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Se avete desiderio di capire che cosa insegna la Bibbia che il Magistero della Santa Chiesa, con il Sommo Pontefice ci insegna, questo Gruppo fa per voi. Non siamo "esperti" del settore, ma siamo Laici impegnati nella Chiesa che qui si sono incontrati da diverse parti d'Italia per essere testimoni anche nella rete della Verità che tentiamo di vivere nel quotidiano, come lo stesso amato Giovanni Paolo II suggeriva.
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IO CREDO IN DIO.... bellissima catechesi sul Credo

Ultimo Aggiornamento: 21/11/2014 14:28
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03/07/2014 09:49
 
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  “Professo un solo Battesimo per il perdono dei peccati...”


 


La Terra era informe e deserta, e le tenebre ricoprivano l’abisso, e lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque” (Gn 1,2). Fin dall’inizio la colomba dello Spirito cercava la propria immagine nell’acqua che aveva creato. Così “Dio disse: Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza” (Gn 1,26), e in Eden fu posto l’uomo, fra quattro corsi d’acqua generati nel deserto perché Dio ne aveva fatto scaturire un fiume (Gn 2,4-10). E come in uno specchio d’acqua, nell’uomo si riflettevano gli attributi di Dio. Ma, tra questi, anche quello della libertà, che comportava anche la libertà di sceglierlo come Padre. In verità, Dio era già “padre naturale” dell’uomo, ma nel suo amore non voleva che questa condizione non venisse scelta con consapevolezza, fatta propria come risposta a questo amore.

Tale figliolanza non solo era un Suo diritto, ma era anche l’unica scelta ragionevole per l’uomo, se nella stessa Luce voleva vivere. Assenza di Dio poteva significare solamente assenza di Luce, e quindi tenebra. E poiché Dio è Bene perfetto e senza macchia, e non ama le mescolanze, “separò la luce dalle tenebre” (Gn 1,5). Ma “le tenebre ricoprivano l’abisso” (Gn 1,2), e pertanto scegliere le tenebre anziché la Luce, avrebbe certamente comportato la disperazione dell’abisso, la lontananza senza limiti. E così fu; una distanza incolmabile, che comportò non solo la perdita della figliolanza con Dio e della Sua immagine, ma anche una discendenza di peccato, perché chi nasce dalle tenebre vive nelle tenebre. Affinché questa discendenza si purificasse, nei giorni di Noè venne completamente immersa nell’acqua: “poche persone, otto in tutto, furono salvate. Figura, questa, del battesimo” (1Pt 3,20-21). Salvate dall’annunzio di una colomba, uscirono dalle acque, e dalla loro discendenza fu generato Abramo, che attraversò l’acqua del Giordano (Gn 32,11), ove “era un luogo irrigato da ogni parte” (Gn 13,10). Abramo seppe accettare il sacrificio del proprio figlio per riacquistare la paternità di Dio, e i suoi figli, numerosi come le stelle cielo, costellarono la storia.

Attraversarono anch’essi di nuovo le acque, sotto la guida di Mosè. “Sia il firmamento in mezzo alle acque, per separare le acque dalle acque” (Gn 1,6). E così, attraverso il Mar Rosso, si diressero verso la Terra Promessa, immagine dell’Eden perduto, dissetandosi dall’acqua che sgorgava dalla roccia nel deserto (Es 17,1-7). Fino ai giorni in cui, in quella stessa terra, il sacrificio che era stato trattenuto in Abramo, non fu trattenuto in Cristo, come se il Padre avesse detto: “Sarò Io a sacrificare mio figlio”. Anche Gesù, dopo aver attraversato il deserto, attraversò le acque del Giordano, e dinanzi al Battista ricevette la colomba dello Spirito. “Splendono d’argento le ali della colomba, le sue piume di riflessi d’oro” (Sl 67,14). Giovanni aveva battezzato con acqua, invitando alla penitenza: era una preghiera penitenziale, non un sacramento, preparava il cuore dell’uomo, ma non toglieva i peccati. Gesù invece “passando per la valle del pianto la cambia in una sorgente” (Sl 83,7).

Tanto che il Battista poté dire: “Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato dal mondo! Ecco colui del quale io dissi: Dopo di me viene un uomo che mi è passato avanti, perché era prima di me. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare con acqua perché egli fosse fatto conoscere a Israele. ...Ho visto lo Spirito Santo scendere come una colomba dal cielo e posarsi su di lui. Io non lo conoscevo, ma chi mi ha inviato a battezzare con acqua mi aveva detto: L’uomo sul quale vedrai scendere e rimanere lo Spirito è colui che battezza in Spirito Santo” (Gv 1,29-33). Questo stesso battesimo, ora sacramento, Gesù lo consegnò alla sua chiesa: “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio, e dello Spirito Santo” (Mt 28,19). Da allora, Egli ancora toglie i peccati dal mondo, ma lo fa tramite la sua Chiesa, roccia da cui sgorga l’acqua nel deserto. “Chi ha sete venga a Me e beva, chi crede in Me; come dice la Scrittura, fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno” (Gv 7,37-38). Il santo Battesimo non venne mai interrotto, perché chi non ne attraversa le acque non può salvarsi: “In verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio (Gv 3,5). E poiché questo sacramento proviene da Dio che è uno, anche il battesimo è uno solo. “Le acque che sono sotto il cielo si raccolgano in un solo luogo” (Gn 1,9).

In esso siamo strappati dalle tenebre e restituiti alla luce. Tramite questo sacro segno il cristiano è invitato a far proprio l’invito del profeta Isaia: “Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te. Poiché, ecco, le tenebre ricoprono la terra, nebbia fitta avvolge le nazioni; ma su di te risplende il Signore, la sua gloria appare su di te” (Is 60,1-2). Grazie a questa immersione, il cristiano non solo riceve la vera vita, ma la trasmette agli altri: “Chi beve dell’acqua che Io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che Io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna” (Gv 4,14). Ecco perché, come il profeta, il credente grida al suo prossimo: “O voi tutti assetati venite all’acqua!” (Is 55,1). Egli sa che dall’acqua del costato di Cristo, come da una roccia, sgorga di nuovo la vita che si riproduce, e perciò annuncia il miracolo operato dallo Spirito affinché di nuovo “le acque brulichino di esseri viventi” (Gn 1,20).

 

 

“Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”

 

 “Dice il Signore Dio a queste ossa: Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e rivivrete. Metterò su di voi i nervi e farò crescere su di voi la carne, su di voi stenderò la pelle e infonderò in voi lo spirito e rivivrete: saprete che io sono il Signore” (Ez 37,5-6). La profezia di Ezechiele (598 a.C.), passando attraverso la risurrezione di Cristo, diventerà promessa escatologica per tutti i credenti. Sarà proprio il Figlio di Dio, infatti, a identificarsi con la risurrezione stessa: “Io sono la risurrezione e la vita” (Gv 11,25). Risurrezione, vita: le due realtà “aspettate” dal nostro Credo. Dicendo “aspetto la risurrezione”, diciamo, infatti, lo stesso che “aspetto Cristo”. E dicendo “aspetto la vita”, diciamo ancora “aspetto Cristo”. L’antichissimo Simbolo degli Apostoli, rispetto a quello di Nicea-Costantinopoli, sottolinea ancora di più la fisicità della nostra futura risurrezione, chiamandola “risurrezione della carne”. Scrive il profeta Ezechiele: “Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi resusciterò dai vostri sepolcri, o popolo mio” (Ez 37,13). E, quasi a voler fugare ogni perplessità, Dio conclude: “L’ho detto e lo farò” (Ez 37,14).

Allo stesso modo, il Simbolo degli Apostoli, sottolinea però anche la dimensione spirituale di questa risurrezione, affermando che la vita del “mondo che verrà”, e da noi nel Credo attesa, non è la vita di questo mondo, ma è “la vita eterna”. Perché “chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno” (Gv 11,25-26). L’apostolo Giovanni vide, in visione, la realizzazione di questa promessa, e così la descrive nel libro dell’Apocalisse: “Vidi poi un grande trono bianco e Colui che sedeva su di esso. Dalla sua presenza erano scomparsi la terra e il cielo senza lasciar traccia di sé. Poi vidi i morti, grandi e piccoli, ritti davanti al trono. Furono aperti i libri, e fu aperto anche un altro libro, quello della vita. I morti vennero giudicati in base a quanto scritto in quei libri ciascuno secondo le sue opere. Il mare restituì i morti che esso custodiva, e la morte e gli Inferi resero i morti da loro custoditi, e ciascuno venne giudicato secondo le sue opere” (Ap 20,11-13). Successivamente l’apostolo descrive anche, dopo la scomparsa del cielo e della terra, la venuta del “mondo che verrà”: “Vidi poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più. Vidi anche la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo” (Ap 21,1-3).

Ecco la “dimora di Dio con gli uomini”, ove “non vi sarà più notte, e non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà” (Ap 22,5). Si legge nel Catechismo degli Adulti della C.E.I.: “Con la letteratura sapienziale e apocalittica la speranza si estende anche ai morti: i giusti continuano a vivere nell’amicizia di Dio e nell’ultimo giorno risorgeranno con il corpo a nuova vita, mentre crollerà il vecchio mondo e dalle sue rovine ne germoglierà uno più bello. Intanto bisogna essere fedeli e perseveranti” (CdA 1173). L’attesa della realizzazione di questa stupenda promessa non deve vederci inattivi ed inoperosi, perché “ciò che è dono della Provvidenza è anche frutto della libera cooperazione dell’uomo. Gli uomini contribuiscono a preparare il futuro e a disegnarne la figura” (CdA 1179). Quest’insegnamento era già stato messo in luce dal Concilio Vaticano II: “Ignoriamo il tempo in cui saranno portati a compimento la terra e l’umanità, e non sappiamo il modo con cui sarà trasformato l’universo... Tuttavia l’attesa di una terra nuova non deve indebolire, ma piuttosto stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente, dove cresce quel corpo dell’umanità nuova, che già riesce a offrire una certa prefigurazione che adombra il mondo nuovo” (Gaudium et Spes 39). La profezia del libro dell’Apocalisse che annuncia: “Tergerà ogni lacrima dai loro occhi” (Ap 21,4), può già cominciare a compiersi fin da ora con i nostri gesti di amore e di carità, verso i fratelli che vanno custoditi come sentinelle, perché, se si risvegliano nella fede, si affiancheranno a noi e ci supereranno. Profeta non è, infatti, solo colui che vede il futuro, ma anche colui che ce lo fa vedere, che lo incarna, lo vive, lo anticipa, facendo suo il richiamo udito da Ezechiele: “Profetizza allo spirito, profetizza figlio dell’uomo e annunzia allo spirito: Dice il Signore Dio: Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti, perché rivivano” (Ez 37,9).

 

 

“Amen”

 

Amen: così sia, cosi è, così credo. Il nostro antico Simbolo della Fede termina, come del resto anche la Bibbia, con la parola ebraica Amen, la cui radice si rifà alla stessa radice della parola credere. L’Amen finale della nostra Professione di Fede richiama quindi la stessa parola con cui inizia: Credo. Credere significa dire Amen alle promesse di Dio, fidarsi totalmente di Lui, essergli solidale e fedele (CCC 1064). Gesù Cristo stesso è l’Amen, come scrive l’apostolo Giovanni nel libro dell’Apocalisse: “Così parla l’Amen, il Testimone fedele e verace, il Principio della creazione di Dio” (Ap 3,14). L’Amen ci rimanda quindi al principio della creazione, per riconoscere le nostre radici e ripercorrerne la storia della salvezza. Oltre alla nostra fiducia in Dio, l’Amen esprime anche la sua fiducia in noi, la sua fedeltà, la speranza che quanto promesso si realizzi.

La virtù cristiana della speranza non è un semplice desiderare o auspicarsi, ma attesa certa. Quando Maria riceve l’annuncio dell’Incarnazione, ella non vive la speranza come semplice desiderio di una probabilità, ma attende, sa. Allo stesso modo il cristiano, col suo Amen, attende in modo certo che tutto si compia, perché già “tutto è compiuto” (Gv 19,30). Fecondato dal Credo anch’egli attende, e, portando in grembo Cristo, sa che Egli viene. Tutta la Chiesa, anzi tutta la creazione, Lo ha in gestazione, vivendo continuamente le doglie del parto (Rm 8,22). Il Dio dell’Amen non manca alla parola data. Questo lo crediamo e lo speriamo. “Spe salvi facti sumus”, nella speranza siamo stati salvati, scrive San Paolo (Rm 8,24). “Speranza, di fatto, è una parola centrale della fede biblica, al punto che in diversi passi le parole ‘fede’ e ‘speranza’ sembrano interscambiabili” (Enciclica Spe Salvi, 2). E questa speranza noi cristiani la esprimiamo col nostro Amen a Cristo. Scrive San Paolo ai Corinzi: “Tutte le promesse di Dio in lui sono diventate ‘sì’, Per questo sempre attraverso di lui sale il nostro ‘Amen’ per la sua gloria” (2Co 1,20). Il momento liturgico in cui facciamo nostre queste promesse, e ci impegniamo a realizzarle anche con la nostra vita, è il Credo, il nostro Amen a Dio.
La vita cristiana di ogni giorno sarà allora l’Amen all’«Io credo» della professione di fede” (CCC 1064). Riconoscendosi nei contenuti del Credo, il cristiano ne assume la forma, incarna la missione di Cristo nella sua storia. Sant’Agostino (354-430), la cui vita è attraversata proprio dal Concilio di Costantinopoli del 381 che regala alla cristianità la formula definitiva e completa del Simbolo della Fede, scrive nei suoi Sermoni: “Il Simbolo sia per te come uno specchio. Guardati in esso, per vedere se tu credi tutto quello che dichiari di credere e rallegrati ogni giorno per la tua fede” (Sermones, 58,11,13).

E se davvero il cristiano, col suo Amen, dice questo sì a Dio, allora tutta la sua vita proclama: “Grazie Signore per avermi pensato fin dagli inizi, per aver creato l’Universo, e, in esso, gli uomini a immagine di te; grazie per il tuo piano di salvezza che fin dal giorno della prima caduta ci ha mostrato i segni della tua misericordia; grazie per i patriarchi ed i profeti da Te inviati, per il dono delle Scritture che nei secoli ci hanno illuminato e guidato; grazie per la Tua venuta sulla Terra, per le parole di luce e di vita con cui ci hai ammaestrati, per come ci hai amati e fatti tuoi discepoli; grazie per la Tua opera di redenzione che hai attuato attraverso la Croce e la tua Risurrezione; grazie per l’immenso dono della Chiesa, in cui hai riposto ogni tesoro di salvezza; grazie per la saggezza donata ai suoi Padri, per mezzo dei quali lo Spirito Santo ha continuato a parlarci; grazie per il mistero di sapienza custodito nella Tradizione, che attraverso il Magistero giunge fino a me; grazie per il dono di tutti i santi e sante che nei secoli hanno riflesso la tua immagine ed il tuo volto; grazie per il dono della vita, naturale e spirituale, per i miei talenti innati e per tutti i carismi dello Spirito; grazie per il dono soprannaturale dei tuoi Sacramenti, nei quali hai racchiuso, coi tuoi meriti, la Grazia santificante; grazie per avermi reso compartecipe al tuo disegno di salvezza, perché tu ami attraverso di me, annunci attraverso di me, salvi attraverso di me; nella speranza della vita eterna. Amen”.


 



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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