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San Giovanni Paolo II La Dives in Misericordia ed altro materiale simile

Ultimo Aggiornamento: 29/03/2015 18:36
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29/03/2015 18:34
 
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IV – La parabola del figliol prodigo 

5. Analogia

Già alle soglie del Nuovo Testamento risuona nel Vangelo di san Luca una singolare corrispondenza tra due voci sulla misericordia divina, in cui echeggia intensamente tutta la tradizione veterotestamentaria. Qui trovano espressione quei contenuti semantici, legati alla terminologia differenziata dei libri antichi. Ecco Maria che, entrata nella casa di Zaccaria, magnifica il Signore con tutta l'anima «per la sua misericordia», di cui «di generazione in generazione» divengono partecipi gli uomini che vivono nel timore di Dio. Poco dopo, commemorando l'elezione di Israele, ella proclama la misericordia, della quale «si ricorda» da sempre colui che l'ha scelta. Successivamente, alla nascita di Giovanni Battista, nella stessa casa, suo padre Zaccaria, benedicendo il Dio di Israele, glorifica la misericordia che egli «ha concesso. . . ai nostri padri e si è ricordato della sua santa alleanza».

Nell'insegnamento di Cristo stesso questa immagine, ereditata dall'Antico Testamento, si semplifica ed insieme si approfondisce. Ciò è forse più evidente nella parabola del figliol prodigo, in cui l'essenza della misericordia divina, benché la parola «misericordia» non vi ricorra, viene espressa tuttavia in modo particolarmente limpido. A ciò contribuisce non tanto la terminologia, come nei libri veterotestamentari, ma l'analogia che consente di comprendere più pienamente il mistero stesso della misericordia, quale dramma profondo che si svolge tra l'amore del padre e la prodigalità e il peccato del figlio. Quel figlio, che riceve dal padre h porzione di patrimonio che gli spetta e lascia la casa per sperperarla in un paese lontano, «vivendo da dissoluto», è in certo senso l'uomo di tutti i tempi, cominciando da colui che per primo perdette l'eredità della grazia e della giustizia originaria. L'analogia è a questo punto molto ampia. La parabola tocca indirettamente ogni rottura dell'alleanza d'amore, ogni perdita della grazia, ogni peccato. In questa analogia è messa meno in rilievo l'infedeltà di tutto il popolo di Israele rispetto a quanto avveniva nella tradizione profetica, sebbene a quell'infedeltà si possa anche estendere l'analogia del figliol prodigo. Quel figlio, «quando ebbe speso tutto..., cominciò a trovarsi nel bisogno», tanto più che venne una grande carestia «in quel paese» in cui si era recato dopo aver lasciato la casa paterna. E in questa situazione «avrebbe voluto saziarsi» con qualunque cosa, magari anche «con le carrube che mangiavano i porci» da lui pascolati per conto di «uno degli abitanti di quella regione». Ma perfino questo gli veniva rifiutato.

L'analogia si sposta chiaramente verso l'interno dell'uomo. Il patrimonio che quel tale aveva ricevuto dal padre era una risorsa di beni materiali, ma più importante di questi beni era la sua dignità di figlio nella casa paterna. La situazione in cui si venne a trovare al momento della perdita dei beni materiali doveva renderlo cosciente della perdita di questa dignità. Egli non vi aveva pensato prima, quando aveva chiesto al padre di dargli la parte del patrimonio che gli spettava per andar via. E sembra che non ne sia consapevole neppure adesso, quando dice a se stesso: «Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza, ed io qui muoio di fame!». Egli misura se stesso con il metro dei beni che aveva perduto, che non «possiede» più, mentre i salariati in casa di suo padre li «posseggono». Queste parole esprimono soprattutto il suo atteggiamento verso i beni materiali; nondimeno, sotto la superficie di esse, si cela il dramma della dignità perduta, la coscienza della figliolanza sciupata. È allora che egli prende la decisione: «Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te; non sono degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni». Parole, queste, che svelano più a fondo il problema essenziale. Attraverso la complessa situazione materiale, in cui il figliol prodigo era venuto a trovarsi a causa della sua leggerezza, a causa del peccato, era maturato il senso della dignità perduta. Quando egli decide di ritornare alla casa paterna, di chiedere al padre di essere accolto - non già in virtù del diritto di figlio, ma in condizione di mercenario -, sembra esteriormente agire a motivo della fame e della miseria in cui è caduto; questo motivo è però permeato dalla coscienza di una perdita più profonda: essere un garzone nella casa del proprio padre è certamente una grande umiliazione e vergogna. Nondimeno, il figliol prodigo è pronto ad affrontare tale umiliazione e vergogna. Egli si rende conto che non ha più alcun diritto, se non quello di essere mercenario nella casa del padre. La sua decisione è presa in piena coscienza di ciò che ha meritato e di ciò a cui può ancora aver diritto secondo le norme della giustizia. Proprio questo ragionamento dimostra che, al centro della coscienza del figliol prodigo, emerge il senso della dignità perduta, di quella dignità che scaturisce dal rapporto del figlio col padre. Ed è con tale decisione che egli si mette per strada.

Nella parabola del figliol prodigo non è usato neanche una sola volta il termine «giustizia», cosi come, nel testo originale, non è usato quello di «misericordia»; tuttavia, il rapporto della giustizia con l 'amore che si manifesta come misericordia viene con grande precisione inscritto nel contenuto della parabola evangelica. Diviene più palese che l'amore si trasforma in misericordia quando occorre oltrepassare la precisa norma della giustizia: precisa e spesso troppo stretta. Il figliol prodigo, consumate le sostanze ricevute dal padre, merita - dopo il ritorno - di guadagnarsi da vivere lavorando nella casa paterna come mercenario, ed eventualmente, a poco a poco, di conseguire una certa provvista di beni materiali, forse però mai più nella quantità in cui li aveva sperperati. Tale sarebbe l'esigenza dell'ordine di giustizia, tanto più che quel figlio non soltanto aveva dissipato la parte del patrimonio spettantegli, ma inoltre aveva toccato sul vivo ed offeso il padre con la sua condotta. Questa, infatti, che a suo giudizio l'aveva privato della dignità filiale, non doveva essere indifferente al padre. Doveva farlo soffrire. Doveva anche, in qualche modo, coinvolgerlo. Eppure si trattava, in fìn dei conti, del proprio figlio, e tale rapporto non poteva essere né alienato né distrutto da nessun comportamento. Il figliol prodigo ne è consapevole, ed è appunto tale consapevolezza a mostrargli chiaramente la dignità perduta ed a fargli valutare rettamente il posto che ancora poteva spettargli nella casa del padre. 

6. Particolare concentrazione sulla dignità umana.

Questa precisa immagine dello stato d 'animo del figliol prodigo ci permette di comprendere con esattezza in che cosa consista la misericordia divina. Non vi è alcun dubbio che in quella semplice ma penetrante analogia, la figura del genitore ci svela Dio come Padre. Il comportamento del padre della parabola e tutto il suo modo di agire, che manifestano il suo atteggiamento interiore, ci consentono di ritrovare i singoli fili della visione vetero-testamentaria della misericordia in una sintesi totalmente nuova, piena di semplicità e di profondità. Il padre del figliol prodigo è fedele alla sua paternità, fedele a quell'amore che da sempre elargiva al proprio figlio. Tale fedeltà si esprime nella parabola non soltanto con la prontezza immediata nell'accoglierlo in casa, quando ritorna dopo aver sperperato il patrimonio: essa si esprime ancor più pienamente con quella gioia, con quella festosità cosi generosa nei confronti del dissipatore dopo il ritorno, che è tale da suscitare l'opposizione e l'invidia del fratello maggiore, il quale non si era mai allontanato dal padre e non ne aveva abbandonato la casa.

La fedeltà a se stesso da parte del padre - un tratto già noto dal termine vetero-testamentario «.hesed» - viene al tempo stesso espressa in modo particolarmente carico di affetto. Leggiamo infatti che, quando il padre vide il figliol prodigo tornare a casa, «commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò». Egli agisce certamente sotto l'influsso di un profondo affetto, e così può essere spiegata anche la sua generosità verso il figlio, quella generosità che tanto indigna il fratello maggiore. Tuttavia, le cause di quella commozione vanno ricercate più in profondità. Ecco, il padre è consapevole che è stato salvato un bene fondamentale: il bene dell'umanità del suo figlio. Sebbene questi abbia sperperato il patrimonio, è però salva la sua umanità. Anzi, essa è stata in qualche modo ritrovata. Lo dicono le parole che il padre rivolge al figlio maggiore: «Bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». Nello stesso capitolo XV del Vangelo secondo Luca, leggiamo la parabola della pecora ritrovata, e successivamente la parabola della dramma ritrovata. Ogni volta vi è posta in rilievo la medesima gioia presente nel caso del figliol prodigo. La fedeltà del padre a se stesso è totalmente incentrata sull'umanità del figlio perduto, sulla sua dignità. Così si spiega soprattutto la gioiosa commozione al momento del suo ritorno a casa.

Proseguendo, si può dunque dire che l'amore verso il figlio, L'amore che scaturisce dall'essenza stessa della paternità, obbliga in un certo senso il padre ad aver sollecitudine della dignità del figlio. Questa sollecitudine costituisce la misura del suo amore, L'amore di cui scriverà poi san Paolo: «La carità è paziente, è benigna la carità..., non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto..., si compiace della verità..., tutto spera, tutto sopporta» e «non avrà mai fine». La misericordia - come l'ha presentata Cristo nella parabola del figliol prodigo - ha la forma interiore dell'amore che nel Nuovo Testamento è chiamato «agápe». Tale amore è capace di chinarsi su ogni figlio prodigo, su ogni miseria umana e, soprattutto, su ogni miseria morale, sul peccato. Quando ciò avviene, colui che è oggetto della misericordia non si sente umiliato, ma come ritrovato e «rivalutato». Il padre gli manifesta innanzitutto la gioia che sia stato «ritrovato» e che sia «tornato in vita». Tale gioia indica un bene inviolato: un figlio, anche se prodigo, non cessa di esser figlio reale di suo padre; essa indica inoltre un bene ritrovato, che nel caso del figliol prodigo fu il ritorno alla verità su se stesso.

Ciò che si è verificato nel rapporto del padre col figlio nella parabola di Cristo non si può valutare «dall'esterno». I nostri pregiudizi sul tema della misericordia sono per lo più Il risultato di una valutazione soltanto esteriore. Alle volte, seguendo un tale modo di valutare, accade che avvertiamo nella misericordia soprattutto un rapporto di diseguaglianza tra colui che la offre e colui che la riceve. E, di conseguenza, siamo pronti a dedurre che la misericordia diffama colui che la riceve, che offende la dignità dell'uomo. La parabola del figliol prodigo dimostra che la realtà è diversa: la relazione di misericordia si fonda sulla comune esperienza di quel bene che è l'uomo, sulla comune esperienza della dignità che gli è propria. Questa comune esperienza fa sì che il figliol prodigo cominci a vedere se stesso e le sue azioni in tutta verità (tale visione nella verità è un'autentica umiltà); e per il padre, proprio per questo motivo, egli diviene un bene particolare: il padre vede con così limpida chiarezza il bene che si è compiuto, grazie ad una misteriosa irradiazione della verità e dell'amore, che sembra dimenticare tutto il male che il figlio aveva commesso.

La parabola del figliol prodigo esprime in modo semplice, ma profondo, la realtà della conversione. Questa è la più concreta espressione dell'opera dell'amore e della presenza della misericordia nel mondo umano. Il significato vero e proprio della misericordia non consiste soltanto nello sguardo, fosse pure il più penetrante e compassionevole, rivolto verso il male morale, fisico o materiale: la misericordia si manifesta nel suo aspetto vero e proprio quando rivaluta, promuove e trae il bene da tutte le forme di male esistenti nel mondo e nell'uomo. Così intesa, essa costituisce il contenuto fondamentale del messaggio messianico di Cristo e la forza costitutiva della sua missione. Allo stesso modo intendevano e praticavano la misericordia i suoi discepoli e seguaci. Essa non cessò mai di rivelarsi, nei loro cuori e nelle loro azioni, come una verifica particolarmente creatrice dell'amore che non si lascia «vincere dal male», ma si vince «con il bene il male». Occorre che il volto genuino della misericordia sia sempre nuovamente svelato. Nonostante molteplici pregiudizi, essa appare particolarmente necessaria ai nostri tempi. 

V – Il Mistero Pasquale 

7. Misericordia rivelata nella croce e nella resurrezione

Il messaggio messianico di Cristo e la sua attività fra gli uomini terminano con la croce e la risurrezione. Dobbiamo penetrare profondamente in questo evento finale che, specialmente nel linguaggio conciliare, viene definito mistero pasquale, se vogliamo esprimere sino in fondo la verità sulla misericordia, così come essa è stata sino in fondo rivelata nella storia della nostra salvezza. A questo punto delle nostre considerazioni, occorrerà avvicinarci ancora di più al contenuto dell'enciclica Redemptor hominis. Se infatti la realtà della redenzione, nella sua dimensione umana, svela la grandezza inaudita dell'uomo, che meritò di avere un così grande Redentore, al tempo stesso la dimensione divina della redenzione ci consente, direi, nel modo più empirico e «storico», di svelare la profondità di quell'amore che non indietreggia davanti allo straordinario sacrificio del Figlio, per appagare la fedeltà del Creatore e Padre nei riguardi degli uomini creati a sua immagine e fìn dal «principio» scelti, in questo Figlio, per la grazia e per la gloria.

Gli eventi del Venerdì santo e, prima ancora, la preghiera nel Getsemani introducono, in tutto il corso della rivelazione dell'amore e della misericordia, nella missione messianica di Cristo, un cambiamento fondamentale. Colui che «passò beneficando e risanando» e «curando ogni malattia e infermità» sembra ora egli stesso meritare la più grande misericordia e richiamarsi alla misericordia, quando viene arrestato, oltraggiato, condannato, flagellato, coronato di spine, quando viene inchiodato alla croce e spira fra tormenti strazianti. È allora che merita particolarmente la misericordia dagli uomini che ha beneficato, e non la riceve. Perfino coloro che gli sono più vicini non sanno proteggerlo e strapparlo dalle mani degli oppressori. In questa tappa finale della missione messianica si adempiono in Cristo le parole dei profeti e soprattutto di Isaia, pronunciate riguardo al Servo di Jahvè: «Per le sue piaghe noi siamo stati guariti».

Cristo, come uomo che soffre realmente e in modo terribile nell'orto degli ulivi e sul Calvario, si rivolge al Padre, a quel Padre il cui amore egli ha predicato agli uomini, la cui misericordia ha testimoniato con tutto il suo agire. Ma non gli viene risparmiata - proprio a lui - la tremenda sofferenza della morte in croce: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore», scriverà san Paolo, riassumendo in poche parole tutta la profondità del mistero della croce ed insieme la dimensione divina della realtà della redenzione. Proprio questa redenzione è l'ultima e definitiva rivelazione della santità di Dio, che è la pienezza assoluta della perfezione: pienezza della giustizia e dell'amore, poiché la giustizia si fonda sull'amore, da esso promana e ad esso tende. Nella passione e morte di Cristo - nel fatto che il Padre non risparmiò il suo Figlio, ma «lo trattò da peccato in nostro favore» - si esprime la giustizia assoluta, perché Cristo subisce la passione e la croce a causa dei peccati dell'umanità. Ciò è addirittura una «sovrabbondanza» della giustizia, perché i peccati dell'uomo vengono «compensati» dal sacrificio dell'Uomo-Dio. Tuttavia, tale giustizia, che è propriamente giustizia «su misura» di Dio, nasce tutta dall'amore: dall'amore del Padre e del Figlio, e fruttifica tutta nell'amore. Proprio per questo la giustizia divina rivelata nella croce di Cristo è «su misura» di Dio, perché nasce dall'amore e nell'amore si compie, generando frutti di salvezza. La dimensione divina della redenzione non si attua soltanto nel far giustizia del peccato, ma nel restituire all'amore quella forza creativa nell'uomo, grazie alla quale egli ha nuovamente accesso alla pienezza di vita e di santità che proviene da Dio. In tal modo, la redenzione porta in sé la rivelazione della misericordia nella sua pienezza.

Il mistero pasquale è il vertice di questa rivelazione ed attuazione della misericordia, che è capace di giustificare l'uomo, di ristabilire la giustizia nel senso di quell'ordine salvifico che Dio dal principio aveva voluto nell'uomo e, mediante l'uomo, nel mondo. Cristo sofferente parla in modo particolare all'uomo, e non soltanto al credente. Anche l'uomo non credente saprà scoprire in lui l'eloquenza della solidarietà con la sorte umana, come pure l'armoniosa pienezza di una disinteressata dedizione alla causa dell'uomo, alla verità e all'amore. La dimensione divina del mistero pasquale giunge, tuttavia, ancor più in profondità. La croce collocata sul Calvario, su cui Cristo svolge il suo ultimo dialogo col Padre, emerge dal nucleo stesso di quell'amore di cui l'uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio, è stato ratificato secondo l'eterno disegno divino. Dio, quale Cristo ha rivelato, non rimane soltanto in stretto collegamento col mondo, come creatore e ultima fonte dell'esistenza. Egli è anche Padre: con l'uomo, da lui chiamato all'esistenza nel mondo visibile, è unito da un vincolo ancor più profondo di quello creativo. È l'amore che non soltanto crea il bene, ma fa partecipare alla vita stessa di Dio: Padre, Figlio e Spirito Santo. Infatti, colui che ama desidera donare se stesso. La croce di Cristo sul Calvario sorge sulla via di quel meraviglioso scambio, di quel mirabile comunicarsi di Dio all'uomo, in cui è al tempo stesso contenuta la chiamata rivolta all'uomo, affinché, donando se stesso a Dio e con sé tutto il mondo visibile, partecipi alla vita divina, - e affinché come figlio adottivo divenga partecipe della verità e dell'amore che è in Dio e che proviene da Dio. Proprio sulla via dell'eterna elezione dell'uomo alla dignità di figlio adottivo di Dio, sorge nella storia la croce di Cristo, Figlio unigenito, che, come «luce da luce, Dio vero da Dio vero» (Credo), è venuto a dare l'ultima testimonianza della mirabile alleanza di Dio con l'umanità, di Dio con l'uomo - con ogni uomo. Questa alleanza, antica come l'uomo - risale al mistero stesso della creazione - e ristabilita poi più volte con un unico popolo eletto, è ugualmente l'alleanza nuova e definitiva, stabilita là, sul Calvario, e non limitata ad un unico popolo, ad Israele, ma aperta a tutti e a ciascuno.

Che cosa dunque ci dice la croce di Cristo, che è, in un certo senso, l'ultima parola del suo messaggio e della sua missione messianica? - Eppure, questa non è ancora l'ultima parola del Dio dell'alleanza: essa sarà pronunciata in quell'alba, quando prima le donne e poi gli apostoli, venuti al sepolcro di Cristo crocifisso, vedranno la tomba vuota e sentiranno per la prima volta l'annuncio: «È risorto». Essi lo ripeteranno agli altri e saranno testimoni del Cristo risorto. Tuttavia, anche in questa glorificazione del Figlio di Dio continua ad esser presente la croce, la quale - attraverso tutta la testimonianza messianica dell'Uomo-Figlio, che su di essa ha subito la morte - parla e non cessa mai di parlare di Dio-Padre, che è assolutamente fedele al suo eterno amore verso l'uomo, poiché «ha tanto amato il mondo - quindi l'uomo nel mondo - da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna». Credere nel Figlio crocifisso significa «vedere il Padre», significa credere che l'amore è presente nel mondo e che questo amore è più potente di ogni genere di male in cui l'uomo, L'umanità, il mondo sono coinvolti. Credere in tale amore significa credere nella misericordia. Questa infatti è la dimensione indispensabile dell'amore, è come il suo secondo nome e, al tempo stesso, è il modo specifico della sua rivelazione ed attuazione nei confronti della realtà del male che è nel mondo, che tocca e assedia l'uomo, che si insinua anche nel suo cuore e può farlo «perire nella Geenna». 

8. Amore più potente della morte, più potente del peccato

La croce di Cristo sul Calvario è anche testimonianza della forza del male verso lo stesso Figlio di Dio, verso colui che, unico fra tutti i figli degli uomini, era per sua natura assolutamente innocente e libero dal peccato, e la cui venuta nel mondo fu esente dalla disobbedienza di Adamo e dall'eredità del peccato originale. Ed ecco, proprio in lui, in Cristo, viene fatta giustizia del peccato a prezzo del suo sacrificio, della sua obbedienza «fino alla morte». Colui che era senza peccato, «Dio lo trattò da peccato in nostro favore». Viene anche fatta giustizia della morte che, dagli inizi della storia dell'uomo, si era alleata col peccato. Questo far giustizia della morte avviene a prezzo della morte di colui che era senza peccato e che unico poteva - mediante la propria morte - infliggere morte alla morte. In tal modo la croce di Cristo, sulla quale il Figlio consostanziale al Padre rende piena giustizia a Dio, è anche una rivelazione radicale della misericordia, ossia dell'amore che va contro a ciò che costituisce la radice stessa del male nella storia dell'uomo: contro al peccato e alla morte. La croce è il più profondo chinarsi della Divinità sull'uomo e su ciò che l'uomo - specialmente nei momenti difficili e dolorosi - chiama il suo infelice destino. La croce è come un tocco dell'eterno amore sulle ferite più dolorose dell'esistenza terrena dell'uomo, è il compimento sino alla fine del programma messianico, che Cristo formulò una volta nella sinagoga di Nazaret e ripeté poi dinanzi agli inviati di Giovanni Battista. Secondo le parole scritte già nella profezia di Isaia, tale programma consisteva nella rivelazione dell'amore misericordioso verso i poveri, i sofferenti e i prigionieri, verso i non vedenti, gli oppressi e i peccatori. Nel mistero pasquale viene oltrepassato il limite del molteplice male di cui l'uomo diventa partecipe nell'esistenza terrena: la croce di Cristo infatti ci fa comprendere le più profonde radici del male che affondano nel peccato e nella morte, e cosi diventa un segno escatologico. Soltanto nel compimento escatologico e nel definitivo rinnovamento del mondo, l'amore in tutti gli eletti vincerà le sorgenti più profonde del male, portando quale frutto pienamente maturo il Regno della vita e della santità e dell'immortalità gloriosa. Il fondamento di tale compimento escatologico è già racchiuso nella croce di Cristo e nella sua morte. Il fatto che Cristo «è risuscitato il terzo giorno» costituisce il segno finale della missione messianica, segno che corona l'intera rivelazione dell'amore misericordioso nel mondo soggetto al male. Ciò costituisce al tempo stesso il segno che preannuncia «un nuovo cielo e una nuova terra», quando Dio «tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate».

Nel compimento escatologico la misericordia si rivelerà come amore, mentre nella temporaneità, nella storia umana, che è insieme storia di peccato e di morte, l'amore deve rivelarsi soprattutto come misericordia ed anche attuarsi come tale. Il programma messianico di Cristo - programma di misericordia - diviene il programma del suo popolo, il programma della Chiesa. Al centro di questo sta sempre la croce, poiché in essa la rivelazione dell'amore misericordioso raggiunge il suo culmine. Fino a che «le cose di prima» non passeranno, la croce rimarrà quel «luogo» al quale potrebbero riferirsi ancora altre parole dell'Apocalisse di Giovanni: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me. In modo particolare, Dio rivela anche la sua misericordia quando sollecita l'uomo alla «misericordia» verso il suo proprio Figlio, verso il crocifisso. Cristo, appunto come crocifisso, è il Verbo che non passa, è colui che sta alla porta e bussa al cuore di ogni uomo, senza coartarne la libertà, ma cercando di trarre da questa stessa libertà l'amore, che è non soltanto atto di solidarietà con il sofferente Figlio dell'uomo, ma anche in certo modo «misericordia» manifestata da ognuno di noi al Figlio dell'eterno Padre. In tutto questo programma messianico di Cristo, in tutta la rivelazione della misericordia mediante la croce, potrebbe forse essere maggiormente rispettata ed elevata la dignità dell'uomo, dato che egli, trovando misericordia, è anche, in un certo senso, colui che contemporaneamente «manifesta la misericordia»?

In definitiva, Cristo non prende forse tale posizione nei riguardi dell'uomo quando dice: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi..., l'avete fatto a me»? Le parole del discorso della montagna: «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia», non costituiscono in un certo senso una sintesi di tutta la Buona Novella, di tutto il «mirabile scambio» (admirabile commercium) ivi racchiuso, che è una legge semplice, forte ed insieme «dolce» dell'economia stessa della salvezza? Queste parole del discorso della montagna, facendo vedere nel punto di partenza le possibilità del «cuore umano» («essere misericordiosi»), non rivelano forse secondo la medesima prospettiva il profondo mistero di Dio: quella inscrutabile unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, in cui l'amore, contenendo la giustizia, dà l'avvio alla misericordia, che a sua volta rivela la perfezione della giustizia?

Il mistero pasquale è Cristo al vertice della rivelazione dell'inscrutabile mistero di Dio. Proprio allora si adempiono sino in fondo le parole pronunciate nel cenacolo: «Chi ha visto me, ha visto il Padre». Infatti Cristo, che il Padre «non ha risparmiato» in favore dell'uomo -e che nella sua passione e nel supplizio della croce non ha trovato misericordia umana, nella sua risurrezione ha rivelato la pienezza di quell'amore che il Padre nutre verso di lui e, in lui, verso tutti gli uomini. «Non è un Dio dei morti, ma dei viventi». Nella sua risurrezione Cristo ha rivelato il Dio dell'amore misericordioso, proprio perché ha accettato la croce come via alla risurrezione. Ed è per questo che - quando ricordiamo la croce di Cristo, la sua passione e morte - la nostra fede e la nostra speranza s'incentrano sul Risorto: su quel Cristo che «la sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato... si fermò in mezzo a loro» nel cenacolo «dove si trovavano i discepoli, ...alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati, saranno rimessi, e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi». Ecco il Figlio di Dio, che nella sua risurrezione ha sperimentato in modo radicale su di sé la misericordia, cioè l'amore del Padre che è più potente della morte. Ed è anche lo stesso Cristo, Figlio di Dio, che al termine - e in certo senso già oltre il termine - della sua missione messianica, rivela se stesso come fonte inesauribile della misericordia, del medesimo amore che, nella prospettiva ulteriore della storia della salvezza nella Chiesa, deve perennemente confermarsi più potente del peccato. Il Cristo pasquale è l'incarnazione definitiva della misericordia, il suo segno vivente: storicosalvifìco ed insieme escatologico. Nel medesimo spirito, la liturgia del tempo pasquale pone sulle nostre labbra le parole del Salmo: Canterò in eterno le misericordie del Signore. 


 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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