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Se avete desiderio di capire che cosa insegna la Bibbia che il Magistero della Santa Chiesa, con il Sommo Pontefice ci insegna, questo Gruppo fa per voi. Non siamo "esperti" del settore, ma siamo Laici impegnati nella Chiesa che qui si sono incontrati da diverse parti d'Italia per essere testimoni anche nella rete della Verità che tentiamo di vivere nel quotidiano, come lo stesso amato Giovanni Paolo II suggeriva.
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La fine dei tempi La fine del mondo nella Scrittura e nella Tradizione della Chiesa

Ultimo Aggiornamento: 21/10/2014 20:08
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  La «fine del mondo»





Che cosa sappiamo di “quel giorno”, quando Cristo verrà nella sua gloria? Solo nella divina Rivelazione troviamo una risposta soddisfacente e illuminante. E ci troviamo “terrore” e “consolazione” 

Premessa
Quando e come finirà questo nostro mondo nel quale ci è capitato di vivere? Sono interrogativi che interessano tutti, credenti e non credenti. Ma c’è una differenza. I non credenti – scienziati, filosofi, opinionisti religiosi – non offrono informazioni fondate e plausibili. Noi credenti nella divina Rivelazione abbiamo, invece, sull’argomento diverse notizie meritevoli di attenzione. 
Noi adesso ci proponiamo di richiamare alcuni insegnamenti tutti proposti nell’ambito della cultura ebraico-cristiana. 

Il «giorno di Jahvè» 
L’attesa del “giorno di Jahvè”, come rivincita della nazione eletta troppo spesso sconfitta e umiliata, era comune nell’antico Israele. I profeti però ammoniscono che Dio entra nella storia come giustiziere imparziale di tutte le colpe, anche di quelle del suo popolo, e perciò non si può restare tranquilli nella sicurezza che sarà giorno di castigo solo per “gli altri”: «Guai a chi sospira dietro il giorno di Jahvè » (Am 5,18-20). In ogni caso, quel giorno sembra concepito come uno dei tanti giorni entro la vicenda umana, contrassegnato però da un più chiaro e deciso intervento della potenza del Signore. 
La distruzione di Gerusalemme e la dispersione della nazione – rovesciando le troppo facili e troppo terrestri speranze ebraiche – hanno potuto essere considerate come l’avveramento di “quel giorno”. E in genere i profeti lo descrivono in termini di terrore e di angoscia: 
«Giorno d’ira quel giorno, 
giorno d’angoscia e di afflizione, 
giorno di rovina e di sterminio, 
giorno di tenebre e di caligine, 
giorno di nubi e di oscurità...» (Sof 1,15). 

Ma anche dopo la catastrofe nazionale il tema non si esaurisce: prosegue rivestendosi di una luce di consolazione. In “quel giorno” Dio sarà «un rifugio al suo popolo, una fortezza per gli Israeliti» (Gl 4,16), i giusti trionferanno (cf MI 3,13-21) e Gerusalemme si illuminerà di uno splendore nuovo e ineffabile (cf Zc 14,6-9). 

Il «giorno del Signore» 

Gesù si appropria del “giorno di Jahvè”, che diventa il “suo giorno”; e non è una delle prove più deboli della sua volontà di presentarsi con gli attributi divini. 
I “loghia” di Cristo dove compare questa appropriazione sono tra quelli che più sicuramente sono stati trasmessi così come sono usciti dalle labbra del Maestro; ne è conferma il titolo di Figlio dell’uomo, che qui si trova e che la prima comunità eviterà ben presto di usare. È un titolo che Gesù desume dalle profezie di Daniele, dove indica un personaggio misterioso di origine celeste, che sarà il protagonista degli ultimi tempi.

«Vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo» (Mc 14,62). «Come il lampo, guizzando, brilla da un capo all’altro del cielo, così sarà il Figlio dell’uomo nel suo giorno» (Lc 17,24). «Chi si vergognerà di me e delle mie parole, di lui si vergognerà il Figlio dell’uomo, quando verrà nella gloria sua e del Padre e degli angeli santi» (Lc 9,26). 
Gesù ha così offerto se stesso come il “segno” certo e perspicuo di “quel giorno” e della con clusione della nostra storia: «Allora comparirà nel cielo il Figlio dell’uomo e allora si batteranno il petto tutte le tribù della terra, e vedranno il Figlio dell’uomo venire sopra le nubi del cielo con grande potenza e gloria » (Mt 24,30). 

Il protagonista della fine 
È opportuno osservare che, a differenza dei “miti” escatologici escogitati dagli uomini per i quali la fine della storia è di solito supposta come determinata da cause assolutamente impersonali – sicché in queste concezioni noi saremmo solo degli oggetti e non ci sarebbe nessuno con cui prendersela – nell’escatologia cristiana gli ultimi avvenimenti hanno un protagonista. Il mondo non avrà termine per l’azione di forze inconsapevoli e irresistibili che travolgeranno questo intrico di colpe e di sofferenze onde l’umanità è avviluppata dal principio, ma per la venuta di uno che, ponendo i suoi sigilli alla nostra storia, darà senso a tutto e chiarirà il senso di tutto. 

La «parusìa» e la «epifanìa» 
Per indicare questa azione risolutiva di Cristo sulla storia, la comunità primitiva ha desunto due vocaboli caratteristici dal linguaggio aulico ellenistico: parousìa, che letteralmente significa “presenza”, “il rendersi presente”, “venuta”; epifàneia, che letteralmente significa “manifestazione”, “apparizione gloriosa”. 
Un re o un generale, per esempio, compiva una “parusia” o una “epifàneia” quando, dopo aver vinto un nemico in battaglia, entrava festosamente in una città accolto come “dio e salvatore”, e agli occhi di tutti appariva trionfante. Così è della “parusia” cristiana: Gesù, dopo aver vinto il mondo (Gv 16,33) e dal momento che il capo avversario, «il principe di questo mondo, è stato giudicato» (Gv 16,11), si appresta adesso a celebrare la sua vittoria. Il tempo che noi stiamo vivendo è appunto quello che corre tra la battaglia vittoriosa e la celebrazione del trionfo. 
Gesù, che è venuto a salvarci attraverso la croce, con la risurrezione ha portato a compimento la sua vittoria e ha già dato inizio alla sua “parusia”, che perciò è al tempo stesso una realtà già in atto e una realtà del futuro. È già in atto in se stessa, ma al nostro sguardo deve ancora avverarsi, perché ai nostri occhi l’universo è ancora «soggetto alla futilità» (Rm 8,20) e avvolto dalle spoglie del mondo irredento. 

Cristo, traguardo dell’esistenza umana 

«lo sono il Primo e l’Ultimo e il Vivente» (Ap 1,17), dice di Gesù crocifisso e risorto l’Apocalisse. 
Non è solo il «Primo», è anche l’«Ultimo». «Lo inviò loro per ultimo», dice significativamente la parabola dei vignaioli, che raffigura in poche linee tutta la storia delle iniziative divine (Mc 12,1-12). Gesù è il segno della fine ed è egli stesso la fine. Con la sua venuta tutto si conclude. 
Il suo avvento di mediatore crocifisso e risorto lacera lo scenario delle realtà provvisorie (1 Cor 7,29-31), e immette e proclama la realtà nuova e definitiva; basterà inserirsi vitalmente in lui per partecipare di questo rinnovamento: «se uno è in Cristo, è una creazione nuova: il mondo vecchio è passato, ecco tutto si è fatto nuovo» (2 Cor 5,17). Per questo i giorni che sono cominciati con lui sono «gli ultimi» (Eb 1,2) e con la sua missione fra noi il tempo è giunto al suo colmo (GaI 4,4). Come si vede, con la morte e risurrezione di Cristo, il mondo vecchio è già vinto (Gv 16,33). Già sono cominciati gli ultimi tempi, già la “vita eterna” si è accesa quaggiù, già si è inaugurato fra noi il Regno di Dio. 
Tuttavia, poiché ci è dato spazio per la partecipazione nostra alla realtà definitiva che è già in atto, c’è come un supplemento nella vicenda e un altro momento finale. Se la risurrezione di Cristo è la fine, c’è anche una fine della fine, quando anche questa progressiva partecipazione delle creature alla condizione del Signore risorto sarà conclusa. E questa è ciò che comunemente chiamiamo fine del mondo. 
Ma questa “fine della fine” sarà essa stessa una manifestazione di Cristo. Egli sarà dunque il “segno” anche di questa conclusione visibile della storia; la quale si esaurirà appunto quando «apparirà in cielo il segno del Figlio dell’uomo» (Mt 24,30). 
Allo stesso modo, il Risorto finalmente manifestato agli occhi di tutti – e non solo ai «testimoni preordinati» (At 10,41) – sarà il segno dello stato definitivo dell’universo. Egli sarà allora riconosciuto da tutti per quello che è: come il “Primo”, da cui prende inizio l’avventura di ogni esistenza creata, e come “l’Ultimo”, oltre il quale neppure l’affannosa e instancabile e sempre insoddisfatta ricerca umana potrà più andare. 
Allora la vicenda umana, sviluppata interamente secondo il disegno eterno e la trascendente sapienza di Dio, apparirà in tutta la sua superiore intelligibilità come un capolavoro d’amore e una sorprendente ragione di gioia. 



Ricorda

«Perciò anche voi state pronti, perché nell’ora che non immaginate. Il Figlio dell’uomo verrà». 
(Matteo 24,44).

 

IL TIMONE  N. 121 - ANNO XV - Marzo 2013 - pag. 48 - 49

Biffi Card. Giacomo

 

card. giacomo biffi

 

Ha ricevuto l'ordine sacro del sacerdozio a Milano il 23 dicembre 1950. È stato insegnante di teologia e parroco a Legnano e nella parrocchia di Sant'Andrea a Milano.Papa Paolo VI lo ha nominato vescovo titolare di Fidene e ausiliare del cardinale arcivescovo di Milano il 7 dicembre 1975; ha ricevuto l'ordinazione episcopale l'11 gennaio 1976.Promosso arcivescovo di Bologna, vi fece il solenne ingresso il 2 giugno 1984.Elevato al rango di cardinale da Giovanni Paolo II nel concistoro del 25 maggio 1985, è membro della Congregazione per l'evangelizzazione dei popoli, della Congregazione del clero e della Congregazione per l'educazione cattolica.Ritiratosi nel 2003 per raggiunti limiti d’età, conserva il titolo di arcivescovo emerito di Bologna.Nel 2007 ha tenuto gli esercizi quaresimali alla Curia romana e a Benedetto XVI.Dal 13 giugno 2008, avendo compiuto l'ottantesimo anno d'età, non è più un cardinale elettore. 







[Modificato da Caterina63 21/10/2014 19:08]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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21/10/2014 20:08
 
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  Risorgeremo




Non solo l'anima immortale, ma anche la nostra carne è destinata alla vita eterna.


 


Anche noi risorgeremo. E non solo con lo spirito. E nemmeno tramite una risurrezione corporea come quella di Lazzaro. Bensì ci apparterrà una realtà unica di spirito redento e corpo glorificato, simile a quella già manifestata in Gesù Cristo. Se non crediamo in questo non siamo cristiani, ma Sadducei.
I Sadducei si scontravano con i Farisei negando la risurrezione dei corpi. Ma Gesù e le Scritture, specialmente i Vangeli, promettono per i giusti una vera risurrezione, nella quale i primi cristiani credevano pienamente.

Nelle sue Lettere, san Paolo scrive: "E se lo spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi" (Rm 8,11). E altrove: "Se a causa di un uomo [Adamo] venne la morte a causa di un uomo [Cristo] verrà anche la risurrezione dei morti" (1 Cor 15,21).

Come si può osservare, l'affermazione che ci attende la risurrezione della carne è esplicita, ferma, indiscutibile e a ciò siamo tenuti a credere noi cattolici.

I Padri della Chiesa e la Tradizione nei secoli hanno confermato la fede nella risurrezione dei corpi. Tertulliano, nel De resurrectione carnis, scrive: "La risurrezione dei morti è la fede dei cristiani: credendo in essa siamo tali". Questa fede si sedimentò anche nel nostro Credo: "Credo la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà".

Il Concilio Lateranense IV (1215) insegna che "tutti risorgeremo con il proprio corpo che qui portiamo" (05, 801).

Il Catechismo della Chiesa Cattolica, al punto 990, recita: "La risurrezione della carne significa che, dopo la morte, non ci sarà soltanto la vita dell' anima immortale, ma che anche i nostri corpi mortali riprenderanno vita". E aggiunge: "Il 'come' supera le possibilità della nostra immaginazione e del nostro intelletto; è accessibile solo nella fede. Ma la nostra partecipazione all'Eucaristia ci fa già pregustare la trasfigurazione del nostro corpo per opera di Cristo" (n. 1000).

Occorre evitare i due estremi: "da una parte un materialismo primitivo il quale suppone che nella risurrezione noi riprenderemo la stessa materia, la stessa carne e le stesse ossa che abbiamo ora in questa vita. Ora sappiamo che già in questa vita la nostra materia muta ogni sette anni circa. L'identità della persona tra questa e l'altra vita non può dunque dipendere dall'identità della materia... Da li' altra, questa trasformazione non si può pensare nel senso di uno spiritualismo alieno dal mondo e unicamente fatto di spirito. Si tratta di una nuova corporeità, trasformata e trasfigurata dallo Spirito di Dio" (Catechismo Cattolico degli adulti, Conferenza Episcopale Tedesca, V, 2,3).

Sembra dunque superfluo porsi domande riguardo l'aspetto che avremo una volta risorti. Cristo Risorto appariva con l'aspetto che egli desiderava, poiché la sua corporeità era del tutto sottomessa alla volontà dello spirito. Anzi, scompariva anche agli sguardi a suo piacimento. E fuorviante sarebbe domandarci: "dove dimorerà il nostro corpo? In Cielo o sulla terra?".

La separazione fra Cielo e terra è una dicotomia contingente che appartiene al regno del peccato, e non alla Gerusalemme celeste. Le apparizioni di Cristo, l'Ascensione e, se vogliamo, le apparizioni di Maria ci indicano delle modalità di manifestazione che però non ci sottraggono al mistero. Certo è che in questo Eden, mai distrutto dalla mano di Dio ma anzi custodito dai Cherubini (Gen 3,24) godremo dei frutti dell'albero della vita e saremo irradiati dalla luce del Risorto.





IL TIMONE – N. 3 - ANNO I - Settembre/Ottobre 1999 - pag. 18


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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