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IO CREDO IN DIO.... bellissima catechesi sul Credo

Ultimo Aggiornamento: 21/11/2014 14:28
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03/07/2014 09:20
 
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    “Fu crocifisso per noi”

 

La croce. Centro della nostra fede e fonte della nostra salvezza. La crocifissione di Gesù non è stata la semplice esecuzione di una condanna, conseguenza della volontà di capi giudei o romani. E nemmeno è stata frutto di un destino a cui Gesù non avrebbe potuto sottrarsi con la sua volontà. Gesù sa di andare incontro alla croce, e la sceglie. Non la sceglie per amore del dolore, come possiamo bene capire dal pianto nel Getsemani: la sua supplica chiede al Padre di allontanare da sé quel calice. Non ha progettato la croce per se stesso; ma, posta davanti come unica via di salvezza per gli uomini, egli la fa sua. Il progetto del Padre non è la croce in sé, ma la nostra salvezza. La croce è il volto che la nostra salvezza assume nella storia.
Se un mio fratello venisse travolto e schiacciato da un peso che con le sue forze non riesce a sollevare, non mi sottraggo dal ferirmi le mani pur di salvarlo: per amore colgo quella piccola missione pur non avendo avuto, per me, il progetto di ferirmi; non posso affermare che ho scelto quelle ferite in se stesse. Ho scelto invece la salvezza di quel fratello, salvezza che in tale circostanza passava attraverso quelle ferite; mi sono fatto carico della sua situazione e l’ho fatta mia.

San Paolo scrive: “Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture” (1Cor 15,3). La croce ha dunque in sé questi significati: espiazione, riparazione, redenzione. Espiazione perché Cristo paga sulla croce il prezzo di tutti i peccati passati, presenti e futuri commessi da tutti gli uomini: “Non vi è, non vi è stato, e non vi sarà alcun uomo per il quale Cristo non abbia sofferto” (DS, 624). Tramite la sua natura umana poté soffrire, tramite quella divina poté farlo infinitamente. Non riusciremo mai a comprendere la pienezza della sofferenza di Gesù, soprattutto nel suo risvolto spirituale. Possiamo però entrare in comunione con essa tramite il dono dell’eucaristia, da lui misticamente istituita durante l’ultima cena, e da lui perennemente celebrata sugli altari. La Croce di Gesù è sacrificio, e questo sacrificio è lo stesso di quello della Messa.

La Croce è anche, come abbiamo detto, riparazione, perché espiando i nostri peccati, Cristo li cancella. Fin dal battesimo nel Giordano, Giovanni il Battista indica Gesù come l’agnello sacrificale perfetto che paga per i nostri peccati: “Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo” (Gv 1,29). A volte qualcuno s’interroga: può qualcuno saldare il debito (verso Dio) di qualcun altro? Nell’economia della salvezza voluta dal Padre, sì. Nelle relazioni terrene non è così: se entro in una cristalleria piena d’oggetti preziosi e per sbadataggine ne faccio cadere alcuni, che a loro volta ne fanno cadere altri, combinando un disastro a catena, non posso che aspettarmi di vedermi comparire davanti il padrone che mi dice: “Adesso non te ne vai di qui se non paghi tutto fino all’ultimo centesimo”, e a me, specie se sono povero in canna, non rimane che la prospettiva della galera o di rimanere schiavo di quel padrone per sempre. Solo una cosa potrebbe salvarmi: che il figlio di quel padrone, combinazione, fosse il mio più grande amico, e mi amasse in modo particolare; e allora, ricco di tutta la sostanza del padre, potrà dire: “Non ti preoccupare, padre, pago io per lui”.

Chi non sarebbe grato di un gesto così? Eppure questo è il gesto compiuto da Gesù verso di noi, per il quale, spesso, molti non ringraziano nemmeno, escludendosi da quell’eucaristia che, oltre ad essere comunione col suo sacrificio, è anche rendimento di grazie. Abbiamo detto che la Croce è anche redenzione: cancellando i nostri peccati Cristo ci salva. Com’è possibile sostenere che Gesù salva tutti e nello stesso tempo affermare che non tutti si salvano? Mi si permetta un’ultima metafora: un gruppo di minatori rimane imprigionato nelle viscere di una miniera, nel buio più completo non sanno nemmeno da che parte scavare; sono destinati a morire lì. Ma un loro compagno rimasto all’esterno, accortosi della situazione, si precipita con badile e piccone contro la roccia ed i cumuli di terra che occludono la via verso la salvezza.
Lavora in modo tremendo per ore, affaticandosi molto e facendosi male, ma alla fine raggiunge il gruppo e dice: “Ecco la luce, venite fuori, siete salvi”. Quella salvezza non è forse per tutti? Eppure parte di loro sceglie di rimanere assurdamente nel buio e nel freddo, rifiutando la vita, rifiutando cioè di salvarsi. Solo il gruppo che segue il coraggioso minatore si avvia verso la luce. Quel minatore, come si è capito, è Gesù. Quel manipolo di persone sporche che lo segue, quella piccola compagnia che da un lato gioisce e dall’altro, con le lacrime agli occhi, continua a gridare verso i fratelli rimasti dentro perché non si rassegna a non vederli salvati, è la chiesa.

 

 

“...sotto Ponzio Pilato”

 

E’ singolare che l’unico uomo ricordato nel Credo, l’unico contemporaneo di Gesù il cui nome è ricordato nella nostra Professione di Fede, sia una persona che fede non ne ebbe; un uomo che anzi “se ne lavò le mani”. E paradossalmente proprio costui ebbe il suo nome scolpito per sempre nell’eterno Simbolo dei cristiani. Non Pietro, non Giovanni o un altro degli apostoli; ma lui, Ponzio Pilato, lui che non credette, che non seppe riconoscere la Luce, e che anzi ordinò la morte del Figlio di Dio quando questo gli comparì dinanzi. Eppure inchiodando il Cristo, inchiodò per sempre il proprio nome al mistero della salvezza. Ordinò la morte di chi gli offriva in dono la vita, ma uccidendolo, lo vide morire anche per lui. Pilato rappresenta in fondo l’umanità tutta; non è più solo il procuratore romano della Giudea: ciò che egli compie, è in lui compiuto da tutta l’umanità peccatrice. Pilato rappresenta anche la storia, la dimensione del tempo, dentro la quale s’incarna il mistero della Croce. L’orizzontale che viene attraversato dalla verticalità di Dio.

Il nome di Pilato inserito nel Credo indica che l’eternità di Dio c’incontra in un “qui” e in un “ora” che è quello della nostra vita terrena, e che ci salva nella concretezza del nostro tempo. La sua redenzione incontra il nostro volto, il nostro nome, in modo del tutto personale ed unico.

Ma Pilato, oltre a rappresentare la nostra umanità che crocifigge continuamente il Cristo, rappresenta anche il Male, il male metafisico che agisce nella storia, che s’insinua come un serpente nei poteri del mondo, che spesso appare come un potere assoluto e incontrastato, ma in realtà agisce all’interno di un disegno più alto, di cui non si avvede, scritto da qualcuno che ha vinto il mondo. Un disegno che schiaccia la testa di questo serpente e rende il Cristo vittorioso. Se quello di Pilato è l’unico nome d’uomo che appare nel Credo, poco più sopra vi è quello di una Donna: Maria, la Donna sopra il serpente. Il nome di Pilato è, nel Simbolo, legato al verbo morire; quello di Maria è legato al verbo nascere. Il Credo dipinge davanti ai nostri occhi tutto il quadro della vita e della morte, il mistero del bene e del male. Tra il nome di Maria e quello di Pilato c’è quel “farsi uomo” che racchiude tutto il mistero. C’è quell’Uomo generato da Lei e che in Lei schiaccia il serpente.

Ecco, questa è la vera icona del rapporto bene-male. A volte trattiamo bene e male come se fossero due realtà complementari con lo stesso peso. Ci capita perfino di udire: “Senza il bene non ci sarebbe il male, e senza il male non ci sarebbe il bene”. Ma questa è la più grande sciocchezza: come se tra male e bene vi fosse un rapporto di causa. Dire “senza il bene non ci sarebbe il male”, insinua l’idea che il male sia in qualche modo causato dal bene. La fede cristiana invece c’insegna che il Bene, come assoluto morale, coincide con Dio, e Dio (che nella sua perfezione è privo d’ogni contraddizione) non può essere causa di male. Il male non è realtà uguale e contrapposta al bene, ma sua assenza. L’evangelista Giovanni spiega in modo esemplare che il rapporto male-bene è come il rapporto tenebre-luce. Le tenebre non sono altro che assenza di luce, e non esistono a causa della luce, ma semmai è vero il contrario: se la luce non c’è, vi è tenebra. Allo stesso modo è pure falsa l’opposta affermazione: “senza il male non vi sarebbe il bene”. Senza il male staremmo meglio tutti! Non ho bisogno di uno schiaffo per apprezzare una carezza, o di una pugnalata per apprezzare la vita, o di un aborto per apprezzare una nascita. Il male in realtà è solo serpente schiacciato, poltiglia inconsistente. Mentre il bene ha carattere d’infinitudine e d’eternità, il male non può vantarsi nemmeno del verbo essere, in quanto la sua vera natura, ci dice il Vangelo, è assenza; mancanza d’essere.
Chi sceglie il male, perde pure quello che ha, perde se stesso, la propria vita; sceglie la dannazione del non-essere. Chi invece cammina sulla via del Bene, cammina nella totalità, gode già di tutto l’esistente, non si perde nulla. Non vi è obbiettivo che non possa essere raggiunto (e meno dolorosamente) tramite la santificazione nel Bene.

 

 

“Morì e fu sepolto”

 

Qui il Credo sprofonda nell’abisso della morte di Dio, si seppellisce con essa. Non la morte di Dio come la intendeva Nietzsche (Dio che muore nel cuore dell’uomo), ma anzi la sua soluzione, una morte che resuscita il cuore dell’uomo. Non possiamo leggere il mistero della morte di Gesù separato da quello della sua Risurrezione. Cristo, morendo, rinasce in noi.

La Croce è l’albero della Vita che reinnesta in sé gli umani tralci strappati dal peccato e dalla morte in esso contenuta, rivitalizzandoli. Con la morte in croce si esprime il culmine della Passione, parola bellissima perché è formata da altre due grandi parole: Amore e Dolore. Patire, nel linguaggio del Vangelo, vuol dire soffrire con amore, soffrire per amore.

Quando diciamo “Patì sotto Ponzio Pilato”, diciamo tutto, perché in quel patì è racchiuso l’intero mistero della nostra salvezza. E’ un vocabolo che contiene il colmo del dolore e il colmo dell’amore. In teologia adoperiamo anche qui il termine mistero,ad indicare che la nostra mente non ha la capacità d’immaginare verità così alte: in questo caso non è nemmeno in grado d’intuire la misura di questo amore, così come non è in grado di comprendere l’infinitudine del dolore. Si pensa tutt’al più al dolore materiale dei chiodi, ma quel grido “Dio mio perchè mi hai abbandonato” indica nello spirito, più che nel corpo, la vera agonia di Gesù.
Sappiamo quanto soffersero i santi nei deserti spirituali in cui, messi alla prova, Dio si sottraeva ai loro sguardi interiori; essi soffrivano in modo indicibile perché si erano svuotati di tutto per riempirsi di Dio: quando perciò Dio sembrava sottrarsi da loro lasciandoli “vuoti”, essi soffrivano come se la loro stessa anima gli venisse tolta! Se dunque pensiamo al Cristo, che per la sua particolare e consustanziale unione col Padre ne era infinitamente colmo, si capisce che il dolore di spoliazione interiore fu veramente immenso, come se si aprisse nella sua anima squarciata un vuoto infinito! Nonostante quest’abisso di dolore gli venisse già prospettato nel Getsemani, Gesù vinse la paura perché era consumato da un amore altrettanto infinito, dal desiderio intrattenibile di salvarci. Nel nostro linguaggio umano usiamo, infatti, la parola “passione” anche ad indicare un grande desiderio; in questo caso si tratta del desiderio ardente di Gesù di patire per noi: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra, e come desidero che fosse già acceso!”(Lc 12,49).

Il fuoco che egli ardentemente desiderava accendere sulla terra, era il fuoco del suo amore per noi. Voleva che ardesse nel nostro petto, come sperimentarono i due discepoli di Emmaus dopo l’incontro col Risorto: “Non ci ardeva forse il cuore nel petto, mentre conversava con noi lungo il cammino?”(Lc 24,32). Ma affinché questo fosse possibile, era necessario passare attraverso il battesimo di sangue della morte in croce: “C’è un battesimo che devo ricevere, e come sono in ansia finché non sia compiuto!”(Lc 12,50). Gesù era travolto dalla passione per noi, dallo struggente desiderio di patire per averci con sé per sempre, per stringerci nell’amore per l’eternità. Passione per la passione. Che grandezza vi è racchiusa nel cuore di Cristo in croce, grandezza che in parte ci fu rivelata anche attraverso i mistici, tra cui S. Margherita Maria Alacoque (1647-1690), che ebbe delle rivelazioni speciali riguardo al Sacro Cuore. Anche suor Faustina Kowalska (1905-1938) fu fulminata dall’amore che trapassava il Cuore di Cristo e poi il suo. Se la teologia non dice di questo amore, essa si riduce a scienza fredda del Cristo.

Ed anche quando si parla delle stimmate di santi come San Pio da Pietrelcina, o quando s’illustra la Sacra Sindone, non si può ridurre tutto al semplice esame scientifico dei dati, tacendo il mistero di quell’amore senza il quale ogni ferita perde il suo significato di salvezza. Occorre sempre incastonare quei dati, teologici o scientifici che siano, all’interno della teologia della Passione, ed alla luce del divino Amore. Spiegando anche che la passione di Cristo non rimase eroismo solitario, ma si circondò di una compagnia; di un “patire con”: è questo il significato profondo della parola compassione. Perché noi tutti, sani od infermi, siamo chiamati ad essere compartecipi di questa stessa passione (cfr CCC 618). Le nostre ferite possono in Cristo diventare finestre attraverso cui irradia la redenzione della croce. La morte di Gesù c’invita ad offrire il nostro dolore e la nostra vita sull’altare del suo sacrificio.

E’ questo il senso dell’offertorio durante la Santa Messa! Non la monetina lasciata cadere nel cestino, ma la nostra intera vita lasciata cadere nella fornace ardente del cuore di Gesù, l’offerta dei nostri dolori per il disegno di salvezza delle anime: se questo non viene detto, la messa si riduce a puro rito. Se nessuno ci spiega più questo vero senso del Corpo Mistico, allora sì, Dio è morto, ed ha ragione Nietzsche. Ma Dio vive perché noi offriamo le nostre membra a questo corpo, ed accettiamo di essere crocefissi con Lui, trapassati dal suo amore ardente, seppelliti con Lui per poi in lui essere risorti.

 

“Il terzo giorno è risuscitato”

 

Vi è un brano del Vangelo di Matteo che riporta un evento sorprendente avvenuto il venerdì santo, immediatamente dopo la morte di Gesù: “Le rocce si spezzarono, i sepolcri si aprirono, e molti corpi di santi morti risuscitarono” (Mt 27,51-52). Questi versetti ci rivelano una cosa molto importante: la morte di Gesù è già pregna di risurrezione. Quei risorti sono il segno fisico di un evento grandioso ed invisibile che sta avvenendo nel regno dei morti.

Il Simbolo degli Apostoli inserisce, dopo la morte di Cristo, un annuncio: “Discese agli inferi”. Il forte grido che Gesù emette sulla croce si trasforma, al momento della sua morte, in grido di gioia di tutti i credenti che nell’oltretomba attendevano la salvezza: la luce del Risorto divampa nelle tenebre e miliardi di anime possono, dopo secoli, finalmente vedere la redenzione; un evento di portata incalcolabile che traboccò in superficie con quei risorti che, “usciti dalle tombe, dopo la risurrezione di Gesù entrarono a Gerusalemme ed apparvero a molti” (Mt 27,53). Segno fisico di un maestoso avvenimento metafisico. L’apostolo Pietro amò ricordare nelle sue lettere la discesa agli inferi di Gesù: “Messo a morte nella carne, ma reso vivo nello spirito, andò, in spirito, ad annunziare la salvezza anche agli spiriti che attendevano in prigione” (1Pt 3,19; cfr 1Pt 4,6).

Se ne parla anche nel Catechismo della Chiesa Cattolica: “La discesa agli inferi è il pieno compimento dell’annunzio evangelico della salvezza” (CCC 634). E si legge: “Le frequenti affermazioni del Nuovo Testamento secondo le quali Gesù è risuscitato dai morti (At 3,15; Rm 8,11; 1Cor 11,20) presuppongono che, preliminarmente alla Risurrezione, egli abbia dimorato nel soggiorno dei morti. E’ il senso primo che la predicazione apostolica ha dato alla discesa di Gesù agli inferi: Gesù ha conosciuto la morte come tutti gli uomini e li ha raggiunti con la sua anima nella dimora dei morti. Ma egli vi è disceso come Salvatore, proclamando la Buona Novella agli spiriti che vi si trovavano prigionieri” (CCC 632). Cristo ha infatti “potere sopra la morte e sopra gli inferi” (Ap 1,18), e come fase finale della sua missione si riapproprierà egli stesso del suo corpo “al fine di essere lui stesso, nella sua Persona, il punto d’incontro della morte e della vita, arrestando in sé la decomposizione della natura causata dalla morte e divenendo lui stesso principio di riunione per le parti separate” (San Gregorio di Nissa).

E’ difficile accostarsi ad un mistero così alto come quello della Risurrezione di Cristo; il tesoro che essa racchiude è inesauribile. Si tratta dell’avvenimento su cui si fonda non solo la fede, ma la nostra stessa vita. E non bisogna mai stancarsi di ricordare che la Risurrezione fu un evento sia fisico sia metafisico. L’errore più comune è ridurla ad uno solo dei due aspetti. E’ sbagliato sia considerarla come un fatto di natura solo spirituale, privo di fisicità e di storicità, e sia limitarsi all’aspetto storico-fisico.

Il centro della teologia della Risurrezione non è certo il “sepolcro vuoto”, ma il Cristo Risorto che si lascia incontrare anche ai nostri sensi, come raccontano dettagliatamente i testimoni oculari, che narrano con grande concretezza le loro esperienze, riportate da tutti e quattro gli evangelisti con particolare cura. E pertanto chi vuole occuparsi di teologia non deve cedere alla tentazione di sminuire il fatto per adattarlo meglio alla nostra ragione, come fecero gli apostoli quando, al primo incontro col Risorto, respingono l’evidenza della sua fisicità preferendo pensarlo un fantasma (Lc 24,37). Nel Vangelo il Risorto ci tiene a far riconoscere la sua corporeità, stabilendo con i testimoni rapporti diretti, a volte attraverso un contatto fisico (Lc 24,39; Gv 20,27), altre attraverso la condivisione di un pasto (Lc 24,30.41-43; Gv 21,9.13-15).

E’ per questo che il Catechismo della Chiesa Cattolica dice: “Davanti a queste testimonianze è impossibile interpretare la Risurrezione di Cristo al di fuori dell’ordine fisico e non riconoscerla come un avvenimento storico” (CCC 643). E pertanto la Chiesa considera la Risurrezione “un avvenimento reale che ha avuto manifestazioni storicamente constatate” (CCC 639), un “avvenimento storico constatabile” attraverso i segni (CCC 647). Al tempo stesso però non possiamo ridurre la risurrezione di Cristo alla semplice dimensione fisica. Il Catechismo la definisce un avvenimento sia storico sia trascendente (CCC 639), un avvenimento ben diverso dalle altre resurrezioni umane che leggiamo nel testo sacro. E’ una risurrezione che risorge me; che provoca alla mia anima lo stesso effetto che provocò ai credenti degli inferi; che spezza le mie rocce interiori e dischiude il sepolcro in cui m’imprigiona il peccato; che m’irradia di luce redentiva, e nella gioia conduce anche me, verso la Città santa, assieme a tutti i risorti.

 

 

“...Secondo le Scritture...”

 

Quale significato ha l’espressione “secondo le Scritture” che troviamo all’interno del nostro Simbolo di fede? Cosa significa dire che Gesù è morto e risorto secondo le Scritture? A questa domanda, che introduce una serie d’importantissime riflessioni teologiche sul tempo e sul destino, risponde in modo chiaro il Catechismo della Chiesa Cattolica: “La Risurrezione di Cristo è compimento delle promesse dell’Antico Testamento e di Gesù stesso durante la sua vita terrena. L’espressione «secondo le scritture» indica che la Risurrezione di Cristo realizzò queste predizioni” (CCC 652).

Il primo a svelarci che gli avvenimenti della passione non si sono svolti per caso è proprio Gesù, con le sue parole rivolte ai discepoli di Emmaus dopo la risurrezione: “O stolti e tardi di cuore a credere a quello che hanno detto i profeti! Non doveva forse il Cristo patire tutto questo ed entrare nella sua gloria?” (Lc 24,25-26). E quel giorno, “cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro quanto lo riguardava in tutte le Scritture”. E così facendo “aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture” (Lc 24,45), cioè diede la chiave interpretativa della Bibbia affinché questa venisse da quel momento in poi letta alla luce del grande disegno salvifico di Dio.

Una prova che tale insegnamento venne subito recepito, e che l’espressione contenuta nel Credo non è un arbitrio dei Padri di Nicea-Costantinopoli che lo forgiarono, è già racchiusa nella prima Lettera di Paolo ai Corinzi: “Vi ho dunque trasmesso, anzitutto, quello che ho ricevuto, che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, e che fu sepolto, e fu risuscitato il terzo giorno, secondo le Scritture” (1Cor 15,3-4). Ecco perché il Catechismo, senza tema di sbagliare, può affermare: “La morte violenta di Gesù non è stata frutto del caso in un concorso sfavorevole di circostanze. Essa appartiene al mistero del disegno di Dio” (CCC 599). Questo mistero ci viene comunicato tramite le Sacre Scritture, che in qualche modo, per volontà di Dio, diventano forgiatrici della storia degli uomini. Le cose scritte dagli autori sacri sono ben più di mero racconto, di semplice memoria di fatti accaduti, o di pure previsioni. Una volta scritte esse diventano matrici della nostra storia. Cristo stesso riconosce autorità alla Scrittura e sembra sottostare a quanto vi è scritto: “Era proprio questo che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna che si adempia tutto quanto di me sta scritto nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi” (Lc 24, 44).
E aggiunge: “Così sta scritto: il Cristo doveva patire ed il terzo giorno risuscitare dai morti” (Lc 24,46).

Attenzione però: Cristo era perfettamente libero di non sottostare alle Scritture, in quanto Dio è superiore alla Parola rivelata; ma poiché nella sua libertà ha scelto di salvarci, egli si è sottomesso al disegno del Padre. Se si svaluta il concetto di libertà dinanzi al concetto di destino, si rischia di scivolare nello stesso errore in cui cadde Giovanni Calvino (1509-1564, riformatore protestante), il quale si spinse fino a voler tentare di fondare teologicamente la teoria della predestinazione: “Definiamo predestinazione l’eterna disposizione di Dio mediante la quale egli ha fissato in sé che cosa deve avvenire di ciascun uomo secondo la sua volontà; poiché gli uomini non sono stati creati tutti allo stesso modo, ma per gli uni è stata predisposta la vita eterna e per gli altri l’eterna dannazione” (Calvino, Istituzione della religione cristiana). E’ evidente la mostruosità teologica cui porta la cieca sopravvalutazione del destino: Dio creerebbe uomini per l’inferno e uomini per il paradiso.

Le tesi del calvinismo vennero naturalmente respinte dalla Chiesa, che già dinanzi a Lutero aveva sostenuto il valore del libero arbitrio. E’ vero, insegna il Magistero, che nelle Scritture si parla di “prestabilito disegno” di Dio (cfr At 3,23), ma “questo linguaggio biblico non significa che quelli che hanno consegnato Gesù siano stati solo esecutori passivi di una vicenda scritta in precedenza da Dio” (CCC 599). Il profeta Giona aveva annunciato un destino di distruzione per Ninive, ma a seguito di un grande pentimento collettivo l’intiera città si salvò. Il destino in fondo è come il vento: ha le sue direzioni, ma tutto dipende da come io dispongo le vele. Chi sottovaluta l’ampio margine di movimento che la nostra libertà ci dona, si sottrae alla responsabilità delle proprie scelte per vivere come un automa, come fa chi ricava il destino dalle stelle e dai relativi oroscopi; o come chi attende con ansia rivelazioni private per “sapere che cosa Dio vuole da me”.

Disegno di Dio non significa predestinazione, futuro già scritto. Il disegno di Dio è scritto nella storia con le matite delle nostre vite. E di volta in volta è tracciato in base alle nostre risposte. Molte anime rimangono ferme per anni domandandosi quale sia loro strada nella vita, ma la strada è solo una: crescere nella fede. Quando l’acqua del fiume sale, la propria barca si disincaglia e segue da sola il suo destino. E non sono le mie domande sul futuro a schiudermi la rotta, ma l’abbandono fiducioso a Dio. Se continuamente mi sporgo per guardare avanti, significa che non sto vivendo veramente l’abbandono. Ma se lo vivo, allora anch’io seguo quel vento e quel fiume; anch’io finalmente vivo secondo le Scritture.






Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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