mia vocazione l'ambiente salesiano abbia svolto un ruolo importante.


Nell'ambito della parrocchia c'era una persona che si distingueva tra le altre: parlo di Jan Tyranowski. Di professione era impiegato, anche se aveva scelto di lavorare nella sartoria di suo padre. Affermava che il lavoro di sarto gli rendeva più facile la vita interiore. Era un uomo di una spiritualità particolarmente profonda. I Padri Salesiani, che in quel difficile periodo avevano ripreso con coraggio ad animare la pastorale giovanile, gli avevano affidato il compito di intessere contatti con i giovani nell'ambito del cosiddetto «Rosario vivo». Jan Tyranowski assolse questo incarico non limitandosi all'aspetto organizzativo, ma preoccupandosi anche della formazione spirituale dei giovani che entravano in rapporto con lui. Imparai così i metodi elementari di autoformazione che avrebbero poi trovato conferma e sviluppo nell'itinerario educativo del seminario. Tyranowski, che era venuto formandosi sugli scritti di San Giovanni della Croce e di Santa Teresa d'Avila, mi introdusse nella lettura, straordinaria per la mia età, delle loro opere.


I Padri Carmelitani


Ciò accrebbe in me l'interesse per la spiritualità carmelitana. A Cracovia, in via Rakowicka, c'era un monastero di Padri Carmelitani Scalzi. Li frequentavo e una volta feci presso di loro i miei Esercizi Spirituali valendomi dell'aiuto di P. Leonardo dell'Addolorata.


Per un certo periodo presi anche in considerazione la possibilità di entrare nel Carmelo. I dubbi furono risolti dall'Arcivescovo Cardinale Sapieha, il quale — secondo lo stile che gli era proprio — disse brevemente: «Bisogna prima finire quello che si è cominciato». E così avvenne.


Il P. Kazimierz Figlewicz


Nel corso di quegli anni mio confessore e guida spirituale fu P. Kazimierz Figlewicz. Lo avevo incontrato per la prima volta quando frequentavo la prima ginnasiale a Wadowice. Padre Figlewicz, che era vicario della parrocchia, ci insegnava religione. Grazie a lui mi avvicinai alla parrocchia, diventai chierichetto e in qualche modo organizzai il gruppo dei chierichetti. Quando egli lasciò Wadowice per la cattedrale del Wawel, continuai a mantenere i contatti con lui. Ricordo che, durante la quinta ginnasiale, mi invitò a Cracovia per partecipare al Triduum Sacrum, che cominciava col cosiddetto «Ufficio delle Tenebre», nel pomeriggio del Mercoledì Santo. Fu un'esperienza che lasciò in me una traccia profonda.


Quando, dopo la maturità, mi trasferii con mio padre a Cracovia, intensificai i miei rapporti col P. Figlewicz, che svolgeva la funzione di sottocustode della cattedrale. Andavo a confessarmi da lui e, durante l'occupazione tedesca, spesse volte gli facevo visita.


Quel 1° settembre 1939 non si cancellerà mai più dalla mia memoria: era il primo venerdì del mese. Mi ero recato al Wawel per confessarmi. La cattedrale era vuota. Fu, forse, l'ultima volta in cui potei liberamente entrare nel tempio. Esso fu poi chiuso e il castello reale del Wawel diventò la sede del governatore generale Hans Frank. Padre Figlewicz era l'unico sacerdote che poteva celebrare la Santa Messa, due volte alla settimana, nella cattedrale chiusa e sotto la vigilanza di poliziotti tedeschi. In quei tempi difficili diventò ancora più chiaro che cosa significassero per lui la cattedrale, le tombe reali, l'altare di San Stanislao Vescovo e Martire. Fino alla morte P. Figlewicz rimase fedele custode di quel particolare santuario della Chiesa e della Nazione, inculcandomi un grande amore per il tempio del Wawel, che un giorno doveva diventare la mia cattedrale vescovile.


Il 1° novembre 1946 fui ordinato sacerdote. Il giorno dopo, per la «prima Santa Messa», celebrata in cattedrale nella cripta di San Leonardo, P. Figlewicz era accanto a me e mi faceva da guida. Il pio sacerdote è ormai morto da alcuni anni. Soltanto il Signore può ricambiargli tutto il bene che ho da lui ricevuto.


Il «filo mariano»


Naturalmente, parlando delle origini della mia vocazione sacerdotale, non posso dimenticare il filo mariano. La venerazione alla Madre di Dio nella sua forma tradizionale mi viene dalla famiglia e dalla parrocchia di Wadowice. Ricordo, nella chiesa parrocchiale, una cappella laterale dedicata alla Madre del Perpetuo Soccorso, dove di mattina, prima dell'inizio delle lezioni, si recavano gli studenti del ginnasio. Anche a lezioni concluse, nelle ore pomeridiane, vi andavano molti studenti per pregare la Vergine.


Inoltre, a Wadowice, c'era sulla collina un monastero carmelitano, la cui fondazione risaliva ai tempi di San Raffaele Kalinowski. Gli abitanti di Wadowice lo frequentavano in gran numero, e ciò non mancava di riflettersi in una diffusa devozione per lo scapolare della Madonna del Carmine. Anch'io lo ricevetti, credo all'età di dieci anni, e lo porto tuttora. Si andava dai Carmelitani anche per confessarsi. Fu così che, tanto nella chiesa parrocchiale quanto in quella del Carmelo, si formò la mia devozione mariana durante gli anni dell'infanzia e dell'adolescenza fino al conseguimento della maturità classica.


Quando mi trovai a Cracovia, nel quartiere Debniki, entrai nel gruppo del «Rosario vivo», nella parrocchia salesiana. Vi si venerava in modo particolare Maria Ausiliatrice. A Debniki, nel periodo in cui andava configurandosi la mia vocazione sacerdotale, anche grazie al menzionato influsso di Jan Tyranowski, il mio modo di comprendere il culto della Madre di Dio subì un certo cambiamento. Ero già convinto che Maria ci conduce a Cristo, ma in quel periodo cominciai a capire che anche Cristo ci conduce a sua Madre. Ci fu un momento in cui misi in qualche modo in discussione il mio culto per Maria ritenendo che esso, dilatandosi eccessivamente, finisse per compromettere la supremazia del culto dovuto a Cristo. Mi venne allora in aiuto il libro di San Luigi Maria Grignion de Montfort che porta il titolo di «Trattato della vera devozione alla Santa Vergine». In esso trovai la risposta alle mie perplessità. Sì, Maria ci avvicina a Cristo, ci conduce a Lui, a condizione che si viva il suo mistero in Cristo. Il trattato di San Luigi Maria Grignion de Montfort può disturbare con il suo stile un po' enfatico e barocco, ma l'essenza delle verità teologiche in esso contenute è incontestabile. L'autore è un teologo di classe. Il suo pensiero mariologico è radicato nel Mistero trinitario e nella verità dell'Incarnazione del Verbo di Dio.


Compresi allora perché la Chiesa reciti l'Angelus tre volte al giorno. Capii quanto cruciali siano le parole di questa preghiera: «L'Angelo del Signore portò l'annuncio a Maria. Ed ella concepì per opera dello Spirito Santo... Eccomi, sono la serva del Signore. Avvenga di me secondo la tua parola... E il Verbo si fece carne, e venne ad abitare in mezzo a noi...». Parole davvero decisive! Esprimono il nucleo dell'evento più grande che abbia avuto luogo nella storia dell'umanità.


Ecco spiegata la provenienza del Totus Tuus. L'espressione deriva da San Luigi Maria Grignion de Montfort. E l'abbreviazione della forma più completa dell'affidamento alla Madre di Dio, che suona così: Totus Tuus ego sum et omnia mea Tua sunt. Accipio Te in mea omnia. Praebe mihi cor Tuum, Maria.


Così, grazie a San Luigi, cominciai a scoprire tutti i tesori della devozione mariana da posizioni in un certo senso nuove: per esempio, da bambino ascoltavo «Le ore sull'Immacolata Concezione della Santissima Vergine Maria», cantate nella chiesa parrocchiale, ma soltanto dopo mi resi conto delle ricchezze teologiche e bibliche in esse contenute. La stessa cosa avvenne per i canti popolari, ad esempio per i canti natalizi polacchi e le Lamentazioni sulla Passione di Gesù Cristo in Quaresima, tra le quali un posto particolare occupa il dialogo dell'anima con la Madre Dolorosa.


Fu sulla base di queste esperienze spirituali che venne delineandosi l'itinerario di preghiera e di contemplazione che avrebbe orientato i miei passi sulla strada verso il sacerdozio, e poi in tutte le vicende successive fino ad oggi. Questa strada fin da bambino, e più ancora da sacerdote e da vescovo, mi conduceva non di rado sui sentieri mariani di Kalwaria Zebrzydowska. Kalwaria è il principale santuario mariano dell'Arcidiocesi di Cracovia. Mi recavo lì spesso e camminavo in solitudine per quei sentieri, presentando al Signore nella preghiera i diversi problemi della Chiesa, soprattutto nel difficile periodo in cui si era alle prese con il comunismo. Volgendomi indietro constato come «tutto si tiene»: oggi come ieri ci troviamo con la stessa intensità nei raggi dello stesso mistero.


Il Santo Frate Alberto


Mi domando a volte quale ruolo abbia svolto nella mia vocazione la figura del Santo Frate Alberto. Adam Chmielowski — era questo il suo nome — non era sacerdote. Tutti in Polonia sanno chi egli sia stato. Nel periodo della mia passione per il teatro rapsodico e per l'arte, la figura di quest'uomo coraggioso, che aveva partecipato all'«insurrezione di gennaio» (1864) perdendo una gamba durante i combattimenti, esercitava su di me un fascino spirituale particolare. E noto che Frate Alberto era pittore: aveva compiuto i suoi studi a Monaco. Il patrimonio artistico da lui lasciato dimostra che aveva un grande talento. Ebbene, quest'uomo a un certo punto della sua vita rompe con l'arte, perché comprende che Dio lo chiama a compiti ben più importanti. Venuto a conoscenza dell'ambiente dei miserabili di Cracovia, il cui punto d'incontro era il pubblico dormitorio, detto anche «posto di riscaldamento», in via Krakowska, Adam Chmielowski decide di diventare uno di loro, non come elemosiniere che arriva da fuori per distribuire dei doni, ma come uno che dona se stesso per servire i diseredati.


Questo esempio affascinante di sacrificio suscita molti seguaci. Intorno a Frate Alberto si radunano uomini e donne. Nascono due Congregazioni che si dedicano ai più poveri. Tutto ciò accade all'inizio del nostro secolo, nel periodo precedente la prima guerra mondiale.


Frate Alberto non giungerà a vedere il momento in cui la Polonia conquisterà l'indipendenza. Morirà nel Natale del 1916. La sua opera, tuttavia, gli sopravviverà diventando espressione delle tradizioni polacche di radicalismo evangelico, sulle orme di San Francesco d'Assisi e di San Giovanni della Croce.


Nella storia della spiritualità polacca, il Santo Frate Alberto occupa un posto speciale. Per me la sua figura è stata determinante, perché trovai in lui un particolare appoggio spirituale e un esempio nel mio allontanarmi dall'arte, dalla letteratura e dal teatro, per la scelta radicale della vocazione al sacerdozio. Una delle gioie più grandi che ho avuto da Papa è stata quella di innalzare questo poverello di Cracovia in tonaca grigia agli onori degli altari, prima con la beatificazione a Blonie Krakowskie durante il viaggio in Polonia del 1983, poi con la canonizzazione a Roma nel novembre del memorabile anno 1989. Molti autori della letteratura polacca hanno immortalato la figura di Frate Alberto. Merita di essere segnalata, tra le varie opere artistiche, i romanzi e i drammi, la monografia a lui dedicata dal P. Konstanty Michalski. Anch'io, da giovane sacerdote, nel periodo in cui ero vicario presso la chiesa di San Floriano a Cracovia, gli dedicai un'opera drammatica intitolata: «Il Fratello del nostro Dio», pagando in tal modo il debito di gratitudine che avevo contratto con lui.


Esperienza di guerra


La definitiva maturazione della mia vocazione sacerdotale, come ho detto, avvenne nel periodo della seconda guerra mondiale, durante l'occupazione nazista. Una semplice coincidenza temporale? O c'era un nesso più profondo tra ciò che maturava dentro di me e il contesto storico? E difficile rispondere a siffatta domanda. Certo, nei piani di Dio nulla è casuale. Ciò che posso dire è che la tragedia della guerra diede al processo di maturazione della mia scelta di vita una colorazione particolare. Mi aiutò a cogliere da un'angolatura nuova il valore e l'importanza della vocazione. Di fronte al dilagare del male ed alle atrocità della guerra mi diventava sempre più chiaro il senso del sacerdozio e della sua missione nel mondo.


Lo scoppio della guerra mi allontanò dagli studi e dall'ambiente universitario. In quel periodo persi mio padre, l'ultima persona che mi restava dei miei più stretti familiari. Anche questo comportava, oggettivamente, un processo di distacco dai miei progetti precedenti; in qualche modo era come venir sradicato dal suolo sul quale fino a quel momento era cresciuta la mia umanità.


Non si trattava però di un processo soltanto negativo. Alla mia coscienza, infatti, nel contempo si manifestava sempre più una luce: il Signore vuole che io diventi sacerdote. Un giorno lo percepii con molta chiarezza: era come un'illuminazione interiore, che portava in sé la gioia e la sicurezza di un'altra vocazione. E questa consapevolezza mi riempì di una grande pace interiore.


Questo accadeva sullo sfondo degli avvenimenti terribili che andavano svolgendosi intorno a me a Cracovia, in Polonia, nell'Europa e nel mondo. Fui coinvolto direttamente soltanto in una piccola parte di quanto sperimentarono, a partire dal 1939, i miei connazionali. Penso in special modo ai miei coetanei della maturità a Wadowice, amici a me molto cari, tra i quali alcuni ebrei. Ci fu chi scelse il servizio militare già nel 1938. Sembra che il primo a morire in guerra sia stato il più giovane della classe. In seguito venni a conoscere soltanto a grandi linee la sorte di altri caduti sui vari fronti, o morti nei campi di concentramento, o finiti a combattere presso Tobruk e Montecassino, o deportati nei territori dell'Unione Sovietica: in Russia e in Kazakistan. Appresi queste notizie prima gradualmente, poi più compiutamente a Wadowice nel 1948, durante il raduno dei colleghi in occasione del decimo anno dalla maturità.


Del grande e orrendo theatrum della seconda guerra mondiale mi fu risparmiato molto. Ogni giorno avrei potuto essere prelevato dalla casa, dalla cava di pietra, dalla fabbrica per essere portato in un campo di concentramento. A volte mi domandavo: tanti miei coetanei perdono la vita,perché non io? Oggi so che non fu un caso. Nel contesto del grande male della guerra, nella mia vita personale tutto volgeva in direzione del bene costituito dalla vocazione. Non posso dimenticare il bene ricevuto in quel periodo difficile dalle persone che il Signore poneva sulla mia strada: sia persone della mia famiglia che conoscenti e colleghi.


Il sacrificio dei sacerdoti polacchi


Emerge qui un'altra singolare e importante dimensione della mia vocazione. Gli anni dell'occupazione tedesca in Occidente e di quella sovietica in Oriente portarono con sé un enorme numero di arresti e di deportazioni di sacerdoti polacchi nei campi di concentramento. Solo a Dachau ne furono internati circa tremila. C'erano altri campi, come per esempio quello di Auschwitz, dove donò la vita per Cristo il primo sacerdote canonizzato dopo la guerra, San Massimiliano Maria Kolbe, il francescano di Niepokalanów. Tra i prigionieri di Dachau si trovava il vescovo di Wloclawek, Mons. Michal Kozal, che ho avuto la gioia di beatificare a Varsavia nel 1987. Dopo la guerra, alcuni tra i sacerdoti ex-prigionieri di campi di concentramento furono elevati alla dignità vescovile. Attualmente vivono ancora gli Arcivescovi Kazimierz Majdanski e Adam Kozlowiecki e il Vescovo Ignacy Jez, i tre ultimi Presuli testimoni di quello che furono i campi di sterminio: essi sanno bene che cosa quell'esperienza significò nella vita di tanti sacerdoti. Per completare il quadro, bisogna aggiungere anche i sacerdoti tedeschi di quella stessa epoca che pure sperimentarono la stessa sorte nei lager. Ho avuto l'onore di beatificarne alcuni: dapprima P. Rupert Mayer di Monaco e poi, durante il recente viaggio apostolico in Germania, Mons. Bernhard Lichtenberg, parroco della cattedrale di Berlino, e P. Karl Leisner della diocesi di Münster. Quest'ultimo, ordinato sacerdote nel campo di concentramento nel 1944, riuscì a celebrare, dopo l'Ordinazione, una Santa Messa soltanto.


Merita poi un ricordo particolare il martirologio dei sacerdoti nei lager della Siberia e in altri del territorio dell'Unione Sovietica. Tra i molti che vi furono rinchiusi vorrei ricordare la figura di P. Tadeusz Fedorowicz, ben noto in Polonia, al quale come direttore spirituale devo personalmente molto. Padre Fedorowicz, giovane sacerdote dell'arcidiocesi di Leopoli, si era spontaneamente presentato al suo Arcivescovo per chiedere di poter accompagnare un gruppo di polacchi deportati verso l'Est. L'Arcivescovo Twardowski gli concesse il permesso ed egli poté così svolgere la sua missione sacerdotale tra i connazionali dispersi nei territori dell'Unione Sovietica e soprattutto in Kazakistan. Ultimamente egli ha descritto in un libro interessante questa tragica vicenda.


Ciò che ho detto a proposito dei campi di concentramento non costituisce che una parte, pur drammatica, di questa sorta di «apocalisse» del nostro secolo. Vi ho fatto cenno per sottolineare che il mio sacerdozio, già al suo nascere, si è iscritto nel grande sacrificio di tanti uomini e donne della mia generazione. A me la Provvidenza ha risparmiato le esperienze più pesanti; tanto più grande è perciò il senso del mio debito verso le persone a me note, come pure verso quelle ben più numerose a me ignote, senza differenza di nazione e di lingua, che con il loro sacrificio sul grande altare della storia hanno contribuito al realizzarsi della mia vocazione sacerdotale. In qualche modo esse mi hanno introdotto su questa strada, additandomi nella dimensione del sacrificio la verità più profonda ed essenziale del sacerdozio di Cristo.


La bontà sperimentata tra le asprezze della guerra


Dicevo che durante i difficili anni di guerra ho ricevuto molto bene dalla gente. Penso in modo particolare ad una famiglia, anzi a più famiglie che ho conosciuto durante l'occupazione. Con Juliusz Kydrynski lavorai prima nelle cave di pietra e poi nella fabbrica Solvay. Eravamo nel gruppo di operai-studenti a cui appartenevano anche Wojciech Zukrowski, suo fratello minore Antoni e Wieslaw Kaczmarczyk. Con Juliusz Kydrynski ci eravamo incontrati, a guerra non ancora iniziata, frequentando il primo anno di Filologia polacca. Durante la guerra questi legami di amicizia si intensificarono. Conobbi sua madre che era rimasta vedova, la sorella e il fratello minore. La famiglia Kydrynski mi circondò di premurose cure e di affetto quando, il 18 febbraio 1941, persi mio padre. Ricordo perfettamente quel giorno: tornando dal lavoro trovai mio padre morto. In quel momento l'amicizia dei Kydrynski fu per me di grande sostegno. L'amicizia si allargò poi ad altre famiglie, in particolare a quella dei signori Szkocki, residenti in via Ksiecia Józefa. Cominciai lo studio del francese grazie alla signora Jadwiga Lewaj, che abitava nella loro casa. Zofia Pozniak, figlia maggiore dei signori Szkocki, il cui marito si trovava in campo di prigionia, ci invitava ai concerti organizzati in casa. In questo modo il periodo buio della guerra e dell'occupazione fu rischiarato dalla luce della bellezza che s'irradia dalla musica e dalla poesia. Questo accadeva prima della mia decisione di entrare in seminario.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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