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San Filippo Neri Dell'amore al proprio disprezzo

Ultimo Aggiornamento: 03/05/2015 00:51
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03/05/2015 00:45
 
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42. In questo medesimo tempo, in cui ci mancano i disprezzi, sarà espediente il riflettere a innumerevoli servi di Dio, che sono stati nei secoli passati, lo sono nel presente, e lo saranno nei futuri, il bersaglio dei vilipendi e dei disonori, a fronte della loro innocenza e illibatezza di vita; dei quali però, il mondo non è stato, non è, e non sarà mai degno: e quantunque, come uomini, essi sentano le amarezze e le punture dell'oppressione e del disprezzo, pur lo soffrono volentieri, e lo amano, e ne benedicono Dio. In faccia a questi tali nei ci umilieremo profondissimamente, conoscendo di non esser degni d'imprimer baci sul suolo, che essi calcano con i piedi, mentre di loro si può dire che senza merito nuotano nei vilipendi, e noi con tutto il Merito ne andiamo esenti. Quindi concepiremo una santa invidia della loro bella sorte, che cotanto gli assomiglia a Gesù, della quale noi siamo affatto immeritevoli. E per entrare anche noi in qualche maniera a parte della loro virtù e dei loro merito, procureremo di unirci al loro spirito con l'intima compassione e con le ardenti preghiere a Dio, perché li rinforzi, e con usar loro i più amorevoli uffici di carità, che ci saranno possibili, per sollevarli, consolarli, corroborarli, difenderli e proteggerli.

Se poi ci imbattiamo in persone per le loro colpe spregiate e avvilite, che soffrono con pazienza la loro umiliazione, umiliamoci ancor qui, col riflesso e con la persuasione, ch'esse avranno sempre minor merito di disprezzo di quello che abbiamo noi; e frattanto per un tal mezzo si purgano dalle loro macchie; del qual bene noi restiamo privi, prevedendo Dio, come può credersi, che noi posti alla prova del disprezzo, per l'estrema nostra fragilità, invece di scontare le antiche colpe, ne aggiungeremmo delle nuove con replicati atti d'impazienza, di collera, di superbia; e che gli uomini ancora, consapevoli della nostra arroganza, si astengono dal riprenderci, per timore di vederci prorompere in eccessi di orgoglio e di rabbia, e per non toccare un fetidissimo pantano, capace d'infettar l'aria con le sue abominevoli esalazioni, per poco, che sia stuzzicato. Che se all'opposto ci è noto esservi alcuni, che in mezzo ai vilipendi perdono la pazienza, oppure per altri capi cadono in colpe considerabili, Dio ci guardi dal concepir disprezzo verso di essi. Questo è un punto di grande importanza, e perciò merita, che sia esposto qui con più riflessione. Egli è purtroppo vero che una delle cose, che più suole esser d'inciampo agli uomini deboli e mal fondati nello spirito della santa umiltà, e nel'amore ai disprezzo, si è il vedere bene spesso molte persone ripiene di mancamenti e di colpe anche molto gravi, dalle quali sembra ad essi essere molto lontani, e quasi si reputano come incapaci a commetterle: onde facilmente ne segue, che concepiscono una disistima grande di quei meschini, unita molte volte ad amarezza e contro genio assai forte, il quale anche giunge talora a farli perdere la pace dei cuore, e l'attenzione a se stessi e alle proprie mancanze e miserie, delle quali sono ricolmi; e quindi facilmente nasce altresì, senza che neppure se ne accorgano, il dar fomento alla propria superbia, e il mettersi al di sopra di quei difettosi, e, passo passo, si arriva a perder l'amore al proprio disprezzo e forse anche si giunge a disprezzare il prossimo. 

Perciò conviene applicarsi con tutto lo studio in tali casi che avvengono spesso, a ben premunirci, ed esser solleciti di ricavare dallo stesso veleno una salutevole medicina, e da ciò che potrebbe ravvivare l'orgoglio trarre un oggetto più forte ad umiliarci davvero e ad amar con impegno il proprio disprezzo. Per animarci a questo, possono valere più riflessioni sopra esposte; ed altre due qui se ne aggiungono molto efficaci. La prima, di trarre motivo dalla debolezza e peccati degli altri, per vieppiù umiliare noi medesimi, e disprezzarci; poiché qui meglio si vede, che cosa è l'uomo, e dove siamo disposti a precipitare noi stessi, i quali, costituiti, come suoi dirsi, nei piedi loro, facilmente commetteremmo i medesimi, e forse anche peggiori eccessi, se Dio non ci sostenesse con uno speciale possente aiuto: essendo certissimo il detto di s. Agostino: non c'è male che l'uomo faccia, che un altro uomo non possa fare, se manca il reggitore da cui l'uomo è stato fatto (Non est malum quod facit homo, quod non potest facere alter homo, si desit Rector, a quo factus est homoHom. 23): e lo stesso santo dottore ci avverte, che dei peccati da noi non fatti per una speciale assistenza di Dio, siamo a lui debitori, come di quelli che ci ha perdonati. La seconda riflessione sia questa: che siccome ciascuno, che è amante del vero, dell'umiltà e di Dio, deve, come si è dimostrato già innanzi, reputar sé unicamente, e non alcun altro vivente in terra, meritevole del disprezzo; e così, quanto è atto buono e conforme allo spirito di Gesù, vilipendere se stesso, altrettanto sarebbe atto vizioso il vilipendere il suo prossimo, sebbene manchevole e reo di molte colpe. Quindi ecco la bella pratica, che deve usare in simili circostanze ciascuno, con interno parlare a sé medesimo.

Se il mio prossimo, che deve esser da me apprezzato e onorato, cadrà, o è caduto al basso per i suoi eccessi, anche enormi, a me conviene più che mai gettarmi nel profondo, affinché sempre io gli resti al di sotto, come lo richiede la giustizia, secondo quel gran principio, che io, e non gli altri, sono il soggetto a cui si deve ogni disprezzo. Che perciò gli altrui peccati ed enormità sempre più mi debbono impicciolire e confondere, annientare e farmi credere meritevolissimo di nuovi, e maggiori vilipendi ed obbrobri, e ridurmi affatto e per sempre allo stato, che io non possa giammai neppure pensare ad alzare il capo. E in conseguenza di ciò, anche per le altrui colpe, debbo prepararmi ed aspettarmi altre umiliazioni, e prenderle volentieri, se mi arrivano; sì perché Gesù mi guardi dal cadere pur io in simili ed anche peggiori colpe, come purtroppo sarebbe facilissimo ad avvenire, se Gesù benedetto mi sottraesse il concorso della sua pietosa assistenza, sì ancora per ottener misericordia ai miei fratelli peccatori. Una tal pratica, oltre il giovarci sommamente per in capi, ci tiene, come ognun vede, lontani la superbia (che come si è detto, spesso risvegliasi alla vista degli altrui trascorsi e cadute) e ci aumenta a dismisura il basso sentimento e disprezzo di noi stessi.

43. Sarà bene ancora, insistere in tal congiuntura singolarmente, e con maggiore attenzione esercitarsi in tutte quelle umiliazioni, che dipendono da noi, e oltre alle interiori, venire anche alle esteriori, per non illanguidirsi nell'amore e studio del disprezzo; quindi è che gioverà assai il praticare alle occasioni, anche nelle piccole cose, la vera obbedienza, come quella che ci impegna a fare a Dio un sacrificio della nostra propria volontà e giudizio; e in conseguenza ci conduce ben tosto a vilipendere ciò che abbiamo di più caro, che è il nostro intelletto e volere, con la nostra propria libertà. Per lo che ci ingegneremo ancora di esercitare gli uffici e le operazioni più laboriose e più vili ed abiette e ripugnanti alla nostra natura, e senza alcuno interesse, e quelle singolarmente che altri non possono e non vogliono fare, e scegliere per sé il peggio, ambire l'ultimo luogo, lasciando ad altri l'occuparsi in quel che è più onorevole, vantaggioso e giocondo, conforme l'avviso del Redentore: va' a metterti all'ultimo posto e ancora, se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli (Lc 14,10; Mt 18,3). 

Così ameremo di servire, di supplire, di condiscendere, conservando sempre un'avversione somma al vizio di star sopra gli altri, e un amor grande alla soggezione a ciascuno, preferendo sempre ogni altro a sé, per debole o malvagio che questi sia, secondo l'avviso del grande apostolo:ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso (Fil 2,3) cercando in ogni occasione che si presenti, di sottomettersi a tutti, d'essere gli ultimi a parlare, non avendo però giusto motivo di procedere diversamente, i primi a quietarci, i primi a cedere, i primi a darci il torto, i primi a inchinarci, e torre di mezzo le scambievoli amarezze, sebbene gli offesi fossimo stati noi, anche più gravemente degli altri, con rendere le bramate soddisfazioni, e chiedere scusa e perdono, e dichiararci anche rei; non lamentarci mai di qualunque sgradevole trattamento, non alzar la voce, non far pompa di noi e delle cose nostre, né dei nostri fatti, né parlarne senza una legittima causa, non rammentar senza bisogno la propria persona, persuasi, che non si nominano da chi ha senno gli oggetti vili e disprezzevoli: racchiudere dentro di noi ciò che può ridondare in nostra lode ed estimazione: non ostentare il proprio giudizio, ed i propri pensieri e produzioni, come se fossero qualche cosa di buono. noti esser facili a dar sentenze sopra le altrui operazioni, non pretendere senza grave motivo di tirar altri nei propri sentimenti e voleri, e molto meno d'imporre: esser nemici del proprio voglio, amar la soggezione, la dipendenza, il consiglio, la correzione; usare un portamento, un tratto, un contegno umile e moderato, per quanto è possibile e non recare ad altri il minimo incomodo ed aggravio. 

Con queste ed altre simili industrie, conviene esercitare l'amore al disprezzo in tutti i tempi, ma con un impegno speciale, quando i disprezzi ci mancano per altra parte, per non restar defraudati, e privi in tutto del merito e vantaggio che al cristiano deriva dall'amorosa tolleranza dei vilipendi; avendo però sempre riguardo, che le umiliazioni esteriori provengano da uno spirito umiliato nel proprio interno e dinanzi a Dio, onde non ci facciano comparire umili, ma piuttosto vili ed abbietti; e che finalmente siano regolate con discrezione e prudenza. Con tali atti esteriori con fedeltà praticati, ci faremo scala per sollevarci ai più perfetti atti interiori; essendo solito Dio di aiutare mirabilmente chi dal canto suo fa quanto può, e di infondere a chi usa costantemente tali mezzi, l'umiltà e l'amore al disprezzo.

44. Agli amanti del disprezzo non mancano industrie per procacciarsi qualche avvilimento, singolarmente in quei tempi, in cui sono lasciati vivere in pace, e ne prendono l'occasione dalle loro imperfezioni e difetti. Certo è, che ogni uomo è soggetto, anche senza alcuna sua colpa, a molti difetti originati dal nostro nulla natio, nell'anima e nel corpo e nell'esser naturale e nell'esser civile e nell'esser morale, e nell'interno e nell'esterno e nella propria persona e nei suoi annessi e attenenti. E quante belle congiunture per conseguenza si offrono a chi ama il disprezzo, di trarne sopra di sé qualche porzione, con non occultare, anzi con metter fuori ed esporre alla luce queste sue mancanze, senza offesa di alcuno, ma a sola rovina del proprio orgoglio? Così volendo l'uomo per amore dell'esinanito suo Dio umiliarsi, o per mezzo di parole e d'interrogazioni insulse e male a proposito, o con gesti o con azioni in apparenza leggere, o con lo stesso silenzio in certe circostanze, e in cento altre guise, che la sola brama del disprezzo è capace d'insegnare; or può comparire ignorante, or dimentico, or balordo, or incivile, or senza la dovuta prudenza, or senza spirito e coraggio, or senza riflessione e avvertenza, or senza senno sufficiente a un uomo della sua condizione ed età: or può mettere in vista la propria inabilità per infinite cose, or la sua imperizia in rapporto ad innumerabili oggetti, or la bassezza della nascita, or la povertà: nascondere quel che egli sa, può e ha, e che saputo dagli altri ridondar potrebbe in sua lode e decoro (purché la gloria d Dio e la carità non richiedano diversamente) e spacciare e far noto quel che non sa, non può, e non ha, acciocché gliene torni vilipendio e disprezzo. 

Vi sono poi i difetti nell'uomo, che contengono colpa dinanzi a Dio, che sono molto peggiori, e senza numero, e di questi ancora, a tempo e luogo, può valersi per fare acquisto d'umiliazioni e disprezzi, perché la gente deponga quel favorevole concetto che aveva formato di lui, e vile lo reputi e di nessun conto. Quel grande amico del disprezzo S. Filippo Neri si rese ammirabile in questa parte adoperando mille e mille artifici per ottenere di esser reputato un uomo senza virtù, un imperito, uno sciocco, un pazzo. S. Giovanni di Dio, S. Simeone Salo, il b. Giovanni Colombino, e molti altri furono eccellenti in quest'esercizio medesimo. Ma riflettasi che questi e simili esempi di santi non si propongono, perché indifferentemente siano imitati da tutti, quanto almeno alla loro estensione, non convenendo anche a tanto impegnarsi senza un particolare impulso dello Spirito Santo; ed essendo necessarissimo che simili pratiche siano regolate dalla cristiana prudenza, dalla discrezione e dall'obbedienza. Si rammentano bensì, perché l'uomo anche in questo genere di umiliazioni si eserciti ai suoi tempi, e vada egli in cerca di qualche disprezzo, singolarmente quando se ne trova in penuria, e con essere egli il primo a cavar fuori opportunamente le proprie viltà, che gli cagionano rossore, a poco a poco s'avvezzi a soffrire volentieri, che gli siano rinfacciate da altri: il che è molto più malagevole e penoso.

45. Una somma premura si usi, che gli atti descritti fin qui di umiliazione e di amore al proprio disprezzo, siano in primo luogo vigorosi e forti, perché si tratta di espugnare un nemico fierissimo e robustissimo, qual è la superbia, e con essa l'amor proprio. Per giungere a ciò, gioverà moltissimo la pratica inculcata da S. Filippo Neri: ed è questa: quando ci avviene qualche disprezzo, e la natura comincia a risentirsene, volgersi subito coraggiosamente a non far caso di quel disprezzo, che è quanto dire a disprezzare di essere disprezzati: spernere se sperni: e ancora utile cosa sarà, impiegarsi in tale occasione in fare atti interni di disprezzo di sé medesimo, riconoscendosi meritevole di maggiori disprezzi; nel che consiste, come nota Riccardo di s. Vittore, la vera umiltà:humilis est qui seipsum apud semetipsum veraciter contemnit (È umile chi sinceramente si disprezza in sé, Lib. 2. c 52. de erud. inter hom.).
E poiché spesso avviene, che quando un affronto ricevuto è più sensibile, se si tace colla lingua senza sfogarsi, si lavora con la mente anche a ore ed a giorni, riconoscendo quell'affronto come ingiusto, e come un torto che ci è stato fatto; e allora talvolta non giova in quella turbolenza ricorrere ai motivi del merito del disprezzo: perciò invocato il divino aiuto, si volga subito la mente ad altro, anche a cose indifferenti; ma quest'atto bisogna farlo non con languidezza, ma con impegno ben grande. Di grazia non si trascuri una tal pratica.

In secondo luogo importa che siano continuati senza interruzione gli atti di amore al disprezzo; onde dobbiamo sommamente avvertire a non stancarsi, a non annoiarsi ed intiepidirci in questo santo esercizio: e molto meno si ha da dire basta fin quinon ne posso più; e frattanto, sospirare al riposo, e bramare e cercare di esser lasciati vivere in pace senza disprezzi. Anzi, al contrario, dopo aver ricevuto un disprezzo e dopo aver fatto ogni sforzo per trarne profitto, prepariamoci con nuovo ardore a riceverne un altro anche maggiore e più sensibile; onde il calore, l'impegno, l'uso, l'applicazione a simili atti non venga mai meno né si raffreddi: al che dobbiamo noi badare sommamente; altrimenti, se si lascia vivere in pace il feroce nemico del nostro disprezzo, che è l'amor proprio, senza caricarlo di nuovi colpi, sebbene apparisca talvolta affievolito, spossato e mezzo morto, ripiglia ben presto nuove forze; e tornato in campo con maggior vigore ci sorprende con grande impeto e facilmente, ci abbatte: che perciò segue spesso che, con la sospensione della guerra e dell'ostilità, in breve tempo perde il cristiano quella virtù e quel predominio di sé, che per lungo tempo si era procurato con l'esercizio di molti atti.

In terzo luogo importa, che questi atti siano perseveranti fino all'ultimo e fino ad ottenersi una completa vittoria, la quale solo con la perseveranza si acquista, onde non bisogna mai stancarsi a combattere e ogni dì farsi da capo. E finalmente, siano uniti tali atti con la viva speranza, che è il corredo ed il sostegno della santa umiltà, talmente che col lungo uso degli atti di queste due sì necessarie virtù, ci avvezziamo quasi con un unico movimento a disperare di noi e confidare in Dio, a umiliare noi e magnificare il Signore, a fuggire lungi da noi, come da un mostro ferale, e rifugiarci e perderci in Dio, che è l'unico e il sommo bene.

46. Se troppo ardito e doloroso ci sembra un tale esercizio circa il disprezzo, per riguardo singolarmente alla sua non interrotta durata, per esser questa in molti modi contraria all'indole e condizione dell' uomo, è necessario che stampiamo a lettere di diamante nel fondo del nostro cuore quel grande avviso e sentenza da Cristo a tutti intimata: a tutti, diceva: "Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua". (Lc 9,23). O parole degne di esserci sempre dinanzi agli occhi, e di occupar dei continuo i nostri pensieri ed affetti! Chi dunque rinunzia al quotidiano contrasto con se medesimo, e al quotidiano travaglio e patire; sia di qualunque condizione, si vuole, non può dispensarsi dal rinunciare al carattere di vero discepolo e di seguace vero del buon Gesù. Vada piuttosto in malora tutta l'umana superbia ed amor proprio, anche per mezzo di continui e ben penetranti disprezzi, anziché si rinunzi a Gesù Cristo ed all'amor suo.

47. Per renderci più forti a perseverare nell'amor del disprezzo, uno dei mezzi più efficaci è questo (e più volte in questa operetta si è notato) di portare altamente impressa nella mente e nel cuore una viva, affettuosa, e continua rimembranza di Gesù: il più innocente, il più amabile, il più santo infinitamente di tutti, umiliato per noi sino alla morte di croce, e il vivere sempre in atto di riguardar questo prezioso originale e modello, a cui dobbiamo conformarci tenendo fisso lo sguardo su Gesù, avvisa s. Paolo, autore e perfezionatore della fede. Egli in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l'ignominia, e si è assiso alla destra del trono di Dio (Eb 12,2). La congiunzione con il Crocifisso non può non esserci in sommo grado vantaggiosa, perché finalmente tutto lo spirito buono, tutte le grazie, tutte le celesti influenze sgorgano dalla croce del Salvatore, come da suo fonte e sorgente; e quanto più un cristiano se gli tiene ben unito, più entra a parte dei vero bene, e nelle umiliazioni ci trova la gloria. 

Cristiani fratelli miei, pensate ben seriamente a questa gran verità: Gesù è il nostro sovrano padrone, il nostro Dio, e in conseguenza un bene infinito: noi siamo suoi miseri servi, e dinanzi a lui compariamo un niente. 
Or se un tal padrone si è reso sovra un infame patibolo il bersaglio di tutti gli obbrobri per puro amor nostro, che dovrà fare un vile servo? Se il tutto è annientato, chi è un nulla non si farà un pregio di esser trattato da nulla? Un servo non è più grande del suo padrone, disse già Cristo Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi (Gv 15,20) Dove sono io, là sarà anche il mio servo (Gv 12,26). 
Gesù infinitamente santo, e innocente in se medesimo, perché per mera carità sostenne la figura e l'ombra di peccatore nel mondo, fu l'infamia degli uomini, rifiuto del popolo (cf. Sal22 (21),7) e s'immerse in un mare di ignominie per soddisfare alla divina giustizia per peccati non suoi; chi di peccatore ha tutto il carattere, la sostanza e la verità, chi può contare più colpe da se commesse, che non ha capelli in capo, non si adatterà di buona voglia al disprezzo, per saldare le terribili sue partite di debito contratto con Dio? Oh chi ci desse di entrare nei sentimenti, del compunto ladrone pendente al lato del moribondo Gesù, quanto saremmo avventurosi! Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male (Lc 23,41). Quanto dolci allora, e preziose, ci sembrerebbero le umiliazioni ! Altrimenti ci debbono far tremare quelle misteriose parole dell' appassionato Redentore: se trattano così il legno verde, che avverrà del legno secco (Lc 23,31)? 

Aggiungasi che Gesù, nel ridursi a tale stato di umiliazione, ebbe in mira d'impegnarci coi suoi esempi sì strepitosi a tenergli dietro, ad abbassarci con lui, e di buon cuore abbracciare i disprezzi: Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme (1 Pt 2,21). E che sarà di noi, se rendiamo vani ed inutili i suoi disegni; e a fronte dell'annichilamento del nostro Dio, non ameremo l'abiezione, e non collocheremo piuttosto la nostra gloria negli abbassamenti? Possibile che lo sguardo di un Dio crocifisso, disprezzato abbandonato, e divenuto un famoso oggetto di derisione e di scherno, non ci rischiari la vista, non ci penetri sino alle viscere, non ci ferisca il cuore, e sbanditane l'alterigia, non ci affezioni alle umiliazioni? Ma qui si aggira tutto il presente affare, che, quando ci parrà di trovarci aggravati di vilipendi, e ne sentiremo l'acerba pena e la ripugnanza del senso, allora rendiamoci familiare, e più che sia possibile continua, una tal vista del Crocifisso, se bramiamo provarne i buoni effetti: pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d'animo (Eb 12,3) e confrontando così le nostre umiliazioni con quelle di Gesù, raccoglieremo a questa pietra di paragone, che il disprezzato è Gesù, e non siamo altrimenti noi disprezzati, checché ne dica la nostra superbía; e che anzi noi siamo trattati in comparazione di lui, da signori, da persone di pregio, di merito e di distinzione, e che siamo onorati, e con noi si procede con riguardo, con rispetto e con una impercettibile riserva: laddove Gesù fu trattato peggio di un servo e di uno schiavo il più vile, peggio di una bestia, e come il maggior peccatore dei mondo. O Dio, o Dio! E di che dunque ci lamentiamo? 
Ah! Che le nostre querele ci debbono ricolmare di vergogna, e di estrema confusione, e farci intendere, che in noi languisce la fede, e non conosciamo Gesù, e che abbiamo perduto il senno. 

E con la vista del Crocifisso, ripensando alle innumerevoli volte che negli anni scorsi ci siamo lagnati dei vilipendi e dei torti anche leggeri a noi fatti, ci arrossiremo altamente di noi medesimi, ne chiederemo di cuore perdono a Gesù, con vigorosa risoluzione d'imitarlo col suo aiuto, adesso e per l'avvenire, nell'amore del disprezzo per tanti capi dovutoci. Ma bisogna riflettere che non basta qualche occhiata breve, superficiale e di volo a Gesù crocifisso, perché l'amor proprio e la superbia hanno gettato radici troppo profonde nei nostri cuori; e colpi deboli e passeggeri non servono per strapparle. Ci vuole una tale moltiplicazione di sguardi e di applicazione, che il Crocifisso ci si stampi nel cuore, la sua veduta ci diventi stabile e permanente, in guisa che, per la forza dell'abito, nelle occasioni di oltraggi, massimamente quando sono repentini, ci riesca fatto di mirar Cristo in croce e di esclamare: ha patito ben altro il mio dolce amante: ciò che io soffro di vilipendi è come un nulla a paragone di quelli sofferti da Gesù; e con la forza di una tale fede viva, e con la vista del Crocifisso, si rintuzzino e si soffochino, quanto alla parte superiore, tutti i naturali risentimenti, e l'avversione al disprezzo si cangi in amore. Su dunque, amatissimi cristiani miei, al Calvario, al Calvario volgiamo solleciti i nostri passi, e quivi fissiamo con lo spirito il nostro soggiorno ai piedi dell'esinanito Redentore: è bene trattenersi quivi finché dura la mortal nostra vita: è bello per noi restare qui (Mt 17,4;Lc 9,33): e proveremo con l'esperienza quanto sia efficace, per accendere in noi l'amor della propria abiezione, quel divino fuoco che arde ed avvampa nel legno della croce.

48. Conviene singolarmente applicarsi a menare una vita interamente occulta, per quanto le nostre circostanze lo permettono, e nascosta in Dio; onde ci consideriamo inutili affatto, e come persone di più nel presente secolo, e come morti al mondo, ed amiamo sinceramente di esser reputati per un niente) e peggio ancora del niente, per dei peccatori, e come tali ci contentiamo ed abbiamo in buon grado di esser trattati dagli uomini. Qui ci chiamano le parole dei grande Apostolo: voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio (Col 3,3). Qui tende quell' importantissimo avviso sì grato ai santi: ama essere ignorato e essere reputato un nulla (ama nesciri, et pro nihilo reputari). E qui ci conducono gli ammirabili esempi di Gesù e di Maria. 
Abbiamo la mira di scomparire; poniamo e noi e le cose nostre e le nostre azioni, più che si può, al buio ed all'oscuro, per quella parte e rapporto, onde potrebbe derivare a noi del lustro, del decoro e dell'onorificenza; e diamo opera (ove non resti offesa la gloria di Dio, l'edificazione e carità del prossimo, e la cristiana prudenza) a comparire difettosi, mancanti, e come un niente. A quell'oggetto, se fuori della nostra intenzione riscuotiamo delle lodi, degli applausi, delle approvazioni, procuriamo di divertirle, non solo con rifondere in Dio tutto il pregio dell'opera, ma ancora con attribuire ad altri il buon successo di qualche nostra azione luminosa, per qualunque anche minimo concorso ed influsso che quelli vi abbiano avuto, e salva sempre la verità. Così faceva Gesù. Operava egli portenti colla sua infinita virtù in vantaggio delle anime e dei corpi delle persone, e ne ascriveva il buon esito alla loro fede e carità, che esso medesimo nei loro cuori infondeva. O buon maestro, e quando sarà mai che impariamo da voi, ed imitiamo sì begli esempi!

Al contrario, quando i disprezzi cadono sopra altri, si può molte volte (e un vero amante del vilipendio lo fa) tirarli, almeno in parte, sopra di sé, con far valere quello, benché poco, con cui forse talora avremo influito, anche senza volontà e indirettamente, e dato occasione all'altrui umiliazione: e ciò può farsi con occulti atti interni, senza che quindi nessuno ne provi danno, a sola riserva della nostra superbia ed amor proprio. Questa attenzione a far vita nascosta, giova infinitamente all'amore del proprio disprezzo, e contribuisce assai per conseguire dal nostro Padre celeste moltissime grazie, con le quali vuole egli ricompensare chi nel suo ben operare, sprezzando sè stesso, se ne vive sconosciuto, lontano dalle lodi degli uomini, come ce lo manifestò lo stesso suo divino Figiiuolo su questo punto medesimo in quelle porole: e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà (Mt 6,6).

49. Quantunque sia in tutti i tempi necessarissima all'uomo l'umiliazione interiore, molto più però conviene esercitarla quando Dio ci abbassa e deprime, con esporci ai disprezzi ed obbrobri. In tali tempi, se noi potessimo liberamente sottrarci dall'avvilimento e dalla depressione, senza la minima nostra colpa, non sarebbe dovere di farlo, se lo stesso Dio non ce lo prescrivesse, con metterci in tali circostanze da obbligarci a tanto. Infatti, sollevarci quando Dio ci abbassa, è lo stesso che cavarci fuori dai disegni di Dio indirizzati alla sua gloria più grande ed al nostro massimo bene: non arriveremmo a quella eminente perfezione da Dio destinataci, e da conseguirsi noi per mezzo delle tali e tali umiliazioni e disprezzi, giudicati da Dio i più opportuni per atterrare la nostra superbia e amor proprio e per condurci e una perfetta carità. Oh che gran perdita si fa, guastando i disegni di Dio, e scomponendo il lavoro di una mano infinitamente savia e possente! A Dio si appartiene trarci fuori dalla bassezza, in cui talora ci troviamo, allorché lo vede espediente, e quando egli lo stima a proposito: e se non lo è, perché alzare il capo da per noi con sì grave pregiudizio, mentre neppure dovremmo desiderare di esser giammai sottratti da Dio dalla umiliazione, che al nostro spirito è sempre vantaggiosissima? 

In tali circostanze, importa infinitamente a noi di unirci con Dio che ci umilia, accordarci con Dio, far lega con Dio: sta' unito a lui senza separartene, grida lo Spirito Santo (coniungere Deo et sustine; Sir 2,3): e colle nostre più intime volontarie umiliazioni fare eco all'operazione umiliante di Dio, e secondarla e promuoverla, con gettarci noi sempre più nel profondo, e chiamarci rei, e darsene presso Dio infinite ragioni, e chinare e curvare la testa, pronti a ricever nuove umiliazioni, e divenire insensibili a qualunque più sottile suggestione e risalto dell'amor proprio, e soffocare un certo trasporto naturale a compatir noi medesimi e commiserarci per supplire al compatimento che ci manca per parte degli uomini. Praticando spesso questi ed altri simili atti, che lo Spirito Santo desterà in noi, se lo lasceremo con libertà operare, questo sarà veramente il farsi maneggiare da Dio, la cui attività è abile ad avanzarci più con tal lavoro in un giorno nella più alta perfezione, che noi secondo il corso ordinario in dieci anni. Questo è quel lasciarsi condurre dallo Spirito, come parla S. Paolo (cf. Rm8,14), che è proprio dei figliuoli di Dio, e dei gran santi: e con ciò si tira a fine nell'uomo un lavoro ed un' opera degna dell'infinito sovrano artefice, da risplendere per tutta l'eternità nel paradiso. Sia pur dunque questa tutta la nostra premura ed attenzione continua: ma singolarmente poi quando Dio ci umilia, non vogliamo impedire i suoi adorati disegni, con iscansare l'umiliazione, e neanche curarci, come si è detto, che Dio ce ne cavi fuori, o con mezzi ordinari, o molto meno con prodigi e meraviglie; ma abbandoniamoci alla sua condotta, e cooperiamo alle sue intenzioni di abbassarci, con un pieno concorso del nostro, volere, e con più replicati nostri atti spontanei ed amorosi di propria umiliazione e disprezzo; e senza dubbio Dio farà gran cose in noi.

50. Per ultimo, bisogna ricordarsi del bellissimo detto di S. Bernardo, che Dio tutto il bene vuol darci per mezzo dell'umilissima Vergine Maria; e rammentarsi dell'avviso di S. Filippo Neri, cori tanto ardore ripetuto ai suoi: Figlioli miei, crediate a me, che lo so: non vi è mezzo più efficace per ottener le grazie da Dio, della sua santissima Madre: dunque a Lei ricorriamo, di lei facciamo capitale, guadagniamocela in pro nostro con ogni sorta di devozioni, di ossequi e di suppliche, perché si impegni a impetrarci da Dio l'inestimabile dono dell'amore al proprio disprezzo.

Essa, dopo Gesù, incomparabilmente sopra ogni altra creatura, amò il disprezzo, e più ne gustò, massime a piedi della croce, ove gl'infiniti obbrobri scagliati contro il divino Salvatore si ripercuotevano in lei: perciò anch'ella sarà un'ottima mediatrice, perché otteniamo grazia sì bella e sì rara: e un tal dono da lei otterremo, se procureremo imitarla in si eccellente virtù, dalla medesima in grado eroico praticata, conforme ci avvisa S. Ambrogio: Se qualcuno desidera un dono da Maria, ne imiti l'esempio (Si quis sibi Mariae optat praemium, imitetur exemplum; Lib. 2. de Virgin.). Inoltre ci gioverà assai la divozione e il ricorso a quei santi specialmente, che furono grandi amatori dei disprezzo, come S. Francesco d'Assisi, S. Filippo Neri, S. Ignazio, S. Francesco Borgia, S. Giovanni della Croce, S. Giovanni di Dio, S. Felice e S. Serafino, ambedue cappuccini, ed altri simili.







Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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