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Cardinale Giacomo Biffi omelie, discorsi e libri

Ultimo Aggiornamento: 02/07/2017 09:00
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05/05/2016 19:47
 
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 Casta meretrix ovvero “doppiamente santa”
 L'ideologia postconciliare
 Per una cultura cristiana
 A proposito di “dialogo”
 Il vescovo che non stava al suo posto




L'ideologia postconciliare
 di Giacomo Biffi

[Da "La Bella, la Bestia e il Cavaliere. Saggio di teologia inattuale", Jaca Book, Milano 1984]

Essa deriva sì storicamente dal Vaticano II e dal suo magistero, ma attraverso un processo di "distillazione fraudolenta" immediatamente posto in atto all'indomani dell'assise ecumenica.

L'operazione potrebbe schematicamente essere descritta così:

- la prima fase sta nella lettura discriminatoria dei passi conciliari, che distingue tra quelli accolti e citabili, e quelli da passare sotto silenzio;
- nella seconda fase si riconosce come vero insegnamento del concilio non quello effettivamente formulato, ma quello che la santa assemblea ci avrebbe dato se non fosse stata afflitta dalla presenza di molti padri retrogradi e insensibili al soffio dello Spirito;
- con la terza fase si arriva a dire che la vera dottrina del concilio non è quella di fatto canonicamente approvata ma quella che avrebbe dovuto essere approvata se i padri fossero stati più illuminati, più coraggiosi, più coerenti. 

Con un metodo esegetico siffatto - non enunciato mai in modo esplicito, ma non per questo meno implacabilmente applicato - è facile immaginare i risultati.

I quali, per quanto remoti siano dalla verità cattolica, vengono sempre messi in conto al Vaticano II; e chi si azzarda anche timidamente a dissentire è segnato col marchio infamante di "preconciliare", quando non addirittura classificato coi tradizionalisti ribelli o con gli esecrati integralisti.

E poiché tra i "distillati di frodo" dal Vaticano II c'è anche il principio che nessun errore puo' essere condannato nella Chiesa a meno di peccare contro il dovere della comprensione e del dialogo, nessuno osa più denunciare con vigore e con tenacia i veleni che stanno progressivamente intossicando il popolo di Dio.    





Casta meretrix ovvero “doppiamente santa”
 del Card. Giacomo Biffi - Arcivescovo emerito di Bologna

Per molti teologi e “saccenti”, la Chiesa sarebbe anche peccatrice. Lo testimonierebbe l’espressione “casta meretrice” attribuitale, dicono, dai Padri. Ma siamo sicuri che abbiano ragione? Pare proprio di no. Vediamo perché.

[Da «il Timone» n. 59, gennaio 2007]

Annotazione previa 

La Chiesa è santa o peccatrice? Nessuno degli antichi simboli di fede si dimentica di elencare anche la santità della Chiesa tra le verità che appartengono al patrimonio delle certezze cristiane. Ma nell’insegnamento dei teologi professionisti - e conseguentemente in larga parte della coscienza ecclesiale dei nostri giorni - quale rilevanza assume questo punto della dottrina cattolica? Tutelare una persuasione che ci viene dall’insegnamento degli apostoli - anzi, se è possibile, avvalorarla nella mentalità ecclesiale contemporanea - è, a mio giudizio, un compito ineludibile della pastorale di oggi: ineludibile ma, a essere schietti, abbondantemente eluso. Viene oggi efficacemente proposta, tra tutte le verità della fede, anche quella della santità della Chiesa? 

Moderna fortuna di un termine 

«Casta meretrix» è un sorprendente oximoron ("espressione antinomica"); tanto più sorprendente perché è abitualmente riferito alla Chiesa. Dopo l’ambigua utilizzazione di von Balthasar (in Sponsa Verbi,Brescia 1985) esso gode di una discreta fortuna. Ogni tanto me lo sento ricordare, con la soddisfazione di chi è certo di addurre un’argomentazione decisiva allorché dichiaro incautamente la mia convinzione che alla Chiesa come tale non si possa assegnare l’epiteto di «peccatrice». «Ma se la Chiesa - mi si ribatte - è una "casta meretrix", come dicono i Padri!». È così enfatico l’accento posto sul sostantivo, che l’aggettivo che l’accompagna passa in seconda linea. «Come dicono i Padri». Dir male della Chiesa (che nessuna antica professione di fede si dimentica di chiamare «santa») non è mai stato ritenuto nell’ascesi cristiana un atto particolarmente meritorio. È piuttosto da sempre l’inveterata consuetudine degli «altri», cioè dei non credenti. È consentito ai buoni fedeli , associarsi al coro dei maldicenti, magari per favorire un dialogo aperto e costruttivo? I più timorati non ne troverebbero il coraggio se non potessero aggiungere appunto:«Come dicono i Padri». 

«Come dicono i Padri»

A sentirli, si direbbe che ci sia quasi un consenso universale; che nessuno dei grandi maestri di fede dei primi secoli si sia dimenticato di attribuire alla Chiesa questo titolo pittoresco: che la denominazione «casta meretrix» sia un punto irrinunciabile di tutta l’ecclesiologia tradizionale. (Citiamo per tutti H. Kung, che qui si dimostra più sicuro delle sue asserzioni che non premuroso di documentarle: «C’è solo una chiesa che è al tempo stesso santa e peccatrice, una "casta meretrix", come fin dall’epoca patristica la si è spesso chiamata...» (H. Kung, La chiesa, Brescia 1969, p. 379). 
«Come dicono i Padri»: avvalorato da così ampia e autorevole testimonianza, un cuore cattolico si rassicura e può tranquillamente parlare dei "peccati della Chiesa". Ma siamo sicuri che questi teologi non siano a questo proposito un po’ faciloni e spensierati? Vediamo allora, con un’indagine di una certa serietà, quanti sono questi Padri. E vediamo chi sono. Salvo miglior giudizio, è uno solo: Ambrogio. Nessuno ha parlato di «casta meretrix» prima di lui, e nessuno dopo di lui, tra i Padri, l’ha imitato. 

Rahab «tipo» della Chiesa 

Ambrogio ha usato questa espressione una sola volta, nella sua meditazione su Rahab, la donna di Gerico di cui parla il libro di Giosuè. 
Essa – egli dice - «nel simbolo era una prostituta ma nel mistero era la Chiesa, congiunta ormai ai popoli gentili per la comunanza dei sacramenti» (In Lucam VIII,40). 
L’utilizzazione «tipica» di Rahab - personaggio contraddittorio, cui era attribuita sia una professione indegna sia un’azione lodata e provvidenziale - era già un classico della letteratura cristiana. Il Vangelo di Matteo l’aveva ricordata nella genealogia di Gesù (cf. Mt 1,5). La lettera agli Ebrei l’aveva portata come esempio della fede che salva (cf. Eb 11,31). San Giacomo, preso da altre preoccupazioni teologiche, aveva messo in risalto la sua giustificazione ottenuta con le opere, cioè con la buona azione a vantaggio degli esploratori ebrei (cf. Gc 2,25). Clemente Romano, quasi a sintesi e conciliazione dei due testi, aveva scritto: «Per la sua fede e la sua ospitalità Rahab la meretrice fu salva» (I ad Corinthios 12,1). 
Dopo Clemente, che si sofferma a lungo sull’episodio di Gs 2,1-21, leggendolo alla luce della redenzione operata da Cristo (cf. I ad Corinthios 12,1-8), era andata chiaramente delineandosi - da Giustino a Ireneo a Origene a Cipriano - una decisa interpretazione ecclesiologica della figura di Rahab. E proprio dalla riflessione sulla «casa della prostituta» - la sola in Gerico che ha preservato dalla morte - emerge il famoso principio che «fuori della Chiesa non c’è salvezza». 
«Nessuno potrebbe illudersi al riguardo - scrive Origene - nessuno può ingannarsi: fuori di questa casa, cioè fuori della Chiesa, non c’è salvezza» (Om. in Iosue 3,4). E Cipriano: «Credi tu di poter vivere, se ti distacchi dalla Chiesa edificandoti altre case e diversi alloggi, mentre a Rahab, prototipo della Chiesa, viene detto: ognuno che lascerà la porta della tua casa sarà colpevole?» (De unitate eccesiae, 8). In Cipriano il principio «extra Ecclesiam nulla salus» viene collegato con la verità della maternità della Chiesa: «non può avere Dio per padre, chi non ha la Chiesa per madre» (De unitate ecclesiae 6). 

Che significa «casta meretrix»? 

Ambrogio nella sua riflessione ha presumibilmente sottocchio soprattutto il commento di Origene. Ma il suo pensiero si sviluppa in maniera molto personale. 
«Rahab - che nel tipo era una meretrice ma nel mistero è la Chiesa -indicò nel suo sangue il segno futuro della salvezza universale in mezzo all’eccidio del mondo: essa non rifiuta l’unione con i numerosi fuggiaschi, tanto più casta quanto più strettamente congiunta al maggior numero di essi; lei che è vergine immacolata, senza ruga, incontaminata nel pudore, popolare nel suo amore, meretrice casta, vedova sterile, vergine feconda» (In Lucam III,23). Questo è l’unico passo dove compare la nostra espressione; e merita un commento ravvicinato. 

Typo meretrix mysterio ecclesia - Si vuol dire che l’attività meretricia appartiene alla «figura», non alla realtà figurata. Non si possono dunque fare frettolose trasposizioni dal «tipo» all’«antitipo»; bisogna prima chiarire in che senso e sotto quale profilo il paragone possa essere istituito. 
Multorum convenarum copulam non recusat - Il chiarimento arriva immediatamente: la Chiesa può essere simbolicamente ravvisata nella donna di Gerico, soltanto perché non si rifiuta di unirsi alla moltitudine dei «fuggiaschi», cioè di quanti - dispersi e disorientati nella città mondana - cercano presso di lei riparo dalla perdizione. Tutti li accoglie per tutti salvarli. 

Quo coniunctior pluribus eo castior - C’è però una differenza fondamentale. La condiscendenza con cui la Chiesa dischiude la sua porta a tutti, come fanno le donne di costumi troppo facili, non solo non comporta in lei niente di riprovevole, ma indica addirittura fedeltà alla propria missione (e quindi al suo Sposo che gliel’ha assegnata). 

Immaculata virgo, sine ruga, pudore integra - Quasi a prevenire qualunque equivoco che potesse nascere da un paragone innegabilmente audace, è evocato qui (e perfino oltrepassato) l’appassionato linguaggio di Paolo quando esalta «la Chiesa senza macchia né ruga né alcunché di simile» (Ef 5,27). È da notare che nel testo di Ambrogio non si tratta della condizione escatologica cui il Signore vuoi portare la sua Sposa. «Immaculata virgo, sine ruga, pudore integra» è per il vescovo milanese proprio la Chiesa che, camminando nella storia, accoglie e salva gli uomini che oggi sono «sbandati» («convenae»). 

Amore plebeia ("popolare nell’amare") - L’espressione è un po’ avventurosa, ma ricca di una intensità che la rende quasi intraducibile. «Plebeius» negli scrittori latini è vocabolo che ha sempre almeno una sfumatura di spregio. Che abbia potuto venire adoperata da un patrizio di eccellente cultura romana per qualificare la Sposa di Cristo, basta a significarci la novità "democratica" davvero rivoluzionaria portata dal cristianesimo. La Chiesa è «plebeia» nel suo amore; vale a dire, non c’è niente di aristocraticamente esclusivo nelle sue attenzioni, che sono rivolte a tutti senza distinzione. O, se ci sono preferenze, sono casomai per i semplici, gli umili, i poveri. Ambrogio, si sa, aveva un po’ in antipatia le condizioni di privilegio, tanto che ha potuto scrivere: «Nessuno presuma, perché è ricco, che gli si debba maggior ossequio. Nella Chiesa è ricco chi è ricco di fede» (Ep. Extra coli. 14,86). 

Tre immagini 

La meditazione ecclesiologica ambrosiana si avvale in quel brano di tre immagini, da considerarsi simultaneamente se si vuol attingere la profondità del mistero. La Chiesa è al tempo stesso prostituta, vedova, vergine: «meretrix casta, vidua sterilis, virgo fecunda». E ci viene subito offerta una limpida spiegazione di queste tre qualifiche 
La Chiesa è «meretrice casta, perché molti amanti la frequentano per le attrattive dell’amore ma senza la contaminazione della colpa». 
La Chiesa è «vedova sterile, perché in assenza del marito non sa generare (ma poi il marito è giunto, e così ella ha generato questo popolo e questa "plebe")». La Chiesa è «vergine feconda, perché ha partorito questa moltitudine, come frutto del suo amore, non però per intervento di concupiscenza» (In Lucam III,23). 

Concludendo 

Nel suo significato originario, dunque, l’espressione «casta meretrix», lungi dall’alludere a qualcosa di peccaminoso e di riprovevole, vuole indicare - non solo nell’aggettivo ma anche nel sostantivo - la santità della Chiesa; santità che consiste tanto nell’adesione senza tentennamenti e senza incoerenze al suo Sposo («casta») quanto nella volontà di raggiungere tutti (secondo il compito che le è stato affidato dal suo Signore) per portare tutti a salvezza («meretrix»). 
E non appartiene «ai Padri» ma al solo Ambrogio, che nella spregiudicata libertà del suo animo credente l’ha coniata con l’unico intento di esaltare la Sposa di Cristo. E non dimentichiamolo: la fede di Ambrogio - notava già sant’Agostino - è la fede cattolica (Contra lulianum opus imperfectum 3,205: «secundum ambrosianam idest catholicam fidem»).

© il Timone
http://www.iltimone.org/

 



A proposito di “dialogo”
 di Giacomo Biffi 

La necessità che gli uomini debbano dialogare tra loro è quasi un’ovvietà: come potrebbero convivere gli abitanti di un pianeta così fortemente comunicante e unificato, senza parlarsi e confrontarsi tra loro? E possiamo anche essere d’accordo sulla doverosa ricerca della reciproca comprensione attraverso una benevola attenzione “all’altro”, che è il significato generalmente assunto dal termine “dialogo” nella cultura attuale. Ma oggi e diventato un tema cosi diffuso ad enfatizzato, che qualche riflessione sul dialogo - specificamente sul dialogo tra i credenti e non credenti - sembra meritare qualche attenzione. 

[Da "il Timone" n. 35, luglio/agosto 2004 ]

L’enciclica Ecclesiam suam 

Paolo VI, appena arrivato al sommo pontificato, si è reso conto che la parola “dialogo” nella mentalità generale era ormai diventata emergente e quasi mitica, acquistando un’innegabile rilevanza culturale. Generosamente e intelligentemente ha cercato allora di darle legittima cittadinanza entro l’insegnamento della Chiesa, adoperandosi al tempo stesso a orientare e a regolare la riflessione in proposito. Appunto all’argomento del “dialogo” è dedicato oltre un terzo della sua prima enciclica Ecclesiam Suam. Presentando il «dialogo» come dovere ecclesiale ineludibile, egli non aveva inteso certo attenuare o mettere in ombra il compito di evangelizzazione che il Signore risorto aveva dato alla sua Chiesa. 

Il «dialogo» — nota l’enciclica — è la nuova forma del perenne slancio apostolico: «Noi daremo a questo impulso di carità, che tende a farsi dono di carità, il nome, oggi comune, di dialogo». 

L’ammonimento dl Paolo VI 

Non è che non si rendesse conto del rischio di malintesi ed esagerazioni implicito in affermazioni cosi inedite e forti: si preoccupa anzi di prevenirlo. Perciò riafferma la supremazia dell’annuncio esplicito e della predicazione, avvertendo: «La sollecitudine ad accostare i fratelli non deve tradursi in una attenuazione, in una diminuzione della verità. Il nostro dialogo non può essere una debolezza rispetto all’impegno verso la nostra fede. L’apostolato non può transigere con un compromesso ambiguo rispetto ai princìpi di pensiero e di azione che devono qualificare la nostra professione cristiana... Solo chi e pienamente fedele alla dottrina di Cristo può essere efficacemente apostolo». 

Le intemperanze postconciliari 

Nell’epoca post-conciliane, invece, tra i cristiani e gli ecclesiastici è affiorata talvolta una prospettiva che finiva col presentare il «dialogo» non come una condizione benefica e in una certa misura doverosa dell’annuncio evangelico e della stessa presenza cristiana nel mondo, ma come un valore assoluto, indipendentemente dai suoi contenuti e dai suoi risultati. A sentire certi pronunciamenti sembrerebbe quasi che da taluno si sia identificato nel «dialogo» l‘intero contenuto della fede cristiana, sicché il «dialogare» sarebbe già per se stesso obbedire alla missione fondamentale di predicare il Vangelo. 

Possibilità di un dialogo “naturale” 

È ovvio che qualsiasi forma di dialogo è possibile solo a misura che tra gli interlocutori ci sia qualcosa di comune. Ora gli esseri costituiti nell’identica natura umana hanno in comune tutto un patrimonio di concetti, di regole logiche, di interessi, di sentimenti; ed e una verità che non dobbiamo dimenticare mai. Perciò tra gli uomini — pur dissimili per carattere, cultura, appartenenza etnica e sociale — c’è sempre spazio per qualche scambio e per qualche intesa. Ed è già una base preziosa di relazione, che consente ai credenti e ai non credenti di arrivare a convincimenti condivisi e a collaborazioni preziose nel campo operativo: civile, sociale, assistenziale, solidaristico; e anche nell’individuare possibili convergenze politiche al servizio di una pace vera, di un reale progresso e della difesa della dignità umana. 

Fede e incredulità 

Se però vogliamo occuparci specificamente del rapporto tra il credente in quanto credente e il non credente in quanto non credente nelle questioni fondamentali e decisive dell’esistenza, è naturale che i nostri interrogativi possano trovare risposta solo se si chiarisce che cosa sia propriamente la fede — cioè l’elemento che con la sua presenza o la sua assenza diversifica la condizione del credente e dell’incredulo — e che cosa di fatto comporti nella vita spirituale e intellettuale del singoli. 

La fede è atteggiamento integrale dell’uomo che coinvolge tutte le sue facoltà, dotandole di potenzialità che eccedono l’ambito puramente culturale. La fede è un’intelligenza assolutamente nuova e imparagonabile, che ci deriva dalla luce comunicataci dallo Spirito del Signore risorto: tale luce ha come effetto proprio di farci partecipare alla conoscenza stessa che possiede Gesù glorificato alla destra del Padre. «Credere» vuol dire dunque guardare la realtà con gli occhi del Risorto. 

Chi è investito di questa luce superiore è in grado di contemplare il disegno che e stato pensato e voluto per questo ordine di provvidenza; disegno che non è coartato entro l’entità creaturale delle cose ma ha un significato, uno scopo, un traguardo che la trascende. Chi invece ne è privo, non cogliendo il disegno unificante di Dio, non può esaurire l’intelligibilità di nessun esistente, perché, ogni esistente in concreto è «vero» solo in quanto e inserito nella «unitotalità» del progetto ed e finalizzato ad esso; se ne è avulso e isolato, non è più colto nella sua piena autenticità. 

È l’insegnamento di san Paolo in uno dei passi neotestamentari più importanti e oggi più trascurati: “L’uomo naturale [psichòs, cioè l’uomo non credente] non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui… L’uomo spirituale invece [pneumaticòs, cioè l’uomo credente] giudica ogni cosa. 

I limiti del dialogo 

Ci può essere possibilità di intendersi tra chi in virtù di questa luce superiore vede le cose come stanno e chi, sprovvisto di questa luce, non le vede? Senza dubbio, ci possono essere colloqui e affinità di vedute circa i singoli esseri, e solo in quanto sono opachi, frammentati, senza destino; ma non su ciò che davvero conta e importa nella nostra vita. Per esempio, non sul significato dell’universo, non sull’uomo che ha come sua indole propria di essere immagine di Cristo, non sul matrimonio che è annuncio e figura del mistero sponsale che connette la creazione al Creatore, non sull’amore, sulla giustizia, sulla bellezza, e sul fondamento ultimo di questi valori. Eccetera. Ascoltare su questi temi i discorsi di coloro che onorano Cristo e la sua causalità esemplare e finale nei confronti di ogni essere, è pressappoco come ascoltare i giudizi su un’esecuzione musicale di chi fosse sordo dalla nascita o le disquisizioni di chi è sempre stato cieco sul cromatismo di un maestro della pittura. 

Sara dunque meglio persuadersi che non potrà essere né facile né frequente la convergenza sia pure parziale tra coloro che affermano e coloro che negano un disegno divino all’origine delle cose; coloro che affermano e coloro che negano una vita eterna oltre la soglia della morte; coloro che affermano e coloro che negano l’esistenza di un mondo invisibile, di là della scena variopinta e labile di ciò che appare; coloro che credono e coloro che non credono nel Signore Gesù, crocifisso e risorto, Figlio unico e vero del Dio vivente, salvatore dell’universo. 

Le comunità cristiane devono affrontare ad occhi aperti, con serenità e con vigore di spirito, le inevitabili tensioni tra le diverse “culture” che di fatto convivono nell’ambito di una società pluralistica. 

L’evento cristiano 

Il dialogo interreligioso in particolare dovrà sempre fare i conti con una certezza per noi irrinunciabile; e cioè che l’evento salvifico - nei due fatti fondamentali dell’incarnazione del Verbo e della risurrezione di Gesù - non solo sta all’origine del cristianesimo, ma ne costituisce in modo perenne e definitivo il senso, il “cuore”, la ragione d’identità. Essendo un “evento” e non una pura dottrina, non è “trattabile” e non consente un accoglimento parziale: o lo si accetta o lo si rifiuta. Di conseguenza, esso e, per cosi dire, culturalmente “lacerante”: il credente non può - se vuol restare intellettualmente onesto - né attenuare quei due “fatti” né metterli tra parentesi né evitarli nel desiderio di essere ritenuto comprensivo e “politicamente corretto”. Il Signore ci aveva preavvisato: “Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione” (Lc 12,51); frase che ai nostri giorni dà l’impressione di essere soggetta a qualche censura. 

La libera azione dello Spirito 

Una “teologia del dialogo” compiuta ed equilibrata non può però disattendere un altro dato del problema. All’azione dello Spirito Santo effuso sull’umanità dal Signore che sta alla destra del Padre non si possono assegnare confini: il Paraclito può illuminare chi vuole, anche al di fuori della cattolicità. In realtà, le intelligenze umane, se si pongono sinceramente al servizio della verità, vengono in alcuni momenti “pneumatizzate” (cioè paste sotto l’influsso del “Pneuma”), anche se di solito non arrivano a percepirlo. 

Anzi, appunto perché il disegno salvifico di Dio è unico e unificante, dovunque c’è un disinteressato culto della sapienza lì opera lo Spirito che purifica le menti e le rende feconde. È ciò che voleva dire san Tommaso d’Aquino, con la frase che amava ripetere: “Ogni verità, da chiunque sia detta, viene dallo Spirito Santo”. 

Il non credente può essere talvolta portavoce inconsapevole dello Spirito; perciò dobbiamo stare sempre in un atteggiamento di ascolto, per cogliere qualche scintilla di luce (cioè qualche asserto a qualche parere consonante col disegno del Padre e con il Vangelo di Cristo) anche dalle bocche che non ci aspetteremmo. Si rende, come si vede, indispensabile un atteggiamento ai tempo stesso di rispetto e di vigilanza, che sappia accuratamente soppesare e vagliare. È la raccomandazione di Paolo: “esaminate tutto, tenete ciò che è buono” (1 Ts 5,21). 

Conclusione 

Tutta la riflessione sul “dialogo” va condotta senza superficialità o spensieratezza, perché la pasta in gioco è altissima: ci può essere il rischio in nome di una improvvida durezza o intransigenza, di accostare gli “altri” senza amore, dimenticandosi che tutti gli uomini senza eccezioni (per il fatto di essere stati creati in Cristo sono immagini sempre vive dell’unico Signore dell’universo, della storia e dei cuori; ma c’è anche il rischio per noi con una incauta apertura scambiata per magnanimità, di non riconoscere più in pratica Gesù Cristo come l’unico maestro di vita, l’unico Salvatore dell’uomo, l’unico vero senso dell’esistenza: e quindi di non essere più in grado di presentarci chiaramente ed efficacemente come suoi testimoni “fino agli estremi confini della terra” (At 1,8). 

© il Timone






Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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