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Intervista all'allora cardinale Wojtyla

Ultimo Aggiornamento: 30/05/2015 00:41
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30/05/2015 00:41
 
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I sacerdoti e la Chiesa in Polonia agli inizi degli anni Settanta in un'intervista al cardinale Karol Wojtyla arcivescovo metropolita di Cracovia

A tempo pieno per una vita diversa



La libertà è l'elemento costitutivo della dignità della persona ininterrottamente proclamato e difeso dal pensiero cristiano

 

Anticipiamo in esclusiva il testo di un'intervista all'arcivescovo metropolita di Cracovia, cardinale Karol Wojtyla, che esce nel numero speciale dedicato a Giovanni Paolo II da "Palabra" e che la stessa rivista aveva pubblicato nel numero 86, dell'ottobre 1972. Il futuro Giovanni Paolo II rispose sul sacerdozio - di cui l'assemblea del Sinodo dei vescovi si era occupata un anno prima - e sulla situazione della Chiesa in Polonia. Inedito è il testo manoscritto in polacco delle risposte, dove all'inizio di ogni pagina il porporato trascrisse versi del Veni sancte Spiritus e altre espressioni in latino: nihil est in homine, nihil est innoxium, lava quod est sordidum, et omnia mea tua sunt, totus tuus.

 

di JOAQUÍN ALONSO PACHECO

D. La Polonia è uno dei Paesi che ha registrato negli ultimi anni un maggiore incremento di vocazioni al sacerdozio. In questo fenomeno svolge un ruolo indubbiamente importante l'immagine del sacerdote che i cittadini polacchi desiderano per la loro Chiesa. Potrebbe spiegare, Eminenza, quali aspettative ha la Chiesa in Polonia in tal senso?

R. Prima di tutto devo dire che dobbiamo all'ultimo Sinodo dei vescovi il fatto che si sia intensificata e sistematizzata la riflessione sul tema del sacerdozio ministeriale e che tale riflessione abbia coinvolto tutta la Chiesa, passando dalle Conferenze episcopali alle Chiese locali e a tutti i fedeli. In tal modo abbiamo affrontato uno dei punti fondamentali della coscienza della Chiesa. A questa coscienza della Chiesa ravvivata dal Sinodo si pone anche, per quanto riguarda la Polonia, il problema delle aspettative dei cattolici rispetto alla figura del sacerdote.

È vero che la forte carenza di organizzazioni cattoliche nel nostro Paese ci ha impedito molte volte di consultare tutti i settori del laicato nella fase preparatoria del Sinodo; tuttavia altri eventi ci hanno permesso di prendere nota in modo diretto dei suoi sentimenti riguardo al problema del sacerdozio.
La celebrazione nel 1970 del cinquantesimo anniversario dell'ordinazione sacerdotale di Paolo VI, vissuta con particolare intensità in Polonia, il venticinquesimo anniversario della liberazione dei 250 sacerdoti dai campi di concentramento di Dachau, e, lo scorso anno, la preparazione della beatificazione di Massimiliano Kolbe - il sacerdote cattolico che diede la propria vita ad Auschwitz in cambio di quella di un padre di famiglia - hanno rappresentato per i nostri fedeli una sorta d'introduzione spirituale al Sinodo e, per noi, un'occasione per constatare che la figura del sacerdote si trova al centro della coscienza della Chiesa in Polonia.

Lo dimostrano anche le risposte date dai nostri sacerdoti, la scorsa primavera, alle domande formulate dalla Segreteria del Sinodo nella fase preparatoria. Tali risposte si attengono a questa coscienza, ossia definiscono la figura del sacerdote nelle sue convinzioni proprie e allo stesso tempo in conformità con le esigenze concrete del resto del Popolo di Dio. In Polonia è un elemento confortante la stretta relazione che esiste fra la vita sacerdotale concreta - il modo in cui il sacerdote vede se stesso - e le esigenze della fede viva della Chiesa: il sensus fidei del Popolo di Dio per il quale egli è stato chiamato al ministero. Da quelle risposte si deduce che per i cattolici polacchi la problematica del sacerdozio verte soprattutto sul momento stesso della vocazione sacerdotale. Viene giustamente concepita come una particolarissima chiamata personale di Cristo, come il prolungamento naturale della chiamata rivolta da Gesù agli Apostoli.
Tutti i fedeli, nelle diverse forme dell'esistenza umana, cercano di condurre una vita in sintonia con la speciale intenzione di Dio contenuta nel Battesimo, ma la vocazione sacerdotale s'intende proprio nella sua peculiarità. A questo nuovo "vieni e seguimi" pronunciato in modo imperativo da Cristo, corrisponde, nella sensibilità dei nostri fedeli, la certezza che, al carattere personale di tale chiamata, deve seguire un impegno totale della persona. Riassumendo, si vive, letteralmente, l'espressione con la quale la lettera agli ebrei descrive il sacerdote, ossia ex hominibus assumptus (Ebrei, 5, 1).

Ciò spiega come, nonostante le difficoltà obiettive, i seminari siano oggetto di particolare attenzione da parte di tutti e vengano mantenuti grazie, esclusivamente, alle donazioni dei fedeli. E spiega anche la straordinaria partecipazione con cui - specialmente nelle comunità di provincia ma anche nelle grandi città - si seguono le ordinazioni sacerdotali e le celebrazioni delle prime Messe.
Possiamo continuare a servirci del modello del testo paolino per illustrare un secondo aspetto importante di questa coscienza dei cattolici polacchi relativa al sacerdozio: pro hominibus constituitur. I fedeli vedono nel sacerdote il sostituto e il seguace di Cristo, che sa affrontare con piacere qualsiasi sacrificio personale per la salvezza delle anime che gli sono state affidate. Hanno fiducia in lui e apprezzano soprattutto il suo zelo apostolico concreto e il suo instancabile spirito di sacrificio per il prossimo, realizzato nello spirito di Cristo. Ed è proprio insistendo su queste dimensioni dell'esistenza sacerdotale che penso si possa superare qualsiasi "crisi d'identità". Il sacerdote è utile alla società se riesce a utilizzare tutte le sue capacità fisiche e spirituali nello svolgimento del suo ministero pastorale. I fedeli non hanno bisogno di funzionari della Chiesa, o di efficaci dirigenti amministrativi, ma di guide spirituali, di educatori (fra la mia gente regna la convinzione che il cristianesimo possieda principi morali e possibilità educative insostituibili).
Tornando al documento sinodale, per vedere riflessa in esso la situazione polacca, sarebbe necessario apportare una lieve correzione: più che insistere sulla crisis identitatis, sarebbe bene mettere in evidenza la identificatio per vitam et ministerium che costituisce l'elemento più importante del modo in cui i nostri fedeli considerano il sacerdozio, alla luce di tutto ciò che hanno già sottolineato alcuni documenti conciliari come la Lumen gentium, e il Presbyterorum ordinis. Ciò non significa che i sacerdoti polacchi non guardino con gratitudine al compito realizzato dal Sinodo.

D. In numerosi Paesi occidentali, dove con l'industrializzazione si è diffusa una mentalità sempre più tipica della società secolarizzata, si parla di sacerdozio part-time, e di attività professionali dei sacerdoti. Come considera, Eminenza, questo problema rispetto a quello della scarsità del clero?

R. Il documento finale del Sinodo risponde a questa domanda in termini essenziali. Nella parte dedicata ai principi dottrinali si legge: "La permanenza per tutta la vita di questa realtà che imprime un segno, la quale è dottrina di fede e, nella tradizione della Chiesa, prende il nome di carattere sacerdotale, serve ad esprimere il fatto che Cristo si è associata irrevocabilmente la Chiesa per la salvezza del mondo, e che la Chiesa stessa è consacrata a Cristo in modo definitivo, affinché la sua opera abbia compimento. Il ministro, la cui vita reca il suggello del dono ricevuto attraverso il sacramento dell'Ordine, ricorda alla Chiesa che il dono di Dio è definitivo". In accordo con tutta la tradizione, il Sinodo ha affermato che il sacerdozio ministeriale, come frutto della particolare vocazione di Cristo, è un dono di Dio nella Chiesa e per la Chiesa; e questo dono, una volta accettato dall'uomo nella Chiesa, è irrevocabile.
In effetti, il Sinodo ha riaffermato che "questa peculiare partecipazione al sacerdozio di Cristo non scompare in alcun modo, sebbene il sacerdote sia dispensato o rimosso dall'esercizio del ministero per motivi ecclesiali o personali". Nella pratica è la Chiesa che, attraverso il vescovo, chiama determinati individui al sacerdozio e lo trasmette loro in modo sacramentale, ma questo non deve far dimenticare che l'autore del dono, colui che ha istituito il sacerdozio, è Dio stesso. "Attraverso l'imposizione delle mani viene comunicato il dono indelebile dello Spirito Santo (cfr. 2 Timoteo, 1, 6). Tale realtà configura e consacra a Cristo sacerdote il ministro ordinato e lo rende partecipe della missione di Cristo nel suo duplice aspetto, di autorità e di servizio. Questa autorità non è propria del ministro: essa è, infatti, la manifestazione della exousìa, cioè della potestà del Signore, in virtù della quale il sacerdote svolge il ruolo di ambasciatore nell'opera escatologica della riconciliazione (cfr. 2 Corinzi, 5,18-20)".
Che dire pertanto del sacerdote part-time? Anche qui la risposta ce la dà il documento finale del Sinodo: "come norma ordinaria, si deve attribuire tempo pieno al ministero sacerdotale. Per nulla, infatti, è da considerare quale fine principale la partecipazione alle attività secolari degli uomini, né può essa bastare ad esprimere la specifica responsabilità dei presbiteri". Si tratta pertanto di fornire una risposta adeguata alla domanda: che cos'è il sacerdote? e in tale ottica il Sinodo riprende le parole della Presbyterorum ordinis: i presbiteri, senza essere del mondo e senza avere il mondo come esempio, devono tuttavia vivere nel mondo (cfr. Presbyterorum ordinis, 3, 17; Giovanni, 17, 14-16) come testimoni e dispensatori di un'altra vita diversa da questa vita terrena (cfr. Presbyterorum ordinis, 3). Solo partendo da queste premesse si può trovare una soluzione realistica e conforme alla fede. Il Sinodo non ha dimenticato che anche in epoche passate della storia della Chiesa ci sono stati sacerdoti che si sono dedicati ad attività extra-sacerdotali, ma esercitandole sempre in stretta connessione con la specifica missione pastorale; per questo, "per determinare, nelle circostanze concrete, quale convenienza vi sia tra le attività profane ed il ministero sacerdotale, bisogna chiedersi se e come quelle funzioni e attività servano sia alla missione della Chiesa, sia agli uomini non ancora evangelizzati, sia, infine, alla comunità cristiana, a giudizio del Vescovo locale col suo presbiterio, e dopo aver consultato, in quanto è necessario, la Conferenza Episcopale".
La decisione del vescovo o della Conferenza episcopale dovrebbe quindi tener conto di queste premesse. Infine, per quanto riguarda lo svolgimento delle attività propriamente extra-sacerdotali, il Sinodo lo consente, ma con alcune importanti precisazioni: "Quando codeste attività, ordinariamente di spettanza dei laici, siano richieste dalla stessa missione evangelizzatrice del presbitero, devono essere poste in armonia con le altre attività del ministero, dal momento che si possono considerare, in quelle circostanze, come modalità necessarie di un vero ministero (cfr. Presbyterorum ordinis, 8)". Il Sinodo si è pertanto assunto la responsabilità di proteggere la Chiesa dal rischio di sminuire il dono divino del sacerdozio. Conforme a questo stesso senso di responsabilità, ritengo che si debba inquadrare nelle sue giuste dimensioni il problema della scarsità del clero; non si può pensare di risolvere le difficoltà derivanti dalla quantità rinunciando alla qualità. Si tratta di migliorare l'impiego del sacerdote nella Chiesa, senza però dimenticare che solo "il Signore della Messe" può moltiplicare questo dono e che agli uomini spetta accoglierlo con la disposizione che per sua natura esso richiede.


D. Dalle sue parole si può desumere che la crisi che ha coinvolto il sacerdozio deriva soprattutto da difficoltà di fede e dalla mancanza di una genuina spiritualità sacerdotale nella Chiesa di oggi. Le sembra tuttavia che, al di là di questa crisi, agisca anche una cultura enormemente scristianizzata? Il Sinodo, a cui lei ha fatto riferimento, ha affrontato anche questo aspetto: qual è la sua opinione al riguardo?

R. Durante i lavori sinodali si parlò molto di crisi d'identità del sacerdote, inquadrandola in una crisi d'identità più essenziale della Chiesa stessa. Certe espressioni però mi sembra che restino vaghe: è chiaro che più che a una crisi obiettiva, in esse si alludeva a una coscienza soggettiva di crisi. Chiarito ciò, passo a rispondere direttamente alla sua domanda. Il documento finale sul sacerdozio, sebbene abbia evitato l'espressione "Crisi d'identità" - usata invece nel documento preparatorio - proprio nei punti dedicati a illustrare tale crisi, evoca questa idea.
Ecco un esempio: "Dinanzi a tale realtà in alcuni nascono queste inquietanti domande: Esiste o non esiste una ragione specifica del ministero sacerdotale? È o non è necessario questo ministero? È permanente questo sacerdozio? Che cosa vuol dire oggi essere sacerdote?
Non sarebbe sufficiente per il servizio delle comunità poter contare su alcuni presidenti designati per servire il bene comune, senza che debbano ricevere l'ordinazione sacerdotale e che esercitino il loro incarico temporaneamente?". Si può senza dubbio affermare che domande come questa sono nate storicamente nell'ambito teologico, facendo appello a presupposti teorici elaborati sistematicamente da alcuni teologi come forma di contestazione alla metodologia teologica tradizionale. Ma una volta formulati e comunicati all'opinione pubblica ecclesiale, esprimono un atteggiamento di contestazione esistenziale più profonda. Il testo si preoccupa proprio di ricostruire la genesi di questo secondo tipo di contestazione e a tale riguardo continua a riferirsi all'ambito globale della cultura contemporanea. "Le questioni anzidette, che in parte sono nuove ed in parte erano già note da tempo, ma che si presentano oggi in forma nuova, non possono esser comprese fuori dal contesto globale della cultura moderna, la quale dubita molto del suo stesso significato e valore.
I nuovi ritrovati della tecnica suscitano speranze eccessivamente entusiastiche ed insieme profonde ansietà. Ci si domanda, giustamente, se l'uomo potrà essere capace di dominare la sua opera e di indirizzarla verso il progresso. Alcuni, soprattutto i più giovani, hanno una concezione pessimistica intorno al significato di questo mondo e cercano salvezza in sistemi puramente meditativi, o in paradisi artificiali e appartati, estraendosi da quello che è lo sforzo comune dell'umanità. Altri, animati da una grande speranza utopistica senza alcun riferimento a Dio, si impegnano nella conquista di uno stato di liberazione totale e trasferiscono dal presente al futuro il significato di tutta la loro personale esistenza. In tal modo, risultano profondamente scompaginate l'azione e la contemplazione, il lavoro e lo svago, la cultura e la religione, l'aspetto immanente e quello trascendente della vita umana".

Il problema è: è giusta questa diagnosi? O meglio: spiega veramente tutto? Ossia, questo contesto della cultura contemporanea è veramente globale? I membri dell'Episcopato polacco, che devono affrontare difficoltà di ogni sorta, tendono a sostenere che il documento generalizza un insieme di sintomi caratteristici del mondo occidentale con grande sviluppo tecnologico: la situazione della Chiesa in altri Paesi presenta aspetti molti diversi.
Il Sinodo, certamente, non ignorò questa realtà: "Sappiamo bene che esistono regioni del mondo, nelle quali fino ad ora meno si avverte quella profonda trasformazione culturale, e che le questioni, che sono state sopra richiamate, non si pongono dappertutto, né da parte di tutti i sacerdoti, né dallo stesso punto di vista". Ebbene, in Polonia, forse per l'influenza di un regime politico e socioeconomico diverso, la trasformazione culturale non solo si avverte meno, ma anche in modo abbastanza diverso. Dai sondaggi condotti di recente fra i sacerdoti polacchi si desume che fra noi non si può parlare né di crisi d'identità del sacerdote, né di crisi d'identità della Chiesa. Nell'impatto con l'ideologia marxista e il suo ateismo programmato e diffuso in modo propagandistico, la Chiesa non ha perso la propria identità.
Le crisi, quando ci sono, sono individuali; e qui torniamo al problema della fede e della spiritualità. La fede è una grazia soprannaturale che si sviluppa nelle circostanze più diverse e contraddittorie. In questo tempo, posto che l'incremento del progresso materiale comporta forti tensioni nella vita spirituale, penso che si debba sottolineare che la sua risoluzione radicale dipende da un incremento proporzionale della vita della fede. È stata sempre questa, al di là delle diagnosi, la risposta fondamentale del Sinodo.


D. Parallelamente alla missione di promuovere e di garantire la fede (Magistero) c'è la funzione di orientare i credenti, trasmettendo loro fedelmente le indicazioni magisteriali. Potrebbe in tal senso spiegare l'allusione fatta poco fa alla teologia?

R. Non si tratta solo della teologia, bensì in generale, della formazione dell'opinione pubblica nella Chiesa. In questo settore svolgono un ruolo determinante i mass media, che, come è noto, si strutturano in base a leggi proprie. Questi, naturalmente, non possono agire a detrimento della loro fedeltà al messaggio. Il problema è così reale che lo stesso Sinodo se ne fece eco nel documento sulla giustizia con queste parole: "La coscienza del nostro tempo esige la verità nei sistemi di comunicazione sociale, il che include anche il diritto all'immagine obiettiva diffusa dagli stessi mezzi e la possibilità di correggere la sua manipolazione".
La Chiesa ha trattato la problematica della comunicazione in modo sempre più positivo e fiducioso (basti pensare al decreto conciliare Inter mirifica e all'istruzione Communio et progressio), ma allo stesso tempo non si può occultare l'esistenza oggettiva del rischio che i mezzi di comunicazione ledano il diritto alla verità e diventino uno dei principali centri d'ingiustizia nel mondo contemporaneo. Per questo, assegnando ai mass media la loro giusta finalità, il testo sinodale afferma esplicitamente: "Questo tipo di educazione, dato che rende tutti gli uomini più integralmente umani, li aiuterà a non continuare ad essere in futuro oggetto di manipolazioni, né da parte dei mezzi di comunicazione, né da parte delle forze politiche, ma, al contrario, li renderà capaci di forgiare il proprio destino e di costruire comunità veramente umane".

Questi testi toccano il nostro tema, anche se in un certo senso lo trascendono: aiutano a dissipare gli equivoci che nascono quando si passa dal piano della vita della Chiesa - al quale pastori e teologi apportano il loro specifico contributo, rimanendo fedeli al ministero pastorale e sacerdotale - al piano della comunicazione e della creazione di un'opinione pubblica. Ritengo pertanto giustificate le preoccupazioni dei padri sinodali per evitare che, nel passaggio delle comunicazioni sociali, si deformino elementi che sono fondamentali per la vita della Chiesa. Si tratta di porre in atto un movimento di sensibilizzazione che promuova nei responsabili della comunicazione una maggiore consapevolezza della loro responsabilità nell'edificazione della Chiesa secondo la volontà di Cristo, individuando con realismo quei fattori che - per interessi di parte e per un diffuso spirito di divismo - influiscono in modo negativo.

D. Fra le raccomandazioni rivolte ai sacerdoti dal Magistero ecclesiastico recente, spicca, per la su frequenza, la messa in guardia contro la tentazione di adattare l'annuncio della parola e i criteri di azione pastorale alla mentalità mondana. Visto che questa mentalità si mostra sempre più intrisa d'ideologia permissiva, tanto che si parla già apertamente di "teologia permissiva", ritiene che sia necessario estendere tale monito anche ai teologi?

R. Il permissivismo e le sue manifestazioni nell'ambito teologico sono fenomeni tipici della società occidentale che, in Paesi come la Polonia, hanno un'influenza per ora piuttosto relativa. Come osservatore dal di fuori posso quindi solo limitarmi a fare considerazioni generali.
In primo luogo è chiaro che all'origine del permissivismo c'è una concezione esclusivamente orizzontale - e per questo un po' riduttiva - della libertà. La libertà è l'elemento costitutivo della dignità della persona ininterrottamente proclamato e difeso dal pensiero cristiano. Occorre però anche tener presente che la libertà cristiana non è mai un fine in se stesso. È piuttosto forzatamente finalizzata: è il mezzo per il conseguimento del vero bene. L'errore di prospettiva del permissivismo consiste nel capovolgere l'obiettivo: il fine diviene la ricerca della libertà individuale, senza alcun riferimento al bene con cui la libertà s'impegna. La conseguenza pratica è che, al di fuori della finalizzazione del bene, la libertà si trasforma in abuso, e invece di fornire alla persona l'ambito per la sua autorealizzazione, determina il suo svuotamento e la frustrazione.
Della libertà non resta altro che lo slogan. È indubbio che una simile impostazione sia da considerare assolutamente contraria ai criteri che devono orientare una retta teologia e una efficace azione pastorale. Teologi e pastori devono, in tale situazione, interrogarsi incessantemente sui veri valori cristiani. L'uomo porta la norma della sua libertà - secondo l'espressione paolina - in "vasi di creta" (2 Corinzi, 4, 7). Le tentazioni sono molte, ma altrettante sono le possibilità di recuperare. Si potranno evitare molte confusioni non chiudendosi ai problemi della società permissiva, ma piuttosto ricordando che deve essere il messaggio cristiano - il suo radicamento nella coscienza naturale - e non il permissivismo, a dettare le leggi della lotta per l'autentica libertà, che è anche sempre una delle componenti indispensabili nella missione della Chiesa.


D. Qual è, a suo giudizio, Eminenza, l'insegnamento che i sacerdoti di oggi, e in particolare i sacerdoti polacchi, possono trarre da una figura come quella di Massimiliano Kolbe?

R. Il fatto che Massimiliano Maria Kolbe sia stato beatificato durante i lavori del Sinodo attribuisce alla sua figura - come ha sottolineato il cardinale Duval, presidente di turno dell'assemblea sinodale - un significato che valica i confini nazionali e fa di lui un esempio per tutti i sacerdoti: il simbolo di un tempo segnato da crudeltà disumane, ma anche da consolanti episodi di santità. Poi, per noi polacchi, la sua beatificazione acquista chiaramente un carattere particolare: ai più anziani fra noi sacerdoti ricorda i tormenti subiti con il resto della popolazione nei campi di sterminio, dove il dolore e la solidarietà prepararono la Chiesa in Polonia a nuove prove. Ma per i più giovani, padre Kolbe rappresenta un'indicazione di quanto il sacerdote deve esigere a se stesso nel servizio agli altri.
Si possono anche considerare paradigmatici altri aspetti della sua personalità (basti pensare alla sua devozione a Nostra Signora e alla sua azione apostolica nella stampa). Tutta la sua figura, tanto intimamente raffigurata dalla croce, è un appello pressante alla finalità apostolica della vocazione cristiana e alla totale rinuncia a se stessi, che costituisce una dimensione costante dell'esistenza sacerdotale.



(©L'Osservatore Romano 2 aprile 2011)


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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