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Enciclica del Papa 18 giugno 2015 “Laudato si’, sulla cura della casa comune”

Ultimo Aggiornamento: 09/02/2016 15:14
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11/12/2015 20:16
 
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  SU POVERTÀ E CLIMA IL PAPA SBAGLIA. PAROLA DI GESUITA.

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Il gesuita americano James V. Schall ci spiega che per combattere la povertà è più utile il capitalismo che il socialismo.

di Matteo Matzuzzi

Dire che il capitalismo è la causa della povertà non ha senso. Il fatto è che «la maggior parte degli americani è colpita dall’uso equivoco che fa il Santo Padre del termine “capitalismo”, descritto come qualcosa di cui sappiamo poco».

Come viene troppo equivocato, del resto, il significato di ineguaglianza e iniquità: «Quando Dio ha creato la gerarchia degli angeli, ha creato ciascuno di essi in modo diverso. Ancora, non direi che sia un’ingiustizia il fatto che una mucca non sia un cavallo o un angelo. Tutto questo è in Tommaso d’Aquino. Se ogni cosa è uguale, non si può trovare alcuna distinzione nelle cose».

James V. Schall S.J.
James V. Schall S.J.

James Schall, padre gesuita e fino a pochi anni fa titolare della cattedra di Filosofia politica alla Georgetown University di Washington, decine di saggi pubblicati (l’ultima fatica è “On Christians & Poverty”, 2015), discute con il Foglio di alcuni aspetti cardine del viaggio papale negli Stati Uniti, a cominciare dalla povertà. Francesco, al Congresso, ha incoraggiato rappresentanti e senatori a «non dimenticare tutte quelle persone intrappolate nel cerchio della povertà». Ha chiesto di dar loro speranza e ha auspicato che «la lotta contro la povertà e la fame» sia «combattuta su molti fronti».

Per prima cosa, spiega Schall, «se non tutti sono poveri il merito è proprio del capitalismo, inteso come innovazione, crescita, profitto, distribuzione e produttività». Il dato inconfutabile «è che la percentuale dei poveri nel mondo è in costante calo, e questo è un aspetto che viene troppo poco riconosciuto e spiegato». E ciò che impedisce a quella parte di popolazione che ancora vive nell’indigenza di sollevarsi, «non è di certo il capitalismo, bensì certe idee politiche o religiose unite a qualche fenomeno corruttivo. Si tratta di forze che lavorano in senso contrario alla riduzione della povertà». La causa, dice l’interlocutore, va cercata nelle politiche attuate dai governi degli stati moderni, in particolare quelli che adottano «certe varianti tipiche di un socialismo più o meno aperto. E il pensiero sociale cattolico raramente ha riconosciuto che i governi stessi, con la loro avidità, sono i primi ostacoli nell’aiuto dei poveri».

Padre Schall fa un esempio chiarificatore: «Le idee economiche latinoamericane spesso sembrano un’eredità del mercantilismo coloniale più che espressione di un capitalismo monopolista di stato». Dopotutto, «il libro più famoso nella storia dell’economia ha come titolo La ricchezza delle nazioni, non La povertà delle nazioni. In principio, tutti erano poveri. Ma il problema non è spiegare perché il povero fosse povero, bensì perché qualcuno non lo fosse».

Schall recupera sant’Agostino quando sosteneva che «sia il ricco sia il povero possono essere peccatori o virtuosi. Il ricco, insomma, non deve diventare povero per essere virtuoso, tantomeno il povero deve diventare ricco. Anche Aristotele ci viene in soccorso, dal momento che a suo giudizio la maggior parte delle persone necessita di una quantità sufficiente di beni per essere virtuosa. Ed è proprio questo ciò che la vera crescita economica cerca di realizzare. Il Papa stesso parla dei suoi amici ricchi come di uomini buoni e generosi».

«Quasi tutti riconoscono che l’avidità è un vizio, anche se probabilmente non così distruttivo quanto lo è l’invidia a lungo andare», chiosa l’interlocutore. È una sorta di rovesciamento degli schemi: «Sempre Aristotele ha chiarito che un uomo ricco non è necessariamente ingiusto perché è ricco e l’uomo povero non è virtuoso solo per il fatto di essere povero. Ognuno può salvare la sua anima nella condizione in cui si trova».

Per non distanziarsi troppo dalla realtà cristiana, padre Schall cita la Bibbia: «Quando sfogliamo quelle pagine, dovremmo chiederci in che modo i ricchi abbiano acquisito le loro ricchezze. Sappiamo da dove sono venuti i poveri, mentre i ricchi non hanno di certo solo rubato. Le loro ricchezze derivavano solo dallo sfruttamento? Ma la parabola dei talenti ci dice altro. L’uomo che ha dieci talenti, in conseguenza del suo investimento, ne ottiene altri dieci, venendo per questo lodato. L’uomo che non fa nulla viene invece castigato. Ecco, si può sostenere che il capitalismo è un sistema che universalizza questi princìpi basilari».

L’importante è non fare delle Sacre Scritture una sorta di “manuale di economia”: «Dio non ha rivelato a noi tutto ciò che serve per prosperare, ma solo un paio di cose che in effetti non siamo riusciti a comprendere da soli. Ci ha dato cervello, mani e tempo, lasciandoci la responsabilità di capire come avremmo potuto provvedere a noi stessi». E l’umanità lo ha capito, almeno in parte: «La scoperta di come superare il problema della povertà a livello mondiale è recente, come recente però è anche la scoperta dei metodi per controllare la vita umana». Le due cose stanno assieme, spiega Schall: «La maggior parte dei movimenti totalitari si erano presentati, e si presentano ancora, come sistemi finalizzati all’aiuto dei poveri, che nella realtà diventano oggetto di manipolazione ideologica e di auto-giustificazione. Poveri e ricchi hanno bisogno l’uno dell’altro, e ciò di cui tutti hanno bisogno è la crescita».

Il decano di Filosofia politica alla Georgetown sostiene che i poveri dovrebbero da soli uscire dalla loro condizione, senza troppi contributi esterni e nega che si tratti di qualcosa di rivoluzionario:

«È semplicemente un altro modo di affermare il principio di sussidiarietà. Innanzitutto, noi vogliamo che le persone non siano povere. Poi vogliamo che questi individui trovino la loro strada nel mondo. Spesso i poveri non sanno come fare per non essere poveri, ma il problema è che più spesso non lo sanno neppure i loro governi. Per uscire dalla loro condizione, allora, non possono fare altro che imparare da quelli che hanno già capito come non essere più poveri.
Bisogna dare un incentivo. Direi che la differenza tra nazioni “di successo” e nazioni “di insuccesso” sul terreno della riduzione della povertà si misura dal grado in cui esse hanno imparato come la libertà, la proprietà, il mercato, l’impresa, lo stato di diritto e la virtù possono andare di pari passo».

D’altronde, aggiunge, «la gran parte degli uomini e delle donne desidera non essere povera. Si tratta allora di imparare a percorrere le strade per trovare la ricchezza. Lo si può fare con l’istruzione, l’esempio e anche con la competizione presente nei meccanismi del mercato». Insomma, «chi ha bisogno di aiuto dovrebbe essere aiutato da chi sa aiutare. Il punto cardine del libero mercato sta proprio nel consentire ai poveri di uscire dallo stato di povertà grazie alle loro proprie forze».

A volte, sulla percezione equivoca del capitalismo di cui parlava l’interlocutore, può giocare anche una certa “narrativa apocalittica” propria del Papa?
Dipende. «Se si parla di “narrativa apocalittica” riguardo l’ecologia, si può dire che il Santo Padre la usa per parlare dei disastri causati dal riscaldamento della Terra. Io però ho il sospetto – sottolinea padre Schall – che, di fatto, queste tesi siano fondate su basi scientifiche e pratiche assai controverse. I discorsi sulle ricorrenti ere glaciali e sulle epoche temperate sembrano essere vecchi quasi quanto vecchia è la Terra stessa. A mio giudizio, la percentuale di ogni problema ambientale provocato dall’attività umana è relativamente modesta, ed è possibile affrontare le emergenze grazie alla nostra conoscenza e tecnologia. Un po’ di riscaldamento, poi, sembra essere addirittura benefico».

Se invece si parla di «narrativa apocalittica secondo quanto scriveva Robert Hugh Benson nel Padrone del Mondo, riferimento spesso citato da Francesco, in cui è rappresentata la fine dei tempi, mi viene da usare le parole di san Paolo: “Non conosciamo né il giorno né l’ora”. Oggi – prosegue – siamo riusciti a ribaltare gran parte dei princìpi fondamentali della legge naturale nelle nostre politiche pubbliche, al punto che lo stato moderno e la cultura spesso si distinguono solo per essere in contrasto con ciò che l’insegnamento classico ha indicato. Penso sia dovere del Papa ammonire un mondo che si sta formando contro l’espiclito insegnamento della ragione e del Vangelo».






CLIMA
 

Il summit mondiale del clima si conclude oggi. La bozza di accordo divulgata ieri rivela che è stato raggiunto un compromesso al ribasso. E' una concessione strappata da Cina e India all'alba del loro sviluppo industriale.
Ai paesi "poveri" sono comunque accordati 100 miliardi di dollari all'anno: perché evitino di crescere troppo.

di Stefano Magni
COP21


Parigi, la COP21, il summit mondiale sul cambiamento climatico, 195 paesi presenti, si conclude oggi con un accordo di compromesso al ribasso. Si doveva stabilire come frenare il processo previsto di riscaldamento globale, quanto ridurre le emissioni di Co2 e in quanto tempo, per impedire la crescita della temperatura sopra i 2 gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali (dando per scontato che le emissioni antropiche siano causa fondamentale del riscaldamento). Alla fine, escono più soddisfatte le nazioni in via di sviluppo più scettiche riguardo all’accordo, come Cina e India. Mentre associazioni ambientaliste occidentali, come Greenpeace, esprimono il loro disappunto con manifestazioni ad alto impatto scenico: un commando di militanti ha scalato l’Arco di Trionfo appendendovi striscioni, mentre altri militanti tingevano di giallo la rotonda e le strade radianti, ottenendo l’effetto di un gigantesco sole. E’ il loro modo di richiedere più investimenti nelle energie rinnovabili.

Sono molti gli obiettivi che sono già saltati nella prima bozza di accordo pubblicata ieri sera (il testo definitivo sarà divulgato solo oggi): si rinuncia al contenimento a 1,5 gradi centigradi dell’aumento della temperatura entro il 2050 (sostituito da un più vago “ben al di sotto dei 2 gradi centigradi”), si omette l’obiettivo della “de-carbonizzazione”, sostituito dal più vago riferimento alla “neutralità delle emissioni”. Infine, ma non da ultimo, non viene fissato alcun obiettivo in percentuale della riduzione delle emissioni entro il 2050 (rispetto al 2010) e non viene fissato neppure alcun termine temporale chiaro entro cui si deve raggiungere il picco delle emissioni. Massimo Caminiti, esperto dell’Enea nella delegazione italiana alla Cop21, ai microfoni diRaiNews24 ci aiuta a comprendere questo linguaggio oscuro, spiegando che: “Sicuramente questa bozza è meno ambiziosa della precedente soprattutto in riferimento alla parte relativa alle emissioni di Co2. Mentre in quella di prima c'era il riferimento a un obiettivo quantificato di riduzione, cioè del 40-90% al 2050 rispetto al 2010, nell'ultimo testo questo riferimento non c'è più. L'altro aspetto - dice Caminiti - è la neutralità carbonica che è diversa dall'obiettivo di emissioni zero dopo il 2050. Neutralità delle emissioni non necessariamente vuol dire ridurre le emissioni, perché si potrebbe emettere da una parte e ridurre e compensare da un'altra".

Quest’ultimo punto, in particolar modo, è una concessione a Cina e India che contano ancora molto sul carbone per il loro sviluppo industriale. Sono rispettivamente il primo e il terzo paese in fatto di inquinamento ed emissione di gas serra, ma non hanno intenzione di imporsi sacrifici sull’altare del clima. Non si tratta di disprezzo dell’umanità, ma semmai di un conto razionale di costi e benefici. Le popolazioni dei due giganti asiatici stanno uscendo solo negli ultimi tre decenni da una condizione di povertà assoluta. Prendiamo la Cina, ad esempio: registrava un tasso di povertà assoluta dell’80% nel 1981 (cioè: 8 cittadini su 10 vivevano al di sotto della soglia di sussistenza) mentre ora è poco meno del 10%. In India la situazione è ancor più in via di sviluppo. La percentuale di indiani che vivevano in condizioni di povertà assoluta era del 60% nel 1981 ed ora è al 30%, dimezzata ma ancora altissima. Questo percorso di emancipazione dalla miseria e di conquista di un primo benessere, chiaramente costa in termini ambientali. Vale la pena rinunciarvi? L’India del governo Modi e la Cina di Xi Jinping pensano, evidentemente, che questi obiettivi di contenimento del riscaldamento globale valgono solo fino a un certo punto. Se noi occidentali pensiamo alla “sostenibilità” in termini ambientali, a costo di rinunciare a un po’ di crescita economica, loro rispondono con la “sostenibilità” sociale, a costo di rinunciare a un po’ di obiettivi ambientalisti. La COP21 è dunque l’ulteriore dimostrazione che la battaglia per il riscaldamento globale è ancora un’idea per soli ricchi.

I paesi in via di sviluppo, presi nel loro complesso, hanno anche da festeggiare per quanto viene concesso loro in termini economici. E’ infatti stato stabilito, in modo definitivo ormai, che i paesi sviluppati dovranno finanziare quelli in via di sviluppo con un minimo di 100 miliardi di dollari all’anno, per metterli in condizioni di ridurre le emissioni. E’ un impegno economico che può essere aumentato nei prossimi incontri, ma mai ridotto al di sotto di questa soglia. E’ un finanziamento pari a circa la metà del Piano Marshall (espresso col valore attuale del dollaro), ma ripetuto ogni singolo anno. Secondo le stime esposte dal segretario di Stato americano John Kerry a Parigi, è una goccia nel mare: per adeguare il sistema energetico mondiale, occorrerebbero 50mila miliardi di dollari in investimenti nei prossimi 20 anni. Ma chi è “ricco” e chi è “povero”? Alla seconda categoria, anche oggi, appartengono sia la Cina che la ricchissima Arabia Saudita, fra le prime al mondo per reddito pro capite. E chi garantisce che quella gigantesca massa di finanziamenti vada realmente nelle tasche giuste? Considerando la fine che hanno fatto i precedenti piani di cooperazione e sviluppo a favore dei paesi dell’Africa nera e di quelli più poveri dell’Asia, il contribuente del mondo industrializzato non potrebbe dormire sonni tranquilli.

E alla fine il messaggio che passa, dopo questa settimana di fitti negoziati, è semplice e brutale al tempo stesso: alcuni paesi saranno pagati per rinunciare alla loro industrializzazione e resteranno dipendenti del mondo industrializzato. Pagheremo i poveri, perché restino poveri. Altre nazioni, in forza del loro peso politico ormai acquisito, non rinunceranno affatto al loro livello di inquinamento (o potranno pensarci con più calma) e in compenso percepiranno ugualmente i fondi del mondo industrializzato. La prospettiva per quest’ultimo, invece, sarà quella di rinunciare alla crescita e pagare per gli altri. Nel nome del clima.











[Modificato da Caterina63 12/12/2015 12:02]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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