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Ultimo Aggiornamento: 25/02/2018 13:40
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  La tutela dell’Eucarestia, bene sommo della Chiesa



Il significato autentico del canone 1367 del Codice di diritto canonico, su cui recentemente si è pronunciato il Pontificio Consiglio per l’interpretazione dei testi legislativi


del cardinale Vincenzo Fagiolo

 
Con il canone 1367 del Codice di diritto canonico (CIC) è stato interpretato altresì il canone 1442 del Codice dei canoni delle Chiese orientali (CCEO), riguardando il primo la sola Chiesa latina (cfr. can. 1 CIC). L’organo della Santa Sede competente – oltre al legislatore, cioè il papa – ad interpretare autenticamente le leggi sia della Chiesa latina sia delle Chiese orientali è il Pontificio Consiglio per l’interpretazione dei testi legislativi. 
Sia il 1367 che il 1442 sono canoni che sanzionano pene per delitti commessi da fedeli battezzati (cfr. can. 11 CIC; can. 1490 CCEO) contro la religione (cfr. cann. 1364-1369 CIC).

Sanzionano infatti la pena della scomunica per coloro che profanano le specie consacrate del pane e del vino nelle quali è presente Cristo Signore, in corpo, sangue, anima e divinità (cfr. can. 897 CIC; can. 698 CCEO). Nella Chiesa latina tale scomunica è 
latae sententiae, vi si incorre ipso facto: cioè per il fatto stesso del commesso delitto; quindi la scomunica è automatica (cfr. can. 1367 CIC). Nelle Chiese orientali cattoliche è scomunica “maggiore” ferendae sententiae, vi si incorre cioè dopo che è stata inflitta dalla competente autorità (cfr. 1442 CCEO). Va però notato che non ogni profanazione delle specie eucaristiche costituisce delitto, ancorché vi sia peccato. Il delitto lo configurano tassativamente tre specifici atti, che la legge penale indica con tre verbi: abicit,abducitretinet (cfr. cann. 1367 CIC e 1442 CCEO). È stabilita la scomunica per chi getta in terra (abicit) le specie eucaristiche, per chi le asporta (abducit) e/o le conserva (retinet) a scopo sacrilego. 

Il dubbio che ha preso in esame e al quale ha risposto il citato Consiglio non riguarda né il secondo (abducit) né il terzo (retinet) tipo di profanazione delle specie eucaristiche, ma soltanto il primo (abicit). 

Il tradimento di Giuda, Giotto, Cappella degli Scrovegni, Padova

Il tradimento di Giuda, Giotto, Cappella degli Scrovegni, Padova

Incorre nella scomunica «qui species consecratas abicit» (chi getta in terra le specie consacrate). Inesatta la traduzione italiana di questo primo comma del canone 1367, che leggiamo nell’edizione del Codice di diritto canonico edito dall’Ueci. Lo si fa notare perché è il testo che comunemente viene consultato in Italia: «Chi profana le specie consacrate» (testo della traduzione italiana) non è la stessa cosa da «qui species consecratas abicit». Nel primo caso la profanazione è generica e può riferirsi ad ogni forma di profanazione; nel secondo è specifica e contempla solo il fatto di chi getta in terra le specie consacrate (abicit)Ed è proprio questo gesto specifico che il citato Consiglio ha preso in esame.

E lo ha fatto anche perché le traduzioni nelle altre lingue presentano notevoli sfumature. Ma l’interpretazione data non è stata una semplice chiarificazione linguistica o di spiegazione dei termini, bensì una dichiarazione che ha forza di legge (cfr. can. 16 § 2 CIC; can. 1498 § 2 CCEO). È stato stabilito che il termine 
abicit non va inteso soltanto nel senso troppo restrittivo di gettar via le specie consacrate. Era quanto si voleva sapere dai proponenti il dubbio.
Questo dubbio è espresso con molta chiarezza nel testo latino pubblicato dall’
Osservatore Romano (9 luglio 1999), che però ne riporta una traduzione italiana poco fedele. Il problema che il dubbio solleva non è infatti sapere «se la parola abicere debba intendersi come l’atto di gettare via» ma «se il verbo abicere sia da intendersi tantum (=solamente) come l’atto di gettar via» le specie consacrate.

È chiaro che il verbo 
abicere significa l’atto di gettar via e come tale chi lo commette volontariamente incorre nella scomunica perché ha commesso il delitto della profanazione delle specie consacrate. Ma incorre nella stessa scomunica chi pur non gettando per terra dette specie, le profana, fa sacrilegio con atti che sono di disprezzo, di sfregio, di repulsione offensiva, di trattamento umiliante? Tali atti non solo equivalgono moralmente e giuridicamente al gesto del gettare via, ma addirittura lo superano quanto ad intenzione e fatto profanatorio.
Il problema così impostato viene ampliato sotto il profilo morale e sotto l’aspetto giuridico. Ci si chiede pertanto se i gesti che sembrano più gravi di quello del gettare via, siano da giudicare anche delitti, oltre ad essere peccati. La domanda è pertinente, in base al principio che le leggi che stabiliscono le pene si debbono interpretare in senso restrittivo (cfr. can. 18 CIC; can. 1550 CCEO). Se il canone contempla solo il gesto del gettare via, perché indicare con lo stesso verbo anche altri gesti, sia pure sacrileghi? Sono peccati ed anche delitti? Considerarli anche delitti non è un’estensione indebita che la legge penale vieta?

La questione non è nuova; già prima dell’attuale Codice, in riferimento al canone 2320 del Codice piano-benedettino promulgato nel 1917, Conte da Coronata sosteneva che nei detti casi c’era certamente peccato grave, ma non delitto; e a favore di questa sua tesi cita, tra gli altri, il Cappello (cfr. 
Institutiones Iuris Canonici IV, Roma 1951, p. 338). Secondo però R. Santucci commette delitto non solo chi dal tabernacolo getta via, per terra (abicit) le specie consacrate, ma altresì colui che pur lasciandole nel posto adeguato, idoneo, liturgico, le «copre di sputo o in qualunque modo le tratta in maniera empia e blasfema» (cfr. II diritto penale secondo il Codice di diritto canonico, Subiaco 1930, p. 46).

Questa opinione, criticata da Conte da Coronata, come troppo severa, perché contraddice al principio della stretta interpretazione delle leggi penali, poteva essere sostenuta, già al tempo del vecchio Codice, con la motivazione dell’estensione delle leggi penali quando hanno la medesima ragione nella finalità della legge, poiché solo in tale modo si evitano situazioni di ingiustizia o di assurdo legale (cfr. Michiels, 
Normae Generales Iuris Canonici I, Romae 1949, pp. 547-552). Sotto questo profilo sembra perciò legittimo il dubbio sulla dimensione non formalistica ma sostanziale della legge, soprattutto nel caso della norma canonica che rifiuta ogni positivismo ed è sempre orientata a far prevalere i valori che più giovino al bene delle anime, che è la regola suprema della comunità fondata da Gesù Cristo (cfr. can. 1752 CIC).

La questione viene così vista non esclusivamente nell’ambito tecnico-giuridico, ma anche sotto l’aspetto pastorale che la inquadra meglio nel mistero della Chiesa, che trascende, non eliminandolo, l’aspetto formale, tecnico, giuridico. È questa la comprensione giusta della norma canonica, non fine a se stessa ma sempre a servizio della persona umana inserita nel mistero salvifico di Cristo, dove l’uomo divenuto, mediante il battesimo, persona nella Chiesa, trova nella duplice mensa del pane della Parola e del pane eucaristico, le fonti principali della grazia che lo santifica.

Essendo quindi l’Eucarestia presenza del Verbo incarnato, la stessa è centro e vertice degli altri sacramenti, fonte della vita e dell’edificazione della Chiesa (cfr. 
Lumen gentium n. 26), ed apice della vita cristiana (cfr. LG n. 11). Una politica (passi la parola) legislativa canonica non può prescindere da queste fondamentali verità e da questi misteri di grazia, e per quanto possa essere attenta alle esigenze tecnico-giuridiche che sostanno alla costruzione dell’ordinamento canonico, deve, con la difesa della verità della fede e la tutela dei mezzi efficaci di grazia – al centro dei quali c’è il sacramento dell’Eucarestia perché ha in sé l’autore della grazia –, insegnare anche con la norma giuridica a difendere, anche con il complesso delle leggi penali, il supremo bene che il Signore ha dato alla Chiesa. Dire che queste considerazioni sono puramente d’ordine spirituale, morale, è affermare verità esatte, ma sostenere che esulano dal campo del diritto canonico significa non conoscere lo spirito, la natura e la finalità dell’ordinamento legislativo della Chiesa ed è fare ad esso l’offesa più grave.

Ce lo ha confermato lo stesso legislatore quando ha promulgato nel 1983 il nuovo Codice di diritto canonico: «In tal modo gli scritti del Nuovo Testamento ci consentono di percepire ancor più l’importanza stessa della disciplina e ci fanno meglio comprendere come essa sia più strettamente congiunta con il carattere salvifico dello stesso messaggio evangelico» (costituzione apostolica 
Sacrae disciplinae, 25 gennaio 1983, in Codice di diritto canonico, Roma, Ueci, 1983, p. 25). 

È da queste considerazioni dogmatiche e teologiche che dobbiamo far discendere e ricavare la ragione fondamentale che legittima sotto il profilo strettamente ecclesiastico – e perciò anche giuridico – la risposta data al dubbio dal Pontificio Consiglio per l’interpretazione dei testi legislativi. Il verbo abicit del canone latino 1367 e del canone orientale 1442 non va inteso solo nel senso stretto di gettare via, dal tabernacolo o pisside, le specie consacrate e nemmeno nel senso generico di profanazione, bensì nel significato più esteso, di ogni gesto che manifesta disprezzo, sfregio, repulsione odiosa... verso l’augusto sacramento dell’altare, che «è culmine e fonte di tutto il culto e della vita cristiana, mediante il quale è significata e prodotta l’unità del popolo di Dio e si compie l’edificazione del Corpo di Cristo» (can. 897 CIC).

In questa tutela dell’Eucarestia ogni fedele deve saper cogliere anche il bene della persona profanante: la tutela delle specie consacrate è l’esigenza suprema che, anche attraverso la norma canonica, la Chiesa particolarmente avverte e con scopi medicinali e salvifici assicura irrogando le pene, nella consapevolezza che nel sacramento dell’Eucarestia è racchiuso tutto il bene del singolo fedele come della comunità. Teologicamente e pastoralmente giustificata appare questa interpretazione data dalla Santa Sede. Nell’azione pastorale, la Chiesa, sacramento di salvezza, è guidata da princìpi dottrinali e da norme; queste come regole che attuano e rendono vitali i princìpi per il bene dei fedeli. 




PONTIFICIUM CONSILIUM DE LEGUM TEXTIBUS INTERPRETANDIS 

Patres Pontificii Consilii de Legum Textibus Interpretandis, in plenario coetu diei 4 iunii 1999, dubio, quod sequitur, respondendum esse censuerunt ut infra: 
D. Utrum in can. 1367 CIC et 1442 CCEO verbum «abicere» intelligatur tantum ut actus proiciendi necne. 
R. Negative et ad mentem. 
Mens est quamlibet actionem Sacras Species voluntarie et graviter despicientem censendam esse inclusam in verbo «abicere». 
Summus Pontifex Ioannes Paulus II in Audientia diei 3 iulii 1999 infrascripto Praesidi impertita, de supradicta decisione certior factus, eam confirmavit et promulgari iussit. 

Iulianus Herranz 
Archiepiscopus titularis Vertarensis, praeses 

Bruno Bertagna 
Episcopus titularis Drivastensis, a secretis 



I padri del Pontificio Consiglio per l’interpretazione dei testi legislativi, nella sessione plenaria del 4 giugno 1999, hanno ritenuto di dover rispondere come segue al dubbio proposto: 
D. Se nei canoni 1367 CIC e 1442 CCEO la parola «abicere» debba intendersi solamente come l’atto di gettar via. 
R. Negativamente e «ad mentem». 
La «mente» è questa: qualunque azione volontariamente e gravemente spregiativa è da considerarsi inclusa nella parola «abicere». 
Il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, nell’udienza concessa al sottoscritto presidente il 3 luglio 1999, informato della suddetta decisione l’ha confermata ed ha ordinato che venga pubblicata. 

Julián Herranz 
arcivescovo titolare di Vertara, presidente 

Bruno Bertagna 
vescovo titolare di Drivasto, segretario 




 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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