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Il Cristo dilacerato e la profezia di Jean Guitton

Ultimo Aggiornamento: 27/09/2014 15:03
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27/09/2014 15:03
 
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Il Cristo dilacerato (*)

Un ultimo problema si pone a ogni pensiero ecumenico che creda alla visibilità della Chiesa: come concepire l'unificazione delle Chiese?

L’unità non può praticamente farsi che attorno alla Chiesa romana. Ciò che viene rimproverato a questa Chiesa non è di essere centro, asse, focolare, luogo di convergenza, ma di porre delle condizioni per l’unità che paiono incompatibili con la fede, le regole antiche, l’autonomia legittima delle comunità. Si sente levarsi nelle Chiese separate il lamento proprio di certi amori: Nec tecum nec sine te vivere possum. «Non posso far niente con te. Non posso far niente senza di te».
Il sentimento che non si possa far niente con la Chiesa cattolica, è testimoniato a sufficienza dalle accuse, dalle critiche, dai silenzi, dalla ratifica continua della separazione fatta a suo tempo (implicita nel fatto di persistervi, di non far niente per verificarne la giustezza).
Ma - ciò che è pure tacitamente riconosciuto per via dell’esistenza stessa di quelle assisi ecumeniche ove si desidera una presenza che si sa d’altra parte impossibile - il fatto è che, senza la focale presenza romana, non si potrà mai pervenire a una unità effettiva.
Da tutto questo emerge l’idea, che non si può facilmente esprimere in parole, di un rimando a uno stato futuro della Chiesa romana, uno stato ancora indefinibile, nel quale essa potrà diventare realmente per tutti i cristiani quel centro di raccolta che realizzerebbe la loro vocazione, senza che debbano abbandonare la loro veste ma ricevendone un’altra affinché ciò che in essi è mortale sia inghiottito dalla vita. È la casa del Padre con le sue molteplici dimore. Quando avverrà tutto questo?

VII. LA NUOVA CRISI

Il tempo che ora mi accingo a esaminare è quello dell’epoca che noi stiamo vivendo. Da questo punto di vista esso appartiene in parte al passato e in parte all’avvenire.
È un’ondata che non ha ancora raggiunto il suo momento terminale. Donde le incertezze di questa analisi.

Da molti segni si intravede che l’epoca, della quale abbiamo passato in rassegna a grandi tappe i momenti culminanti, si è chiusa, e che le rivoluzioni religiose prenderanno d’ora in poi un’altra forma.
Certo, si può ancora supporre il caso di Chiese nazionali che si separano sotto la spinta del potere politico, e in questo senso non sono da escludere degli scismi, anche considerevoli. Ma tali fenomeni non rivestiranno alcun significato teologico, perché saranno privi di conseguenze nel campo dogmatico: nessuna controversia sulla divinità di Cristo, sui rapporti tra la «giustificazione» e la «santificazione», sul valore dei sacramenti.
Questo perché l’eresia, la controversia religiosa, la separazione dei cristiani suppongono l’esistenza d’una fede comune soggiacente. Non si può opporsi nella fede senza una vasta base d’accordo assoluto.

Ora l’epoca nella quale noi ci stiamo avanzando (vi siamo entrati insensibilmente da tre secoli) si caratterizza per un raffreddamento della fede. Non vi è abbastanza religione sulla terra perché possa sorgere una eresia esplicitamente religiosa. Il che farebbe supporre che la fine di questo mondo è assai vicina, se bisogna dare un senso preciso al lamento di Gesù: «Quando il Figlio dell'Uomo verrà, troverà ancora della fede sulla terra?»

E se il Concilio Vaticano II non ha trovato propriamente delle eresie dogmatiche da condannare ma piuttosto delle filosofie che mettono in pericolo la ragione, ciò non è dovuto al fatto che la fede è più forte, sibbene al fatto che l’avversario porta i suoi colpi a livelli più profondi, che la sua dinamite o piuttosto la sua invisibile opera di scalzamento attacca le sottostrutture, quelle basi naturali che un tempo erano un bene comune dell’umanità.

La nuova epoca presenta un’attenuazione della fede, almeno della fede visibile e costituita. Ciò che la rende diversa dalle epoche precedenti è la fine, o almeno il declino, di un regime in cui la religione era sostenuta da un’istituzione o da un contesto da essa distinti: potere, struttura sociale, costume, usanze, lingua, sensibilità, una data atmosfera.

Non è agevole dire in quale misura la fede è scomparsa, perché è difficile determinare, nei tempi precedenti (in cui la fede coincideva con l’istituzione), in quale misura tale fede era conformismo o adesione personale. Non si riuscirà mai a saperlo, ed è inutile porsi questi interrogativi insolubili: gli stessi interessati, gli uomini del passato, se potessero essere interpellati, non potrebbero rispondervi. Quando tutto un mondo pensa allo stesso modo il non conformismo resta inespresso.

A partire dal Rinascimento, diviene man mano visibile la separazione tra l’universo dell’uomo e l’universo del cristiano. Dal momento che l’umanità aveva cominciato ad avere la consapevolezza di se stessa e a pensarsi, era nata l’idea della sua unità. Le mitologie contribuivano a darle questo senso dell’unità: l’umanità, politeista per quanto riguardava gli dei, era quanto a se stessa monantropica: esistevano molteplici dei, non vi era che una sola razza umana, che un unico primo uomo. Ma il concetto di popoli «barbari», l’impossibilità di far coincidere cronologie diverse, l’ignoranza delle origini, l’incertezza sui fini, l’assenza del sentimento d’un progresso, il mito dell’«eterno ritorno», tutto contribuiva a rendere difficile all’Uomo totale l’autoconoscenza di sé. La Chiesa rese possibile questa conoscenza, e, per lungo tempo, fu la stessa cosa pensarsi come uomo e pensarsi come cristiano, come membro di questa Chiesa.

Oggi, invece, esiste tra i due punti di vista un contrasto così grande che diventa difficile, e per alcuni impossibile, pensarsi nello stesso tempo come uomo e come cristiano. Non che si tratti di un’esperienza prima sconosciuta, ma l’uomo moderno ha portato questa divisione degli esseri in se stesso all’estrema potenza. Essi possono «concordare»: ma concordanza, concordato, e anche concordia sono termini ambigui. Servono senza dubbio a eliminare il sospetto d’una rivalità troppo visibile, ma non per questo vogliono dire armonia, intesa, accordo. In molti casi il potere si adopera quanto può a far morire per asfissia una religione che si guarda però bene dal perseguitare, perché preferisce ignorarla.

Dicevo prima che l’eresia, essendo una divergenza nella fede, suppone la fede, anzi un certo ardore di fede, tale da far giudicare la differenza delle credenze così importante (anche se riguarda uno iota) da non dover lasciar nulla d’intentato per sostenerlo: la rottura dell’unità, il ricorso al potere secolare. In un contesto in cui non sarà difficile trovare né un potere per perseguitarvi né un potere per aiutarvi a perseguitare.
Per Jung, dietro ad ogni iota si trova il grande scisma psicologico: «Da un lato l’affermazione che la cosa importante, l’essenziale sta in ciò che è percepibile dai sensi... Dall’altro l’affermazione che l’essenziale si trova al di fuori dell’umano». E non par dubbio trattarsi di quello stesso iota che opponeva un tempo la religione e il razionalismo. È sempre e dovunque l’identico problema.

Noi vedremo affievolirsi la forza delle Chiese cristiane sostenute da uno Stato o da un Impero. Lo Stato non ne avrà più bisogno e non si darà più la pena di atteggiarsi a credente. Il «principe» in panni borghesi non sarà più tentato, come Enrico VII, di atteggiarsi a novello Carlomagno.
La scelta non è dunque più per l’uomo comune tra diverse forme di cristianesimo, bensì tra due visioni del mondo, l’una che crede a una Trascendenza, l’altra che la nega.
Certo, all’interno di questa principale, si possono dare scelte diverse, ma si tratterà di scelte in apparenza secondarie. Non si possono immaginare gli uomini di un’epoca cosiffatta intenti a dilaniarsi sul significato della grazia; ma mortalmente in lotta tra loro intorno al problema della scelta tra la negazione assoluta e il suo contrario, questo sì.

E d’altronde chi ci dice che tale scelta non fosse segretamente presente nelle profondità delle grandi opzioni del tempo passato, che avevano in realtà per oggetto la Trascendenza? Chi ci dice che Ario nel ridurre il Cristo al suo aspetto temporale, il quale in confronto all’eternità è un niente, non scegliesse di fatto il Niente? Chi ci dice che certe forme attuali della Negazione esistenzialista o marxista non riproducano una visione teologica immanentista? O che le rivolte, le rivoluzioni basate su una rivendicazione di purezza così frequenti ai nostri giorni, non siano una riedizione della protesta catara? Che una nuova alleanza di tipo ariano tra l’imperialismo e il cristianesimo non si prepari nelle tenebre di questo tempo? Che una nuova Gnosi non sedurrà gli spiriti? Che un nuovo Islam non farà la sua comparsa? Il novero dei temi è limitato, ma la storia è lunga.
E si assiste al prodursi di un fenomeno analogo, ma inverso, a quello dell’ascesa del cristianesimo.
Un tertium genus humanum sta penetrando nelle strutture di fondo di questo mondo, come il tertium genus christianorum era penetrato nell’Impero romano decadente. L’uomo senza fede (non perché l’ignori, ma perché crede d’aver superato lo stadio del credere) ha per la fede cristiana lo stesso disprezzo che i primi cristiani avevano per il paganesimo. Nient’altro che un mito: ecco che cosa gli sembra essere il cristianesimo. E proprio qui sta il suo errore: egli s’immagina che la scienza, la storia, la critica abbiano confinato Gesù nella leggenda, come avevano fatto a suo tempo per le mitologie, mentre la vera scienza e la vera critica hanno rafforzato le ragioni di credere alla sostanza del Vangelo.
Spesso, dalle origini dell’umanità in poi, si è visto questo fenomeno: la comparsa d’una nuova razza d’uomini, che sembrava non aver niente in comune con quella che occupava il campo fino a quel momento. I rapporti sono allora di guerra o almeno d’incomprensione. L'homo judaicus, poi Yhomo christianus furono questi neoantropi. L’uomo marxista appare anch’esso un neoantropo.

Già nel seno delle società cristiane esistevano dei «libertini», degli atei, che non giudicavano secondo le medesime regole di fede o di ragione. Gli spiriti profondamente attenti, Pascal, Leibniz, Newman, Dostoevskij, per esempio, avevano sentito avvicinarsi questa separazione tra due universi di pensiero. Essi avevano tentato di ristabilire delle passerelle al di sopra degli abissi mediante delle «apologetiche», vale a dire delle tecniche di riduzione della differenza.
Ma, come aveva intuito Newman, l’uomo nuovo non si trova rispetto al cristianesimo nella condizione del barbaro, che non sa e si considera inferiore e superato. Egli pensa di essere stato evangelizzato e di aver quindi rifiutato il cristianesimo: è vaccinato contro la cattiva novella, il «male» cristiano. Qui sta la difficoltà capitale, quella che cambia tutti i termini del problema: non si vedono dei precedenti cui si possa far riferimento.

Sotto l’impero romano declinante, i cristiani avevano vissuto in una condizione povera, precaria e clandestina, senza statuti, senza potere, e anche senza tradizioni (perché la tradizione ebraica era estranea a questi convertiti venuti dalla Gentilità). I cristiani vivevano ai margini della vita sociale, a tal punto che l’ombra del martirio stava sospesa in continuazione sul loro capo. A partire dal momento in cui ebbero dalla loro il potere, la cultura, l’incombenza e il peso della tradizione umana, essi furono associati alla storia, crearono un «ordine cristiano». Invece di essere staccati dal tempo e di considerarsi come passeggeri clandestini in una nave destinata ad andare a fondo, essi assumono l’opera del tempo. Sono divenuti possessori, benché il Cristo fosse spoglio di ogni cosa.

 

Ma ecco che, per la prima volta, la mistica antiproprietaria è utilizzata contro i cristiani. L’argomento marxista è di mostrare lo stretto amalgama del cristianesimo con il possesso, intendendo qui la parola possesso in un senso più generale, comprendente ogni sorta di patrimonio fosse pure un patrimonio di cultura, di passato e di storia: onus, honor.

Si comprende come il malinteso arrivi al parossismo. Il cristiano, guardando il suo avversario, non può né classificarlo, né capirlo. È un avversario che non giuoca secondo le regole, che abita un paese non riportato sulle carte geografiche.

A partire dal secolo XVIII, molti ammettono un tempo progressivo, diverso del tempo ecclesiale di conservazione, di decadenza continuamente riparata. I «filosofi» affermano che l’umanità si perfeziona di epoca in epoca, progredendo verso uno stato di perfezione finale, che è ormai prossimo. Ecco riapparire, sotto sembianze laiche, il tempo messianico ebraico in cui ci si riconforta nell'immancabile speranza. Nel caso dei moderni, la fede è supplita e alimentata dalla coscienza del progresso già realizzato: si tratta solo di proseguire ancora per un po’. L’espressione evangelica "ancora un po’ di tempo", questa espressione della speranza viva, è perpetuamente presente.

Poiché scrivo questi pensieri durante una pausa, una intersessione del Concilio, io mi porto, a questo punto, come Giobbe, un dito alle labbra: niente è più denso e più oscuro per noi di questo momento presente nel quale l’imponderabile e le libertà cospirano assieme sotto la guida d’una Mano dolce e potente.

Ma posso tentar di raccogliere i miei pensieri onde dar loro una certa unità; cercar di vedere se la mia ipotesi sull’equivalenza profonda delle diverse crisi del Cristo mantenga al presente qualche validità, se, attraverso tante situazioni e tante congiunture e nel trasformarsi delle mentalità e dei linguaggi, non si tratti sempre d’una medesima agonia di Gesù Cristo, sempre d’una stessa crisi.
Mentre lo spirito storico porta piuttosto a opporre le diverse epoche, facendo apparire estraneo ciò che è semplicemente antico, la filosofia consiglia di mettere nella sua giusta luce la rassomiglianza di ciò che non differisce se non accidentalmente, la parentela che unisce tra loro i conflitti fondamentali.

Si può porsi, a proposito delle eresie», il problema che certi medici si pongono a proposito delle «malattie»: quello di sapere se non siano, per ciascun soggetto, manifestazioni varianti secondo il tempo, le età, le circostanze, di uno stesso fondamentale squilibrio degli umori. In particolare, si può domandarsi se la nostra epoca non differisca dalle altre solo per l’ampiezza, la sottigliezza, le forme nuove che assume il pericolo di sempre, quel pericolo della negazione che ha fin dall’inizio minacciato il cristianesimo.
Se si paragonano le une alle altre queste diverse crisi, si ha l’impressione che lo sviluppo della storia sia fatto a spirale, cioè che gli stessi motivi vengano ripresi di volta in volta, sotto una forma ogni, volta più concentrata. La crisi della Riforma presenta certi motivi della crisi ariana ch’essa riproduce in una maniera più drammatica e impegnando più radicalmente le coscienze.
E la crisi dell’Europa da due secoli a questa parte (e particolarmente in questi ultimi vent’anni) riassomma molte delle crisi precedenti, ma a un livello più profondo, con una maggiore ampiezza e con rischi accresciuti.

Ho detto che le dispute teologiche possono sembrare ai moderni delle discussioni oziose. Ciò dipende dal fatto che non ci si preoccupa di tradurre questi problemi nel nostro linguaggio, di ricercarne la corrispondenza e le equivalenze. Tutto è sempre uguale, diceva Leibniz, salvo il diverso livello di perfezione.
Il cristianesimo non ha posto mai e non pone che un unico problema, quello raffigurato nel misterioso Pesce delle Catacombe, le cui lettere erano le iniziali della massima Gesù-Cristo-Figlio-di-Dio-Salvatore (ichthys).

Per accettare questo mistero, le difficoltà che incontra l’intelligenza restano analoghe, malgrado la differenza dei tempi, degli spiriti e dei linguaggi.
Insomma, quel che la storia religiosa ci racconta, è una tempesta sul lago: la catastrofe è ognora possibile, anzi imminente, la salvezza è ognora improbabile, legata a un filo, alla fortuna. Ogni «grande eresia» sembra aver sempre dalla sua le maggiori chances: ma le eresie passano. E se sussistono, perdono però ogni vitalità, mentre la fragile barca della Chiesa non va mai a fondo.

Ho detto che l’intelligenza umana, quando è messa di fronte al mistero essenziale, oscilla da un estremo all’altro: mette Dio, o il Cristo Dio, al di sopra di tutti i mezzi di conoscenza; nello stesso tempo, diminuisce il senso del mistero o l’esigenza morale, quasi volesse sostituire la sintesi e il sacrificio con un misto di intransigenza e di compromesso. È vero che la Chiesa romana non sfugge all’oscillazione: si nota spesso che in essa la massimizzazione d’un elemento può essere compensata dalla minimizzazione dell’altro. Così l’affermazione d’un ideale chiamato tesi è compensata da una elasticità estrema nella tolleranza d’un abuso, nell’accettazione d’una situazione di fatto, che si chiamerà l’ipotesi. I contrari si oppongono anche nel seno della Chiesa: lo si è visto, e lo si vedrà sempre. Ma la spinta verso la rottura dell’equilibrio non supererà mai il limite di sopportabilità.

Per servirci di un paragone preso dal campo della fìsica nucleare, diremo che l’atomo cattolico mantiene i suoi elettroni dentro le loro traiettorie, per cui non sono mai disintegrati e resistono ai bombardamenti dei neutroni che potrebbero farli saltare verso altre orbite, e concorrere alla composizione di altri corpi estranei.
È qui che risiede, secondo me, l’originalità storica e filosofica, della struttura e dello sviluppo di quella essenza temporale che si chiama cattolicesimo e nella quale io scorgo, sulla scia di Newman, una Idea eterna calata nel tempo.
In una tale essenza, che tenderebbe a spaccarsi a causa di tante forze dissolventi (interne ed esterne), esiste un legame di stabilità.

Malgrado l’oscurità della fede, l’equilibrio delle verità complementari è mantenuto.

Ma per comprendere la difficoltà, la rarità, il prezzo e oso dire lo splendore di questa sintesi, lo studio delle grandi scelte è molto utile. Senza di esso, la sintesi può apparire un fatto di natura o di fortuna, come se si trattasse di una cosa che va da sé, al pari della salute quando non si è mai sofferto.
Il cattolicesimo esige uno sforzo per risalire dalla periferia delle verità fino al loro centro, verso quel cuore donde s’irrora la vita. Tale è la strada che ho tentato di battere in quest’opera, nelle quale la critica vuole essere rispettosa e costruttiva. Vorrei poter dire a coloro che ho criticato la parola di sant’Agostino, così profonda e così semplice: «Se io mi oppongo a te, è perché tu possa raggiungere la pienezza»: Tibi contradico ut totum possideas.
Strada dolorosa, strada veramente discriminante, questa verso l’unità! Ma strada convergente e, come ogni strada di dolore, strada di unione con gli altri, con se stessi, con Dio.

E io non mi stupisco, quindi, che oggi si vedano levarsi in ciascuna famiglia spirituale, in ciascuna confessione cristiana, degli spiriti i quali pensano che una nuova «ricapitolazione nel Cristo» di ciò ch’era andato disperso non è impossibile a concepirsi, se ognuno acconsente a distinguere nella propria fede quel che è essenziale da quello che non lo è.
Chissà che non ci troviamo, per la prima volta, in un momento della storia in cui la riunificazione delle membra divise non è più un sogno; in cui, tra le Chiese separate e la Chiesa, la distanza è ridotta a uno spazio non più invalicabile? Senza dubbio proprio lo spazio che rimane può essere il più difficile da superare, perché tutta la differenza vi è concentrata. Spesso, in un amore che si è liberato dai lacci che lo tenevano avvinto, gli ultimi passi sono proprio quelli che non si faranno mai.
Quando tutto sarà unito (e tutto lo sarà domani, o questa sera, o nell’altro mondo), allora le differenze, le divergenze e le colpe saranno riassorbite, e si vedrà che «per coloro che amano Dio tutto concorre al bene».

Ciò che, dal punto di vista cattolico, appare come una colpa è di essersi separati da un legame di unità col vertice: insomma, di non avere imitato l’atteggiamento di san Paolo nei confronti di Pietro.

La fine dell’era delle eresie sarà simboleggiata da questo accordo di Paolo e di Pietro, che è il cemento della Chiesa universale. Allora non vi sarà più posto se non per il combattimento apocalittico: quello tra i partigiani del Niente e i partigiani dell’Essere radunati attorno ai figli d'Abramo, nella linea lungo la quale si è manifestato il Cristo e che la Chiesa continua sulla terra.

Getto un ultimo sguardo retrospettivo su quest’opera. Se volessi riassumerla in una parola, direi che vi ho preso in considerazione di volta in volta (e più in profondità tutto insieme) quelle grandi scelte parziali che punteggiano la storia umana da venti secoli a questa parte: una storia ancora brevissima, può darsi...
Ho creduto di poter constatare, in ciascuna di tali scelte, una parte negatrice e una parte positiva. Le parti positive mi sono parse convergenti e capaci, se distaccate dalle negazioni, di integrarsi in una Unità più ricca.
Mi sembra talvolta che le negazioni, essendo spesso contrarie le une alle altre, si distruggano a vicenda e che finiscano quindi col formare come una nera cornice attorno a un centro di luce oscura, che è il vero mistero, quella dimora del Tutto che resta ancora opaco per noi fino a quando lo vedremo faccia a faccia. Se ciascun frammento del Vero totale, esaltato da una scelta esclusiva, è così inebriante, quanto più lo saranno tutti i frammenti riuniti nel Tutto!

(*) da: Jean Guitton "Il Cristo dilacerato" Crisi e Concili nella Chiesa - Prima Edizione 1964, seconda edizione in italiano dalla Cantagalli 2002



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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