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Se avete desiderio di capire che cosa insegna la Bibbia che il Magistero della Santa Chiesa, con il Sommo Pontefice ci insegna, questo Gruppo fa per voi. Non siamo "esperti" del settore, ma siamo Laici impegnati nella Chiesa che qui si sono incontrati da diverse parti d'Italia per essere testimoni anche nella rete della Verità che tentiamo di vivere nel quotidiano, come lo stesso amato Giovanni Paolo II suggeriva.
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LETTURE PER L'ANIMA (2)

Ultimo Aggiornamento: 02/01/2017 01:00
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28/08/2015 08:30
 
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 Amici, dopo il successo del primo thread - vedi qui - con ben oltre settemila visualizzazione in pochi mesi, apriamo questo secondo thread per una lettura più fluida della pagina.






PAOLO E L’EUCARISTIA
La famiglia vive l’Eucaristia della vita



1Cor 10,14-22

Perciò, o miei cari, fuggite l’idolatria. Parlo come a persone intelligenti; giudicate voi stessi quello che dico: il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane.

…Che cosa dunque intendo dire? Che la carne immolata agli idoli è qualche cosa? O che un idolo è qualche cosa? No, ma dico che i sacrifici dei pagani sono fatti a demòni e non a Dio. Ora, io non voglio che voi entriate in comunione con i demòni; non potete bere il calice del Signore e il calice dei demòni; non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demòni. O vogliamo provocare la gelosia del Signore? Siamo forse più forti di lui?

11,17.20-30 …non posso lodarvi per il fatto che le vostre riunioni non si svolgono per il meglio, ma per il peggio… Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. Ciascuno infatti, quando partecipa alla cena, prende prima il proprio pasto e così uno ha fame, l’altro è ubriaco. Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere? O volete gettare il disprezzo sulla chiesa di Dio e far vergognare chi non ha niente? Che devo dirvi? Lodarvi? In questo non vi lodo!

Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga. Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna. È per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti.


Paolo parla dell’Eucaristia come atto celebrativo, in cui il credente è totalmente coinvolto, talmente da mangiare e bere la sua condanna se non si lascia trasformare nel vissuto dal mistero che celebra. Nei due brani (25 versetti) Paolo mette in guardia le famiglie della comunità di Corinto su due rischi nel vivere il mistero eucaristico quanto mai attuali oggi.

A) Eucaristia, evento di partecipazione (1Cor 10,14-22). - La prima verità la possiamo così sintetizzare:

Non si può celebrare autenticamente l’Eucaristia
se si partecipa o si assumono le idolatrie correnti

Il problema, ai tempi di Paolo, era quello delle carni immolate agli idoli. E a questo problema aveva già dato una soluzione al c 8: gli dèi non esistono; per cui l’uso delle carni immolate agli idoli e la partecipazione alla consumazione di quella carne sono gesti indifferenti. L’unica clausola, che limita questa libertà: lo scandalo a cui poteva andare incontro il fratello debole nella fede nel vedere un credente consumare quella carne; allora, dirà: «…pur di non scandalizzare un fratello, non mangerò carne in eterno» (1Cor 8,13). È questo l’esempio di una delicatezza che vede l’esercizio della "mia" libertà non in funzione della propria maturità – che stupido orgoglio affermare: «Io sono superiore a queste cose» – ma della crescita della famiglia e della comunità.

Ora, pur mantenendo ferma questa visione liberante, introduce un nuovo elemento di valutazione: è vero, gli idoli non esistono, e quindi la partecipazione a questi riti è di per sé indifferente; esistono però le potenze del male, esistono i demoni che possono indurre il credente a un tale coinvolgimento da allontanarlo dal Dio vivo e vero, Gesù Cristo. Insomma, ci vai per curiosità e ci rimani incastrato. Ecco perché dice: «Fuggite l’idolatria» (10,14).

L’attualità di questa esortazione si evidenzia oggi dalla costatazione dell’aumento smisurato di gesti di culto in contrapposizione alla fede: sette sataniche, esoteriche, messe nere, stregonerie, magia nera, anche magia bianca. Numerose persone, in buona fede o per curiosità, sono rimaste coinvolte e sradicate totalmente dalla fede.

Ma vi sono idolatrie che non sono meno pericolose, anche se apparentemente meno gravi. Sono le idolatrie di ogni giorno. Ad es., anteporre una scelta personale (il lavoro, lo svago, il week-end…) all’Eucaristia. Insomma, quando ciò che facciamo o ciò che abbiamo diventa più importante dell’Eucaristia, cadiamo nell’idolatria.

E l’idolatria più deleteria: l’"io" al centro, il proprio egoismo. Non è facile mettere l’Eucaristia "al" centro, occorre farla divenire "il" centro; per questo richiede l’espropriazione del nostro "io", esige lo "smettere di pensare a noi stessi", così da essere capaci di assumere il modo di pensare, di volere e di agire di Cristo stesso.

B) Eucaristia, evento di comunione (1Cor 11,17-34). - La seconda affermazione è ancora più importante e la si può sintetizzare in questo modo:

Non si può celebrare l’Eucaristia, e quindi mangiare lo stesso corpo e bere lo stesso sangue, e poi non essere in comunione con i fratelli

L’Eucaristia, celebrata nella comunità, era preceduta da un pasto in comune, per il quale ognuno si impegnava a portar qualcosa; al pasto seguiva una celebrazione della Parola con preghiere e l’ascolto delle profezie e dei canti in lingue dei carismatici; e infine, la Cena del Signore: tutti momenti della stessa riunione comunitaria. Ma che cosa si era verificato?

Non solo c’era chi mangiava e beveva a sazietà e altri, i poveri, pativano la fame: «Quando siete a tavola, ognuno si affretta a mangiare il proprio cibo. E così accade che, mentre alcuni hanno ancora fame, altri sono già ubriachi» (11,21);

ma c’era anche chi, per non correre il rischio di dover spartire, arrivava prima per mangiare senza essere disturbato; difatti al v 33 Paolo afferma: «Quando vi riunite per la cena in comune, aspettatevi gli uni gli altri» (11,33).

Insomma, veniva distrutta la solidarietà proprio celebrando il sacramento della solidarietà in Cristo. «Però, caro prete, a messa sono andato, ho fatto il mio dovere». Ma una liturgia staccata dalla vita è la negazione pratica del mistero che si celebra. È questa la vera eresia; ed è quella dell’uomo contemporaneo. Per non cadere in questo penoso errore, Paolo ci offre il divino percorso che ci fa compiere l’Eucaristia.

1) L’eucaristia è convocazione. Il brano è segnato dal rincorrersi costante di un verbo: "synerchesthai" = riunirsi (vv 17.18.20.33.34). Indica chiaramente la prospettiva da cui si pone san Paolo per affrontare il problema di un’Eucaristia che non era più tale.

La famiglia è convocata per vivere una comunione profonda; è questa, per volere di Cristo, la sua ragion d’essere: il convergere di tutti attorno a una mensa, dove il mangiare lo stesso corpo e il bere lo stesso sangue diventa mangiare o bere la propria salvezza o la propria condanna. Ecco allora la varietà delle formule: mangiare (v 20), essere a tavola (v 21), mangiare e bere (v 22), prendere del pane (v 23), spezzarlo (v 24), bere al calice (v 25), mangiare questo pane e bere a questo calice (vv 26.27.28), mangiare e bere (v 29).

L’Eucaristia non è una beata convivialità, un trovarsi insieme per mangiare qualcosa. No! Insieme mangiamo il corpo del Signore e beviamo il suo sangue. Nel discorso, in cui Gesù annuncia questa mensa straordinaria, l’invito è espresso con i verbi "mangiare" e "bere"; e nell’insistere per ben tre volte sull’importanza di questa mensa, Gesù userà la terza volta addirittura il verbo "masticare" (cf Gv 6,53-56).

È vero sacrificio di comunione con Dio, ma con una novità, lontana le mille miglia dalla mentalità dei nostri padri: essi mangiavano l’animale sacrificato alla presenza del Signore, noi mangiamo e beviamo il Signore stesso che si è sacrificato per noi.

2) L’Eucaristia è memoriale. Il credente, celebrando l’Eucaristia, deve essere cosciente non solo di ricordare, ma di far memoria del mistero pasquale. Paolo ci rimanda con un’annotazione cronologica ("nella notte in cui...") a un fatto realmente accaduto. Questa annotazione è preziosa perché rende evidente il carattere storico di ciò che si celebra. È un avvenimento che è databile. Ma l’impegno del credente non è solo quello di ricordare quel fatto, ma di attualizzare questo avvenimento, vivendolo come "memoriale". Ora il memoriale è definito così: un ricordare raccontando e vivendo, tre verbi essenziali per non ridurre il memoriale a semplice ricordo e trasformare la celebrazione in rito che Dio rifiuta.

ricordare: ciò che non si ricorda si spegne in noi e svanisce dalla storia;

raccontando: gli archivi della storia sono pieni di fatti ricordati. Se non si narrano e rinarrano, non possono essere attualizzati;

vivendo: ma l’Eucaristia diventa "memoria" se ciò che ricordiamo raccontando cambia la vita, diventa "chiave di lettura" di ciò che stiamo vivendo.

3) L’Eucaristia è la nuova alleanza, fissata nel sangue di Cristo in modo irrevocabile: «Questo calice è la nuova alleanza stabilita con il mio sangue» (11,25). Quindi, un’alleanza, non più «fissata nel sangue di capri e di tori e la cenere di una vitella», ma nel sangue stesso di Colui che sancisce per noi l’alleanza con il Padre (cf Eb 9,11-12). Quindi, Cristo è il mediatore di una nuova, definitiva ed eterna alleanza. Ogni aggettivo ha un suo spessore.

C) Mangiare e bere la propria condanna. - Paolo denunzia una nefasta contraddizione: i corinzi celebrano un sacrificio di comunione, per la quale Cristo ha dato la vita, e i corinzi sono profondamente divisi tra di loro. Essi mangiano il pane e bevono dal calice «senza discernere il Corpo del Signore» (11,29).

E la situazione doveva essere talmente grave a causa di questi attentati alla comunione, che Paolo giustifica la presenza di malattie e di morti improvvise: «Per questa ragione vi sono tra voi molti malati e molti infermi e parecchi sono morti» (11,30). Alcuni esegeti criticano questa drastica connessione tra "colpa" e "pena". Senza chiamare in causa culture preistoriche, è più che evidente che tensioni gravi e incancrenite influiscono anche sulla salute fisica. I travasi di bile rovinano stomaco e fegato e possono provocare situazioni senza sbocco se non nella morte che chiude la vicenda penosa.

Evidentemente la connessione non è assoluta, ma c’è. Allora, come interviene Dio che è Padre? Di certo non per punire, perché la punizione è già insita nel peccato stesso. Dio interviene per redimere e trasformare la punizione in crescita, in purificazione, in "felice colpa". È ora di svegliarci dal sonno. Occorre permettere all’Eucaristia, il sacramento della massima efficacia, della "presenza più presente", di rinnovare ogni volta che la celebriamo il frutto che le è proprio: la profonda comunione con Dio e in lui la comunione tra di noi.


Riflessioni personali o di coppia

Quali sono le idolatrie correnti, in cui anche il credente può incorrere? Riflettete sulla più pericolosa: l’ "io" al centro.
L’Eucaristia è "mensa" di comunione; ma non bisogna mai dimenticare che è anche "sacrificio" e "memoriale". Riflettete sui tre termini.
Che cosa significa per voi "mangiare e bere la propria condanna


  L’EUCARISTIA
È CELEBRARE L’AMORE


Racconta il card. Angelo Comastri:

«Tempo fa mi è capitata tra le mani una rivista che pubblicava la foto di una manifestazione avvenuta a Milano e organizzata da un gruppo di musulmani.

Alcuni manifestanti tenevano in mano dei cartelloni, nei quali era perfettamente leggibile questa scritta:

Cristiani antropofagi! Cristiani ematofagi!
Cristianesimo sempre più giù e Islam sempre più su.

Non credevo ai miei occhi… Noi cristiani siamo, forse, dei cannibali? Mangiamo il corpo di Cristo come si mangia una bistecca alla fiorentina? Assolutamente no!… Che cosa avviene, infatti, nella santa comunione?

Ve lo spiego con un esempio preso dalla vita di una giovane famiglia, nella quale è sbocciata una nuova creatura.

La mamma tiene in braccio la terza figlia nata da pochi giorni, mentre il papà accompagna il fratellino di tre anni e mezzo e la sorellina di cinque anni… a salutare l’ultima arrivata.

I bambini entrano nella camera della mamma e osservano la scena che si presenta al loro sguardo: la mamma sta allattando.

I bambini restano sorpresi, perché non capiscono il senso di quel gesto tipicamente materno. In modo particolare il bambino di tre anni e mezzo non vuole avvicinarsi alla mamma: è come bloccato da un dubbio e da una paura.

Sollecitato a farsi avanti, non si muove. Ma improvvisamente scoppia a piangere e, rivolto al papà, grida:

– Papà! Guarda! Quella lì mi mangia la mamma.

La mamma, infatti, stava facendo la mamma; stava, cioè, nutrendo la vita di sua figlia con qualcosa che veniva dalla sua vita senza però intaccare la sua vita. Ma il bambino non riusciva a capire.

Così alcuni, davanti all’Eucaristia, non capiscono che è un gesto attraverso il quale l’amore maternamente dirompente di Dio dà la vita ai suoi figli nutrendoli di amore: è l’amore, infatti, il cibo eucaristico».





DISCORSO DEL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO II
AI MEMBRI DELLA SACRA PENITENZIERIA APOSTOLICA
E DI TUTTI I COLLEGI DEI PADRI PENITENZIERI MINORI,
ORDINARI E STRAORDINARI,
DELLE BASILICHE PATRIARCALI DI ROMA

Sala del Trono
Venerdì, 30 gennaio 1981

 

Signor Cardinale! 
Reverendissimi Padri Penitenzieri!

Sono particolarmente lieto di ricevere unitamente la Sacra Penitenzieria e tutti i Collegi dei Padri Penitenzieri Minori, ordinari e straordinari, delle Basiliche Patriarcali dell’Urbe.

Mentre ringrazio il Signor Cardinale Penitenziere Maggiore per le cortesi espressioni con cui ha interpretato i vostri sentimenti, di gran cuore do a tutti voi il benvenuto in questa che è la casa del Padre comune, ed auspico che questo incontro di fede e di reciproca carità sia per tutti noi, che lo viviamo, una efficace ora di grazia.

È tanto maggiore la soddisfazione, che mi proviene da questa udienza, perché essa ha luogo mentre nella Chiesa si va leggendo e approfondendo l’enciclica Dives in Misericordia: sotto diversi aspetti, tra loro complementari, il vostro ufficio è dedicato all’esercizio del ministero della misericordia divina; la Penitenzieria, poi, ha una parte di estrema delicatezza e di non poca importanza nell’aiutare il Papa nel suo ufficio delle chiavi e nella potestà di sciogliere e di legare. Essa abbraccia nell’ambito della sua competenza la Chiesa in tutta la sua cattolicità, senza limiti derivanti dal rito o dal territorio. I Padri Penitenzieri, poi, per la loro origine dai più svariati paesi del mondo, per la molteplicità delle lingue nelle quali si esprimono, e perché di fatto ad essi si rivolgono con fiducia ecclesiastica i fedeli laici di tutto il mondo, quando vengono “videre Petrum” (Gal 1,18), rappresentano in atto il ministero della Riconciliazione, che, per impulso dello Spirito Santo, come nella Pentecoste, si esercita sui “viri religiosi ex omni natione, quae sub caelo est” (At 2,5).

Della Sacra Penitenzieria si vale il Papa per venire incontro ai problemi e difficoltà, che i fedeli avvertono e soffrono nell’intimo delle loro coscienze. Tale compito è caratteristico della Sacra Penitenzieria: mentre, infatti, altri Dicasteri della Santa Sede agiscono in temi spirituali, sì ma in quanto questi sono oggetto del regime esterno, essa tocca quei temi all’interno del rapporto unico, misterioso, e degno della più grande riverenza, che le singole anime hanno con Dio, loro Creatore, Signore, Redentore e Ultimo Fine. Di qui e perciò l’altissimo e inviolato segreto concernente le pratiche del Tribunale della Sacra Penitenzieria, si tratti di assoluzione da censure riservate alla Santa Sede, di scioglimento di dubbi di coscienza, spesso tormentosi, di equitative e caritatevoli composizioni di obblighi di religione o di giustizia.

E mi piace ricordare come la Sacra Penitenzieria, a parte la grazia di stato con la quale il Signore soccorre chiunque nella Chiesa svolga un compito istituzionale, goda, in questa occulta opera di risanamento e di edificazione delle coscienze, del credito di più che sei secoli di una raffinata esperienza ed altresì di apporti dottrinali, che le sono provenuti e le provengono da esperti teologi e canonisti.

In stretta connessione con questo ufficio, è l’altro affidato alla Sacra Penitenzieria, di “moderari” cioè la concessione e l’uso delle Sacre Indulgenze in tutta la Chiesa. A questo proposito voglio ricordare che l’amore, soprannaturalmente inteso, per le Indulgenze, connesse come sono queste con la certezza del peccato e del Sacramento della riconciliazione, con la fede nell’al di là, specialmente nel Purgatorio, con la reversibilità dei meriti del Corpo Mistico, cioè con la comunione dei santi, e una comprensiva tessera di autentica cattolicità. Mi è caro dire al Cardinale Penitenziere Maggiore, ai Prelati e agli Officiali della Sacra Penitenzieria, che ho fiducia nella loro opera e che sono ad essi grato per l’ausilio che mi prestano nel mio apostolico ministero; ed amo ripetere a loro riguardo l’incoraggiamento, che altre volte ho rivolto a tutta la Curia Romana: dietro e al di sopra delle carte, continuino a vedere le anime, il mistero di singole anime, per la cui salvezza il Signore vuole la mediazione di altre anime e della Chiesa tutta nella sua compagine gerarchica.

I Padri Penitenzieri delle Basiliche Patriarcali – come è noto, i Francescani Conventuali in San Pietro. i Frati Minori in san Giovanni in Laterano. i Domenicani in Santa Maria Maggiore. i Benedettini in san Paolo. quali Penitenzieri Ordinari. ed inoltre. quali Penitenzieri straordinari membri di altre benemerite famiglie religiose, in san Pietro, e quelli delle rispettive famiglie degli ordinari nelle altre tre Basiliche – portano il “pondus diei et aestum” (cf. Mt 20,12) di ascoltare per lunghe ore, ogni giorno, e specialmente nei giorni festivi, le confessioni sacramentali.

La Santa Sede, con la stessa costituzione dei Collegi dei Penitenzieri e con le particolari norme mediante le quali, a costo di esentarli da pratiche consuetudinarie o “ex lege” delle rispettive famiglie religiose, li consacra a dedicare la totalità del loro ministero alle confessioni, intende dimostrare nei fatti la singolarissima venerazione con la quale riguarda l’uso del Sacramento della penitenza e, in specie, la forma, che deve essere normale di esso, quella cioè della confessione auricolare. E ricordo ancora la gioia e l’emozione che ho provate, nello scorso Venerdì Santo, nel discendere nella Basilica di san Pietro per condividere con voi l’alto e umile e preziosissimo ministero che esercitate nella Chiesa.

Desidero dire ai Padri Penitenzieri ed altresì a tutti i sacerdoti del mondo: dedicatevi, a costo di qualsiasi sacrificio, alla amministrazione del Sacramento della riconciliazione, e abbiate la certezza che esso, più e meglio di qualsiasi accorgimento umano, di qualsiasi tecnica psicologica, di qualsiasi espediente didattico e sociologico, costruisce le coscienze cristiane; nel Sacramento della penitenza infatti è all’opera Dio “Dives in misericordia” (cf. Ef 2,4). E tenete presente che vige ancora, e vigerà per sempre nella Chiesa l’insegnamento del Concilio Tridentino circa la necessità della confessione integra dei peccati mortali (Concilio Tridentino, Sess. XIV, cap. 5 e can. 7: Denz.-S. 1679-1683; 1707); vige e vigerà sempre nella Chiesa la norma inculcata da san. Paolo e dallo stesso Concilio di Trento, per cui alla degna recezione dell’Eucaristia si deve premettere la confessione dei peccati, quando uno è conscio di peccato mortale (Concilio Tridentino, Sess. XIII, cap. 7, e can. 11: Denz.-S. 1647-1661).

Nel rinnovare questo insegnamento e queste raccomandazioni, non si vuole ignorare certo che la Chiesa di recente (cf. AAS 64 [1972] 510-514), per gravi ragioni pastorali e sotto precise e indispensabili norme, per facilitare il bene supremo della grazia a tante anime, ha esteso l’uso dell’assoluzione collettiva. Ma voglio richiamare la scrupolosa osservanza delle condizioni citate, ribadire che, in caso di peccato mortale. anche dopo l’assoluzione collettiva, sussiste l’obbligo di una specifica accusa sacramentale del peccato. e confermare che, in qualsiasi caso, i fedeli hanno diritto alla propria confessione privata.

A questo proposito desidero mettere in luce che non a torto la società moderna è gelosa dei diritti imprescrittibili della persona: come mai – allora – proprio in quella più misteriosa e sacra sfera della personalità, nella quale si vive il rapporto con Dio, si vorrebbe negare alla persona umana, alla singola persona di ogni fedele, il diritto di un colloquio personale, unico, con Dio, mediante il ministro consacrato? Perché si vorrebbe privare il singolo fedele, che vale “qua talis” di fronte a Dio, della gioia intima e personalissima di questo singolare frutto della Grazia?

Vorrei poi aggiungere che il Sacramento della penitenza, per quanto comporta di salutare esercizio dell’umiltà e della sincerità, per la fede che professa “in actu exercito” nella mediazione della Chiesa, per la speranza che include, per l’attenta analisi della coscienza che esige, è non solo strumento diretto a distruggere il peccato – momento negativo –, ma prezioso esercizio della virtù, espiazione esso stesso, scuola insostituibile di spiritualità, lavorio altamente positivo di rigenerazione nelle anime del “vir perfectus”, “in mensuram aetatis plenitudinis Christi” (cf.Ef 4,13). In tal senso, la confessione bene istituita è già di per se stessa una forma altissima di direzione spirituale.

Appunto per tali ragioni l’ambito di utilizzazione del Sacramento della riconciliazione non può ridursi alla sola ipotesi del peccato grave: a parte le considerazioni di ordine dogmatico che si potrebbero fare a questo riguardo, ricordiamo che la confessione periodicamente rinnovata, cosiddetta “di devozione”, ha accompagnato sempre nella Chiesa l’ascesa alla santità.

Mi piace concludere ricordando a me stesso, a voi, Padri Penitenzieri, e a tutti i sacerdoti, che l’apostolato della confessione ha già in se stesso il suo premio: la consapevolezza di aver restituito ad una anima la grazia divina non può non riempire un sacerdote di una gioia ineffabile. E non può non animarlo alla più umile speranza che il Signore, al termine della sua giornata terrena, gli aprirà le vie della vita: “Qui ad iustitiam erudierint multos, quasi stellae in perpetuas aeternitates” (Dn 12,13).

Mentre invoco sulle vostre persone e sul vostro delicato e meritorio ministero l’abbondanza delle grazie divine, vi imparto di cuore la propiziatrice benedizione apostolica, segno della mia costante benevolenza.





[Modificato da Caterina63 28/08/2015 08:50]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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29/08/2015 11:48
 
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Santissimo Nome di Maria

12 settembre - Memoria Facoltativa

 

La festa del santo nome di Maria fu concessa da Roma, nel 1513, ad una diocesi della Spagna, Cuenca. Soppressa da san Pio V, fu ripristinata da Sisto V e poi estesa nel 1671 al Regno di Napoli e a Milano. Il 12 settembre 1683, avendo Giovanni III Sobieski coi suoi Polacchi vinto i Turchi che assediavano Vienna e minacciavano la cristianità, il Beato Innocenzo XI, in rendimento di grazie, estese la festa alla Chiesa universale e la fissò alla domenica fra l'Ottava della Natività. Il santo Papa Pio X la riportò al 12 settembre.

Martirologio Romano: Santissimo Nome della beata Vergine Maria: in questo giorno si rievoca l’ineffabile amore della Madre di Dio verso il suo santissimo Figlio ed è proposta ai fedeli la figura della Madre del Redentore perché sia devotamente invocata. 


Nella storia dell'esegesi ci sono state diverse interpretazioni del significato del nome di Maria:

1) "AMAREZZA"

questo significato e` stato dato da alcuni rabbini: fanno derivare il nome MIRYAM dalla radice MRR = in ebraico "essere amaro". Questi rabbini sotengono che Maria, sorella di Mose`, fu chiamata cosi` perche', quando nacque, il Faraone comincio` a rendere amara la vita degli Israeliti , e prese la decisione di uccidere i bambini ebrei.
Questa interpretazione puo` essere accettata da noi Cristiani pensando quanto dolore e quanta amarezza ha patito Maria nel corredimerci: 
[Lam. 1,12] Voi tutti che passate per la via, considerate e osservate se c'e` un dolore simile al mio dolore...
Inoltre il diavolo, di cui il Faraone e` figura, fa guerra alla stirpe della donna, rendendo amara la vita ai veri devoti di Maria, che, per altro, nulla temono, protetti dalla loro Regina.

2) "MAESTRA E SIGNORA DEL MARE"

Secondo questa interpretazione il nome di Maria deriverebbe da MOREH (ebr. Maestra-Signora) + YAM (= mare): come Maria, la sorella di Mose`, fu maestra delle donne ebree nel passaggio del Mar Rosso e Maestra nel canto di Vittoria (cf Es 15,20), cosi` "Maria e` la Maestra e la Signora del mare di questo secolo, che Ella ci fa attraversare conducendoci al cielo" (S.Ambrogio, Exhort. ad Virgines)
Altri autori antichi che suggeriscono questa interpretazione: Filone, S. Girolamo, S. Epifanio. 
Questo parallelo tipologico tra Maria sorella di Mose` e Maria, madre di Dio, e` ripreso da Ps. Agostino, che chiama Maria "tympanistria nostra" (Maria sorella di Mose` e la suonatrice di timpano degli Ebrei, Maria SS. e` la tympanistria nostra, cioe` dei Cristiani: il cantico di Mose` del N.T sarebbe il Magnificat, cantato appunto da Maria: questa interpretazione e` sostenuta oggi dal P. Le Deaut, uno dei piu` grandi conoscitori delle letteratura tergumica ed ebraica in genere: secondo questo autore, S. Luca avrebbe fatto volontariamente questo parallelismo.

3) "ILLUMINATRICE, STELLA DEL MARE"

Secondo questa interpretazione il nome di Maria deriverebbe da: prefisso nominale (o participiale) M + 'OR (ebr.= luce) + YAM (= mare): Cosi` S. Gregorio Taumaturgo, S. Isidoro, S. Girolamo (insieme alla precedente)
Alcuni autori ritengono che S. Girolamo in realta` non abbia interpretato il nome come "stella del mare", ma come "stilla maris", cioè: goccia del mare. 
La presenza della radice di "mare" nel nome di Maria, ha suggerito diverse interpretazioni e/paragoni di Maria con il "mare":
Pietro di Celles (+1183) Maria = "mare di grazie": di qui Montfort riprende: "Dio Padre ha radunato tutte le acque e le ha chiamate mare, ha radunato tutte le grazie e le ha chiamate Maria" (Vera Devozione, 23).
Qohelet 1,7: "tutti i fiumi entrano nel mare"; S. Bonaventura sostiene che tutte le grazie (= tutti i fiumi) che hanno avuto gli angeli, gli apostoli, i martiri, i confessori, le vergini, sono "confluite" in Maria, il mare di grazie.
S.Brigida: "ecco perche` il nome di Maria e` soave per gli angeli e terribile per i demoni"
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Ave maris stella, Dei Mater alma, atque semper virgo, felix coeli porta...
Questo inno sembra una meditazione sul nome di Maria, in rapporto a Maria sorella di Mosè: 
"Ave maris stella" (cf significato 3); "Dei Mater ALMA atque semper virgo": Maria, sorella di Mose`, viene chiamata in Es 2,8, `ALMAH = "vergine" e, etimologicamente "nascosta"; "felix coeli porta", cioe` "maestra del mare" di questo secolo che Ella ci fa attraversare (cf. significato 2)

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4) PIOGGIA STAGIONALE

Secondo questa interpretazione il nome di Maria deriverebbe da MOREH (ebr. PRIMA PIOGGIA STAGIONALE)
Maria e` considerata come Colei che manda dal cielo una "pioggia di grazia" e "pioggia di grazia essa stessa".
Questa interpretazione, che C. A Lapide attribuisce a Pagninus, viene in parte ripresa da S. Luigi di Montfort nella Preghiera Infuocata: commentando Ps. 67:10 "pluviam voluntariam elevasti Deus, hereditatem tuam laborantem tu confortasti" (Una pioggia abbondante o Dio mettesti da parte per la tua eredita`), il Montfort dice:
"[P.I. 20] Che cos'e`, Signore, questa pioggia abbondante che hai separata e scelta per rinvigorire la tua eredita` esausta? Non sono forse questi santi missionari, figli di Maria tua sposa, che tu devi scegliere e radunare per il bene della tua Chiesa cosi` indebolita e macchiata dai peccati dei suoi figli?" 
Maria, pioggia di grazie, formera` e mandera` sulla terra una pioggia di missionari

5) ALTEZZA

Secondo questa interpretazione il nome di Maria deriverebbe da MAROM (ebr. ALTEZZA, EXCELSIS): questa ipotesi e` sostenuta, tra gli antichi dal Caninius, e, tra i moderni, da VOGT, soprattutto in base alle recenti scoperte dei testi ugaritici, che hanno permesso la comprensione di molte radici ebraiche.
Luca 1:78 per viscera misericordiae Dei nostri in quibus visitavit nos oriens EX ALTO
questo versetto, in base al testo greco e alla retroversione in ebraico, puo` essere tradotto: 
ci ha visitati dall'alto un sole che sorge: Cristo e` il sole che sorge che viene dall'alto (il Padre) 
oppure
ci ha visitati un sole che sorge "dall'alto" = da Maria 

***



Di tutti queste ipotesi, qual e` quella giusta? forse la Provvidenza ci ha lasciato nel dubbio perche' nel nome di Maria possiamo trovare nel contempo tutti i significati che l'analogia della fede ci suggerisce.


Autore: 
Don Alfredo Morselli


     


12 SETTEMBRE

IL SANTO NOME DI MARIA 

 

Oggetto della festa.

Qualche giorno dopo la nascita del Salvatore la Chiesa ha consacrato una festa per onorarne il nome benedetto. Ci insegnava così quanto questo nome contiene per noi di luce, di forza, di soavità, per incoraggiarci ad invocarlo con fiducia nelle nostre necessità (L'anno Liturgico, 183-187).

Così dopo la festa della Natività della Santissima Vergine, la Chiesa consacra un giorno ad onorare il santo nome di Maria per insegnarci attraverso la Liturgia e l'insegnamento dei santi, tutto quello che questo nome contiene per noi di ricchezze spirituali, perché, come quello di Gesù, lo abbiamo sulle labbra e nel cuore.

 

Storia della festa.

La festa del santo nome di Maria fu concessa da Roma, nel 1513, ad una diocesi della Spagna, Cuenca. Soppressa da san Pio V, fu ripristinata da Sisto V e poi estesa nel 1671 al Regno di Napoli e a Milano. Il 12 settembre 1683, avendo Giovanni Sobieski coi suoi Polacchi vinto i Turchi che assediavano Vienna e minacciavano la cristianità, sant'Innocenzo XI, in rendimento di grazie, estese la festa alla Chiesa universale e la fissò alla domenica fra l'Ottava della Natività. Il santo Papa Pio X la riportò al 12 settembre.

Nome uscito dal cuore di Dio.

Più che il ricordo storico della istituzione della festa, ci interessa il significato del nome benedetto dato alla futura Madre di Dio e nostra.

Il nome presso i Giudei aveva un'importanza grandissima e si soleva imporre con solennità. Sappiamo dalla Scrittura che Dio intervenne qualche volta nella designazione del nome da imporre a qualche suo servo. L'angelo Gabriele previene Zaccaria che suo figlio si chiamerà Giovanni ed egli ancora dice a Giuseppe, spiegandogli l'Incarnazione del Verbo: "Gli porrai nome Gesù". Si può quindi pensare che Dio in qualche modo sia intervenuto, perché alla Santissima Vergine fosse imposto il nome richiesto dalla sua grandezza e dignità. Gioacchino ed Anna imposero alla loro bambina il nome di Maria che a noi è tanto caro.

 

"Il tuo nome è un olio sparso".

I Santi si sono compiaciuti di paragonare il nome di Maria a quello di Gesù. San Bernardo aveva applicato al Signore il testo della Cantica: "Il tuo nome è un olio sparso" (Cantico dei Cantici, 1,3), perché l'olio dà luce, nutrimento e medicina. Anche Riccardo di san Lorenzo dice: "Il nome di Maria è paragonato all'olio, perché, dopo il nome di Gesù, sopra tutti gli altri nomi, rinvigorisce i deboli, intenerisce gli induriti, guarisce i malati, dà luce ai ciechi, dona forza a chi ha perso ogni vigore, lo unge per nuovi combattimenti, spezza la schiavitù del demonio e, come l'olio sorpassa ogni liquore, sorpassa ogni nome" (De Laudibus B. M. V. l. II, c. 2).

 

Altre interpretazioni.

Oltre sessantasette interpretazioni diverse sono state date al nome di Maria secondo che fu considerato di origine egiziana, siriaca, ebraica o ancora nome semplice o composto. Non vogliamo trattenerci sulle interpretazioni e scegliamo le quattro principali riferite dagli antichi scrittori. "Il nome di Maria, dice sant'Alberto Magno, ha quattro significati: illuminatricestella del maremare amarosignora o padrona" (Commento su san Luca, I, 27).

 

È la Vergine immacolata che l'ombra del peccato non offuscò giammai; è la donna vestita di sole; è "colei la cui vita gloriosa ha illustrato tutte le Chiese" (Liturgia); è infine colei, che ha dato al mondo la vera luce, la luce di vita.

 

Stella del mare.

La liturgia la saluta così nell'inno, così poetico e popolare, Ave maris stella e ancora nell'Antifona dell'Avvento e del tempo di Natale: Alma Redemptoris Mater. Sappiamo che la stella del mare è la stella polare, che è la stella più brillante, più alta e ultima di quelle che formano l'Orsa Minore, vicinissima al polo fino a sembrare immobile e conservare una posizione quasi invariabile per lunghe notti e per questo fatto è di molta utilità per orientarsi sulla carta del cielo e aiuta il navigante a dirigersi, quando non possiede la bussola.

Così Maria, fra le creature, è la più alta in dignità, la più bella, la più vicina a Dio, invariabile nel suo amore e nella sua purezza, è per noi esempio di tutte le virtù, illumina la nostra vita e ci insegna la via per uscire dalle tenebre e giungere a Dio, che è la vera luce.

 

Mare amaro.

Maria lo è nel senso che, nella sua materna bontà, rende amari per noi i piaceri della terra, che tentano di ingannarci e di farci dimenticare il vero ed unico bene; lo è ancora nel senso che durante la Passione del Figlio il suo cuore fu trapassato dalla spada del dolore. È mare, perché, come il mare è inesauribile, è inesauribile la bontà e generosità di Maria per tutti i suoi figli. Le gocce d'acqua del mare non possono essere contate se non dalla scienza infinita di Dio e noi possiamo appena sospettare la somma immensa di grazie che Dio ha deposto nell'anima benedetta di Maria, dal momento dell'Immacolato Concepimento alla gloriosa Assunzione in cielo.

 

Signora o padrona.

Maria è veramente, secondo il titolo datole in Francia, Nostra Signora. Signora vuoi dire Regina, Sovrana. Regina è veramente Maria, perché la più santa di tutte le creature, la Madre di Colui, che è Re per titolo di Creazione, Incarnazione e Redenzione; perché, associata al Redentore in tutti i suoi misteri, gli è gloriosamente unita in cielo in corpo e anima e, eternamente beata, intercede continuamente per noi, applicando alle nostre anime i meriti da lei acquistati davanti a Lui e le grazie delle quali è fatta mediatrice e dispensiera.

 

Discorso di san Bernardo.

Preghiamo la Santissima Vergine, perché voglia realizzare per noi i diversi significati, che santi e dottori hanno dato al suo nome benedetto, riportando la conclusione della seconda omelia di san Bernardo sul Vangelo Missus est:

"E il nome della Vergine era Maria. Diciamo qualche cosa di questo nome, che significa stella del mare. Si adatta perfettamente alla Madre di Dio, perché come l'astro emette il suo raggio, così la Vergine concepisce suo Figlio e il raggio non diminuisce lo splendore della stella e il Figlio non diminuisce la verginità della Madre. Nobile stella sorta da Giacobbe il cui raggio illumina il mondo, splendente nei cieli, penetra l'abisso, percorre la terra. Riscalda più che i corpi le anime, inaridisce il vizio, feconda la virtù. Sì, Maria è l'astro fulgente e senza uguali che era necessario sul mare immenso, che scintilla di meriti e rischiara coi suoi esempi la nostra vita.

Chiunque tu sia che nel flusso e riflusso del secolo abbia impressione di camminare meno su terra ferma che in mezzo alla tempesta turbinante, non distogliere gli occhi dall'astro splendido, se non vuoi essere inghiottito dall'uragano. Se si desta la burrasca delle tentazioni, se si drizzano gli scogli delle tribolazioni, guarda la stella e invoca Maria. Se sei in balìa dei flutti della superbia o dell'ambizione, della calunnia o della gelosia, guarda la stella e invoca Maria. Se collera, avarizia, attrattive della carne, scuotono la nave dell'anima, volgi gli occhi a Maria. Turbato per l'enormità del delitto, vergognoso di te stesso, tremante all'avvicinarsi del terribile giudizio, senti aprirsi sotto i tuoi passi il gorgo della tristezza o l'abisso della disperazione, pensa a Maria. Nei pericoli, nell'angoscia, nel dubbio, pensa a Maria, invoca Maria.

Sia sempre Maria sulle tue labbra, sia sempre nel tuo cuore e vedi di imitarla per assicurarti il suo aiuto. Seguendola non devierai, pregandola non dispererai, pensando a lei tu non potrai smarrirti. Sostenuto da lei non cadrai, protetto da lei non avrai paura, guidato da lei non sentirai stanchezza: chi da lei è aiutato arriva sicuro alla meta. Sperimenta così in te stesso il bene stabilito in questa parola il nome della Vergine era Maria".

 

MESSA

EPISTOLA (Eccli 24,17-2l). - Come vite diedi frutti di soave odore, e i miei fiori dan frutti di gloria e di ricchezza. Io sono la madre del bell'amore e del timore, della scienza e della santa speranza. In me ogni grazia della via e della verità, in me ogni speranza di vita e di virtù. Venite a me, o voi tutti che mi bramate, e saziatevi dei miei frutti; perché il mio spirito è più dolce del miele, e il mio retaggio più del favo di miele. Il ricordo di me durerà nelle generazioni dei secoli. Chi mi mangia avrà ancora fame, e chi mi beve avrà ancora sete. Chi mi ascolta non sarà confuso, e chi lavora per me non peccherà; chi mi illustra avrà la vita eterna.

 

Tutta la compiacenza del cielo, tutte le speranze della terra si fissano sulla culla in cui Maria dorme, mentre veglia per Dio il suo cuore (Ct 5,2). La Sapienza fa il proprio elogio (Eccli 24,1): per la beata figlia di Anna e di Gioacchino le preferenze del suo amore, manifestate all'origine del mondo sono ormai giustificate e per sempre sarà sua delizia essere con i figli degli uomini (Pr 8,31). La vigna eletta, la vigna del Pacifico è davanti a noi e annunzia con i suoi fiori profumati (Ct 8,11-12) il grappolo divino, il succo del quale, spremuto nel torchio, feconderà tutte le anime, inebrierà terra e cielo.

 

VANGELO (Lc 1,26-38). - In quel tempo: L'Angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea detta Nazareth, ad una Vergine sposata ad un uomo della casa di David, di nome Giuseppe, e la Vergine si chiamava Maria. Ed entrato da lei l'Angelo disse: Salute, o piena di grazia: il Signore è teco! Benedetta tu fra le donne! Ed essa turbata a queste parole, pensava che specie di saluto fosse quello. E l'Angelo le disse: Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio; ecco, tu concepirai nel seno e partorirai un figlio, e gli porrai nome Gesù. Questi sarà grande, e sarà chiamato figlio dell'Altissimo; e il Signore Dio gli darà il trono di David suo padre; e regnerà in eterno sulla casa di Giacobbe; e il suo regno non avrà mai fine. Allora Maria disse all'Angelo: Come avverrà questo, se io non conosco uomo? E l'Angelo rispose: Lo Spirito santo scenderà in te e la potenza dell'Altissimo ti adombrerà: per questo il Santo che nascerà da te sarà chiamato figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, ha concepito anche lei un figlio nella sua vecchiaia, ed è già nel sesto mese, lei che era detta sterile; ché niente è impossibile davanti a Dio. E Maria disse: Ecco l'ancella del Signore: si faccia di me secondo la tua parola.

 

Abbiamo qui la più solenne ambasciata di cui la storia angelica ed umana abbia conservato ricordo, e presenta in Maria ciò che il suo nome significa, la Padrona del mondo. L'interesse più alto che possa toccare l'umanità presente, passata o futura, le gerarchie celesti, Dio stesso è trattato tra l'Altissimo e la Vergine di Nazareth soli, come soli aventi titolo da una parte per proporlo e dall'altra per accettarlo. L'angelo non è che un messaggero e l'uomo è con lui nell'attesa. Maria contratta con il Creatore, in nome dell'uomo e dell'angelo, come in nome proprio, in nome del mondo intero, che rappresenta e che domina con la sua regalità.

 

da: dom Prosper Guéranger, L'anno liturgico. - II. Tempo Pasquale e dopo la Pentecoste, trad. it. L. Roberti, P. Graziani e P. Suffia, Alba, 1959, p. 1067-1072

 

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[Modificato da Caterina63 29/08/2015 11:49]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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  CITTÀ DEL VATICANO , 30 agosto, 2015 / (ACI Stampa).- 








Verità, amore e bontà che vengono da Dio rendono l’uomo puro, e verità, amore e bontà si incontrano nella Parola, che libera dalla ‘smemoratezza’ di un mondo che non pensa più a Dio”.

È il cuore dell’omelia che il Papa emerito Benedetto XVI ha pronunciato questa mattina durante la celebrazione eucaristica da lui presieduta presso la chiesa del Campo Santo Teutonico in Vaticano, alla quale hanno partecipato i membri dello Schülerkreis (il Circolo degli Allievi di Ratzinger) e del Nuovo Schülerkreis, che si sono riuniti nei giorni scorsi a Castel Gandolfo per riflettere sul tema “Come parlare oggi di Dio”, animati dal sacerdote e filosofo ceco Tomás Halík.

Nell’omelia in tedesco, il Papa emerito si è soffermato sul Vangelo secondo Marco proclamato questa domenica. Benedetto XVI ha iniziato ricordando come esattamente tre anni fa, in occasione dell’incontro dello Schülerkreis, veniva letto lo stesso Vangelo e il cardinale Schönborn che teneva l’omelia aveva posto la domanda: “Ma non si deve forse essere purificati anche dall’esterno e non solo dall’interno? Il male viene solo dall’interno o anche dall’esterno?”.
Benedetto XVI ha ammesso di non ricordare la risposta che allora diede il cardinale, ma di aver trovato molto interessante la domanda. E proprio sulla risposta ad essa ha concentrato la sua meditazione. “Per una risposta adeguata – ha osservato – bisogna ampliare la domanda e tenere in considerazione non solo questo passo del Vangelo, ma il Vangelo nella sua interezza”.

Non viene forse a noi anche dall’esterno il male che ci aggredisce? È il senso dell’interrogativo posto dal Pontefice emerito. Certo, è necessario essere purificati da tutta l’impurità che sta fuori: “potremmo dire – ha affermato Benedetto XVI – rispondere con un’igiene esteriore alle tante malattie e a volte epidemie che ci minacciano”.
È bene avere questo tipo di responsabilità per l’esteriore affinché la morte non prevalga, ha notato il Papa emerito. E tuttavia, ha proseguito, questo non basta, perché c’è anche “l’epidemia del cuore”, quella interiore, che “porta alla corruzione e ad altre sporcizie ancora, quelle che conducono l’uomo a pensare solo a sé e non al bene”.
Così assume importanza decisiva, accanto al culto, l’ethos, ovvero “l’igiene interiore”: “Cosa fa l’uomo puro? Qual è l’autentica forza di purificazione? Come si giunge all’igiene del cuore?” ha domandato Benedetto XVI. “In un altro passo del Vangelo – ha continuato – il Signore dice ai suoi: ‘Voi siete puri, a causa della parola che vi ho annunciato’ ”. Si diventa dunque puri per mezzo della Parola: “Verità, amore e bontà che vengono da Dio rendono l’uomo puro, e verità, amore e bontà si incontrano nella Parola, che libera dalla ‘smemoratezza’ di un mondo che non pensa più a Dio”. “La Parola è molto più delle parole, perché è attraverso le parole che incontriamo la Parola, Lui stesso – ha sostenuto il Papa emerito –.
La Parola è Gesù Cristo stesso e noi incontriamo la Parola anche in coloro che Lo riflettono, che ci mostrano il volto di Dio e che riflettono la sua mitezza, la sua umiltà di cuore, la sua semplicità, la sua amorevolezza, la sua sincerità”. “Che il Signore – ha concluso Benedetto XVI – ci conceda questa ‘igiene del cuore’, per mezzo della Verità, che viene da Dio: è questa la forza di purificazione”.

Nella preghiera dei fedeli, si è pregato tra l’altro per Papa Francesco, perché il Signore lo assista nella sua opera, specialmente per l’Anno Santo della Misericordia.

Al termine della Messa, si è svolta nei locali attigui del Campo Santo Teutonico una cerimonia per l’inaugurazione dell’Aula Papa Benedetto – Joseph Ratzinger, che il Papa emerito ha benedetto. Nel suo intervento introduttivo, monsignor Hans Peter Fischer, rettore del Collegio Teutonico, ha inoltre annunciato che il 18 novembre si terrà la cerimonia di apertura della Biblioteca Romana Joseph Ratzinger – Benedetto XVI, interamente dedicata alla sua vita e al suo pensiero come studioso e come Pontefice, all’interno della Biblioteca del Collegio Teutonico e dell’Istituto Romano della Società di Görres, in Vaticano.

L’evento prevede una prolusione del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, sul tema: “Dalla Bibbia alla Biblioteca – Benedetto XVI e la Cultura della Parola”.

La Biblioteca intitolata al Papa emerito – iniziativa sostenuta dalla Fondazione Vaticana Joseph Ratzinger-Benedetto XVI – dispone di circa mille volumi nelle diverse lingue e si caratterizza come un luogo aperto a quanti sono interessati alle pubblicazioni di e su Joseph Ratzinger, per conoscere la sua vita e approfondire la sua teologia. Molti volumi sono stati donati dallo stesso Benedetto XVI, altri invece dalla Fondazione Vaticana.

È possibile accedere ai locali della Biblioteca e consultare i volumi dal lunedì al mercoledì, dalle 15.30 alle 19.30. “La Fondazione Ratzinger – ha osservato monsignor Fischer – ha assicurato gli esperti necessari per assistere e guidare gli interessati nella Biblioteca e nelle possibilità che essa offre”.




Beatificazione del Vescovo Flavien Mikhaiel Melki, Martire come i cristiani che in Iraq e in Siria oggi donano la loro vita per Cristo.

 
Storia di Flavien Melki, martirizzato perché non accettò di convertirsi all’Islam 

Articolo tratto dall’Osservatore romano 

È un’autentica testimonianza di “ecumenismo del sangue” quella del vescovo Flavien Mikhaiel Melki, nato e cresciuto nella Chiesa sira-ortodossa e morto in comunione con la Chiesa siro-cattolica. 
Fu ucciso in odio alla fede nel 1915, durante il governo dei “Giovani turchi”. 
Il martire — che il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei santi, beatifica in rappresentanza di Papa Francesco sabato 29 agosto, a Daroun-Harissa, in Libano — nacque nell’anno 1858 nel piccolo villaggio di Vilayet de Mardine, a nord-est della Grande Siria (attualmente in Turchia), chiamato Kalaat Mara, in seno a una famiglia profondamente cristiana appartenente alla Chiesa siro-ortodossa. 
All’età di dieci anni fu inviato dal padre a studiare presso la scuola del vicino monastero di Zaafarane, sede del Patriarcato siro-ortodosso. 

A vent’anni fu ordinato diacono e gli venne affidato il ruolo di bibliotecario del monastero.
Fu proprio in quegli anni che, arricchendo sempre di più le sue conoscenze, in particolare con lo studio delle opere dei padri della Chiesa orientale, decise di aderire al cattolicesimo. 
Coraggiosamente lasciò il monastero e, dichiarata apertamente la sua fede, si recò in Libano, presso il patriarcato siro-cattolico di Charfé, dove oggi si celebra la sua beatificazione. 
Entrò nella fraternità di Sant’Efrem ed emise i voti religiosi. 

Qui completò gli studi e fu ordinato sacerdote il 13 maggio del 1883, nella cattedrale di Aleppo. Subito il giovane presbitero si distinse per il suo profondo zelo, unito a una straordinaria umiltà e a una pronta obbedienza. 
Per queste qualità fu scelto ben presto per importanti incarichi, come quello di professore del seminario di Mardine e di missionario itinerante presso diversi villaggi giacobiti (siri-ortodossi) e armeni della diocesi di Diyarbakir (la Grande Siria), tutte località in cui nessun cristiano sarà risparmiato dalla persecuzione del 1915. 
Si occupò dei bisogni spirituali e materiali dei cattolici residenti in quei luoghi, donando tutto se stesso e rivolgendosi soprattutto al prossimo più bisognoso. 

Si distinse per l’attività apostolica condotta sempre nel silenzio e nella modestia. Nel 1895 accettò la nomina di vicario episcopale, portando nel cuore la coraggiosa testimonianza di sua madre, uccisa in quei giorni per aver rifiutato di aderire all’islam. 
Dopo che Pio X autorizzò la sua nomina a vescovo della regione di Djezireh-ebn-Omar, fu ordinato vescovo il 19 gennaio 1913, nella cattedrale di Saint George di Beirut. 
È impressionante la fecondità della sua attività sacerdotale ed episcopale. 
Viveva in estrema povertà e arrivò anche a vendere i suoi paramenti liturgici per aiutare i poveri di qualsiasi fede e combattere contro la miseria. 

Nonostante i pochi mezzi posseduti, si impegnò tenacemente nella riparazione e nella costruzione di molteplici chiese, nell’edificazione di scuole per bambini e giovani, nella formazione dei sacerdoti. 
Donò tutto se stesso realizzando in concreto la testimonianza del buon pastore che si preoccupa continuamente del bene del suo gregge, in particolare dei più bisognosi, e lotta con tutte le forze contro l’oppressione dei più deboli. 

Durante il primo conflitto mondiale, si oppose con forza al governo dei «Giovani turchi», i quali avevano intrapreso una terribile ed atroce persecuzione contro il popolo siro-armeno, una persecuzione che si riversò su tutti i cristiani residenti nei territori di quella zona. 

Ne fu vittima, insieme ai suoi fedeli, anche il nuovo beato, il quale rifiutò categoricamente la proposta di aver salva la vita fattagli da un amico musulmano e, senza farsi sopraffare dagli eventi, con fermezza rimase accanto al suo popolo, incoraggiando continuamente tutti a rimanere fermi e saldi nella propria fede. 
Nell’estate del 1915 fu arrestato come capo della sua comunità e condotto nella prigione di Djezireh-ibn-Omar. 
Abbandonato completamente al volere divino, visse il suo ministero di padre e pastore anche durante la reclusione, prigioniero con altri prigionieri cristiani. 

Continuò a celebrare l’Eucaristia e il sacramento della confessione, arrivando a impartire anche la benedizione papale con annessa indulgenza plenaria, in quanto autorizzato dalla Santa Sede a fare ciò per tre volte l’anno. 
Come la maggior parte dei prigionieri, fu sottoposto a un interrogatorio in cui gli venne proposto di convertirsi e avere salva la vita. 
Prima rimase in silenzio, poi, per dimostrare senza equivoco la sua appartenenza a Cristo, manifestò chiaramente l’opposizione a tale richiesta. 

Il 29 agosto 1915, legato mani e piedi, fu brutalmente e ferocemente picchiato, quindi fu ucciso a colpi di fucile. 
Il suo corpo martoriato venne gettato nelle acque del fiume Tigri, insieme ai resti di altri condannati. 
Per la Chiesa siro-antiochena questa beatificazione è la prima che avviene dopo il solenne riconoscimento del primato di Pietro e la ricostituzione della comunione ecclesiale con Roma, avvenuta nel 1781. 
Non si tratta solo di un importante riconoscimento della santità eroica di un vescovo martire, ma anche di un omaggio reso a tutti i martiri cristiani che hanno donato la loro vita per Cristo e un incoraggiamento per coloro che soffrono ancora oggi la persecuzione a causa di Cristo, specialmente i cristiani in Iraq e in Siria. 
 
* Rami Al Kabalan è il Postulatore della causa 
 
Fonte : Tempi




 

[Modificato da Caterina63 30/08/2015 23:22]
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01/09/2015 18:34
 
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  Non è la libertà che manca ma la verità della libertà

 

Spieghiamo bene che cosa è la libertà (cliccare sulle immagini per ingrandirle)

Ci è stato richiesto "semplicemente" questo: è possibile capire cosa è  questa libertà? ci dite che siamo liberi ma poi ci minacciate con l'inferno per le scelte che facciamo. Può un Dio che ci conosce bene e ci ha dato questa libertà ricattarci poi con l'inferno se non facciamo quello che dice lui? Puoi rispondere senza usare troppo catechismi, bibbie o magistero della chiesa?

__________

Carissima L. mi chiedi di non usare il Catechismo, la Bibbia (ne abbiamo una sola eh!) e il Magistero della Chiesa, però le domande che poni le trai da questi...  cercherò allora di fare un discorso più ampio che parta dalla natura delle cose, ma alla fine un richiamo alla Bibbia, o al Catechismo, o al Magistero dovrò farlo  perchè noi non siamo.... autoreferenziali!

Partirei dal concetto di LIBERTA' perché è assai chiaro quanto questo termine sia stato snaturato nel suo significato finendo per stravolgere tutto quanto gli ruota attorno.

Prendiamo l'esempio dei genitori con il figlio piccolo alle prese con una gita fuori porta, come si diceva una volta, e dunque una bella giornata da trascorrere in piena "libertà".

Libertà dal lavoro, dalla solita routine settimanale, dalla solita giornata casalinga, quel "staccare la presa" per rilassarsi e fare qualcosa che piace, che è bello e che è buono, salutare. Bene, libertà anche per i genitori che pure, però, saranno "costretti" a vigilare sul figlio piccolo, che magari cammina appena ma vuole correre. Libertà anche per il piccolo stesso che finalmente può spaziare e correre, libero sì ma inconsapevole dei molti pericoli ai quali può andare incontro.

Il quadro nel suo complesso è completo, c'è tutto e c'è la libertà di tre persone che però rientra all'interno di un suo contesto specifico, ossia, una libertà che sarà tale solo se i genitori del piccolo sapranno - rispettando la sua - evitargli di incorrere nei pericoli che lo circondano.

Così quella giornata di "libertà" diventerà una grande occasione per la famigliola riunita, occasione di imparare dal bambino le attenzioni e le cure che come genitori hanno il DOVERE di applicare per lui; insegnare al bambino che ci sono delle regole da rispettare anche nella libertà che ha di muoversi.... per evitare che "allontanandosi da loro" possa farsi del male, per esempio,  e loro stessi impareranno l'uno con l'altro che quel giorno di libertà ha delle regole che sono dei doveri da svolgere affinchè ognuno - rispettandoli - comprenda che stando al proprio posto e svolgendo ognuno il proprio compito e ruolo, la giornata trascorrerà felicemente lasciando anche un bel ricordo. Nel momento in cui si riesce a superare questo, tutta la settimana procederà speditamente.

Certo! non illudiamoci e non creiamo la famiglia da "mulino bianco", ogni giorno la famiglia, come per i singoli individui, ha le sue battaglie e le sue lotte da superare, i pericoli sono sempre in agguato, le disgrazie e quant'altro, ma senza dubbio che l'impostazione della routine manageriale di una famiglia dipende dal marito e dalla moglie se insieme sapranno GESTIRE la propria libertà in funzione DEI DOVERI prima di tutto, lasciando che i diritti maturino di giorno in giorno.

 

La libertà è UN ESERCIZIO da compiersi, non uno slogan ideologico e pubblicitario come è stato generato e concepito in questo nostro tempo, svuotando la libertà stessa del suo RUOLO E COMPITO.

Questa è la vera libertà: esercitarsi a compiere e per esercitare dei DOVERIattraverso i quali cresce la famiglia e con essa cresce e si sviluppa la società. Uno dei problemi gravi del nostro tempo è proprio questo concetto errato di libertà svuotato del suo compito. Basta che pochi, nella società, usano la libertà in modo egoistico per mandare in frantumi le piccole comunità che ruotano attorno a loro. Tutte le guerre che abbiamo avuto fino ad oggi da che è nato il mondo, nascono quando è minacciata la libertà di qualcuno o di un popolo, quando qualcuno ha preteso qualcosa dall'altro, o quando qualcuno ha tradito la fiducia dell'altro.

La libertà privata del suo compito e ruolo diventa ANARCHIA e genera il caos.

Per questo viviamo una gravissima crisi familiare, culturale e sociale.

Ci piace tanto fissare, ammirare e contemplare il Cosmo, le stelle, i pianeti, il sole, le fasi lunari, non accorgendoci però che tutto questo si svolge all'interno di "compiti e ruoli" ben precisi, tutto è ORDINATO A DELLE REGOLE che la scienza studia attraverso metodi scientifici e matematici. Pensiamo per un momento a che cosa è la forza di gravità che non vediamo eppure c'è e ci accorgeremo della sua importanza, forse, se quando per un momento dovesse smettere di compiere il suo dovere.... Così è per il mondo animale, lo chiamiamo "istinto" quel senso che spinge gli animali a svolgere il proprio compito in natura: mandare avanti la propria specie. L'istinto animale stesso non è anarchia, ma finalizzato a dei compiti precisi e stagionali che l'animale, osservandoli e compiendoli, porta avanti nel suo ruolo. Così è per il mondo vegetale che si esprime attraverso dei compiti specifici: fiori che si lasciano impollinare, semi che trasportati dal vento o dagli animali, vagano per poi riprodursi, rigenerarsi altrove, e così via. Così è persino per i vulcani che svolgono la loro attività in modo scientificamente ordinato, in funzione alla terra, così i mari  i cui flussi e maree rispondono a dei cicli generati dalle fasi lunari, ecc... C'è nella Natura stessa tutta una serie di compiti che non sono casuali, non avvengono in modo disordinato, ma ordinato nel rispetto dei propri ruoli. Certo in natura questo avviene "istintivamente" ma non certo casualmente.

Solo nell'uomo c'è questo concetto di LIBERTA' perchè l'uomo è l'unico essere dotato di INTELLETTO E VOLONTA' che supera l'istinto (di cui è dotato anch'egli in termini di natura) e lo porta ad agire in funzione della RAGIONEma anche questa libertà, questo intelletto e questa volontà non sono affatto una casualità nell'uomo, non è casuale. Esiste un ORDINE nella Natura come esiste un ordine nell'uomo che di questa natura fa parte. Non a caso diciamo che quando l'uomo agisce "d'istinto, senza ragionare" si comporta come... un animale!

Nell'uomo "malato", per esempio con problemi psichici, gli riconosciamo subito un handicap e riconosciamo che "non è in grado" di autogestirsi, non è in grado - quante volte lo diciamo - di gestire la propria libertà (incapace di intendere e di volere, si dice) perchè non è più in grado di RAGIONARE e di conseguenza la medicina, l'ente sociale, lo affida a dei tutori.... l'uso della libertà, in tal caso, gli è stata inibita dal suo status mentale incapace di ragionare e dunque di fare delle scelte autonome PER IL SUO BENE, e temendo anche che possa farsi del male (suicidio) o che possa avere reazioni spropositate( una strage) interviene lo Stato per lui...

 

Fin qui la libertà  nel contesto naturale delle cose (da non confondersi con il libero arbitrio il quale, con la libertà, esercita un atto, una scelta) che, come potrai notare, è ragionevolmente ragionevole (perdona il giro di parole) senza la religione anche perchè, attenzione, la libertà non è monopolio di qualcuno (su questa terra) o di una fede avanzata o generata dall'uomoma è ESERCIZIO DELLA RAGIONE la quale non ha origine nell'uomo materiale, indipendentemente dalla fede che si professa. E attenzione, non è monopolio neppure di uno Stato o di una fazione politica o ideologica o persino di una democrazia, tanto è vero che quando uno Stato, un partito, una filosofia a senso unico, fa uso della libertà altrui ripiegandola in una scelta subordinata ad una ideologia,  si dice che siamo in una DITTATURA.

Fin qui come vedi mi sono tenuta lontano dal citare Catechismo, Bibbia e Magistero e tuttavia non è necessario citarli perchè le tue domande nel metterli in mezzo, mi hanno dato modo di usarli senza necessariamente citarli.... perchè quanto ti ho dimostrato della libertà naturale che risponde ad un ORDINE ed è finalizzata all'esercizio della ragione dell'uomo (libero arbitrio), tutto ciò proviene dalla Bibbia e dall'insegnamento della Chiesa avente, come testimone autorevole, molti rotocalchi scientifici che non sono mai riusciti a smentirlo, e questo perchè tutto è parte integrante della struttura dell'uomo e tutto subordinato al suo benessere sia personale quanto sociale, e del resto nessuno fino ad oggi ha saputo INSEGNARE e testimoniare la verità sulla libertà dell'uomo come ha fatto la Bibbia integralmente.

Cosa c'entra, ora, Dio con la nostra libertà? o con noi?

Intanto c'entra il fatto che nel momento in cui noi crediamo in Dio sappiamo che Egli è il datore, il donatore di questa libertà, ed anche se avessimo a che fare con il rispondere ad un ateo o ad uno agnostico, non è che Dio "scompare", è l'altro a non credere in Dio, ma il suo rigetto non è una prova che Dio non esiste!

C'è anche da definire come viene esercitata certa superba presunzione quando, impugnando la libertà come arma contro Dio, di fatto la si usa per negarne l'esistenza. Ma basta davvero l'uso della libertà per mettere Dio fuori gioco e dare la prova che non esiste?

Qui entra in gioco il "libero arbitrio" che come accennato sopra non è la libertà, ma l'esercizio di una scelta - un arbitrio - fatta nella piena libertà. Facciamo un esempio attraverso il quale si comprende perchè la Chiesa stessa difende la "libertà di religione" o dell'uomo in generale. Se ci trovassimo all'interno di uno stato o nazione in cui vige una dittatura (vedi Stalin o Hitler) è chiaro che il cittadino avrà molta difficoltà ad esercitare liberamente una propria scelta arbitraria e di coscienza, magari verso anche l'espressione della religiosità delle sue radici o identità storica. Inutile dilungarci ora sugli effetti delle dittature sulle libertà individuali come anche comunitarie.... la storia insegna! Mettiamo anche da parte quella "Libertè" della Rivoluzione Francese, ne abbiamo già parlato - vedi qui -. Tuttavia - oggi che le dittature in apparenza non ci sono e vantiamo di vivere nelle democrazie - ci stiamo rendendo conto che non siamo affatto "liberi" e che anzi, si stanno imponendo drasticamente delle scelte omicide e si sta imponendo una visione distorta dell'uomo.

Se potendolo fare, provassimo a chiedere ad un feto abortito: "scusami, posso chiederti se sei contento che ti hanno ucciso in nome della libertà?", come ci risponderebbe? Pur senza attribuirgli una nostra risposta convenzionale, è chiaro ad ogni ragione che si rispetti che questo feto risponderebbe di non essere affatto contento di essere stato ucciso prima di nascere, se non altro per il fatto che chi rivendicava il diritto di ucciderlo in nome della libertà, di fatto uccideva - ed ha ucciso - la sua libertà prima di nascere e di poter scegliere....

"Se l'uomo non avesse il libero arbitrio, i precetti e le proibizioni non avrebbero ragione di essere" (1), non avrebbe senso la giustizia, non avrebbe senso neppure la società con la quale l'uomo si circonda prosperando, costruendo, inventando. Ecco che man mano ci avviciniamo a Colui che ci ha fatto dono e della vita e della libertà. Infatti già da ciò ne possiamo trarre che l'uomo non è "istintivo per natura", non è un vegetale, non è una pietra che cade giù per terra e non se ne rende conto. L'uomo, spiega sempre il grande Aquinate, agisce giudicando, sempre, anche quando sbaglia emette comunque delle sentenze e dei giudizi. L'esercizio del libero arbitrio - in uso solo nelle facoltà intellettive dell'uomo - si applica solo quando l'uomo è libero di poterlo esercitare, diversamente si chiama costrizione, imposizione, dittatura e questo perchè - tale libero arbitrio - può essere GIUSTO solo quando è libero di poter fare DISCERNIMENTO prima di scegliere, ragionare, esaminare ciò che E' BENE E CIO' CHE è MALE, ciò che è giusto da ciò che è sbagliato.

 

Ora, chi può decidere cosa è giusto e cosa è sbagliato? Chi può decidere ciò che è bene da ciò che è male?

Chi ha definito nella società ciò che è bene distinguendolo da ciò che è male?

Le domande sono tante ed anche le risposte, cercherò di avviarmi alla conclusione sintetizzando all'essenziale.

La scelta che l'uomo ha fatto - nel tempo, dalla formazione delle comunità primitive alle grandi società del nostro tempo - tra ciò che è bene e male, giusto e sbagliato, dando origine a quelle che chiamiamo "leggi", nasce da una concezione interiore che l'uomo ha dentro di sè per natura e chelo spinge verso il bene se con l'uso dell'intelletto e della ragione rimane fedele a quelli che chiamiamo "valori naturali-legge naturale", mentre lo spinge verso il male quando le sue decisioni non rispondono con l'intelletto e la ragione retta, ma sono mosse dall'egoismo, dalla superbia, dalla presunzione, dalle ideologie come diciamo oggi, dal relativismo.

"Il male assoluto, totale, principio del male, non esiste" (2), come nasce dunque a tal punto da averci coinvolto a farci male tra di noi o ad averci spinto, per esempio, a fare una legge che uccida i concepiti? San Tommaso la spiega con una bellissima espressione: il male in quanto tale non esiste di per se, e tuttavia esistendo solo il sommo Bene(=Dio), la causa del male è il Bene ma non in quanto proviene dal Bene quanto IN ASSENZA DEL BENE!

In  poche parole se io - persona umana - non esercito ciò che è BENE, non ho altra scelta che finire in ciò che è MALE, non si scappa, non abbiamo altra scelta. Se Dio non esistesse noi - a prescindere che non esisteremo - saremo comunque in balia del male assoluto. Il mondo che si sta sviluppando oggi senza Dio, si sta avviando alla sua rovina; una Nazione che per legge uccide i propri concepiti, sta uccidendo il suo futuro.

Da qui si sviluppa poi il concetto di "peccato" che,  fatto curioso, pur essendo ignota l'etimologia è un termine che ha sempre caratterizzato il concetto di "trasgressione" ma anche fallire, mancare di qualcosa, mancare di bene.

Ecco allora che l'esercizio della libertà con l'atto del libero arbitrio potrà essere applicato o nel Bene o nel Male. Non esiste una via di mezzo, non c'è altra via.

Lo esprime assai bene Wilhelm Nietzsche il quale non nega Dio in quanto "non esiste" ma con il suo libero arbitrio riconosce Dio e lo rifiuta uccidendolo "Dio è morto" e di conseguenza l'uomo diventa dio di se stesso "il superuomo"... Il cristiano, egli afferma, ha solo una morale da schiavo che lo esclude dall’ esistenza veramente grande e degna... Insomma per lui il cristiano è un idiota perchè è capace pure di morire martire per sostenere Dio anzichè diventarlo lui stesso senza per questo farsi ammazzare.

Nietzsche è la dimostrazione più ragionevole che abbiamo per dimostrare all'atto pratico la scelta fra il Bene e il Male, l'uso pur ragionevole del libero arbitrio, ma dalle drammatiche conseguenze ridotte ad una battuta efficace: "Nietzsche dice "Dio è morto" - ora è Dio che gli risponde: " Nietzsche è morto", e sappiamo anche come, perdendo completamente la ragione.

Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri... (Galati 5,13)

C'è una espressione di Nostro Signore Gesù Cristo che chiarisce ogni equivoco ed ogni dubbio: «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32), la vera libertà dipende perciò dalla vera conoscenza delle cose. Gesù ha pertanto accresciuto la nostra libertà liberandola da ogni schiavitù, schiavitù fisiche, schiavitù mentali. Chi dice il contrario lo dice da schiavo dell'ignoranza - da ignorare - ciò che è realmente il Cristo, cosa ha detto e cosa ha fatto. Non è libertà fare "ciò che mi pare e piace", ma vera libertà è la conoscenza della VERITA' perchè solo venendo a conoscenza della verità io posso fare uso con il mio libero arbitrio, della libertà.

Infatti  così spiega poi l'Apostolo Pietro: Promettono loro libertà, ma essi stessi sono schiavi della corruzione. Perché uno è schiavo di ciò che l'ha vinto - 2Pietro 2,19, e ancora dice: Comportatevi come uomini liberi, non servendovi della libertà come di un velo per coprire la malizia, ma come servitori di Dio - 1Pietro 2,16

 

Vediamo da qui come non è affatto Dio a ricattarci con l'Inferno.

Dio è Amore, è il Bene supremo, e in quanto Creatore come potrebbe "ricattarci"? Non sarebbe Amore e non avrebbe mandato Suo Figlio - Gesù Cristo - a fare quella morte orrenda sulla Croce per salvarci.

Dio non ci ricatta, ma ci salva. Ci salva DA CHE COSA? Questa è la domanda che dobbiamo farci!

L'Inferno non era nel "progetto di Dio" il quale aveva posto l'uomo al centro di un Paradiso seppur terrestre; Satana stesso era fra gli Angeli il più intelligente e dotato, come gli altri Angeli, di volontà e capace di scegliere. Dio non aveva creato il Male perchè essendo Egli il sommo Bene non poteva avere in se alcun che di sbagliato. Nel momento in cui l'Angelo compie la sua scelta di allontanarsi dal Sommo Bene, ha avuto origine ciò che gli è contrario, il Male di cui Satana ne è diventato non semplicemente il "simbolo" ma proprio il signore. Dio ha creato per loro e per chiunque fra gli uomini sceglie il Male, l'Inferno. Di conseguenza non è Dio che ricatta gli uomini con lo spauracchio dell'Inferno, ma è l'uomo che rifiutando Dio e scegliendo il Male, ci finisce per sua libera scelta.

La vita stessa di Gesù Cristo - Dio Incarnato per noi - dimostra chiarissimamente che è venuto PER SALVARCI DALL'INFERNO, e non è venuto per dircelo solo a parole, ma pagando il riscatto (con la Sua morte di Croce e risorgendo vincendo la morte) di quel peccato originale che avendoci coinvolti indirettamente, non ci lasciava certo la possibilità di salvarci da noi stessi.

La storia dell'uomo è storia all'interno di un mondo, di un universo, che inizia nel momento del concepimento e non avrà più fine. Il tempo dentro il quale viviamo e che essendo "tempo" cesserà, ci è dato affinchè noi potessimo compiere questa scelta liberamente. La Voce (il Verbo) di Dio non bastava più e perciò "si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi" dentro un "tempo" stabilito per liberarci dal peccato e da tutte le menzogne che le varie credenze pagane e culture con divinità astratte e spiritualiste propagavano fra gli uomini. Non mi dilungo ora sulle varie dottrine, ma sia chiaro che non è Dio a ricattarci e che l'Inferno non è uno spauracchio per castrare il nostro libero arbitrio o la nostra volontà, suggerisco la lettura di questo breve ma intenso libro di Padre Giovanni Cavalcoli O.P. (3)

San Gregorio Magno diceva: Non si riporta la palma della vittoria senza il travaglio del combattimento. Gli faceva eco anni dopo Santa Caterina da Siena: Non c'è vittoria senza battaglia.... insomma, non nasciamo per fare una villeggiatura, non è questa la nostra eternità, Gesù stesso non è venuto al mondo per fare una vacanza e sappiamo bene come è morto, ma è anche Risorto è questo l'aspetto vincente della nostra stessa ragione e dell'esercizio della libertà a vantaggio del Bene che sarà anche il nostro vero bene in eterno.

Pensare di fare uso della libertà senza Dio, negandolo, o lontani da Lui, non è dare la prova che Dio non esiste, al contrario è utopia, è illusione, si pensa di essere liberi senza Dio ed invece si diventa schiavi di se stessi e delle proprie opinioni, o delle ideologie nelle quali si trasferisce quella " fede" che a Dio si deve, in sostanza avviene che a "DIO" si sceglie "IO", è una scelta senza dubbio libera ma della quale si pagano poi le conseguenze.

E dice sempre San Gregorio Magno: ci sono due specie di compunzione perchè l'anima nostra ha sete di Dio e di conseguenza la Sua pedagogia che ben conosce il nostro intimo ci infonde il dono delle lacrime e poi della gioia. La prima compunzione è dunque il sacro "timor di Dio", dono dello Spirito Santo che non significa terrore di Lui ma temere a buona ragione l'Inferno, la morte eterna dell'anima, lontana da Dio per l'eternità e quindi ecco le nostre lacrime miste a dolore ma anche a timore di questo luogo tenebroso senza il Bene. Poi, quando l'anima si è convertita subentra l'Amore sincero verso Dio e allora non si teme tanto il rigore dell'Inferno quanto maggiormente si accende il cuore d'amore per Lui. La consapevolezza di essere stati perdonati e di essere amati, produce nell'anima la passione e l'ardente desiderio di Lui e si soffre di rimanere ancora lontani da Lui.

 

Sia lodato Gesù Cristo +

___________

1) San Tommaso d'Aquino Comp.Summ. Theolog. Q.83)

2) San Tommaso d'Aquino Comp.Summ. Theolog. Q.49)

3) L'inferno esiste, la verità negata di padre Giovanni Cavalcoli O.P. vedi qui

   


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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06/10/2015 18:31
 
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L’usuraio di Liegi

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No”.
“…in che senso, no?”.
“Nel senso di no. Il contrario di sì”.
Il Santo Padre inarcò le sopracciglia, lanciando un’occhiata a quella donnetta gracilina che lo guardava storto, con i pugni stretti sui fianchi, e che si permetteva di rispondergli così (!). Si sentì molto confermato nella sua vocazione al celibato, anche.
“Figlia mia”, disse molto cautamente: “ma se il tuo parroco e il tuo vescovo hanno deliberato in questo senso…”.
“Non mi interessa”, replicò la donna con voce ferma. “Mica ho fatto appello alla Santa Sede perché non sapevo come passare il tempo. Santità, io vi imploro in ginocchio: permettete che i resti di mio marito vengano trasferiti in terra consacrata”.
Il Papa si passò una mano tra i capelli, tradendo un moto di esasperazione. “Ma figlia mia diletta. Dalle informazioni in mio possesso, a me risulta che tuo marito fosse un usuraio…?”.
“Sì, purtroppo questo è vero”, annuì la donna senza scomporsi.
“Un pubblico peccatore, dunque?”, insisté cautamente il Papa.
“Indubbiamente, Santità”.
“E mi risulta”, aggiunge il Papa, con moltissima cautela, “che tuo marito sia morto senza confessare i suoi peccati…?”.
“Purtroppo, è vero anche questo”.
“E allora, figlia cara, che cosa vuoi che possa farci, io?”, esclamò il Santo Padre con una nota di esasperazione. “Lo sai bene che è la prassi. Stiamo parlando – scusa la franchezza – di un pubblico peccatore, che, dopo aver portato avanti per decenni pratiche contrarie alla legge di Dio, e dopo aver mandato in rovina centinaia di famiglie innocenti, è morto rifiutando la confessione sacramentale, allo stesso modo in cui, in vita, ha sempre rifiutato la conversione. Scusa la franchezza, ma mi spieghi quale sarebbe il senso di permettere il trasferimento della sua salma in terra consacrata?”.
“…perché la misericordia del Signore è infinita…”.
Il Papa sospirò, passandosi di nuovo una mano tra i capelli. “Quello che dici è vero”, disse molto lentamente, “ma devi anche renderti conto che, purtroppo, la condotta di tuo marito, il suo stile di vita, le circostanze in cui è morto, non lasciano ben sperare…”.
“Ne sono perfettamente consapevole, Santità”, ribatté la donna, con voce ferma. “Ma io sono qui nella convinzione che non si possa neanche smettere, di sperare. Mi è stato insegnato, signore, che il marito e la moglie sono una cosa sola, e che, secondo l’Apostolo, l’uomo infedele può essere salvato dalla donna fedele. Io, che sono parte del corpo di mio marito, farò volentieri al posto suo ciò che egli ha omesso di fare in vita. Sono pronta a farmi reclusa, per lui, e a offrire a Dio, con le mie preghiere, il riscatto per i suoi peccati”.
Nella sala delle udienze calò il silenzio per qualche secondo; poi, fra i cardinali, cominciò a correre un mormorio.
La donna fissò negli occhi il Papa, e si inginocchiò al suo cospetto. “Vi prego. Rinuncerò a tutto quello che ho, rinuncerò alla mia stessa vita, ma non date per scontato che mio marito non possa salvarsi”.

Così prosegue la storiella, tratta dal Dialogus miracolorum Cesario di Heisterbach (1180 – 1240 ca.):

Cedendo alle preghiere dei cardinali, il Papa fece riportare il morto al cimitero. La moglie elesse domicilio presso la sua tomba, si richiuse in clausura e si sforzò giorno e notte di placare Dio per la salvezza dell’anima del marito, mediante elemosine, digiuni, preghiere e veglie.
Sette anni più tardi, il coniuge le apparve, vestito di nero, e la ringraziò: “Dio ti renda merito per quello che stai facendo. Grazie alle tue prove, sono stato sottratto alle pene terribili delle profondità dell’Inferno. Se tu mi presterai questi servigi per altri sette anni, sarò liberato del tutto”. La donna lo fece, e, allo scadere dei sette anni, il marito le apparve di nuovo – ma, questa volta, era vestito di bianco, e aveva l’aria beata. “Grazie a Dio, e grazie a te, perché oggi sono stato liberato!”.









IL BELLISSIMO RITORNO DI ANTONIO MASTINO SU PAPALEPAPALE.COM

SONO TORNATO A MESSA

le-porte-della-chiesa-in-cui-sono-riuniti-tutti-i-protagonisti-di-lost-si-aprono-e-christian-shepard-scompareA proposito. Sto intanto ritornando a rispettare il precetto festivo, presenziando, con uno spirito nuovo, alla divina liturgia domenicale. Non andavo a messa da tanto.

Ecco, di quest’ultimo dettaglio vorrei dirvi: è il mio personale “dito di Dio”.

Ieri sera, domenica, ho deciso di andare a messa nella parrocchia più vicina, qui a Roma, col proposito di replicare ogni domenica successiva. Ma vi dico la verità: mi pesava, pigrizia e noia preventive cercavano di dissuadermi in ogni modo. Mi spiego meglio: non era la messa in sé che mi disturbava, ma quello a cui è stata ridotta. Già sapevo cosa mi aspettava: audio a tutto volume da rompere i timpani; schitarrate; canzonacce stonate; le deliranti innumerevoli generalissime megalomani “preghiere dei fedeli” che non credi trovino in paradiso qualcuno disposto ad ascoltare senza sbadigliare e men che meno ad accondiscendere; prediche logorroiche e sconclusionate, purtroppo anche sgrammaticate opera del solito prete straniero di passaggio, mentre la gente chatta sull’IP; squallore generale; sfilza di letture lette da laici senza un minimo di espressione, dizione, devozione, a cantilena come si fa alle elementari col sussidiario tanto che alla fine non capisci e non segui più niente; gente tutta in piedi quando si fa la consacrazione a una velocità supersonica sicché s’è fatto tardi dopo mezzora di predica. Insomma, le solite robe che sapete e infastidiscono voi pure.

Mi sono detto: «Signore, io a messa ci vado, ma non credere mi diverta e ne sia particolarmente edificato, lo faccio giusto per riguardo a te, avendoti dato la parola, ma per me resta un atto penitenziale». Con questo spirito, lento pede, mi sono recato per una volta puntuale in parrocchia: a Santa Maria Goretti. Un nome una garanzia, quella parrocchia!… ‘na volta e due che c’ero stato!… attacchi di bile ogni volta.

Appena ci sono entrato, ho pensato: “Tutto è rimasto tale e quale come l’avevo lasciato mesi fa: facciamoci coraggio!”. Poi ho pensato anche: “Per una volta sono in chiesa non per occuparmi del contesto e criticarlo, ma per me stesso e per Dio”.

Dio che sembra avermi proprio ascoltato questa volta, e m’ha dato il benvenuto con quella sua solita malcelata, raffinata, un po’ tagliente ironia che gli conosco.

Inizio della messa. Ok, c’era la chitarra e una voce un po’ stridula e troppo alta che cantava. Ma in aggiunta, stavolta, c’era anche l’organo: il risultato finale non era male e un che di solenne, per la prima volta, s’è diffuso in quel disadorno tempio. La gente non è tanta come le altre volte, è di meno: c’era una partita importante. In cambio, molti sono asiatici e latinoamericani.

Il prete è spagnoleggiante, dall’italiano incerto, è giovane e barbuto, ma sembra un buon prete, molto mite.

Questo mi colpisce, ed è la seconda sensazione strana: quelle solite preghiere liturgiche dell’introito, le stesse che ormai straccamente recitiamo mnemonicamente senza rifletterle e averlo mai fatto, stavolta io – ma ho la sensazione anche tutt’intorno – le recito gustandone ogni singola parola, e mi paiono bellissime, e lo faccio con una strana, gioiosa commozione, un singulto a ogni frase quasi. E tutto ciò mi meraviglia: le sento, le vivo. Ecco, in questo senso si “partecipa” alla liturgia, mi dico. Non mi sfibrano come le altre volte: ecco, mi dico, l’ironia di Dio, forse. O forse, mi dico, è perché per la prima volta sto partecipando “con un cuore nuovo”. Molte volte, in questi ultimi tempi, avevo domandato a Dio di strapparmi il cuore “di pietra” e di trapiantarmi un “cuore nuovo”: di carne.

SINO A SPERARE CONTRO OGNI SPERANZA

311451_2563787264295_1575938301_nIniziano le letture dei fedeli, e ritorna l’ironia di Dio.

Prima lettura: una bella signora legge, e lo fa con una dizione perfetta, cinematografica e non mi sfugge nessuna parola, non mi distraggo. Una lettura fatta bene: un miracolo! Non finisce mica qui: un ragazzo esile si accosta all’ambone, e con le parole di Dio, inizia un canto biblico sublime. Che quasi mi ferisce dentro. Sono più attento e vivo che mai. Dio mi stava regalando momenti di bellezza, dopo essermi preventivamente lamentato dell’assenza di bellezza alla sua mensa: era il suo modo di ringraziarmi per aver accettato l’invito, da quel Dio gentile che è. E ironico.

Nel mentre, pensavo al Sinodo, a quel che si dice sui media, allo squallore che c’è fuori, agli scandali costruiti a tavolino, alla barca di Pietro sballottata grottescamente, senza rispetto sulle agenzie giornalistiche, come quel Cristo – ne vedo il suo volto, alle spalle del prete – ricoperto di ridicolo e sputi e beffe mentre il mondo lo processava avendo già deciso di condannarlo, lo vedo ridotto a una parodia di “re” con una corona di spine e un mantello rosso e buttato in pasto al pubblico ludibrio. Mentre «nessuno si è accorto che intorno a lui l’universo gli faceva infamia, e era una grande colata di sudore e amore», dirà di lui la poetessa pazza Alda Merini.

Ascolto con viva apprensione quella bella signora dalla bella dizione come mai s’era sentita dacché io ricordi. E mi pare il simbolo della chiarezza che Dio vuole stabilire in questo giorno fatale, su tale questione epocale, per la prima volta nella storia dell’uomo messa in dubbio, anzi negata con livore e saccenza: “Parola di Dio”, che ci parla ancora oggi, come agli ebrei del tempo, per bocca dei suoi oracoli, e dice:

Dopo che Dio aveva creato gli animali e lasciato all’uomo l’onere di dargli un nome, perché gli facessero compagnia, valutato che non ne ricavava grande aiuto…

Il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile» (…) Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse: «Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa. La si chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta». Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne.

Eppure queste qui sono parole che per tutta la nostra vita abbiamo sentito, ma oggi, oggi in questo tempio, in un silenzio assordante, assumono una potenza nuova, inaudita, che sgomenta, come a sentirle la prima volta. Perché Dio stesso, con poche parole, inequivocabilmente, abolisce tutte le ideologie del mondo, che, oggi, proprio oggi, stanno assaltando la sua Chiesa, penetrandola con una caparbietà subdola e spaventosa, aggredendola da fuori e soprattutto da dentro, sicché o implode o esplode. Sembrano quasi scandalose queste parole di Dio stesso, oggi, capaci di sfidare il mondo e persino di vincerlo contro ogni speranza.

“Rendiamo grazie a Dio”, veramente! Stavolta la risposta riturale alla lettura non è stata meccanica: era sentita… “ti ringrazio… grazie per averlo detto: non siamo soli!”. Speriamo contro ogni speranza.

POSSA IO VEDERE I MIEI FIGLI E FIGLI DEI FIGLI

E quando sento cantare con grande potenza dal ragazzo esile all’ambone le parole di Dio nel salmo, sogno, sogno e agogno di essere premiato così come Dio promette a chi è fedele all’ordine delle cose da lui stabilito:

Ci benedica il Signore tutti i giorni della nostra vita.

Beato chi teme il Signore

e cammina nelle sue vie.

Della fatica delle tue mani ti nutrirai,

sarai felice e avrai ogni bene.  

La tua sposa come vite feconda

nell’intimità della tua casa;

i tuoi figli come virgulti d’ulivo

intorno alla tua mensa.

 (…) Possa tu vedere i figli dei tuoi figli!

Mio Dio! C’è un’immagine più bella e desiderabile di questa? Sentite: “La tua sposa come vite feconda… i tuoi figli come virgulti d’ulivo”. E ti immagini i tuoi giovani forzuti figli venuti belli e forti intorno al tavolo di mezzogiorno dove c’è il tuo sudore che si è trasformato in loro nutrimento. Perché possano sperimentare essi stessi questa gioia e tu contemplare con orgoglio i figli dei tuoi figli. E questa bellezza struggente, virile e sensuale, cosa c’entra con le languidezze disgustose e flaccide che il mondo di questi giorni ci propone e vorrebbe imporre anche alla sposa di Cristo, la Chiesa, conciata come una femmina pubblica avanti negli anni e canzonata nella piazza del villaggio? La vite, la sposa, e i virgulti d’ulivo, i figli come benedizione di Dio, intorno alla mensa del padre loro: bellissimo! Cosa desiderare di più?

Bellissimo! Di una bellezza che fa vibrare d’improvviso tutte le vetrate della chiesa di Santa Maria Goretti, persino le mura sembrano scosse: mi pare di sentire fuori l’ira funesta del Demone devastato d’odio e d’invidia che s’abbatte sul santo edificio, vorrebbe all’istante irrompere con l’oscenità e la ribellione dei disperati in quel momento di sublime verità, profanandolo. Ma i vetri del tempio, ripieno di Spirito Santo come ossigeno nei polmoni, reggono ai colpi e non cedono, egli non vi irrompe. C’è una grande pace invece. E la mia commozione è sempre più grande: penso ai vetri e alle mura del Vaticano, e coltivo la stessa speranza. Anzi: in quel momento ci credo. Che almeno il Tempio di Pietro, laddove vigile dorme il suo sonno terreno l’Apostolo, sia preservato dall’attacco di Lucifero e delle sue legioni terrene e ultraterrene, dai suoi sacerdoti apostati.

COME ASCOLTARLO PER LA PRIMA VOLTA

Nulla di nuovo sotto il sole: la feroce propaganda laicista ha preso di mira da sempre la santità del matrimonio cristiano, ridicolizzandolo



Nulla di nuovo sotto il sole: la feroce propaganda laicista ha preso di mira da sempre la santità del matrimonio cristiano, ridicolizzandolo e volendolo svincolare.

Poi è il momento del Vangelo. Il sacerdote con grande umiltà e modestia si appresta a leggerlo, e lo senti anche tu che lui pure, mai quanto oggi, sta sentendo quanto legge, e pur con la sua sobrietà quelle parole lo riempiono di fervore, come le stesse leggendo e pronunciando per la prima volta: gli confermano per voce del Messia direttamente qual è la via, e così deve sentirsi meno solo anche lui in questo mondo e in questa Chiesa, adesso. Ed è come se anche noi per la prima volta ci accorgessimo tutti che veramente quella “parola del Signore” è di Gesù, che davvero ha detto così:

… alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie (…)

Gesù disse loro: «(…) dall’inizio della creazione Dio li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto».

A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento. E disse loro: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio».

Il silenzio è totale nell’edificio, per la prima volta non si sente tossire, non squillano cellulari, tutto resta immobile come sospeso: stanno davvero tutti ascoltando, e capisci che nello stesso momento, con un certo imbarazzo, paragonano automaticamente quelle parole di Lui, così chiare, con quante in libera uscita se ne sentono dalla televisione, da certi vescovi mondanizzati, sull’uomo e la donna, sul matrimonio, sul divorzio. “Ma davvero ha detto così Gesù!! Ma allora?…”, perché i suoi stessi sacerdoti lo smentiscono, lo censurano addirittura, lo liquidano con sufficienza? Che senso ha tutto questo? I loro pensieri meravigliati prendono quasi consistenza visibile librandosi nell’aria.

Le parole di Lui per mezzo del suo servo infatti assumono una inedita potenza, rombano nell’aria eppure… restano sommesse, ma implacabili, definitive, totali. Sento davvero la voce del Cristo, ne avverto la volontà immutabile, ma senza arroganza. E quasi mi viene da piangere. Di gioia.

PAROLA DEL SIGNORE, SCUSATE TANTO…

GiannelliIl prete si appresta a tenere la sua predica: ricorda a tutti che oggi si aprirà il sinodo sulla famiglia, e ripete le frasi forti di Dio: “uomo e donna… nessuno osi dividerli”. Lo fa con molto garbo, sommessamente, quasi a scusarsi, come  se…

…come si imbarazzasse di quanto sta scritto ed è il ribaltamento esatto del pensiero del mondo. O meglio: lo fa, si potrebbe dire, con un certo timore… paura ecco, paura del frastuono del mondo, della morte civile che è decretata per chi non si sdraia sulla linea, paura dello “scandalo”, tanto allo stato attuale risultano “eversive” quelle parole, e io stesso percepisco e probabilmente lui pure, il pericolo, il presentimento che qualcuno ormai ebbro degli inganni dello spirito del mondo qui e adesso tra l’assemblea dei fedeli balzi in piedi a ribellarsi, svillaneggiare il prete e gridare ai “tempi nuovi, nuova chiesa”, a respingere furioso le parole di Cristo stesso (del quale poco dopo si ciberà con indifferenza triturandolo tra i denti superbamente, ingoiando la sua condanna), quelle Sue parole che… che vuoi che siano rispetto a quelle dei tuttologi e degli opinionisti alla moda, laici e clericali, che imperano sui media, a cominciare da quelli cattolici ufficiali, compresi L’Avvenire e L’Osservatore che in questi giorni hanno persino inneggiato alle “moltitudini” di genti, come fosse l’esodo del popolo eletto, che domanderà di ripudiare moglie o marito… e tanti applausi: finalmente!, dicono ebbri di malignità… poter fornicare con la benedizione se non “di Dio”, della Chiesa. Satana si è vestito da prete, da vescovo e a tempo perso fa anche il giornalista “cattolico”.

Una cosa è certa: in questa domenica tutti hanno sentito con le loro orecchie, ora sanno inequivocabilmente qual è la volontà di Gesù. Da adesso in poi nessuno potrà congetturare: è il momento del libero arbitrio: o si sta con Lui o deliberatamente ci si mette contro di Lui. Lo stesso vale per il Sinodo. Benché molti vescovi si reputino immuni dalla volontà di Dio, ma non da quella di Scalfari.

GESÙ A BORDO CHE FA FINTA DI DORMIRE

1560719_264638083695729_1640643154_nMentre ascolto e penso tutto questo,guardo le volte di questa mia chiesa di quartiere, che non ho mai amato e mai ho sentito come casa mia: ma stavolta no, mi sento in famiglia, le guardo queste volte, e mi sono infinitamente care. Sembrano le volte della pancia di una grande nave, perduta in mezzo all’oceano in tempesta.

E mi sento sulla barca di Pietro con Gesù a bordo che fa finta di dormire. E il mio panico si placa e muta in risata quando il Messia apre un occhio, mi squadra e dice, a bassa voce: “Non temere: ci sto qua io non vedi? Scciii… zitto, zitto… vediamo che fanno gli altri, e Pietro. Tu fa finta di niente”.

Nonostante tutto, mi sono detto, questa barca qui, sola nel mare magno della mondanità perduta, minacciata dai flutti e dalle falle, tormentata e sbatacchiata dalle tempeste, frenata e respinta da tutti i venti contrari, questa barca qui dentro la quale stasera ci sono anche io di nuovo, non solo non affonderà, ma continuerà ad andare, e finché la barca va… Tanto dopo la tempesta viene sempre il sereno.

Piccolo gregge, piccola Chiesa che, nonostante tutto, nonostante quel che dice la gente, percossa, ridicolizzata, svergognata e anche martirizzata ogni giorno di più come sei, continui a vivere, pulsare, a combattere per essere fedele a te stessa e al tuo Signore, alla sua Parola, contro tutto e tutti, apparentemente contro la stessa ragione. E lo fai con mitezza, submissa voce, un po’ triste, forse tremando un po’ di paura, ma in fondo serena. Sperando ogni giorno di più: che lo Sposo venga a salvare la sua Sposa: perché il mondo non separi ciò che Dio ha unito.

Insomma, avevo paura di annoiarmi a messa, oggi. Ma Dio, grato per la visita, ha montato tutto questo splendido spettacolo… mi verrebbe la tentazione di dire… “per me”. Non solo mi ha divertito: mi ha edificato. Ritornerò di certo domenica prossima.

p.s.

Un altro miracolo è successo oggi: alla Consacrazione, per la prima volta in questa parrocchia, ho visto che la grande maggioranza si è inginocchiata. Tutti fanno la comunione, specialmente le poche giovani ginocchia che non si sono piegate nemmeno alla consacrazione, tutti salvo io che sto in quarantena penitenziale e qualche altro derelitto. Massì, rido: è il popolo variopinto, confuso, incosciente e irresponsabile di Dio, che a quanto pare si sente la coscienza pulita. Beati loro, perché non sanno quel che fanno, e molto gli sarà perdonato. Io invece so, e devo starci attento se non voglio mangiare la mia condanna.



[Modificato da Caterina63 07/10/2015 19:32]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Don Curzio Nitoglia. Importanza della devozione Mariana. I “peccati occulti”


 


«Et ab occultis meis munda me». 
Necessità della schiavitù mariana     


Il Salmo 19 al verso 13 recita: “Signore mondami dai miei peccati occulti”.
 
Per definizione il peccato deve essere accompagnato dalla avvertenza dell’intelligenza e dal consenso della volontà. Come spiegare, quindi, la frase del Salmo sui “peccati occulti”?
 
Essi non possono essere privi di ogni avvertenza dell’intelletto, altrimenti non sarebbero peccati, ma sono più o meno  nascosti a causa del nostro amor proprio, che ci porta a non voler vedere chiaramente i difetti che albergano nel nostro animo, a dissimularli e a scusarli.
 
Normalmente, dopo il Peccato Originale, le tre Concupiscenze o cattive inclinazioni, che si trovano nell’anima di ogni uomo, tendono a macchiare anche le migliori azioni.

Il Peccato Originale non ha distrutto la natura umana, la nostra capacità di conoscere la realtà e di mantenere il libero arbitrio della volontà. Tuttavia le nostre facoltà sono ferite, per cui conosciamo la verità o la realtà con molta fatica e, pur essendo liberi, siamo fortemente inclinati al male, ma non siamo necessitati per cui possiamo sempre resistergli.

In ogni uomo vi è  il fomite del peccato o la cattiva tendenza a fare il male; essa è triplice: orgoglio, sensualità e attaccamento alle cose di questa terra (avarizia). La più insidiosa e pericolosa di queste tre concupiscenze è l’orgoglio, poiché ci si può inorgoglire anche del bene che si fa, mentre di fronte al peccato di sensualità o di avarizia è difficile inorgoglirsi e ci si pente più facilmente.

Infatti il peccato carnale è evidentemente malvagio, mentre quello spirituale può camuffarsi sotto apparenza di bene o di falsa virtù apparente. Per esempio posso inorgoglirmi di pregare, di far la comunione, di assistere sempre alla Messa e quindi posso guastare queste opere che in sé sono buone, ma che la mia cattiva volontà o amor proprio rende deficienti. Questi sono i “peccati occulti” ossia le azioni apparentemente buone, ma rese realmente cattive dalla nostra cattiva inclinazione, dal nostro egoismo o dall’io ferito dal peccato originale che impercettibilmente prende il posto di Dio: noi non agiamo per la gloria del Signore ma per la nostra, anche se ci è difficile ammetterlo e occultiamo anche a noi stessi questa verità scomoda e imbarazzante.

San Massimo il Confessore insegna che “spesso ci si inorgoglisce delle doti intellettuali, per esempio l’intelligenza, la memoria, il bel parlare e il bello scrivere” (Centurie sulla Carità, III, 84), poi, spiega San Giovanni Climaco, la situazione si aggrava e diventa molto più pericolosa perché a ciò fa seguito l’invaghirsi delle proprie qualità spirituali, come “il pregar molto, il predicar bene, l’essere virtuosi” (La scala, XXI, 31), questo è il “peccato occulto” per eccellenza. Ora la vanagloria o l’invaghirsi di qualità esteriori (ricchezze, bellezza, forza, simpatia) è un vizio evidente e grossolano di  cui ci si accorge e ci si può correggere più facilmente (San Giovanni Cassiano, Conferenze, V, 11; San Gregorio Magno, Moralia, VIII, 43), mentre l’orgoglio o vanagloria intellettuale è già più sottile, perché si situa al livello puramente naturale. Normalmente una persona che si dà veramente alla vita spirituale si accorge di questo difetto. Il pericolo estremo o il vero “peccato occulto” è il gloriarsi delle proprie “virtù” apparenti, come se fossero nostre e non un dono gratuito di Dio.

San Giovanni Climaco insegna, perciò, che “il demone della vanagloria sente una gioia particolare quando vede moltiplicarsi le virtù in un’anima portata all’orgoglio spirituale, e che, come la formica aspetta che avvenga la raccolta e il grano sia maturo, così la vanità spirituale aspetta che tutte le nostre buone azioni siano ammassate” (La scala, XXI, 2-3).
 
Sant’Evagrio Pontico constata che “l’orgoglio spirituale arriva solo dopo la distruzione dei difetti più appariscenti” (Riflessioni, 57). E San Massimo il Confessore insegna: “se tu vinci le passioni più grossolane, fa attenzione alla vanagloria spirituale che subito ti assalirà” (Centurie sulla Carità, III, 59).

È per questo motivo che Gesù ci ordina di “rinnegare noi stessi” (Mt., XVI, 24) e di “morire a noi stessi” (Gv., XII, 24). Se non mortifichiamo noi stessi il nostro egoismo, le nostre azione, anche quelle apparentemente più buone, saranno guastate dal nostro amor proprio, della volontà propria, dalla fiducia presuntuosa ed esagerata in noi ed il giorno del Giudizio ci ritroveremo senza meriti soprannaturali, avendo agito per amor nostro e non per la gloria di Dio.
 
Santa Maria Maddalena de’ Pazzi diceva: “Il maggior traditore che abbiamo è l’amor proprio, il quale fa come Giuda, in baciarci ci tradisce” (Puccini, Vita, vol. II, Firenze, 1611, parte 6, cap. 1, p. 499).
 
San Tommaso d’Aquino insegna che “L’uomo veramente umile si stima inferiore agli altri, non per gli atti esteriori, ma perché  teme di compiere per orgoglio nascosto persino il bene che fa” (S. Th., II-II, q. 161, a. 3).
 
Padre Reginaldo Garrigou-Lagrange insegna che uno dei maggiori ostacoli alla vita spirituale è l’orgoglio spirituale, per il quale “ci gloriamo della nostra perfezione e giudichiamo con molta severità gli altri. Nostro Signore trova necessario spogliarci dei beni sui quali avevamo concentrato la nostra affezione disordinata. Allora Gesù pensa Lui stesso a scavare nel nostro io malato e a una profondità tale che neppure noi sospettiamo” (Vita Spirituale, Roma, Città Nuova, 1965, p. 177).
 
“Quale triste eredità del peccato, la natura umana è fortemente inclinata verso il male. L’egoismo, soprattutto, che si radica nelle più segrete profondità del nostro essere, offusca la chiarezza dell’intelletto, impedendoci la visione retta e oggettiva delle cose, specialmente quando l’amor proprio è interessato a farcele vedere in un determinato modo” (A. Royo Marìn, Teologia della perfezione cristiana, Roma, Paoline, 1960, p. 502).

I rimedi

I migliori rimedi al “peccato occulto” sono
  1. le notti dei sensi e dello spirito (S. Giovanni della Croce, Notte oscura; Santa Teresa d’Avila,Cammino della perfezione); 
  2. le umiliazioni (Sant’Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali) e le croci (San Luigi Grignion de Montfort, Lettera circolare agli amici della Croce [vedi]); ed infine 
  3. la devozione alla Madonna (San Luigi de Montfort, Trattato della vera devozione alla Vergine Maria), che ci aiuta a sormontare le notti oscure, ad accettare le umiliazioni e a portare la nostra Croce.
1) Le notti oscure

L’ascetica[1] è costituita soprattutto dallo sforzo umano abituale, aiutato dalla Grazia attuale ordinaria di Dio, per vivere nella Grazia santificante, lottando contro il peccato mortale e facendo un’orazione mentale soprattutto discorsiva (prima via “purgativa” dei “principianti”); poi consiste nell’imitazione delle Virtù di Cristo e nel fare un’orazione mentale soprattutto affettiva (seconda via “illuminativa” dei “progredienti”) ed infine nella mistica (terza via “unitiva” dei “perfetti”)[2], in cui l’anima è simile ad una barca a vela, che è fatta correre (passività relativa) e non si rifiuta di correre (attività eroica) sulle onde spinta dal soffio impetuoso dello Spirito Santo; mentre nell’ascetica l’anima somiglia piuttosto alla barca a remi con cui si naviga sulle acque con l’aiuto della Grazia attuale ordinaria di Dio e colla cooperazione della forza delle braccia dei navigatori, che vivono le Virtù infuse in maniera umana o non ancora eroica. Perciò la vera mistica è caratterizzata da un’attività eroica o sovrumana nell’esercizio delle Virtù infuse da parte dell’uomo, il quale tuttavia è mosso soprattutto dallo Spirito santo, al quale non deve resistere o porre ostacoli di cattiva volontà. Invece il falso misticismo parla di passività totale anche nell’agire, il che porta al Quietismo, ossia al non “far assolutamente nulla”. Ma Gesù nel Vangelo ci ha detto: “Non chi dice ‘Padre Padre’ entrerà nel Regno di Dio, ma colui che fa la sua volontà”. Insomma “chi vuol far l’angelo, finisce per diventare una bestia”. Infatti “la Fede senza le buone opere è morta” (san Giacomo).

La mistica consiste nello sviluppo pieno e perfetto della grazia santificante, delle virtù infuse (specialmente quelle teologali: fede, speranza e carità) e dei doni dello Spirito Santo.

La notte dei sensi (o aridità spirituale) è una purificazione passiva dei sensi e dell’intelletto che acceca la sensibilità, il raziocinio e produce l’aridità, ossia sentirsi freddi spiritualmente, privi di ogni consolazione spirituale: essa purifica l’intelletto o la golosità spirituale.
 
La notte dello spirito (desolazione spirituale, sentirsi abbandonati da Dio, come riprovati e in stato di dannazione) segna il passaggio dalla mistica iniziale a quella compiuta e più esattamente dal fidanzamento al matrimonio spirituale. Essa purifica la volontà dall’orgoglio segreto e impercettibile che ancora vi alberga[3].
 
Secondo san Giovanni della Croce e Santa Teresa d’Avila, anche quando facciamo  un’opera che ci sembra buona (se la consideriamo bene) ci rendiamo conto che questa è piena d’imperfezioni, a motivo del disordine del nostro amor proprio e dell’attaccamento alle cose terrene. Quindi tutto l’impegno e il lavoro dell’anima nella purificazione attiva dei suoi vizi è insufficiente, perché ellanon conosce pienamente i difetti di cui si deve correggere né giunge sino alla loro radice[4].
 
Per eliminare dalle più recondite pieghe del nostro spirito l’egoismo, l’amor proprio, la ricerca di sé persino nella pietà, l’orgoglio intellettuale e spirituale e giungere al puro amore di Dio non mescolato a quello del nostro “io” corrotto dal peccato originale è necessaria la purificazione passiva dei sensi e dello spirito, che San Giovanni della Croce e Santa Teresa d’Avila[5] chiamano “notti dei sensi e dello spirito”, che vengono a purgare la nostra anima per opera specialmente dello Spirito Santo e che Maria Santissima addolcisce e rende più facili  da sopportare.

2) Le Croci e le umiliazioni

San Luigi Maria Grignion de Montfort scrive che “Chi non ha lo spirito di Gesù Cristo, che è lo spirito della Croce, non appartiene a Cristo (Rom., VIII, 9)” (Lettera Circolare agli amici della Croce [vedi], in Opere, Roma, Centro Mariano Monfortano, 1977, p. 219).

Inoltre: «Dio permette che i suoi più grandi Santi cadano in qualcuna delle colpe più umilianti, sia per abbassarli di fronte a se stessi e agli altri, sia per distogliere il loro sguardo e il loro pensiero da un ripiegamento vanitoso sulle grazie che Egli loro  concede e sul bene che fanno, “perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio” (1 Cor., I, 29). […]. Appena il nostro spirito, si sofferma con occhio di compiacenza su qualche dono di Dio, subito questo dono, quest’azione, questa grazia si macchia e si rovina, e Dio ne distoglie lo sguardo. […]. A quante umiliazioni  e croci Dio ci manda allora incontro! In quante colpe ci lascia cadere» (Lettera Circolare agli amici della Croce, inOpere, Roma, Centro Mariano Monfortano, 1977, pp. 242-243).
 
S. Agostino dice che “Dio sopporta meglio le azioni cattive accompagnate dall’umiltà, che non le opere buone infettate dall’orgoglio”. S. Gregorio Nisseno aggiunge: “Un carro di buone opere, ma tirato dalla superbia, conduce all’inferno, mentre un carro di peccati, ma condotto dall’umiltà, arriva in Paradiso”.
 
In breve la via per giungere all’umiltà sono le umiliazioni e non c’è umiliazione più grande che quella di vedere le nostre miserie e di toccarle con mano.
 
Sant’Ignazio nei suoi Esercizi Spirituali ci insegna che per unirci a Cristo dobbiamo imitarlo a “patire ogni ingiuria, ogni disprezzo” (La Regalità di Cristo e la sua chiamata, n. 98). Inoltre Gesù ci chiama “al desiderio degli obbrobri e dei disprezzi, perché da queste due cose nasce la vera umiltà” (I due stendardi, n. 146). Infine ci ammonisce che per amare, imitare e rassomigliare  veramente a Gesù Cristo dobbiamo “scegliere gli obbrobri con Cristo coperto di essi piuttosto che onori, e preferire essere stimati da niente e stolti per Cristo, che per primo fu ritenuto tale, piuttosto che savio e prudente agli occhi del mondo” (I tre gradi di umiltà, n. 167). 

3) La vera devozione alla Madonna

Perciò tra tutte le devozioni bisogna scegliere quella che meglio ci aiuta a scoprire e vincere i nostri “peccati occulti” (sormontando le notti oscure, portando la nostra croce, accettando le umiliazioni) e questa è la devozione alla Madonna[6].

San Luigi Maria Grignion de Montfort spiega con un semplice esempio che “Quando si versa dell’acqua pura  e limpida in un vaso che sa di cattivo, o del vino in una botte guasta, l’acqua limpida e il buon vino prendono facilmente cattivo odore. Lo stesso avviene quando Dio mette le sue grazie e rugiade celesti nel vaso dell’anima nostra, guastata dal peccato originale e attuale: i suoi doni ordinariamente si corrompono a causa del cattivo lievito e del fondo cattivo lasciati in noi dal peccato, e le nostre azioni, non escluse quelle ispirate dalle virtù più sublimi, ne risentono” (Trattato della  vera devozione a Maria Santissima, parte II, cap. I, § 3, n. 78, in Opere, Roma, Centro Mariano Monfortano, 1977, p. 312).

Di qui la necessità della vera devozione a Maria per vuotarci del cattivo fondo che rimane in  noi. Infatti da noi stessi non vi riusciremmo mai, sia perché nessuno è buon giudice di se stesso e cercheremmo di coprire o di non mettere a fuoco le nostre cattive inclinazioni, sia perché non abbiamo da soli la forza necessaria per estirparle totalmente, abbiamo bisogno della grazia di Dio, che è distribuita da Maria “Mediatrice universale di ogni grazia”.
 
Per cui in primo luogo dobbiamo conoscere bene, con la luce dello Spirito Santo e il buon consiglio di Maria, le nostre cattive inclinazione e soprattutto quelle più nascoste ai nostri occhi carnali.
 
Poi con l’aiuto dello Spirito Paraclito e di Maria possiamo avere la forza per combatterle e sradicarle del nostro animo. Non a caso uno dei sette Doni dello Spirito Santo è quello del Consiglio e una delle litanie della Madonna la invoca quale “Mater Boni Consilii”.

La devozione o schiavitù mariana è definita da San Luigi de Montfort “un segreto nell’ordine della grazia per fare in poco tempo, con dolcezza e facilità operazioni soprannaturali, come lo spogliarsi di sé, il riempirsi di Dio e il divenire santi” (Ibidem, parte II, cap. I, par. 3, n. 82, p. 315).
 
La devozione alla Madonna è necessaria anche a causa della nostra condizione di natura ferita, la quale è talmente inclinata al male che se ci appoggiassimo alle sole nostre capacità le nostre azioni rischierebbero fortemente di essere macchiate dall’amor proprio.
 
San Luigi de Monfort scrive: “Quanti cedri del Libano e stelle del firmamento si son visti cadere miseramente e perdere in pochissimo tempo tutta la loro altezza e il loro splendore! Da che dipende questo strano cambiamento? Non certo da mancanza di grazia divina, ma da mancanza di umiltà. Si credevano, [occultamente e impercettibilmente, ndr], più forti e più abili di quanto non fossero. […]. Così per questo loro appoggio sulle loro forze, anche se pareva loro di contare soltanto sulla grazia di Dio, il Signore ha permesso che siano stati derubati e abbandonati a se stessi” (Ibidem, parte II, cap. I, par. 5, n. 87, pp. 319-320).

È chiarissimamente espresso qui il concetto di “peccato occulto”, ossia ci si appoggia su di sé, per un certo impercettibile e inconfessabile amor proprio, egoismo e orgoglio spirituale, non esplicitamente ma occultamente, sembra che si conti solo su Dio invece si segue il proprio “io” ed allora si va incontro alla rovina illudendosi di avanzare sulla via della santità, che è puramente esteriore e per nulla affatto reale e interiore.
 
Il rimedio proposto dal Santo de Montfort è quello di affidare a Maria Santissima il tesoro della grazia divina, che portiamo in vasi fragili (2 Cor., IV, 7), affinché ce lo custodisca e ci difenda dal nostro peggior nemico, che non è il mondo e neppure il demonio, ma il nostro “io” nel quale vive “quel certo spirito di proprietà  che si insinua  impercettibilmente anche nelle migliori azioni” (Ib., parte III, cap. II, par. 1, n. 137, p. 349) e che biblicamente si chiama “peccato occulto” (Sal., XIX, 13).
 
La Madonna è colei che “purifica le anime da ogni macchia di amor proprio e dall’impercettibile attaccamento alla creatura che si insinua insensibilmente anche nelle migliori azioni” (Ib., parte III, cap. II, par. 3, n. 145, p. 355).
 
Infatti “Gesù esamina il dono che gli facciamo e spesso lo respinge per le macchie di amor proprio di cui è contaminato” (Ib., parte III, cap. II, par. 3, n. 149, p. 356).
 
“Con la luce che lo Spirito Santo ci darà per mezzo di Maria conosceremo il nostro fondo cattivo, la nostra corruzione ed incapacità di ogni bene soprannaturale […]. In seguito ci disprezzeremo come una lumaca che tutto insudicia con la sua bava […]. Insomma la Vergine Maria ci renderà partecipi della sua umiltà profonda, per cui ci disprezzeremo, non disprezzeremo nessuno ed ameremo di essere disprezzati” (Ib., parte III, cap. IV, par. I, n. 213, pp. 399-400).

Conclusione

Raccomandiamoci a Maria con la bella preghiera che ha scritto San Luigi de Montfort: «Tenete, mia cara Madre, tutto ciò che ho fatto di bene con l’aiuto della grazia di vostro Figlio; io non sono capace di mantenerlo a causa della mia debolezza e della mia incostanza. Purtroppo si vedono tutti i giorni i cedri del Libano cadere nella polvere e le aquile che s’innalzavano sino al sole diventare uccelli notturni; “mille giusti cadono alla mia sinistra e diecimila alla mia destra”[7]. Perciò mia potentissima Regina, mantenete e custodite tutto il mio bene perché ho paura che me lo rubino, sorreggetemi perché ho timore di cadere; io vi do tutto ciò che ho. “Depositum custodi”[8]. “Scio cui credidi”[9]. So bene chi siete ed è per questo che mi raccomando e consacro totalmente a voi; voi siete fedele a Dio e agli uomini e voi non permetterete che perisca nulla di ciò che io vi confido; voi siete potente e nessuno può nuocervi né tanto meno rapire ciò che avete tra le vostre mani» (Il segreto di Maria, parte II, cap. 3, par. 5, n. 40, in Opere, Roma, Centro Mariano Monfortano, 1977, p. 460).
d. Curzio Nitoglia
_________________________________
[1] A. Stolz, L’ascesi cristiana, Brescia, Morcelliana, 1943; Adolfo Tanquerey, Compendio di Teologia ascetica e mistica, tr. it., Desclée, Roma, 1928.
[2] S. Tommaso d’Aquino, S. Th., II-II, q. 24, a. 9.
[3] Cfr. R. Garrigou-Lagrange, Le tre età della vita interiore, Vivere in, Monopoli (BA), 1998, 4 volumi.
[4] Cr. San Giovanni della Croce, Notte oscura, Lib. 1, cap. 1; Id., Notte oscura, Lib., II, cap. 5, n. 5; San Tommaso d’Aquino, S. Th., I-II, q. 87, a. 1 e 6.
[5] Santa Teresa d’Avila, Cammino della perfezione, XXI, 7-8; Id., Vita, XIX, 2; Id., Castello, mansione settima, cap. II, n. 4.
[6] San Luigi Grignion de Montfort, riprendendo l’insegnamento comune dei Padri e Dottori ecclesiastici, spiega che la devozione alla Madonna è necessaria per salvarsi l’anima poiché Dio l’ha scelta per incarnarsi nel suo seno e come Corredentrice e Dispensatrice universale di ogni grazia. “Come Gesù è venuto a noi attraverso Maria, così noi per andare a Lui dobbiamo passare per Maria.Ad Jesum per Mariam”  (Trattato della  vera devozione a Maria Santissima, introduzione, n. 1, p. 265). Nel presente articolo mi soffermo solo sulla necessità di ricorrere a Maria per vincere i nostri “peccati occulti”, che sono i più pericolosi proprio perché nascosti o non pienamente riconosciuti.
[7]  Sal., XC, 7.
[8] 1 Tim., VI, 20.
[9] 2 Tim., I, 12.
 



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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17/10/2015 00:37
 
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sacer


“Sulle memorie dal sottosuolo delle isole Solowki”.  In quel luogo alcuni sacerdoti a costo della vita celebravano il sacrificio della Messa con ardore e devozione. La loro testimonianza è per la Chiesa di oggi un grande monito.
Come trattiamo le cose di Dio? Amiamo l’Eucarestia? Come celebriamo i santi misteri?

Leggiamo la loro testimonianza: 

«Nel Mar Bianco, dove le notti sono bianche per sei mesi all’anno, l’Isola grande delle Solowki sorge dall’acqua con le sue candide chiese contornate dalle mura del Cremlino. In quel chiarore sembra non esservi peccato. È come se la natura, là, non l’abbia ancora raggiunto nel suo sviluppo: in questo modo Prisvim sentì le isole Solowki. Mezzo secolo dopo la battaglia di Kulikovo e mezzo millennio prima della Gpu [la polizia segreta] i monaci Savvataj e German attraversarono il mare di madreperla su una fragile barchetta e ritennero santa l’isola priva di animali rapaci. Con essi ebbe inizio il monastero di Solowki. Sorsero le cattedrali della Dormizione della Vergine e della Trasfigurazione, la chiesa della Decapitazione di san Giovanni Battista. La terra di Solowki risultò non solo santa ma ricca, capace di nutrire molte migliaia di abitanti (…) L’idea della guerra. Non è davvero possibile, in fin dei conti, che irragionevoli monaci vivano semplicemente, su una semplice isola. Mentalità carceraria. Ci si possono rinchiudere criminali importanti e c’è già chi farà da guardia. Non gli impediremo di occuparsi della salvezza della loro anima, ma intanto possono sorvegliare i nostri prigionieri. Pensò forse a tanto Savvatij quando approdò all’isola santa?». Così Alexander Solženicyn, in Arcipelago Gulag, descrive la nascita del sistema concentrazionario sovietico alle Isole Solowki (Arcipelago Gulag 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa III-IV, Milano, 1995, pp. 27-31).

Nel 1920 il monastero divenne l’archetipo dei lager di Lenin e con Stalin, nel 1929, una prigione. Sul suo modello se ne apriranno altri in Russia e in Europa. Vi furono internati i “nemici della rivoluzione”, tra questi il clero ortodosso, quello cattolico e gli intellettuali. Il freddo, la fame, i lavori forzati, le malattie, le fucilazioni, tra il 1923 e il 1939 condussero a morte quasi un milione di persone. Verbali, resoconti, per decenni coperti dal segreto, affiorano raccontando di «quest’epoca tremenda. Tanto tremenda che ciascuno deve rispondere di sé stesso» (Pavel Florenskij). I Fondi Russia e Pontificia Commissione Pro-Russia dell’Archivio Storico della Segreteria di Stato brulicano di “memorie dal sottosuolo”, memoriali di dolore e morte, ma anche di redenzione, riscatto e speranza. Il memoriale Mosca e Solowki, riassunto e florilegio dei ricordi di padre Donato Nowicki circa la persecuzione dei cattolici russi di rito orientale a Mosca e circa la deportazione di un certo numero di essi alle isole Solowki, narra la sofferenza sopportata con fede, coraggio e dignità, da un gruppo di sacerdoti, religiose e laici cattolici tra il 1922 e il 1938.

L’autore, arrestato il 12 novembre del 1923, fu ordinato sacerdote clandestinamente proprio sull’isola centrale dal beato Boleslaw Sloskan e morì in Polonia il 17 agosto 1971. Nelle chiese c’è corrispondenza fra esterno e interno: «Tramite l’ardore visibile dall’esterno il cielo discende sulla terra, viene introdotto nel tempio e ne diventa quel coronamento dove ogni cosa terrena viene coperta dalla mano dell’Altissimo, benedicente dalla volta azzurro-cupo del cielo» (Evgenij Nikolaevîc Trubeckoj, Contemplazione nel colore, Milano 1977, p. 8-9). Anche all’epoca tremenda del delitto e della barbarie alle Solowki, le cupole d’oro delle cattedrali della Dormizione della Vergine e della Trasfigurazione splendevano ogni giorno di Bellezza alla luce del sole.
Come enormi ceri accesi, i campanili rifulgevano fra le distese nevose continuando a rimanere un remoto richiamo della città di Dio benché il loro interno fosse divenuto un “tritacarne” di destini. Forse alludeva a questo Evdokimov quando scriveva che «la Bellezza è un enigma, e se è vero che la bellezza salverà il mondo, Ippolit — un personaggio dell’Idiota di Dostoevskij — chiede di precisare “quale bellezza”. La bellezza, nel mondo ha il suo doppio. Anche i nichilisti amano la bellezza… come pure l’assassino Pëtr Verchovenskij» (Pavel Evdokimov, Dostoevskij e il problema del male, Roma 1985, p. 81). In quelle isole molti uomini non si accontentarono della propria integrità e indipendenza, a loro non bastò puntare a salvare l’umano nell’uomo, ma salvarono il senso stesso della vita contro il caos montante e l’assurdo: i monaci che riuscirono a creare nella dura natura del Mar Bianco un paradiso, i martiri che resero presente Cristo e umana e divina la vita nell’inferno del lager.

Al centro del memoriale padre Nowicki pone, quasi come atto fondativo della solidarietà spirituale che strinse i martiri e confessori della fede nell’arcipelago, una circostanza precisa: «Ci riunimmo per la prima volta alla cappella di San Germano il giorno di Natale del 1925; e da allora ogni domenica e ogni giorno di festa noi siamo tornati con grande gioia e riconoscenza verso la Provvidenza Divina». Pensare al Natale del 1925 può far bene anche a quello di oggi. «La persecuzione dei cattolici russi cominciò nel 1922 e il primo gruppo arrivò a Solowki nel giugno del 1924. Nell’isola di Kondo furono trattati relativamente bene, come prigionieri politici». 
Qui «padre Nikolas Alexandrov, che era molto attaccato alla Santa Eucaristia, cominciò a pensare al modo per celebrare la Santa Messa, ma siccome mancava l’antimension [specie di corporale contenente le reliquie per il Rito orientale] non saliva l’altare». Dieci mesi dopo da Kondo furono trasferiti nel campo di concentramento dell’isola centrale, non più come prigionieri politici ma come controrivoluzionari puniti per delitti di religione (Tzerkowniki) e assegnati ai lavori forzati. Con grandi restrizioni, fu concesso l’uso della cappella di San Germano. La inaugurarono, appunto, il giorno di Natale del 1925, solo con la preghiera, giacché mancava l’antimension.

Alla fine di maggio del 1925 giunse la notizia che la Santa Sede aveva concesso il privilegio dell’uso del corporale latino in caso di assenza dell’antimension «purché il celebrante della prima Messa si unisse col pensiero alle reliquie dei Santi della chiesa più vicina. Allora [padre Nicolas] cominciò a celebrare. Pieno di zelo verso il Mistero dell’Eucaristia egli si alzava, malgrado le fatiche della giornata tutta occupata dai lavori forzati, verso le cinque del mattino e andava alla cappella distante due chilometri e mezzo. In inverno era buio e la strada completamente coperta di neve. La nostra cappella mancava di tutto, ma abbiamo messo tutto lo zelo per ornarla di ciò che era necessario al culto e per abbellirla. Si costruì un altare, si fece restaurare l’icona della Santa Vergine. Il lavoro fu fatto da uno dei nostri parrocchiani che conosceva la pittura. Le suore confezionarono tutti i paramenti per il culto. All’inizio avevamo un solo parato rosso, ma due anni dopo ne avevamo quattro completi di colore diverso».

Nel campo fiorì la preghiera, sbocciarono le vocazioni e si operarono conversioni. «Nell’estate del 1925 arrivò il primo prete di rito latino padre Leonard Baranowski; anche lui non poté celebrare la Santa Messa dato che era impossibile soddisfare esattamente tutte le esigenze della liturgia e delle rubriche». Le suore confezionarono allora i paramenti per il rito latino e un cattolico tedesco costruì la macchina per fare le ostie. Non fu trascurato nulla di ciò che il rito prescriveva: quando tutto fu pronto, allora cominciò. Per tali sacerdoti martiri e confessori della fede la Messa era il bene più prezioso al mondo: era il luogo dove Dio assumendo la carne dell’uomo nasceva di nuovo, saliva il Calvario per offrirsi in sacrificio e risorgere. Lì dove l’uomo in carne e ossa non valeva nulla, lì dove di diritti dell’uomo nessuno parlava, questi uomini avevano piena coscienza che la Liturgia è diritto di Dio. I sacerdoti difendevano in tutto e per tutto questo diritto anche a costo di essere scoperti e fucilati all’istante. Il Messale, che codificava il diritto di Dio che avevano ricevuto in dono, lo applicavano con grande amore in quei luoghi di odio, di orrore, di ghiaccio e di morte. Un bell’esempio per noi che non abbiamo questo genere di costrizioni e abbiamo tutta la possibilità di celebrare la Santa Messa con tutta la solennità e la ricchezza del culto richiesta dalla Santità di Dio. La vita era difficile, ma «l’idea di abbandonare una lotta che appariva ineguale la respingemmo. Sapevamo che non avremmo resistito alla depressione morale che invase dopo qualche tempo molti deportati a Solowki, se non ricorrevamo alla Santa Eucaristia, che sola poteva assicurare le forze necessarie per resistere. A quella situazione di depressione opponemmo la fede nella Provvidenza, confidando nelle forze che venivano dal Santo Sacrificio e dallo spirito di carità che ci univa in una sola famiglia».

Nell’estate del 1927 aumentò il numero dei sacerdoti cattolici deportati, orientali e latini. La gran parte dei sacerdoti celebrava ogni giorno, organizzati in turni, nella cappella o nelle camere. Annota padre Nowicki: «Ringrazio Dio, d’essere stato alle Solowki. Molte volte ho sentito in quel luogo di sofferenza come un soffio del cielo, e veramente ho vissuto momenti di profondissima gioia. Noi seguivamo il principio domenicano: vedere tutto con gli occhi della fede, essere sempre nella gioia, servire la verità e gioire di essa in ogni momento». In questa situazione padre Nowicki ricevette il suddiaconato dall’Esarca Leonid Feodorov, anche lui deportato. Per l’ordinazione diaconale e sacerdotale si attese l’arrivo di monsignor Boleslaw Sloskan: «Desidero così ardentemente di tenere il mio Salvatore nelle mie mani e di offrirlo per la salvezza delle anime in questi tempi terribili». L’ordinazione avvenne il 5 settembre del 1928 alle 5 del mattino. «Arrivai con l’abito laico, solo in cappella indossai la talare. Il vescovo non aveva né mitra né pastorale; tutto si svolse nella più grande semplicità e povertà che ricordava le catacombe; avevamo la percezione che la Grazia riempiva la nostra povera cappella e comprendemmo bene le parole del Salvatore: “Io sono con voi fino alla fine dei tempi”. Alle Solowki, il Signore è stato con la sua Chiesa. Il 7 settembre la solennità fu ancora più commovente. Non ho potuto trattenere le lacrime di gioia quando monsignor Boleslaw mise le sue mani sul mio capo pronunciando le parole Accipe Spiritum Sanctum e quando dopo di lui gli altri preti, che avevano sofferto per la fede, fecero lo stesso. Fui intimamente convinto che la grande forza, grazie alla quale io potevo servire Dio in prigione, era la Messa».La Gpu si rese conto che non riusciva a deprimere il morale e che i cattolici prendevano le loro forze dalla liturgia. Vietarono, allora l’uso della cappella di San Germano. Le celebrazioni continuarono nella clandestinità delle stanze, ma il 19 gennaio del 1929 una retata tolse ciò che serviva al culto. Si salvò quel che era nascosto.

«Allora chiesero l’uno all’altro se dovevano continuare a dir messa sotto il costante pericolo di rappresaglie — continua padre Nowicki — l’Esarca disse: “Ricordatevi che le Messe che noi diciamo a Solowki potrebbero essere le sole che dei preti cattolici dicono in Russia e per la Russia”». Continuarono a celebrare nonostante la vita fosse durissima: di notte sottoposti a rumore continuo, di giorno ai lavori forzati che consistevano nel trainare, come cavalli, dei carri per 7-10 chilometri. Dopo la Pasqua del 1929 furono trasportati nell’isola di Anzer. Si ritrovarono con grande gioia ancora insieme a Froitzhaia e iniziarono da capo a dir Messa; dapprima nella foresta, poi nel sottotetto di una delle baracche dove abitavano.

«L’inconveniente era che in essa non si poteva stare in piedi, tanto era bassa. Dicemmo Messa sempre in ginocchio, tre per volta, dando la possibilità così a un gran numero di celebrare ogni giorno». Ad Anzer celebravano «con l’intenzione di riparare davanti a Dio tutto il male che si faceva in Russia. Gli agenti bolscevichi si resero conto di questa determinazione; uno di loro un giorno disse che era inutile la lotta con noi perché “Dove c’è un prete cattolico, c’è una Messa”». Continuavano le perquisizioni e gl’interrogatori. «Nei primi giorni di luglio del 1932, dopo aver sotterrato gli oggetti di culto che non potevamo portare, fummo inviati a Leningrado per essere da qui trasferiti in Polonia». I trasferimenti erano delle espulsioni, attraverso salvacondotti, ottenuti come scambio di prigionieri. In silenzio operava la Pontificia Missione di Soccorso voluta da Pio XI, fin dal 1921, per alleviare le sofferenze delle popolazioni della Russia e dell’Ucraina sotto il giogo comunista e colpite dalla fame. Nei mesi di ottobre e novembre del 1937 la maggior parte del clero cattolico russo e i fedeli che erano rimasti alle Solowki insieme agli ortodossi e agli altri furono giustiziati in una grande esecuzione di massa.
Commenta padre Nowicki: «Oserei affermare che dal 1924 al 1932 in tutti i nostri sforzi di celebrare il Santo Sacrificio per farne il centro della vita religiosa, noi abbiamo agito con spirito di fede. Perché tutta la forza della fede cattolica consiste nel non sottomettersi allo spirito dei nostri tempi, nel non piegarsi davanti ai forti di questo mondo, ma cercare d’essere obbedienti alla volontà di Dio e di servirlo come lui desidera. È consolante riconoscere che ovunque, sempre e in tutte le circostanze della vita, il cristiano può con l’aiuto della Grazia, che non manca mai, cantare la lode di Dio anche in queste terribili Isole di Solowki».

Al sacrificio redentore della Pasqua si mescolava ogni giorno il sangue dei martiri e dei confessori; Natale e Pasqua, Incarnazione e Redenzione, vita e morte e di nuovo vita nella liturgia si fondono. Nella terra bella delle Solowki, che la santità dei monaci aveva reso simile al paradiso, e che l’arroganza dell’ideologia aveva trasformato nel più brutto dei mondi possibili, si attuava la discesa della Bellezza che salva il mondo e lo riscatta. Questa discesa appariva umiliata e sconfitta, invece era germe di rinascita, era Il seme sotto la neve (cfr. Ignazio Silone). Molti dei prigionieri ne avevano piena coscienza. Perciò alla messa non rinunciarono mai: era riscatto anche per chi non lo sapeva, era espiazione per chi non lo immaginava, era la Redenzione del mondo intero. Tutto ciò indissolubilmente congiunto alla gioia che viene dalla bellezza della vittoria definitiva del Dio-uomo sull’uomo fiera, gioia cui diamo spazio col nostro personale sacrificio”.

M. Agostini pubblicato dall’Osservatore Romano il 28 Dicembre 2013 



[Modificato da Caterina63 17/10/2015 00:37]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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copertina libro

Claudio Antonio Testi 
SANTI PAGANI NELLA TERRA DI MEZZO DI TOLKIEN

ISBN: 978887094-881-3
dimensioni: 140 x 210 mm
rilegatura: brossura
collana: Filosofia e Teologia
pagine: 224
anno: 2014

€ 22,00

L’opera di Tolkien è cristiana o pagana? La domanda ha interpellato lettori e studiosi fin dal 1954, anno di pubblicazione del primo volume del Signore degli Anelli.
Ad oggi però, nonostante la notorietà “planetaria” di Tolkien (dovuta anche alle trasposizioni cinematografiche di Peter Jackson) questo importante snodo non è ancora stato affrontato con quella completezza critica che merita un autentico classico della letteratura. Il presente volume è un tentativo in questa direzione.
Dopo un dettagliato esame delle principali interpretazioni italiane ed estere sul tema, viene proposta un’“originale” lettura sintetica che pone in luce l’inesauribile profondità dell’opera tolkieniana. Si vedrà così come Frodo, Gandalf o i Cavalieri di Rohan, pur essendo a tutti gli effetti dei pagani, esemplificano gli aspetti migliori della natura umana, capace di cogliere che oltre i confini del mondo vi è qualcosa «più dei ricordi» (Aragorn ne Il Signore degli Anelli, Appendice A.5).
Corredano il volume una vastissima bibliografia e dettagliati indici e sommari.

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Claudio Antonio Testi - nato a Modena nel 1967, è laureato in Filosofia all'Università di Bologna e co-fondatore dell'Istituto Filosofico di Studi Tomistici. Le sue numerose pubblicazioni spaziano da studi esegetici sulla metafisica tomista a scritti di logica formale. Da sempre attento all’opera di Tolkien, ha negli ultimi anni scritto numerosi contributi sul tema e curato molti volumi per la collana «Tolkien e dintorni», della quale è direttore. È stato il primo italiano a vedere pubblicato un suo articolo sulla prestigiosa rivista internazionale «Tolkien Studies». È membro dell´Istituto Filosofico di Studi Tomistici di Modena, presso il quale insegna abitualmente, www.istitutotomistico.it/

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San Filippo e la gallina


gallina1«In fondo, che male c’è? Non ho mica ucciso qualcuno!» è questa la giustificazione che ci diamo, non appena aver ceduto a una delle tentazioni più diffuse e difficili da estirpare, quasi fosse intrinsecamente legata alla natura umana. E che, pur non risparmiando gli uomini, è particolarmente feconda sulle bocche femminili.

Di che parlo? Pettegolezzi, dicerie, che spesso diventano ingiurie ben più offensive: si rivelano calunnie, spesso senza alcun fondamento: minano la dignità e la credibilità delle vittime, viaggiano a  gran velocità in ogni direzione e intaccano la serietà e la tranquillità di chi ne è stato fatto oggetto.

Non solo, in molti casi si tratta di parole al vento, prive di qualsiasi fondamento; e si arriva persino a molto, molto peggio: alle volte, si tratta addirittura di insinuazioni diffuse ad arte, proprio con l’intenzione di ferire chi è protagonista di queste chiacchiere di paese o di quartiere. Quando non di parrocchia. Eh sì, perché neanche le nostre parrocchie sono esenti: anzi, purtroppo, è proprio questo il luogo in cui si producono e proliferano con maggiore fecondità!

Ben lungi dall’essere “chiacchiere innocenti”, tanto per rompere il silenzio condominiale o il gelo che cala nei fugaci e occasionali incontri nei luoghi comuni (intesi come posti frequentati da chi vive nello stesso palazzo!), sono purtroppo vere e proprie armi, consapevolmente utilizzate per isolare l’avversario e sconfiggerlo con l’attacco più potente: quello della solitudine e dell’indifferenza.

Del resto, meccanismi molto simili accadono anche sul luogo di lavoro. Non si svolge forse in questo modo il mobbing, che punta a distruggere interiormente le persone, fino a costringerle a una resa innocua e pacifica?

 

Un giorno, una chiacchierona nota in tutta Roma, andò a confessarsi da San Filippo Neri. Il confessore ascoltò attentamente e poi le assegnò questa penitenza: “Dopo aver spennato una gallina dovrai andare per le strade di Roma e spargerai un po' dappertutto le penne e le piume della gallina! Dopo torna da me!”.

La donna, un po’ a malincuore, eseguì questa strana penitenza e andò a riferirlo a Filippo Neri.

Lui le disse: “La penitenza non è finita! Ora devi andare per tutta Roma a raccogliere le penne e le piume che hai sparso!”.

“Tu mi chiedi una cosa impossibile!”, disse la donna.

E il confessore le rispose così: “Anche le chiacchiere che hai sparso per tutta Roma non si possono più raccogliere! Sono come le piume e le penne di questa gallina che hai sparso dappertutto! Non c’è rimedio per il danno che hai fatto con le tue chiacchiere!”.

Questo piccolo aneddoto della vita di san Filippo Neri, strappandoci un sorriso, evidenzia come dettagli che trascuriamo si rivelano in verità fondamentali. A volte ciò che rovina ha proprio questo nome: la superficialità con cui si pensa di poter (o dover) “passare sopra” a tante cose.

Invece, rendere noti gli sbagli altrui a terzi è molto grave, in particolar modo quando si evita, per i più svariati motivi, di parlarne col diretto interessato. Innanzitutto è – con grande mancanza di stile – dribblata l’opportuna e necessaria correzione fraterna, che rappresenta sempre, oltre ad un confronto schietto e verace, una reciproca occasione di crescita –  non solo spirituale ma anche umana –.

È poi del tutto evidente come, qualora manchino perfino argomentazioni che possano almeno in minima parte giustificare o, addirittura, sia presente un’espressa volontà di ferire, denigrare, offendere, mettere in cattiva luce l’altra persona, avviene qualcosa forse anche peggiore della violenza fisica. Perché abbiamo tutti avuto esperienza della sofferenza che può essere causata dalle parole: utilizzarla come subdola arma di offesa cela una macchinazione che è ben peggiore di tante altre malefatte – molto più visibili e concrete e, per questo motivo, molto più facili da individuare e contrastare –.




[Modificato da Caterina63 11/11/2015 19:30]
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  Padre Pio, il santo della famiglia


matrimonio

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Estratto del libro “Padre Pio nella sua interiorità. Figlio di Maria, francescano, stigmatizzato, sacerdote, apostolo, guida spirituale”, di Don Nello Castello, Don Attilio Negrisolo e Padre Stefano M. Manelli (San Paolo Edizioni, 1997).


Il Quarto Comandamento: “Onora il padre e la madre”


Doveri verso i figli


La materia circa il quarto comandamento è vastissima. Riguarda i figli, ma implica anche i doveri dei genitori verso i figli. Proprio la categoria genitori rappresenta, indubbiamente, la fascia più ampia tra coloro che si sono inginocchiati in quella chiesina per il sacramento della riconciliazione.


Ai genitori, Padre Pio insegnava la fedeltà a Dio e tra loro: è la chiave dell’educazione dei figli. Dio guida, illumina, sostiene i genitori fedeli al sacramento del matrimonio.


Le testimonianze di una madre possono dare una sintesi profonda, completa e interessante sul problema dei doveri dei genitori e sulla formazione dei figli secondo Padre Pio. La mamma si chiama Lucia Manelli, che scrive:


Una volta, in un momento di buio, mi capitò di trovarmi a San Giovanni Rotondo e di potermi confessare dal Padre. Ne approfittai per presentargli la mia stanchezza a causa dell’assillo quotidiano nella cura della numerosa famiglia: otto figli, allora. Il Padre mi ascoltò, e poi, con tono forte e insieme affabile, mi disse: «Ma tu che cosa vuoi… Lo sai che madre è sinonimo di martire?». Era un rimprovero e un conforto nello stesso tempo. Mi richiamava illuminandomi e consolandomi: il buio che avevo dentro si dissolse alla luce della missione eroica di madre; lo sconforto si trasformò in gioia nell’intravedere l’aureola del martirio sul mio compimento dei doveri materni. Non c’è bisogno di dire che il Signore e la Madonna mi hanno sempre sostenuto in questo martirio quotidiano, tanto più quando i figli diventarono tredici. Questo aiuto mi divenne così naturale che non ci facevo più caso, e facevo tutto da me. Una volta il Padre mi richiamò anche su questo: “Figlia mia, non credere alle tue forze, perché è tutto l’aiuto di Dio che ti sostiene, altrimenti non ce la faresti per nulla a portare avanti la famiglia con i tuoi dieci figli”. Allora erano dieci. “Padre, io prego tanto poco, perché mi tocca affannarmi di tante cose. So che dovrei pregare molto, ma come devo fare?”… La risposta di Padre Pio mi venne svelta e sorprendente: “Figlia mia, dalla mattina alla sera stai sempre a pregare i tuoi dieci figli di comportarsi bene, di fare questo e di non fare quello…: non è preghiera quella? Come fai a dire che non preghi?”. Così conclude la signora: “Sì, solo il Signore è la nostra forza. Ce lo ha detto lui stesso”: “Senza di me non potete fare nulla”.


Ecco ancora la stessa madre, che prosegue nella sua testimonianza:


La Provvidenza divina e la povertà erano carissime a Padre Pio. Non le separava mai e cercava di farle amare sempre insieme. La Provvidenza fa chinare Dio verso le creature. La povertà fa elevare i cuori delle creature a Dio. La Provvidenza assicura il pane quotidiano, la salute necessaria, il lavoro indispensabile per la vita. La povertà assicura il distacco da questo esilio, la speranza nella patria dei cieli, il guadagno dei beni celesti, come disse Gesù. Queste riflessioni mi sono venute spontanee ripensando a una lontana confessione con Padre Pio. Si era allora nei tempi più tristi dell’ultima guerra mondiale. La scarsità dei mezzi di sostentamento pesava dolorosamente su tutti. Nella nostra famiglia si era ridotti persino a dormire su tavole, coperti alla meglio, senza molte delle cose ritenute necessarie. In quella confessione, me ne lamentai col Padre, esprimendo la mia grande pena nel vedere, soprattutto i bambini, dormire a quel modo, senza poter provvedere in nessun modo. Ricordo che Padre Pio prima mi ascoltò attentamente, poi mi chiese deciso: “Ma i tuoi bambini stanno tutti bene, sì o no?”. “Sì, Padre stanno veramente tutti bene”. “E allora? Ci sono di quelli che tengono i loro figli nell’ovatta, con tutte le comodità, e ne hanno sempre una addosso; i tuoi bambini, invece, non hanno dove dormire, ma stanno sempre bene: che vuoi di più?”… Conclude la signora: “Giusto. Povertà e Provvidenza, ossia ricchezza di grazia e di salute. Che cosa volere di più?”.


In altra circostanza la signora chiede al Padre come comportarsi per far pregare i figli: “Padre, come debbo fare, mi accorgo che pregano male, si distraggono con facilità; c’è chi scappa da una parte, chi fugge dall’altra; i più grandi tendono a sfuggire alla preghiera; chi pensa a scherzare. Padre come fare, che fare?”. “Tienili stretti! Tienili stretti!”. La signora Lucia conclude e commenta: “La natura dei figli segue la sua china comoda degli istinti ciechi e i ragazzi ne sono vittime inesperte, se non vengono tenuti a freno con la disciplina. Responsabili siamo noi genitori a cui tocca questo vigile sforzo di “tenerli stretti”. Compito duro, è vero, ma doveroso quanto mai, poiché si tratta della salute primaria dei nostri figli”.


La catechesi di Padre Pio a mille mamme era quella della sacra famiglia di Nazaret e quella del testo di Matteo, per cui quando si fa la volontà del Padre celeste nella famiglia, ogni donna diventa sorella e madre di Cristo come Maria e quindi ricca dell’arte dell’educazione dei figli. Era il cammino della perfezione a cui egli indirizzava.


Non era uscito Padre Pio da genitori che avevano onorato i loro doveri verso i figli?


La pedagogia attuale nella formazione dei figli, molto legata alla cultura corrente, frutto di una psicologia senza Dio, è ben lontana dalla scuola di Padre Pio. A tal proposito vale la pena di ricordare un lamento profetico di Padre Pio che risale agli anni trenta:



“Avremo una generazione di mamme che non sapranno educare i loro figli”.



Ancora, nei primi anni sessanta ripeteva:



“I nostri figli non avranno lagrime per piangere gli errori dei genitori… Non vorrei trovarmi nei panni dei vostri figli e dei vostri nipoti”.



Quali situazioni familiari vedeva il suo sguardo che si spingeva lontano? Vedeva la situazione della famiglia odierna, di questa nostra civiltà del peccato, vera e propria anticiviltà.


Un giovane coniuge padovano, da pochi giorni divenuto padre, si reca a San Giovanni Rotondo. Non era la prima volta. Subito al mattino, durante la messa, col pensiero gli raccomanda la sua creatura. Poi durante la giornata, mentre il Padre passa tra la folla, ripete mentalmente la sua raccomandazione. Finalmente il giorno dopo si confessa e poi gli dice: “Padre, sono papà da pochi giorni. Sono felice, vi raccomando mio figlio, lo affido a voi, Padre”. Padre Pio risponde: “Figlio mio, è la terza volta che me lo dici. Preoccupati tu, piuttosto, di vivere da buon cristiano!”.


Padre Pio orientava i genitori alla missione essenziale della famiglia, quella di trasmettere la vita, di allevare i figli come figli di Dio e di condurli in Paradiso. Questa missione esige dai genitori una vita veramente cristiana. Il peccato personale nei coniugi è il primo nemico della formazione ed educazione dei figli.


Doveri verso i genitori


Il quarto comandamento si estende nei due versanti, genitori e figli, chiamati ad amarsi e onorarsi.


Ecco un esempio di figli che onorano genitori veramente cristiani: “Noi 13 viventi…”: così inizia la Prefazione a un opuscolo dal titolo Questa è la mia famiglia. Sono pagine di omaggio di figli e nipoti in occasione delle nozze d’oro dei genitori. È la testimonianza di una famiglia germinata dalla santità del Padre: sbocciata, coltivata, fiorita, ramificata, assistita da lui, il Padre, e da genitori che hanno santificato il sacramento come liturgia dell’altare e della vita quotidiana. Quella Prefazione continua:


Papà e Mamma. Cinquant’anni di matrimonio. Ventun figli, di cui tredici viventi. Questa è la famiglia Manelli, nata e cresciuta attorno a Padre Pio da Pietrelcina, lo stigmatizzato del Gargano. «Questa è la mia famiglia», disse Padre Pio a mamma, sposa novella al suo primo incontro col santo cappuccino. “Supererete i venti figli”, profetizzò P. Pio a papà, che fu uno dei suoi primi figli spirituali (1924). 15 luglio 1926-1976: siamo alla nozze d’oro. Dopo cinquant’anni di matrimonio, la famiglia si ritrova moltiplicata e arricchita: papà e mamma, tredici figli viventi, un figlio sacerdote francescano, sette figli laureati, undici sposati, circa quaranta nipoti, fino a ora. Quanta festa della vita!


Relativamente ai doveri dei genitori verso i figli un particolare interessante riguarda l’ammissione dei bambini alla prima comunione. Da tener presente che attualmente le situazioni pastorali hanno portato a elevare l’età dei bimbi per la prima comunione.


Comunque va detto che Padre Pio ci teneva che i bimbi ricevessero presto la Comunione, appena avessero imparato a distinguere il pane della tavola da quello eucaristico. Diceva:



«Facciamo entrare Gesù prima del peccato».



Era per la comunione in tenera età, anche a cinque, sei anni. Sono una meraviglia le foto di Padre Pio che dà la prima comunione ai fanciulli. L’ultima di queste foto risale all’ultima messa. E com’erano incisive le parole di augurio che rivolgeva loro a fine messa, in sacrestia. Eccone un’espressione:



«La purezza e la grazia della prima Comunione possa tu conservarle fino alla fine della vita!».



Però non transigeva sulla preparazione del fanciullo. È capitato che Padre Pio prima della prima comunione amministrasse anche la prima confessione. Era fermo anche con i fanciulli.


Un signore di Roma testimonia che, quand’era bambino, Padre Pio non solo gli rifiutò l’assoluzione, ma anche rinviò la sua prima comunione, già programmata. Il motivo?Perché non recitava le preghiere al mattino. “Da allora, ogni mattina e ogni sera, accanto al mio letto in ginocchio, le dico ogni giorno”. A volte Padre Pio usava la terapia preventiva.




Il Sesto Comandamento: Non commettere atti impuri


I peccati della carne sono quelli che impediscono all’intelletto di conoscere Dio, e conseguentemente di amarlo e di seguirlo; ingigantiscono le altre passioni, come l’orgoglio, e accentuano l’egoismo; creano divisioni in ogni genere di rapporti; soffocano il cuore; animalizzano e portano a ogni tipo di violenza; diventano idolo della vita; hanno un ventaglio molto variegato di pensieri, parole, atti. Sono la categoria più ricca di colpe.


Vorremmo restringere il tema ai problemi della famiglia, per rimanere nel concreto, anche se tale comandamento meriterebbe una trattazione specifica poiché Padre Pio ha dimostrato, da vero profeta, di conoscere a fondo malattie e terapie dei peccati della carne e della vita coniugale, di cui egli è stato quotidianamente modello di restauro e di santificazione.


Il nostro secolo è il secolo dell’edonismo imperante. Nel cuore dell’uomo manca la luce della speranza, il calore del sentimento, la gioia del donarsi. L’amore inteso come dono e come serena accettazione dell’altro ha ceduto il posto all’edonismo spinto all’esasperazione e, nell’accezione corrente, è divenuto sinonimo di piacere carnale.


C’è da chiedersi se l’attività pastorale riuscirà a incidere positivamente nel cuore e nella mente dell’uomo e della donna di questa generazione insoddisfatta e infelice. La famiglia cristiana di oggi è, in linea di massima, ferma al secondo figlio. Ci si chiede se esiste ancora la cultura della famiglia numerosa.


I giovani sanno che esiste un preciso comandamento di non commettere atti impuri? La catechesi e la predicazione domenicale affrontano queste problematiche? In che modo?


a84285_50a8f2c90531760acd599be3310451f3.png_srz_435_335_85_22_0.50_1.20_0.00Padre Pio è stato un grande, un vero maestro in questo campo. Egli riusciva a vincere, mediando fermezza e dolcezza, ogni resistenza; sapeva essere incisivo, illuminante, trainante e i suoi penitenti lo seguivano fino all’eroismo.


Carismi particolari a parte, il metodo di Padre Pio può essere a portata di ogni sacerdote. Ci si deve rifare al concetto fondamentale per la famiglia: l’uomo e la donna una carne sola, realizzata nel comandamento del “crescete e moltiplicatevi”.


La vita di Padre Pio è trascorsa nell’impegno di redimere la famiglia degradata, nel conferirle dignità, nello sforzo costante di rinnovare le famiglie prive di valori autentici. Padre Pio riportava il matrimonio alle radici, rinnovava la potenza divina del sacramento, dava senso cristiano alla vita dei coniugi. Il suo stile nel confessionale si rivelava drammatico e sconvolgente, ma anche dolce, amabile e incoraggiante, a seconda delle varie situazioni di chi gli stava innanzi.


In sintesi, la sua pastorale si imperniava sulle componenti essenziali del matrimonio: unità, fecondità, santità.


Giovanni Paolo II, dagli inizi del suo pontificato, si è particolarmente impegnato per ridare dignità alla famiglia e per educare i giovani di oggi al riconoscimento dei valori autentici del matrimonio.


Padre Pio gridava forte contro i peccati del sesto e nono comandamento. Il professor L., che ha speso la vita accanto a Padre Pio e ne seguiva gli insegnamenti, riporta alcune sue espressioni:



I peccati contro il matrimonio sono quelli che Dio perdona più difficilmente. Sai perché? Perché il Signore avrebbe potuto creare continuamente uomini e donne, come aveva fatto con Adamo ed Eva. Si è spogliato di questa prerogativa dando mandato all’uomo e alla donna di crescere e moltiplicarsi. Ma come aveva fatto Lucifero, così l’uomo e la donna gli gridano il loro non serviam, non vogliamo servirti, e impediscono così il progetto di Dio sulla creazione delle anime.



In concreto, l’istituto della famiglia esprime la forza creativa di Dio: Dio crea e trasmette vita attraverso i coniugi, ma resta sempre lui il protagonista, mediante il sacramento vissuto nell’ottica cristiana.


La famiglia secondo Padre Pio


Sul matrimonio Padre Pio ha sempre applicato l’insegnamento dei Sommi Pontefici: da Pio XI a Pio XII, da Paolo VI a Giovanni Paolo II. Padre Pio è sempre stato sulla linea morale codificata da Paolo VI nell’Humanae vitae e successivamente convalidata da Giovanni Paolo II nella Familiaris consortio e, recentemente, nel Catechismo della Chiesa Cattolica e nell’enciclica Veritatis splendor ed Evangelium Vitae.


È nota la sua lettera personale (12 settembre 1968) inviata a Paolo VI per compiacersi dell’enciclica Humanae vitae, per sostenerlo, quasi volesse apporvi il suo suggello.


Spesso, in confessionale, citava ai coniugi encicliche e discorsi di Pio XII, al quale si sentiva particolarmente legato.


[…] A proposito della regolazione delle nascite col metodo naturale – riferisce sempre il nostro professore L. – così si è espresso Padre Pio:



«La continenza periodica è accettabile, come mezzo della regolazione delle nascite, purché oltre all’accordo tra marito e moglie, esista una ragione seria, un motivo concreto di difficoltà. Se è vero che non sunt facienda mala ut veniant bona, non si possono fare cose cattive anche se lo scopo è buono, così non si può neppure usare un metodo consentito per fini esclusivi di comodo e di egoismo».



Padre Pio vedeva il matrimonio come sacramento per la santificazione dei coniugi. La sua formula era questa:



«Quando ti sei sposato Dio ha deciso quanti figli ti deve dare».



La “sua famiglia” era quella numerosa, quella benedetta nella Bibbia. Rifiutare, a ragion veduta, di collaborare con Dio, non è cristiano.


I coniugi che si sono affidati alla guida del suo confessionale hanno vissuto il sacramento con fede e soddisfazione. Padre Pio ha donato alla Chiesa una lunga serie di famiglie numerose, proprio quando la famiglia andava incontro alla sua peggiore crisi, con la denatalità e poi con le separazioni, il libero amore, la convivenza, i matrimoni civili e il divorzio che egli considerava «la creazione di Dio distrutta».


Infatti Dio crea la vita attraverso i coniugi, che, separandosi, distruggono il progetto creativo stabilito per loro:



«Il divorzio è la strada dritta per l’inferno».



Testimonianze


La pastorale di Padre Pio sulla vita familiare trova una vasta gamma di testimonianze che spesso sono state offerte per la pubblicazione o per l’archiviazione al Centro delle Opere di Padre Pio o del convento dei padri cappuccini. Scrive un signore di Roma:


In quel tempo (1927) la casa mia era un inferno. Avevo perduto una bambina, mia moglie era  sottocura col pneumatorace con esito incerto. A mezzo di Francesco Morcaldi, sindaco di San Giovanni Rotondo, incontrai Padre Pio e gli dissi: “Sono venuto da lei perché ho mia moglie in queste condizioni: non si sa se guarirà. Non posso più avere figli: i medici me l’hanno assolutamente proibito”. Egli mi fa un bel sorriso e mi dice: «Figlio mio, con l’aiuto di Dio tutto si ottiene». Mi diede una coroncina e mi congedò. Strada facendo verso il paese feci un proposito: “Non bestemmierò” più. Mia moglie quasi subito rimase incinta e l’11 maggio del 1928 nacque un figlio. Della sua malattia non se parlò più: “Con l’aiuto di Dio tutto si ottiene”.


Un’altra testimonianza riguarda gli anni cinquanta, quando avanzavano i discorsi su “pillola e regolazione delle nascite”. Maria Ravagnani Malaguti racconta:


Sposata, mi ritenevo ben preparata in coscienza sui doveri del matrimonio cristiano. Nel ’51 la prima bambina, con parto difficile, ma superato bene. Nel ’53 la seconda con blocco renale, e complicazioni per cui il medico prescrive: “Niente figli, perché un terzo figlio può costare la vita”. Si viene col marito a San Giovanni Rotondo da Padre Pio, che mentre mi passa accanto mi pone la mano sulla testa. “Padre – gli dico – Padre, ho due bambine, i medici mi dicono che se ne avrò un terzo morirò. Io non voglio peccare, ma non voglio morire”. Padre Pio risponde: «Prendete tutti quelli che il Signore vi manda».


Il racconto termina con la notizia che i figli diventarono cinque.


Nel 1947 a Emanuele Bufradeci, sessantenne, che confessa di avere volontariamente evitato altri figli, dopo il terzo, Padre Pio dice: «Se tuo padre avesse fatto come te, tu non saresti al mondo, perché tu sei il decimo dei figli». Lo vedeva per la prima volta.


Il signor Carlo Z. aveva incontrato Padre Pio fin da giovane. Innamoratosi poi di una ragazza, in confessione così si confida col Padre: “Padre, ho una ragazza… ma non va troppo in chiesa”. Risposta: “Lasciala!”. “Padre, io le voglio bene”. “Lasciala! Per il tuo bene”. “Ma Padre, lei lo sa cosa vuol dire voler bene a una persona?”. “Figliolo, amor con amor si paga. Non è male volersi bene, anzi è Gesù che ce lo insegna. Trovatene una santa che ce ne sta ancora”. “Se me la mandate voi, Padre”. Va a casa e decide ad ascoltare Padre Pio. Dopo un po’ di tempo viene a conoscere una ragazza veramente praticante. Dopo qualche anno, Padre Pio accetta di sposare Carlo Z. con questa ragazza e celebra il sacramento.


Tutti conosciamo la formula del rito. Il celebrante domanda dapprima allo sposo se è contento di ricevere in matrimonio lei, poi ripete la domanda alla sposa. Qui il caso diventa singolare. Il Padre fa la domanda di rito e lei risponde “Sì”. Il Padre allora la ferma e le dice: “Devi rispondere: sì, lo voglio”. E di nuovo ripete la domanda; lei, emozionata, risponde ancora: “Sì”. E il Padre ancora le ripete che deve dire: “Sì, lo voglio”. Finalmente, alla terza volta, Licia risponde: “Sì, lo voglio”. Ebbene, la famiglia, così benedetta, conta ben 14 figli, tutti vivi, sani e gloria di Carlo e Licia. E che dire, se si aggiunge che dopo il primo figlio i medici avevano diagnosticato a Licia, donna fragile e sottile, che doveva evitare ulteriori maternità? Chi può contare quanti sono i battezzati col nome di Pio proprio perché a lui devono la vita?


Padre Pio accettava con gioia di celebrare le nozze dei suoi figli spirituali. Aveva per le coppie che lo accostavano per la benedizione parole significative per il futuro della loro famiglia. Ecco un esempio:



«Il Signore vi benedica, e vi renda meno pesante il giogo della famiglia. Siate sempre buoni. Ricordate che il matrimonio comporta doveri difficili, che solo la divina grazia può aiutare a rendere facili. Meritate sempre questa grazia, e il Signore vi conservi fino alla quarta generazione».



Padre Pio incitava sempre all’esatta osservanza della legge divina. Era fermo con rigore contro gli sposi che, nel peccato, venivano meno agli obblighi coniugali, all’unità, alla fedeltà e al compito della procreazione.


Il Padre inoltre esigeva l’applicazione della stessa dottrina da lui insegnata da parte dei sacerdoti. Scrive don Domenico Labellarte, barese, uno dei sacerdoti più intimi di Padre Pio, fin dagli anni del seminario:


Eravamo nel 1947, un giorno mi chiamò in disparte, sulla terrazzina adiacente alla sua cella n. 1 e mi lesse un passo del secondo notturno dell’ufficio delle letture nell’ottava del Corpus Domini, tratta da un commento di san Giovanni Crisostomo. Ecco il passo:Sanguis Eius exquiretur ex manibus eorum. E proseguì: «Hai capito, figlio mio? Il Sangue di Gesù sarà richiesto dalle mani di noi sacerdoti se avremo dato l’assoluzione a chi non dovrebbe riceverla, in particolare a chi impedisce la prole. Attento, figlio mio!».


Egli non solo educava alla legge divina ma elevava all’ascesi matrimoniale, alla spiritualità della vita coniugale, orientava alla sacramentalità che porta alla santità comune, all’abbandono fiducioso al disegno di Dio, al comportamento fedele nei doveri della famiglia: doveri tra i coniugi, verso i figli e la società. Inculcava che la vocazione coniugale si realizza solo se la famiglia diventa una piccola Chiesa.


Padre Pio assumeva nella sua vita mistica i coniugi che si affidavano a lui con la loro relativa
famiglia. Egli intercedeva e avvenivano svolte prodigiose, guarigioni autentiche, cambiamenti dei quadri clinici nel concepimento dei figli, nel periodo di gravidanza, nel parto. Diventava evidente la guida effettiva di Dio nei singoli momenti delle vicende familiari, quando gli sposi si abbandonavano, da ministri fedeli, al piano programmato da Dio nel sacramento.

newsletter29Nella crescita della famiglia, Padre Pio metteva in evidenza che tutto è regolato dalla Provvidenza divina nelle vicissitudini umane, inoltre che Dio è protagonista sia della salute che dell’avvenire dei figli. Infatti i figli appartengono a lui. Pensare a educare bene i figli è liturgia del sacramento vissuto. L’ansia dei genitori per i figli, per il loro vero bene, diventa per loro martirio santificante.

Ci si può chiedere qual era il metodo pratico di Padre Pio per innalzare il livello della famiglia a tale altezza di vita morale e santificante. Gli strumenti erano due: fede forte e preghiera con i sacramenti. Dapprima coltivava nei coniugi la preghiera, il rosario e la sensibilità all’eucaristia, pressoché quotidiana, e contemporaneamente li guidava all’abbandono alla Provvidenza e alla volontà di Dio. È così che ancor oggi vengono formate le famiglie che seguono la spiritualità di Padre Pio, famiglie controcorrente, ma serene, con figli sani moralmente e non mancano le vocazioni.

Fidanzati

Padre Pio, come curava gli sposi e li aiutava a risolvere i loro problemi, così si comportava con i fidanzati. Faceva propri i loro problemi.

Un giovane, nativo di Rovigo, di circa 25 anni, orfano di padre e con la madre miracolata da Padre Pio, decide di sposarsi, ne parla con la madre che lo consiglia di avvicinare prima Padre Pio e di consigliarsi sulla ragazza. Scese allora da Padre Pio, si confessò, presentò la foto della ragazza e si sentì dire: “Questa non fa per te”. Risposta amara da digerire. Con fatica la lascia e successivamente parla a sua madre di una seconda ragazza, “conosciuta in chiesa”, iscritta all’associazione cattolica. La madre ancora lo convince a ritornare da Padre Pio. Dapprima resiste ma poi va e Padre Pio ripete la prima sentenza. Il giovane è sconvolto: “Allora, Padre, se mi devo fare frate, me lo dica subito”. “No, la tua famiglia te la formerai”.

Come proseguirono le sue vicende? La prima fidanzata, due anni dopo, morì. La seconda si sposò, ma poi disfece la sua famiglia. Lui, con una terza ragazza, formò la propria famiglia allietata da soddisfazioni, lavoro e dalla nascita di diversi figli.

Talvolta il Padre, ai fidanzati, svelava ciò che il suo occhio spirituale vedeva in Dio, oppure si limitava a dare indicazioni. Cercava sempre di coscientizzarli sulla vocazione alla famiglia, mentre oggi solitamente si punta di più all’amore umano. Regola d’oro era che l’uno e l’altra dovevano essere:

  • di vita cristiana, credenti e praticanti;
  • che lui avesse lavoro garantito e che lei fosse amante della casa;
  • che godessero buona salute;
  • che si volessero veramente bene scambievolmente.

Padre Pio aiutava, guidava, guariva, incanalava verso il bene, senza mai stancarsi, infondendo fiducia, pur difendendo e presentando la legge divina in tutta la sua ampiezza. Non può essere dimenticato, infine, che proprio per la sua fedeltà alla difesa della legge di Dio contro i corrotti e i corruttori, Padre Pio subì quella che, dagli storici, viene definita la prima persecuzione (1922-1933). Egli mai permetteva al penitente di venire a compromesso con ciò che è intrinsecamente perverso.

Il Nono Comandamento: Non desiderare la donna d’altri

L’adulterio del pensiero

Se la vita cristiana non viene protetta nel pensiero, se non la si difende a livello intellettuale si scompone e si spegne. Il peccato trova la sua radice sempre nell’intelligenza della persona. L’individuo pecca sempre perché è un essere pensante. Gesù insegna: «Chi guarda una donna e la desidera, in cuor suo commette adulterio» (Mt 5, 28). Da qui trae origine la rottura dell’unità coniugale, che poi scende nel cuore e nel corpo, e travolge nella spirale delle colpe della carne e del sesso. A questo proposito si veda quanto afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica (nn. 1853, 2520).

Al penitente che confessava pensieri contro il nono comandamento chiedeva: “Li hai scacciati, li hai assecondati?”. E quando la risposta era negativa e c’era la recidività, la trascuratezza nell’uso dei mezzi, Padre Pio era inesorabile: rimandava. Giustificava il suo comportamento con queste parole di fronte a chi tentava una difesa:

«L’inferno è nato da un solo peccato di pensiero».

Per Padre Pio la televisione era “il diavolo in casa”. Come pure era severo contro la moda indecente. Da profeta vedeva lontano; per questo ha lottato, con metodi duri, contro la moda, che proprio negli anni sessanta ha iniziato il processo spudorato che oggi ha distrutto ogni etica. A una donna, che si confessava con un vestito a maniche appena sotto il gomito, disse: «Vedi, io ti segherei il braccio, soffriresti meno di quanto ne soffrirai in purgatorio».

Padre Pio non aveva paura della chiesa vuota.

Ai primi anni sessanta, durante la sua campagna contro la moda indecente che avanzava, tra l’indifferenza generale, con un anno di anticipo rispetto alla comparsa della minigonna, Padre Pio aveva cominciato a esigere dalle donne la gonna lunga, al polpaccio. Metodo che applicava pure alle ragazzine. Comportamento che sembrava strano, ma un anno dopo venne la spiegazione: era arrivata la minigonna.

In quel tempo, accadeva, talvolta, che prima di entrare in chiesa la penitente abbassasse la gonna. Ma per il Padre non vi era spazio per il fariseismo, per cui la poveretta si sentiva dire che la chiesa non era un teatro, oppure: «Vattene, pagliaccio».

Nel 1964 il Guardiano gli fece incontrare nella sala di san Francesco una principessa di una famiglia reale spodestata che risiedeva in Grecia. Ovviamente si era presentata con gonne lunghe, ma Padre Pio trovò modo di evitare l’incontro. Al Guardiano che se ne lamentava, rispose che solo per quell’occasione la principessa portava la gonna lunga.

Il suo comportamento suscitava lamenti non solo nelle penitenti che poi finivano per capire, ma anche negli altri. Un giorno il padre cappuccino P. M., che lo accompagnava, dice a Padre Pio: «Ma, Padre, se continuate così, voi svuotate la chiesa». Risposta:

«Meglio una chiesa vuota che profanata».

E altra volta:

«Meglio la chiesa vuota che piena di diavoli».

Non è forse la regola tracciata da Gesù stesso, quando ha cacciato i profanatori dal tempio di Gerusalemme? Padre Pio ha dato prova che alla fine è l’autenticità della morale a vincere.






Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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25/10/2015 19:49
 
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  San Giovanni Bosco, meglio noto come don Bosco, visse nell’Ottocento e fondò le congregazioni dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice. Durante la sua vita, fu oggetto di ripetuti attentati ma riuscì sempre a scamparli, grazie anche a Grigio, un cane speciale.


Di seguito, la narrazione che don Bosco fece ai suoi discepoli:


Il Grigio fu argomento di molte conversazioni e ipotesi varie. Molti di voi lo ha visto ed anche accarezzato. Lasciando da parte le storie straordi­narie che di lui si raccontano, vi espor­rò la pura verità.


A causa dei frequenti attentati di cui io ero bersaglio, fui consigliato di non andare in giro da solo quando an­davo in città o tornavo indietro.


In un pomeriggio buio, tornavo a casa, con una certa paura, quando vi­di al mio fianco un enorme cane, che a prima vista mi impaurì; siccome però mi faceva festa come se io fossi il suo padrone, avemmo da subito una buo­na relazione, e lui mi accompagnò fino all’Oratorio.


Ciò che accadde in quel pomerig­gio si ripeté molte volte, di modo che io posso ben dire che il Grigio mi pre­stò importanti servizi. Ve ne racconto alcuni.


Alla fine di novembre del 1854, in un pomeriggio scuro e piovoso, torna­vo dalla città, per la via della Donsolata. Ad un certo punto, capii che due uomini camminavano a poca distanza davanti a me. Acceleravano o diminui­vano il passo ogni volta che io accele­ravo o diminuivo il mio.


Quando, per non incontrarmi con loro, ho tentato di passare dal lato op­posto, essi con grande abilità si collo­carono davanti a me. Volli girare sui miei passi, ma non ci fu tempo: facen­do due salti indietro, mi gettarono un mantello sulla testa. Uno di loro riu­scì a imbavagliarmi con un fazzoletto. Volevo gridare, ma non lo potevo fa­re.


In questo preciso momento appar­ve il Grigio. Ringhiando come un or­so, si lanciò con le zampe contro il viso di uno, con la bocca spalancata contro l’altro, in maniera che conveniva loro di più avvolgere il cane che me.


– Chiama il cane! Gridavano spa­ventati.


– Lo chiamo sì, ma lasciate i pas­santi in pace.


– Chiamalo subito!


Il Grigio continuava a ringhiare co­me un orso inferocito. Essi ripersero il loro cammino, ed il Grigio, sempre al mio lato, mi accompagnò. Feci ritorno all’Oratorio ben scortato da lui.


Nelle notti in cui nessuno mi accom­pagnava, non appena passavo le ultime case vedevo spuntare il Grigio da qual­che lato della strada. Molte volte i gio­vani dell’Oratorio lo videro entrare nel cortile.


Alcuni volevano batterlo, altri tirargli pietre.


– Non lo molestate, è il cane di Don Bosco – disse loro Giuseppe Bozzetti.


Allora tutti si misero ad accarezzarlo e a seguirlo fino al refettorio, dove io stavo cenando con alcuni chierici e padri e con mia madre. Davanti a tan­to inaspettata visita, rimasero tutti in­timoriti.


– Non abbiate paura, è il mio Gri­gio, lasciate che venga – dissi io. Facendo un gran giro intorno al ta­volo, venne accanto a me, facendomi festa. Anch’io lo accarezzai e gli of­frii zuppa, pane e carne, ma lui rifiutò. Anzi: neppure annusò il cibo. Continuando allora a dare segnali di soddisfazione, appoggiò la testa sul­le mia ginocchia, come se volesse par­larmi o darmi la buona notte; in segui­to, con grande entusiasmo ed allegria, i bambini lo accompagnarono fuori. Mi ricordo che quella notte ero torna­to tardi a casa ed un amico mi aveva dato un passaggio nella sua vettura.


L’ultima volta che vidi il Grigio fu nel 1866, quando andavo da Murial­do a Moncucco, a casa di Luigi Moglia, un mio amico. Il parroco di Buttigliera volle accompagnarmi per un tratto di strada, e ciò fece sì che la notte mi sor­prese nel mezzo della strada.


– Oh! Se avessi qui il mio Grigio, che buona cosa sarebbe! – pensai.


In quel momento il Grigio giunse correndo nella mia direzione, con grandi manifestazioni di allegria, e mi accompagnò per il tratto di strada che ancora dovevo percorrere, circa tre chi­lometri. Giunto a casa dell’amico, con­versai con tutta la famiglia e andammo a cenare, rimanendo il mio compagno a riposare in un angolo della sala. Ter­minato il pasto, l’amico disse: – Andiamo a dar da mangiare al tuo cane.


E prendendo un po’ di cibo, lo portò al cane, ma non riuscì a trovarlo, mal­grado avesse guardato bene in tutti gli angoli della sala e della casa. Tutti ri­manemmo stupiti perché nessuna por­ta, nessuna finestra era aperta, ed i ca­ni della casa non avevano dato nessun allarme. Cercarono il Grigio nelle ca­mere di sopra, ma nessuno lo trovò.


Fu questa l’ultima notizia che ebbi del Grigio. Mai più seppe del suo pa­drone. So solo che questo animale fu per me una vera provvidenza nei molti pericoli in cui mi vidi coinvolto.


Don Bosco, mamma Margherita ed il cane Grigio (pittura della Casa Madre dei Salesiani a Torino)








Don Bosco, mamma Margherita ed il cane Grigio (pittura della Casa Madre dei Salesiani a Torino)









 

Anche gli animali hanno i loro santi.  La tradizione della Chiesa ci riporta 2000 anni di storie di santi e animali su cui riflettere,  specialmente in un’epoca in cui si ritiene lo sfruttamento spietato della creazione come necessario e “connaturato” all’uomo.

Ma perché il nome di un santo è legato a un particolare animale, talvolta anche nella sua iconografia? La risposta è duplice: nella sua vita vi è qualche episodio in cui è presente un non umano, oppure è la  leggenda o la tradizione orale che gli assegna il compito di protettore di quattrozampe, uccelli e insetti.

Bisognerebbe riscoprire tutti gli esempi positivi dei santi che, proprio in virtù della loro santità, hanno sviluppato una compassione reale nei confronti degli animali.  Intanto, vediamo chi sono, poi aggiorneremo la lista:

Animali (generici): san Francesco d’Assisi e sant’Antonio abate, san Martino di Porres

Animali da cortile: santa Brigida di Svezia e santa Farailde di Gand

Api: sant’Ambrogio, san Bernardo da Chiaravalle

Bachi da seta: san Giobbe

Bovini: san Cornelio, san Colmano di Stockerau

Cani: San Vito. San Rocco, san Domenico di Guzman

Cavalli: san Marcello, san Martino di Tours, sant’Antonio abate, san Giorgio, sant’Eligio, Sant’ Alor di Quimper

Colombi: santa Colomba

Gallinacei: san Gallo, santa Farailde di Gand

Gatti: santa Gertrude di Nivelles e molti altri santi da sfatare la leggenda che i gatti fossero maledetti

Maiali: san Gilda, sant’Antonio abate

Muli: san Gerardo Maiella

Oche: san Martino di Tours

Uccelli: san Biagio






[Modificato da Caterina63 25/10/2015 19:55]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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  L’incredibile storia del papa che è andato in Purgatorio e ha implorato aiuto


Molti cristiani passeranno per il Purgatorio per essere purificati e poter arrivare senza macchia alla presenza di Dio



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Papa Innocenzo III, pontefice dal 1198 al 1216, è stato uno dei papi più influenti della storia.

È stato lui a concedere a San Francesco d’Assisi e al suo piccolo gruppo di seguaci il permesso di fondare l’Ordine dei Frati Minori. È stato lui a convocare il IV Concilio Lateranense, nel quale venne definita a livello dogmatico la dottrina della transustanziazione. Ha compiuto grandi sforzi per combattere le eresie in Europa e respingere l’invasione delle orde musulmane. La sua grande energia era in parte dovuta all’età insolita in cui venne eletto papa: appena 37enne.

Dopo 18 anni di pontificato, morì all’improvviso, e questa è l’ultima notizia che si ha di lui.

Il giorno della morte di papa Innocenzo III, o poco dopo, apparve a Santa Lutgarda di Aywieres, in Belgio. Santa Lutgarda è considerata una delle grandi mistiche del XIII secolo, nota per i “suoi” miracoli, le visioni, la levitazione e lo straordinario talento per l’insegnamento.

Quando papa Innocenzo le apparve, la ringraziò per le preghiere offerte durante la sua vita e spiegò di non essere andato direttamente in cielo: era in Purgatorio a purificarsi per tre mancanze specifiche che aveva commesso in vita.

Quando un cristiano muore, i cattolici credono che possa andare direttamente in cielo se non ha alcuna pena da pagare per i propri peccati. Molti, però, passeranno prima per il Purgatorio, per essere purificati e poter arrivare senza macchia alla santissima presenza di Dio.

Innocenzo chiese che Santa Lutgarda pregasse per lui, e sul Purgatorio disse:

“Quanto è terribile! e durerà per secoli, a meno che voi non mi soccorriate. In nome di Maria, che mi ottenne il favore di venire a pregarvi, aiutatemi!”.

Le anime che arrivano in Purgatorio non riescono più a liberarsi della pena della purificazione per i propri meriti, ma noi che rimaniamo in questo mondo possiamo offrire preghiere e penitenze per alleviare la loro sofferenza. Quanto tempo dobbiamo pregare e sacrificarci per un’anima in particolare? Non lo sappiamo, ma Sant’Agostino ha scritto nelle sue Confessioni tra dieci e quindici anni dopo la morte della madre, Santa Monica, che chiedeva ancora preghiere per lei.

Nel mondo spirituale non esiste il tempo, ma il Purgatorio può “durare” l’equivalente di molti anni del mondo materiale, fino a che l’anima ripara le conseguenze dei suoi peccati già perdonati. Preghiamo sempre Dio Padre perché, nella sua grazia, tenga conto delle nostre preghiere e dei nostri sacrifici e allevi la pena delle anime del Purgatorio.

[Traduzione dal portoghese a cura di Roberta Sciamplicotti]



Eucarestia: trasparenza del volto redentore di Gesù

 

stellamatutina-santa-eucarestiaL’Eucarestia ci presenta la trasparenza del Volto Redentore di Nostro Signore Gesù Cristo. Il fondamento teologico e ontologico di questa affermazione ci è dato dalla Verità di Fede della Presenza reale  di Gesù, il Verbo Incarnato, che, per il mistero della transustanziazione, sotto le apparenze del Pane e del Vino consacrati, è presente realmente nel Santissimo Sacramento, in Corpo, Sangue, Anima e Divinità1.

Il Concilio di Trento ha scolpito in tre termini luminosi la concretezza della fede nella Presenza reale di Gesù vivo e vero nell’Eucarestia, affermando che Egli è presente veramente, realmente, sostanzialmente (“vere, realiter, substantialiter“), anatematizzando chi invece affermasse che nell’Eucarestia non siano presenti realmente il «corpo e sangue insieme con l’anima e la divinità di Nostro Signore Gesù Cristo, e perciò tutto Gesù Cristo», ma vi sia presente Gesù «soltanto in segno, o in figura, o in potenza (in virtute2.

Una conferma luminosa di questa perenne dottrina di fede sul Mistero Eucaristico, secondo l’insegnamento costante della Chiesa, si è avuta, più recentemente, nell’Enciclica eucaristica Mysterium Fidei  del Sommo Pontefice Paolo VI, che ci parla della presenza di Gesù Cristo definita «”reale” […] per antonomasia perché è anche corporale e sostanziale, e in forza di essa Cristo, Uomo-Dio, tutto intero si fa presente» (MF 40).

Lo stesso Sommo Pontefice Paolo VI, inoltre, qualche anno dopo, ha donato alla Chiesa il Credo del Popolo di Dio, nel quale, riprendendo l’insegnamento del Concilio di Trento, riaffermava ancora una volta che noi crediamo nell’Eucarestia e «crediamo che la misteriosa presenza del Signore, sotto quello che continua ad apparire come prima ai nostri sensi, è una presenza vera, reale e sostanziale».

Il più recente Catechismo della Chiesa Cattolica, infine, ha ribadito a chiare lettere l’insegnamento della Verità di Fede nella Presenza reale del Verbo Incarnato nel Sacramento dell’Eucarestia, riaffermando espressamente «la nostra fede nella presenza reale di Cristo sotto la specie del pane e del vino» (n.1378), e presentandola chiesa quale «luogo privilegiato dell’adorazione della presenza reale di Cristo nel Santissimo Sacramento» (n. 2691).

La verità della Presenza reale di Gesù nell’Eucarestia è una «verità di fede – scrive il Padre Spiazzi – nota a tutti i credenti fin dagli anni del catechismo. Verità a cui ci si è abituati, tanto che spesso non ci si accorge più della sua bellezza e profondità, come non ci accorge dell’aria che si respira, della luce per mezzo della quale si vedono i colori, le cose. È quando viene a mancare la capacità visiva che si capisce la grandezza e il perché della luce; e quando non si riesce più a respirare, quando, come si suol dire, manca l’aria, che si valuta la necessità dell’aria»3. Per questo non è difficile ammettere che, spesso, in molti, si perda di vista il volto di Gesù nell’Eucarestia, non riflettendo che in Essa il Corpo adorabile di Gesù «esiste con tutte le sue parti – scrive il Beato Giacomo Alberione – perciò possiamo considerare nell’Eucarestia la faccia mansueta del Salvatore, la sua fronte serena, i suoi occhi misericordiosi, il suo cuore ardente di carità, il suo sangue sparso sulla croce, i suoi piedi, le sue mani con le ferite dei chiodi»4.

In effetti, nel Sacramento dell’Eucarestia noi abbiamo una presenza di Cristo «che non è solo simbolica – scrive ancora lo Spiazzi -, non è il solo segno efficace [Sacramento] della presenza spirituale di Cristo e della sua unione intima con i fedeli che appartengono al suo corpo mistico», né si tratta di una presenza più in generale che «si confonde con quest’altra forma di presenza di Cristo nella Chiesa, appunto come capo del corpo mistico e principio della illuminazione e santificazione dei credenti», ma si tratta di una presenza particolare e speciale che è presenza «sostanziale e personale»5.

Noi parliamo qui, dunque, della trasparenza del volto di una persona viva e vera; parliamo, cioè, della trasparenza del Volto personale di Gesù nell’Eucarestia, e lo riconosciamo soprattutto come Volto del Redentore, e, anzi, come Volto Redentore che si irradia dal Mistero Eucaristico. Se vogliamo, infatti, noi possiamo intravvedere nell’Eucarestia il volto leggiadro di Gesù Bambino nella sua culla e nella sua infanzia, o il volto trasfigurato di Gesù nel Tabor, o il volto pensoso di Gesù adulto nella vita pubblica, o il volto radioso di Gesù Risorto. Ebbene, pur non escludendo nessuno di questi volti, e anzi includendoli tutti, dobbiamo affermare, però, che l’Eucarestia ci presenta soprattutto,  e specificatamente, il volto Redentore di Gesù. Con questo si vuol dire che, in trasparenza trascendente, il volto divino di Gesù nell’Eucarestia è particolarmente, e più precisamente, il Volto Redentore.

Noi sappiamo bene, infatti, che l’Eucarestia è il Sacramento del Mistero pasquale, è il «memoriale» della Passione e Morte di Cristo, è il «Sacramentum Passionis Christi», come insegna espressamente l’Aquinate6: in esso «recolitur memoria passionis  Eius», con il riscontro anche visibile, su ogni altare, dell’Ostia e del Sangue, che richiamano la realtà concreta sia della Vittima, sia della mistica mactatio sacrificale posta al cuore di ogni Santa Messa, come insegna la Teologia dommatica dei grandi maestri della Fede.

L’Eucarestia, in effetti, è inscindibilmente Sacrificio e Sacramento: è il Sacrificio di Gesù che si immola sull’altare rinnovando misticamente la mactatio del Calvario; è il Sacramento del Corpo e Sangue di Gesù immolato che resta presente realmente, vivo e vero, in ogni Tabernacolo eucaristico. In quello e in questo, quindi, ossia nel Sacrificio e nel Sacramento, Gesù è realmente presente e operante primariamente come Redentore. Per questo il Volto eucaristico di Gesù non può non essere, trasparentemente, se non il Volto Redentore.

 

_________

1. Riguardo all’aspetto teologico, si veda il magistrale trattato, il più vasto e approfondito, di A. PIOLANTI, Il Mistero Eucaristico, Roma 1983, 680pp.
2. Concilium Tridentinum, Sessio XIII, cap. 1, can. 1; DS 1636, 1651.

3. R. SPIAZZI, Il Mistero Eucaristico nella comunità cristiana, Napoli 1968, p. 58.
4. G. ALBERIONE, Sacerdote, ecco la tua meditazione, Roma 1975, p.112.
5. R. SPIAZZI, op. cit., p. 72
6. San TOMMASO, Summa Theologica, III, q. 73, a. 3, ad 3; vedi pure q. 83, a 1.

FONTE: P. STEFANO M.MANELLI, FI, Eucarestia, trasparenza del volto redentore di Gesù, Frigento 2011, pg. 4-7.Casa Mariana Editrice © 2011




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Pubblichiamo la rubrica di Pippo Corigliano contenuta nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti).

Mi ha sempre divertito la frase di Nietzsche rivolta ai cristiani: «Crederò nel Salvatore quando vi vedrò con la faccia dei salvati». Mi piace perché mette il dito nella piaga.

Io stimo Gesù ma lo voglio rendere compatibile con i miei piccoli interessi. Non avrò mai la faccia del salvato se non imparo da Gesù a vivere d’amore, il che è possibile solo col Suo aiuto. I santi hanno avuto la faccia dei salvati: gente che era irresistibilmente attraente perché Gesù è venuto a ristabilire il giusto rapporto con Dio e con il prossimo, con l’obbedienza e la carità. Questa è la salvezza.

Abbiamo spesso inteso la sequela autentica di Gesù come un cambiamento di stato di vita: farsi prete, suora, frate o monaco. Scelte meravigliose con cui la Provvidenza ha fatto giungere la fede fino a noi. Ma si può anche vivere d’amore senza cambiare stato.

Chi ha la vocazione matrimoniale e si sente chiamato a vivere in questo mondo non è una mezza cartuccia. Può essere santo, un uomo di Dio. Allora sì i cristiani avranno la faccia dei salvati. Vivranno d’eucarestia e sapranno esprimere nel mondo del lavoro e della famiglia le virtù di cui il nostro mondo ha ardente bisogno. Impegnati nel proprio mestiere con cuore mite e umile, capaci di amare il coniuge fino alla morte.

Gesù in croce è il vero albero della vita da cui scorre il Sangue che può diventare il mio sangue, malgrado le mie resistenze. Allora la Croce diventa il vero asse del mondo portando nel volto dei cristiani la vera immagine dei salvati.


[Modificato da Caterina63 11/11/2015 20:03]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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23/05/2016 15:20
 
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GRANDI CAPOLAVORI CRISTIANI/1

Paul Claudel

 



Con questo articolo, cominciamo la nuova rubrica settimanale dedicata i grandi capolavori cristiani", alcune delle più importanti opere che hanno segnato la storia e la cultura cristiana. Le prime due puntate sono dedicate allo scrittore Paul Claudel e al suo capolavoro, L’Annuncio a Maria.



di Giovanni Figher


Nato nel 1868 a Villeneuve-sur-Fère, Paul Claudel si forma in un momento storico e in una terra come quella francese che nella seconda metà dell’Ottocento è fortemente impregnata di cultura positivistica. La diffusione di questo nuovo approccio gnoseologico e culturale avviene negli anni in cui lo scienziato Charles Darwin (1809-1892) pubblica L’origine della specie (1859) e il filosofo Herbert Spencer (1820-1893) contribuisce alla nascita della psicologia moderna con l’ Introduzione alla psicologia sperimentale (1865). 

Il fisiologo francese Claude Bernard (1813-1878) influisce non poco sull’avvento della medicina sperimentale, così come il filosofo August Comte (1798-1857) diventa padre della sociologia moderna. Di nuovo, come nell’epoca illuministica, l’uomo si convince di avere rivoluzionato il mondo della cultura. Con una perfetta consonanza rispetto agli illuministi, impregnati di materialismo e di una fiducia illimitata nella scienza che porterà a eliminare tutto l’ignoto e il mistero, i positivisti aprono la strada di una nuova religione, quella del Progresso e dell’Umanità. 

In gioventù Claudel conosce e frequenta i grandi poeti francesi a lui contemporanei, Mallarmé, Verlaine e Rimbaud. La conversione avviene quando non ha ancora trent’anni, nel 1886, durante la messa di Natale celebrata a Notre Dame de Paris, ascoltando il Magnificat, anche se l’episodio è esito di un periodo di crisi e di travaglio. Anche la conversione di Manzoni era avvenuta in chiesa, secondo l’aneddotica, in occasione del matrimonio di Napoleone a Parigi, anche se sappiamo bene dalle lettere il cammino che nei due anni precedenti lo scrittore aveva condotto dal matrimonio con Enrichetta Blondel all’incontro con i padri spirituali Degola e Tosi. Claudel racconta lui stesso quanto è accaduto il giorno di Natale. Recatosi ad assistere alla cerimonia non per fede, ma nella speranza di trovare spunti e ispirazione per la scrittura, poco soddisfatto della Messa solenne, Claudel ritorna per i vespri. Il coro sta cantando il Magnificat

A questo punto accade un fatto straordinario. Sentiamo direttamente il racconto di Claudel: «Io ero in piedi tra la folla, vicino al secondo pilastro rispetto all’ingresso del Coro, a destra, dalla parte della Sacrestia. In quel momento capitò l’evento che domina tutta la mia vita. In un istante il mio cuore fu toccato e io credetti. Credetti con una forza di adesione così grande, con un tale innalzamento di tutto il mio essere, con una convinzione così potente, in una certezza che non lasciava posto a nessuna specie di dubbio che, dopo di allora, nessun ragionamento, nessuna circostanza della mia vita agitata hanno potuto scuotere la mia fede né toccarla. Improvvisamente ebbi il sentimento lacerante dell’innocenza, dell’eterna infanzia di Dio: una rivelazione ineffabile! Cercando – come ho spesso fatto – di ricostruire i momenti che seguirono quell’istante straordinario, ritrovo gli elementi seguenti che, tuttavia, formavano un solo lampo, un’arma sola di cui si serviva la Provvidenza divina per giungere finalmente ad aprire il cuore di un povero figlio disperato: “Come sono felici le persone che credono!”. Ma era vero? Era proprio vero! Dio esiste, è qui. È qualcuno, un essere personale come me. Mi ama, mi chiama. Le lacrime e i singulti erano spuntati, mentre l’emozione era accresciuta ancor più dalla tenera melodia dell’Adeste, fideles». 

Claudel ritorna a casa e prende in mano la Bibbia e inizia a leggerla, percependo la dolcezza e, nelcontempo, la forza delle parole tanto che continuavano a «risuonare nel suo cuore». Claudel scrive riguardo a quei momenti: «Conoscevo la storia di Gesù solo per mezzo di Renan, fidandomi di questo impostore, mentre ignoravo persino che Egli si era detto "Figlio di Dio". Ogni parola, ogni linea smentiva, con maestosa semplicità, le impudenti affermazioni dell’apostata [Renan] e mi spalancavano gli occhi. È vero – lo confesso con il Centurione romano - che Gesù era il Figlio di Dio. Era a me, Paul, che egli si rivolgeva e mi prometteva il suo amore. Ma, nello stesso tempo, se non lo seguivo, mi lasciava la dannazione come unica alternativa. Ah, non avevo bisogno che mi si spiegasse che cosa era l’Inferno: vi avevo trascorso la mia stagione. Quelle poche ore mi erano bastate per farmi capire che l’Inferno è dovunque non c’è Cristo. Che me ne importava del resto del mondo, davanti a quest’Essere nuovo e prodigioso che mi si era svelato?». 

Claudel aveva letto La vita di Gesù di Ernest Renan (1823-1892), primo dei sette volumi della Storiadel cristianesimo: Gesù vi era ritratto come uomo realmente storico, privo, però, di qualsiasi attributo di divinità. La conversione di Claudel è radicale e incide profondamente sulla ricca produzione letteraria successiva. Figura eclettica, esperto di differenti ambiti del sapere, lo scrittore diventa un diplomatico, si sposa con Regina Perrin e muore nel 1955. Non è, dunque, un caso che Claudel sceglie il Medioevo per l’opera teatrale  L’annuncio a Maria, il testo a lui più caro, concepita nel 1892, ma terminata solo nel 1912. L’uomo medioevale concepisce ciò che accade in rapporto con la dimensione ultraterrena, con il Mistero, con l’Infinito, in una prospettiva escatologica. Se pecca, ha coscienza, così, di aver peccato. La coscienza del peccato può esistere solo in una civiltà che coglie e percepisce la presenza del Mistero. 

L’uomo medioevale non è meno peccatore dell’uomo delle altre epoche, ma ha più chiara laconsapevolezza di esserlo e di aspettare la propria salvezza da un Altro. Quest’Altro è quel Dio che si è incarnato e a cui noi siamo guidati attraverso la compagnia della Chiesa, che risollecita e mantiene sempre sveglia la nostra domanda religiosa. Il termine “mendicanza” ben descrive l’atteggiamento di umile richiesta di aiuto nella consapevolezza della pochezza della capacità umana e della necessità che sia Dio a soccorrerci e salvarci. Per questo l’uomo cresce in un percorso guidato, in una compagnia. 

Il pellegrinaggio ben rappresenta l’immagine dell’homo viator, cioè del viandante che si affida ad una guida e a un maestro, mentre il termine “avventura” descrive appropriatamente la dimensione di scoperta del mistero nella realtà. La vita dell’uomo è irta di avventure, di imprevisti, di irruzione sorprendente del soprannaturale e del Mistero nella realtà. 

L’Annuncio a Maria è ambientato vicino al monastero di Montevergine proprio verso la fine delMedioevo. Ivi, il sacrificio della croce è rappresentato con grande forza attraverso la vivacità dei protagonisti che sembra quasi disturbare la coscienza, il perbenismo, il moralismo e il razionalismo che pervadono l’uomo benpensante di oggi. Noi tendiamo spesso, infatti, a misurare anche l’amore immaginandoci la forma che esso debba assumere.

 


 



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Cari fratelli e sorelle, nella festa del Corpus Domini, la Chiesa rivive il mistero del Giovedì Santo alla luce della Risurrezione. Anche il Giovedì Santo conosce una sua processione eucaristica, con cui la Chiesa ripete l’esodo di Gesù dal Cenacolo al monte degli Ulivi. In Israele, si celebrava la notte di Pasqua in casa, nell’intimità della famiglia; si faceva così memoria della prima Pasqua, in Egitto – della notte in cui il sangue dell’agnello pasquale, asperso sull’architrave e sugli stipiti delle case, proteggeva contro lo sterminatore.

Gesù, in quella notte, esce e si consegna nelle mani del traditore, dello sterminatore e, proprio così, vince la notte, vince le tenebre del male. Solo così, il dono dell’Eucaristia, istituita nel Cenacolo, trova il suo compimento: Gesù dà realmente il suo corpo ed il suo sangue. Attraversando la soglia della morte, diventa Pane vivo, vera manna, nutrimento inesauribile per tutti i secoli. La carne diventa pane di vita.

Nella processione del Giovedì Santo, la Chiesa accompagna Gesù al monte degli Ulivi: è vivo desiderio della Chiesa orante vigilare con Gesù, non lasciarlo solo nella notte del mondo, nella notte del tradimento, nella notte dell’indifferenza di tanti. Nella festa del Corpus Domini, riprendiamo questa processione, ma nella gioia della Risurrezione. Il Signore è risorto e ci precede. Nei racconti della Risurrezione vi è un tratto comune ed essenziale; gli angeli dicono: il Signore "vi precede in Galilea; là lo vedrete" (Mt 28,7).

La processione del Giovedì Santo accompagna Gesù nella sua solitudine, verso la "via crucis". La processione del Corpus Domini, invece, risponde in modo simbolico al mandato del Risorto: vi precedo in Galilea. Andate fino ai confini del mondo, portate il Vangelo al mondo. Certo, l’Eucaristia, per la fede, è un mistero di intimità. Il Signore ha istituito il Sacramento nel Cenacolo, circondato dalla sua nuova famiglia, dai dodici apostoli, prefigurazione ed anticipazione della Chiesa di tutti i tempi.

Perciò, nella liturgia della Chiesa antica, la distribuzione della santa comunione era introdotta dalle parole: Sancta sanctis – il dono santo è destinato a coloro che sono resi santi. In questo modo, si rispondeva all’ammonimento rivolto da San Paolo ai Corinzi: "Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice.." (1 Cor 11, 28). (Benedetto XVI - Omelia del 26.5 2005)

 

(La bellissima Preghiera di Benedetto XVI nell'Omelia del Corpus Domini del 15.6.2006)

Nella festa del Corpus Domini guardiamo soprattutto il segno del pane. Esso ci ricorda anche il pellegrinaggio di Israele durante i quarant'anni nel deserto. L'Ostia è la nostra manna... E lo preghiamo: Guidaci sulle strade di questa nostra storia! Mostra alla Chiesa e ai suoi Pastori sempre di nuovo il giusto cammino! Guarda l'umanità che soffre, che vaga insicura tra tanti interrogativi; guarda la fame fisica e psichica che la tormenta!

Dà agli uomini pane per il corpo e per l'anima! Dà loro lavoro! Dà loro luce! Dà loro te stesso! Purifica e santifica tutti noi! Facci comprendere che solo mediante la partecipazione alla tua Passione, mediante il "sì" alla croce, alla rinuncia, alle purificazioni che tu ci imponi, la nostra vita può maturare e raggiungere il suo vero compimento. Radunaci da tutti i confini della terra. Unisci la tua Chiesa, unisci l'umanità lacerata! Donaci la tua salvezza! Amen!

... abbiamo cantato nella Sequenza: “Dogma datur christianis, / quod in carnem transit panis, / et vinum in sanguinem – È certezza a noi cristiani: / si trasforma il pane in carne, / si fa sangue il vino”. Quest’oggi riaffermiamo con trasporto la nostra fede nell’Eucaristia, il Mistero che costituisce il cuore della Chiesa. Nella recente Esortazione post-sinodale Sacramentum caritatis ho ricordato che il Mistero eucaristico “è il dono che Gesù Cristo fa di se stesso, rivelandoci l’amore infinito di Dio per ogni uomo”. Pertanto quella del Corpus Domini è una festa singolare e costituisce un importante appuntamento di fede e di lode per ogni comunità cristiana.

La Sequenza, nel suo punto culminante, ci ha fatto cantare: “Ecce panis angelorum, / factus cibus viatorum: / vere panis filiorum - Ecco il pane degli angeli, / pane dei pellegrini, / vero pane dei figli”. L’Eucaristia è il cibo riservato a coloro che nel Battesimo sono stati liberati dalla schiavitù e sono diventati figli; è il cibo che li sostiene nel lungo cammino dell’esodo attraverso il deserto dell’umana esistenza... 

Se nel Giovedì Santo viene posto in evidenza lo stretto rapporto che esiste tra l’Ultima Cena e il mistero della morte di Gesù in croce, quest’oggi, festa del Corpus Domini, con la processione e l’adorazione corale dell’Eucaristia si richiama l’attenzione sul fatto che Cristo si è immolato per l’intera umanità. Il suo passaggio fra le case e per le strade della nostra Città sarà per coloro che vi abitano un’offerta di gioia, di vita immortale, di pace e di amore.

... già ora noi ascoltiamo la sua voce che ripete, come leggiamo nel Libro dell’Apocalisse: “Ecco, io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20). La festa del Corpus Domini vuole rendere percepibile, nonostante la durezza del nostro udito interiore, questo bussare del Signore.

Gesù bussa alla porta del nostro cuore e ci chiede di entrare non soltanto per lo spazio di un giorno, ma per sempre. Lo accogliamo con gioia elevando a Lui la corale invocazione della Liturgia: “Buon Pastore, vero pane, / o Gesù, pietà di noi (…) Tu che tutto sai e puoi, / che ci nutri sulla terra, / conduci i tuoi fratelli / alla tavola del cielo / nella gioia dei tuoi santi”. (dall'Omelia del 7.6.2007)

La nostra processione finisce davanti alla Basilica di Santa Maria Maggiore, nell’incontro con la Madonna: "Donna eucaristica". Davvero Maria, la Madre del Signore, ci insegna che cosa sia entrare in comunione con Cristo: Maria ha offerto la propria carne, il proprio sangue a Gesù ed è divenuta tenda viva del Verbo, lasciandosi penetrare nel corpo e nello spirito dalla sua presenza. Preghiamo Lei, nostra santa Madre, perché ci aiuti ad aprire, sempre più, tutto il nostro essere alla presenza di Cristo; perché ci aiuti a seguirlo fedelmente, giorno per giorno, sulle strade della nostra vita. Amen! (dall'Omelia del 26.5.2005)

 

IL MISTERO EUCARISTICO E IL CULTO EUCARISTICO

Cari fratelli e sorelle! Questa sera vorrei meditare con voi su due aspetti, tra loro connessi, del Mistero eucaristico: il culto dell’Eucaristia e la sua sacralità. E’ importante riprenderli in considerazione per preservarli da visioni non complete del Mistero stesso, come quelle che si sono riscontrate nel recente passato. Anzitutto, una riflessione sul valore del culto eucaristico, in particolare dell’adorazione del Santissimo Sacramento.

E’ l’esperienza che anche questa sera noi vivremo dopo la Messa, prima della processione, durante il suo svolgimento e al suo termine. Una interpretazione unilaterale del Concilio Vaticano II aveva  penalizzato questa dimensione, restringendo in pratica l’Eucaristia al momento celebrativo. In effetti, è stato molto importante riconoscere la centralità della celebrazione, in cui il Signore convoca il suo popolo, lo raduna intorno alla duplice mensa della Parola e del Pane di vita, lo nutre e lo unisce a Sé nell’offerta del Sacrificio.

Questa valorizzazione dell’assemblea liturgica, in cui il Signore opera e realizza il suo mistero di comunione, rimane ovviamente valida, ma essa va ricollocata nel giusto equilibrio. In effetti – come spesso avviene – per sottolineare un aspetto si finisce per sacrificarne un altro. In questo caso, l’accentuazione giusta posta sulla celebrazione dell’Eucaristia è andata a scapito dell’adorazione, come atto di fede e di preghiera rivolto al Signore Gesù, realmente presente nel Sacramento dell’altare. Questo sbilanciamento ha avuto ripercussioni anche sulla vita spirituale dei fedeli.

Infatti, concentrando tutto il rapporto con Gesù Eucaristia nel solo momento della Santa Messa, si rischia di svuotare della sua presenza il resto del tempo e dello spazio esistenziali... In realtà, è sbagliato contrapporre la celebrazione e l’adorazione, come se fossero in concorrenza l’una con l’altra. E’ proprio il contrario: il culto del Santissimo Sacramento costituisce come l’«ambiente» spirituale entro il quale la comunità può celebrare bene e in verità l’Eucaristia. Solo se è preceduta, accompagnata e seguita da questo atteggiamento interiore di fede e di adorazione, l’azione liturgica può esprimere il suo pieno significato e valore.

L’incontro con Gesù nella Santa Messa si attua veramente e pienamente quando la comunità è in grado di riconoscere che Egli, nel Sacramento, abita la sua casa, ci attende, ci invita alla sua mensa, e poi, dopo che l’assemblea si è sciolta, rimane con noi, con la sua presenza discreta e silenziosa, e ci accompagna con la sua intercessione, continuando a raccogliere i nostri sacrifici spirituali e ad offrirli al Padre. Nel momento dell’adorazione, noi siamo tutti sullo stesso piano, in ginocchio davanti al Sacramento dell’Amore.

Il sacerdozio comune e quello ministeriale si trovano accomunati nel culto eucaristico. E’ un’esperienza molto bella e significativa...  Comunione e contemplazione non si possono separare, vanno insieme. Per comunicare veramente con un’altra persona devo conoscerla, saper stare in silenzio vicino a lei, ascoltarla, guardarla con amore... E purtroppo, se manca questa dimensione, anche la stessa comunione sacramentale può diventare, da parte nostra, un gesto superficiale.

Invece, nella vera comunione, preparata dal colloquio della preghiera e della vita, noi possiamo dire al Signore parole di confidenza, come quelle risuonate poco fa nel Salmo responsoriale: «Io sono tuo servo, figlio della tua schiava: / tu hai spezzato le mie catene. / A te offrirò un sacrificio di ringraziamento / e invocherò il nome del Signore» (Sal 115,16-17).

 

PREGHIERA PER L’ANNO SACERDOTALE BENEDETTO XVI

Signore Gesù, che in san Giovanni Maria Vianney hai voluto donare alla Chiesa una toccante immagine della tua carità pastorale, fa' che, in sua compagnia e sorretti dal suo esempio, viviamo in pienezza quest'Anno Sacerdotale.

Fa' che, sostando come lui davanti all'Eucaristia, possiamo imparare quanto sia semplice e quotidiana la tua parola che ci ammaestra; tenero l'amore con cui accogli i peccatori pentiti; consolante l'abbandono confidente alla tua Madre Immacolata.

Fa', o Signore Gesù, che, per intercessione del Santo Curato d'Ars, le famiglie cristiane divengano « piccole chiese », in cui tutte le vocazioni e tutti i carismi, donati dal tuo Santo Spirito, possano essere accolti e valorizzati. Concedici, Signore Gesù, di poter ripetere con lo stesso ardore del Santo Curato le parole con cui egli soleva rivolgersi a Te:

« Ti amo, o mio Dio, e il mio solo desiderio è di amarti fino all'ultimo respiro della mia vita.

Ti amo, o Dio infinitamente amabile, e preferisco morire amandoti piuttosto che vivere un solo istante senza amarti.

Ti amo, Signore, e l'unica grazia che ti chiedo è di amarti eternamente.

Mio Dio, se la mia lingua non può dirti ad ogni istante che ti amo, voglio che il mio cuore te lo ripeta tante volte quante volte respiro.

Ti amo, o mio Divino Salvatore, perché sei stato crocifisso per me, e mi tieni quaggiù crocifisso con Te. Mio Dio, fammi la grazia di morire amandoti e sapendo che ti amo». Amen.

(clicca qui, per ritornare all'indice dei testi di Ratzinger-Benedetto XVI)

 

Lo stesso testo in due video:

Festa del Corpus Domini spiegata da Benedetto XVI
 
Ripercorrendo alcune omelie delle giornate della Festa del Corpus Domini, vi proponiamo alcuni passi significativi, dalle Omelie di Benedetto XVI, che aiutano a comprendere questa Festa. In un secondo video vi proponiamo invece, sempre da questo Magistero, l'insegnamento a riguardo del Mistero e del culto Eucaristico.
 
 
_________________________
 
Mistero e culto Eucaristico dal magistero di Benedetto XVI
 
Dopo avervi offerto il video sulla Festa del Corpus Domini, vi invitiamo ora ad ascoltare anche il Mistero e il culto Eucaristico, tratto dalle omelie di Benedetto XVI. Egli ci rammenta come delle impostazioni erronee, del dopo concilio, abbiano impoverito e messo a rischio questa dottrina assolutamente indispensabile per essere cristiani cattolici. Ascoltiamolo.
 
 
Laudetur Jesus Christus


     


L'orazione mentale nel pensiero dei santi

Non c'è pratica più semplice e più efficace dell'orazione mentale per giungere in breve tempo alle vette della perfezione cristiana. Il beato Bernardo Maria di Gesù cp non esitò ad affermare che la causa della perdita della fede tra i cristiani era dovuta essenzialmente a un solo motivo: l'aver dimenticato l'orazione mentale. Ecco il pensiero dei santi e dei maestri di spirito su questa pratica:

La pratica quotidiana della meditazione rende l'anima raccolta profondamente in Dio, mentre il tralasciarla la rende dissipata .

(S. Francesco di Sales)

Un cristiano che non ama la meditazione è moralmente impossibile che viva fervoroso, ma vivrà tiepido e rilassato. A maggior ragione un sacerdote o un religioso.

(S. Alfonso de Liguori)

La persona che non medita, conoscera poco i suoi bisogni spirituali, poco i pericoli per la sua salvezza, poco i mezzi che deve usare per vincere le tentazioni, poco la necessità di pregare e certamente si perderà.

(S. Alfonso dei Liguori)

La tentazione di lasciare la meditazione fu la maggiore che io ebbi ed avendola lasciata per un anno e mezzo mi ero già messa da me nell' inferno senza bisogno di demoni che mi facessero andare . Il demonio sa bene che un' anima fedele alla meditazione è perduta per Lui.

(S. Teresa d' Avila)

La meditazione è il principio per acquistare tutte le virtù e tutti i cristiani devono praticarla . Nessuno, se Dio l'ispira a questo santo esercizio, oserà lasciala .

(S. Teresa d'Avila)

Quando noi pensiamo alle cose divine non per apprenderle, ma per innamorarci di esse, allora possiamo dire di fare meditazione, nella quale il nostro spirito come un'ape sacra, vola qua e là sopra i misteri della fede per estrarne il miele del divino amore.

(S. Francesco di Sales)

Se un giorno non potete meditare, riparate questa perdita con brevi preghiere e atti d'amore, con la lettura di qualche pagina di buon libro o con qualche penitenza che impedisca la continuazione di questo difetto, rinnovando una ferma risoluzione, di non lasciarla il giorno dopo.

(S. Francesco di Sales)

Iniziate sia l'orazione mentale che quella vocale col menervi alla presenza di Dio, mantenete questa regola senza alcuna eccezione e in poco tempo ne sperimenterete il profitto .

(S. Francesco di Sales)

Voi mi dite che nella meditazione vi rimanete come un fantasma o una statua.
Sappiate che il rimanervi così non è poco, perchè è grande felicità per noi stare alla presenza di Dio. Accontentatevi di ciò. Anche questo stare produce il suo frutto.

(S. Francesco di Sales)

Perseverare nella meditazione senza ricavarne frutto non è tempo perduto, ma molto fruttuoso, perchè si lavora senza interesse per la sola gloria di Dio.

(S. Teresa d'Avila)

Nella meditazione, dobbiamo sopportare con pazienza, quella folla di pensieri, di immaginazioni importune o di movimenti naturali e impetuosi, che provengono sia dall'anima per la sua aridità e dissipazione; sia dal corpo perchè non troppo sottomesso allo spirito. Ma non scorgeremo tutte queste imperfezioni se non quando Dio ci aprirà gli occhi dell'anima come usa fare con chi medita.

(S. Teresa d'Avila)

L'uomo spirituale, quando medita, stia con attenzione amorosa in Dio e con tranquillità d'intelletto, quando non può meditare, pur sembrandogli di non far nulla. Se per questo avesse scrupoli rifletta che non sta facendo poco tenendo l'anima in pace senza bramosia o desideri.

(S. Giovanni della Croce)

Se avviene che non avete gusto o consolazione nella meditazione, vi prego di non turbarvi. Se non restate consolato per la vostra grande aridità non preoccupatevi. Continuate a stare davanti a Dio con contegno devoto e tranquillo. Egli. certamente gradirà la vostra pazienza .

(S. Francesco di Sales)
B. Madre Teresa di Calcutta: "La santità è impossibile senza di essa".

S. Alfonso M. De Liguori: "Tutti i santi sono divenuti tali grazie al l'orazione mentale"

S. Teresa d'Avila: "Colui che trascura l'orazione mentale non ha bisogno del diavolo per andare all'inferno. Ci si porta da solo, con le proprie mani".

S. Giovanni della croce: "Senza orazione mentale l'anima non può trionfare sulle forze del del demonio".

S. Francesco di Sales: "È moralmente impossibile che chi trascura l'orazione mentale viva senza peccare".

Papa Benedetto XVI: "L'orazione mentale e' la priorità più importante di tutte".

Ordine dei Frati minori: "L'orazione mentale non è solo per monaci o suore, ma è per tutti".

Papa Pio XII: "L'orazione mentale e' pratica insostituibile"

S. Pio da Pietrelcina: "Chi non medita e come chi non si specchia mai. Senza meditazione non mi sento di farti accedere alla Santa comunione".

S. Paolo della croce: "Trovatemi chi mediti ogni giorno almeno quindi minuti sulla passione del Signore e io ve lo metterò sugli altari prima che muoia".

San Luca evangelista: "Maria meditava tutte queste cose nel suo cuore".
Il pensiero dei santi e dei maestri dunque è unanime. Non solo è pratica importante ma è necessaria. Da essa dipende il prosperare o no della fede nelle anime.





[Modificato da Caterina63 08/07/2016 15:50]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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01/06/2016 12:02
 
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Un testo da leggere tutto d'un fiato! 
Non è una favola ma un fatto vero: un sacerdote posseduto dal demonio, l'esorcista anche lui intrappolato in quella causa che ha portato il confratello ad essere posseduto, al centro la dottrina perversa di Pierre Teilhard de Chardin SJ gesuita che il demonio stesso, durante l'esorcismo rivelerà, appunto, come eretica....
Se conosci il vero Male, lo eviti, ricordati che la Dottrina di Cristo è davvero più semplice e pura, e solo i veri Santi sono riusciti a trasmettercela nei testi e nella loro vita 
 


Nel famoso libro "In mano a Satana" (1), padre Malachi Martin (2) racconta di un esorcismo molto singolare che ha avuto come protagonista, nel posseduto, un sacerdote, padre Yves (Jonathan durante l'esorcismo), e padre David nel ruolo dell'esorcista.

Ciò che ci interessa fare emergere da questa triste vicenda è un elemento comune sia al sacerdote posseduto, quanto al sacerdote esorcista: la dottrina di Pierre Teilhard de Chardin SJ. Quanto riportiamo qui di seguito è tratto fedelmente dal libro, ma da noi abbreviato e adattato allo stile della rete, per rendere il tutto più scorrevole ed immediato.

Padre David, l'esorcista di questa storia, nasce nello stato del New Hampshire nel 1922 da famiglia agiata e cattolica, di stampo "conservatore", figlio unico di tradizione "yankee". Una famiglia tranquilla. A quattordici anni David viene mandato a frequentare il ginnasio nel New England. A diciotto anni, nel 1940, decide di entrare in seminario per diventare sacerdote, anche se il padre avrebbe preferito per lui la carriera militare. Dopo sette anni diventa sacerdote, aveva venticinque anni e poichè David era un appassionato di antropologia e storia antica, il vescovo lo chiamò a questa attività raccomandandogli, prima,la conclusione degli studi di teologia, che fece, iscrivendosi alla Sorbona a Parigi.

Ed eccoci al primo "incontro" con il gesuita Pierre Teilhard de Chardin del quale, al principio, non subì alcun fascino particolare. Giunto a Parigi, invece, subì l'influenza diretta delle teorie concepite da Teilhard. Lo influenzava soprattutto il fatto che venisse eguagliato "un San Tommaso d'Aquino" del ventesimo secolo, e non meno accattivante era il fascino di Teilhard quando riceveva una sorta di devozione personale che solo un San Bonaventura aveva esercitato in passato.

Francese di primissima estrazione, intellettuale, asceta, eroe della prima guerra mondiale, studente brillante, insegnante scrupoloso a introdurre innovazioni, mistico più nel senso di "solitario", scopritore dell'Uomo di Pechino (Sinanthropos), pioniere dell'archeologia nel Sin Kiang, nel deserto del Gobi, in Birmania, sull'isola di Giava, nel Kashmir, nel Sudafrica.... Pierre Teilhard de Chardin (3), si mise così, di buzzo buono, a cercare un sistema innovativo che consentisse, dal punto di vista intellettuale cristiano, di accettare le teorie evoluzioniste di Darwin, pur conservando la fede.

Ciò che preoccupava l'Autorità di Roma per la difesa della fede era il tentativo di Teilhard di rendere razionali, materiali, i "misteri" della fede cattolica, pretendere di spiegare scientificamente il Divino e di rendere le verità della Rivelazione spiegabili in ogni punto con l'ausilio delle "provette" scientifiche e dei resti fossili. Insomma, una umanizzazione della fede. Roma non aveva torto di preoccuparsi delle teorie di Chardin, peraltro teorie appunto che non provenivano neppure dai Vangeli.

Egli creò per i francesi e i belgi, stanchi dell'ortodossia (cfr 2Tim.4,3-5), parole nuove da proclamare con fierezza e di cui far mostra. Teilhard fu responsabile di quell'apostasia fiammante che già bruciava lentamente i cervelli degli olandesi e tedeschi, assetati di innovazioni. Sempre la dottrina di Teilhard fu responsabile nell'aver alimentato il latente emozionalismo dei teologi anglicani, che oramai si stavano liberando delle rimanenze tradizionali (ricordiamo l'apertura alle donne-prete e poi vescovesse, ed oggi alle unioni omosessuali).

 

Ma Teilhard de Chardin non fu né nutrimento autentico e sostanzioso per chi aveva fame né una "manna celeste" per la presunta nuova Pentecoste. Fu più perversamente una sorta di "bicchiere della staffa", pieno di vino inebriante. Teilhard fu ridotto al silenzio sotto il pontificato di Pio XII, ma i suoi discepoli lavorarono per lui diffondendo a macchia d'olio le sue idee nei circoli intellettuali d'Europa e d'America.

Padre David e padre Yves furono tra questi che, influenzati ed abbagliati, inebriati dalle idee innovatrici di Teilhard, arrivarono a toccare  il fondo di questo "bicchiere della staffa".

Padre David, però, era più in buona fede e credeva davvero, in termini esuberanti, che una "nuova era" si stesse avvicinando per la Chiesa. Padre Yves, dal canto suo, arrivò anche a farsi scomunicare, avendo fatte proprie le teorie di Chardin che però portò alle estreme conseguenze, trascinandosi prima in una ossessione, poi in una vera possessione diabolica.

Nato nel 1936, Yves a diciassette anni decise di entrare in seminario, aveva quattordici anni meno di padre David, e se lo ritrovò come professore. Già in seminario Yves faceva emergere un lato oscuro della sua anima, ma non fu certo facile capire fino a dove si fosse egli spinto. Yves non era un tipo tranquillo, creava molti scompigli, ma sapeva esercitare un forte autocontrollo, poi la verbosità, la retorica, una spiccata intelligenza, modi remissivi e una strana ma efficace "simpatia", riuscivano ad appianare tutto e tutto a farsi perdonare.

Durante un esame, padre David (che aveva già fatto esperienza in campo esorcistico) faceva da moderatore quando si accese una accanita disputa tra Yves e uno degli esaminatori, sui sette sacramenti. Ciò che colpì l'attenzione di padre David fu l'atteggiamento insolito (per una persona normale) di Yves, il suo repentino cambiamento di umore con una vistosa patina d'odio, l'accanimento che lasciava trasparire dalle parole che pronunciava con odio e sfida verso l'altro sacerdote esaminatore, e per le espressioni facciali che le accompagnavano, infine il disagio provato dall'esaminatore, l'imbarazzo, quel sudare e provare perfino un certo timore.

In parole brevi: Yves aveva insistito che tutti i sacramenti non erano altro che "espressioni" del postulato (4) per cui l'uomo per la sua natura sarebbe tutt'uno con il mondo che lo circonda. Ma una affermazione del genere è eretica! I sacramenti, infatti, sono il mezzo supremo di unione con Dio e le parole usate da Yves, invece, implicano che Gesù, dopo la sua morte, era "ritornato alla natura" e che perciò i sacramenti erano il nostro modo per essere "tutt'uno" con Gesù, e non nel "presunto regno del Paradiso" ma... in terra, in cielo, in mare, nell'universo, in tutto.

Padre David si sentì responsabile per l'accaduto perché ebbe come l'impressione che le sue lezioni sulla creazione e sull'origine dell'uomo (da lui filtrate attraverso le teorie di Teilhard), c'entrassero per qualche verso con la reazione di Yves, pensando che questi poteva aver interpretato malamente la dottrina di Teilhard.

Premettiamo qui che padre David solo durante l'esorcismo a padre Yves comprese gli errori della dottrina di Teilhard (fu il demonio a renderglielo palese prima durante l'esorcismo e poi durante una dura lotta nel suo getsemani interiore), e che fino a quel momento aveva comunque compreso che solo un sottile e fragile ostacolo separa l'opinione di Teilhard dalla totale negazione della divinità di Gesù.

 

I concetti e le teorie di de Chardin potevano essere considerati alla stregua di affascinanti giocattoli per la mente e padre David si rese conto come potevano essere utilizzati, ad esempio, per esaltare l'uomo come animale, fino a ridurre Gesù alla condivisione di un eroe cristiano, certamente nobile, ma miseramente mortale come il Prometeo della mitologia greca, e per vedere in Dio nient'altro che le viscere della terra e del cielo e le distanze spaziali dell'universo con tutte le galassie in espansione. Ma con gli eventi che susseguono, padre David si accorge che questi non sono "giocattoli" per la mente, ma delle vere porte ad altri ingressi cupi e spaventosi.

Il fenomeno della possessione dovuto allo Spirito del Male progredisce seguendo la struttura della vita quotidiana, non è affatto facile individuarlo, delle volte ci vogliono persino anni prima che riesca ad uscire allo scoperto, e spesse volte deve essere provocato. Nel caso di padre Yves la possessione si sviluppò servendosi della struttura sacerdotale della sua vita, la quale non era semplicemente imbevuta delle idee di Teilhard, ma dottrine portate alle estreme conseguenze da Yves quali, per esempio, il sacramento del matrimonio riletto in chiave naturalistica, infine arrivò a toccare tutte le sue attività sacerdotali.

E' qui importante ricordare che il sacramento dell'Ordine sacro coinvolge la persona integralmente. Il sacramento non gli conferisce solo una nuova capacità o una preziosa autorità. Si tratta piuttosto di una nuova dimensione dello spirito che influisce necessariamente su tutto ciò che il neosacerdote fa fisicamente e mentalmente. Qualsiasi deformazione di questa dimensione, dovuta all'introduzione di un qualunque elemento ostile o contrario, o assolutamente estraneo, comporta inevitabilmente fenomeni di disturbo e... di guai. E dove la dimensione del sacerdozio non può essere annullata né sostituita, può essere invece avvilita, trascurata, depredata, offesa, falsata, adulterata.

La fissazione in padre Yves ebbe come epicentro la celebrazione dei matrimoni. Sapeva nascondere bene la possessione diabolica, le sue omelie attiravano la gente e le sue cerimonie incantavano. Ma ben presto cominciò a provare insoddisfazione e profonda inquietudine verso il rito, il cerimoniale prescritto dal Rituale Romano, cominciò a provare persino repulsione per le parole che gli sposi e lui dovevano convenientemente ripetere. Così cominciò a modificare dapprima le omelie nelle quali inseriva nuovi concetti dottrinali, Gesù restava certamente il "modello ideale" e supremo poi però, sviluppando il tema, cominciava a spiegare a modo suo, cosa Gesù dava alla sua Chiesa. Qui iniziò ad usare anche le lezioni di padre David sulla dottrina di Teilhard, ma da Yves maggiormente contorta, portata alle estreme conseguenze.

In sostanza Gesù, il grande punto Omega, rendeva bella la natura, ivi compresi i corpi e l'amore delle persone sposate, perché Egli sarebbe così dedito al perfezionamento del mondo materiale da diventare il vertice di perfezione di questo mondo umano. Non la "Persona" della SS.ma Trinità ma il "tutto nel tutto", una sorta di panteismo. Non è certo questo che insegna la Chiesa!

La goccia che fece traboccare il vaso, o meglio, che fece uscire allo scoperto la possessione, fu quando padre Yves stava celebrando un matrimonio e dopo l'omelia, il coadiutore più anziano della parrocchia, ammonì il sacerdote con tono severo: "Lei fa apparire il matrimonio come una faccenda puramente umana... - protestò - il matrimonio è un sacramento, un mezzo per godere della Grazia sovrannaturale. Gesù Cristo Nostro Signore non si evolverà dalla terra o dal corpo di una donna, o dai gas nella atmosfera...." Padre Yves incassò il rimprovero celando magnificamente la possessione con la sua solita parlantina convincente, ma la situazione era giunta al bivio: per lui il matrimonio era un "sacramento della natura", la Grazia non esisteva, la fede di padre Yves aveva sposato, ma anche andata ben oltre, la dottrina di Teilhard, traducendola nell'applicazione. Ciò che per Teilhard era la teoria, Yves lo tradusse nella pratica, pagando di persona queste estreme conseguenze.

 

Pur continuando a celebrare i sacramenti padre Yves, in un latino seminascosto, modificava tutte le formule, ma alla fine dovette cedere e rassegnarsi ad uscire allo scoperto, quando non riuscì più a fingere il suo stato durante la Consacrazione. Fatti strani accadevano sempre più frequenti durante le sue messe, ma non erano eventi mistici, edificanti, o di santità... i diaconi e ministranti che lo aiutavano, provavano a volte anche "terrore", ansia, confusione. Una volta Yves se la fece anche addosso... il parroco assistente, rendendosi conti della faccenda seria, fece uscire tutti i fedeli dalla chiesa chiudendo le porte, interrompendo la messa. Padre Yves cercò di impadronirsi della situazione ma venne scaraventato, da una mano invisibile, fuori del presbiterio. Qui ebbe inizio il suo percorso con padre David per essere esorcizzato.

Padre David, nel frattempo, si era consigliato con il proprio vescovo il quale aveva già concesso che si procedesse con l'esorcismo. Ma qui iniziarono anche i problemi di padre David il quale seppur non permise mai alle teorie di Teilhard di impossessarsi delle sue idee radicate nella sana dottrina, era palese che anche in lui, queste dottrine, avevano giocato un ruolo determinante. Alle sue perplessità il saggio vescovo rispose con una domanda secca e mirata: "Mi dica, padre, è l'evoluzione un fatto concreto come, diciamo, la Redenzione di noi tutti da parte di Gesù?". Una domanda sciocca, pensò, quasi priva di senso, eppure quella domanda cominciò a tormentarlo, a dargli fastidio. Pregò, padre David, fino a che la sua mente si rifece lucida e si arrabbiò con se stesso: "era proprio necessario scegliere tra l'evoluzione e Gesù? Era proprio indispensabile? Se Gesù era il culmine di tutto ciò, una scelta del genere non era affatto necessaria...."

In preda a queste considerazioni, padre David telefona a padre Yves: "Riguardo all'evoluzione e tutta quella roba lì, voglio dire... se per ipotesi Teilhard si fosse sbagliato completamente e tutta la sua teoria e la stessa evoluzione fossero irriconciliabili con la divinità di Gesù, che ne direbbe?" Seguì una breve pausa. Poi padre Yves rispose con una voce pacata, ma che celava una nota trionfale: "Sembra che lei lo stia chiedendo a se stesso, e per la prima volta, padre David!" - "Ma che cosa pensa lei, Yves... - insisté padre David - ora lo sto chiedendo a lei". "Un conflitto del genere è impossibile, padre David...".  Nel colloquio emerse alla fine che anche padre David era confuso e che la dottrina di Teilhard aveva fatto presa nel suo intimo e lo Spirito del Male che aveva posseduto padre Yves stava giocando con lui in modo assai pericoloso.

Padre David era shoccato e andò a consultarsi dal vescovo. David era alle prese con un problema che riguardava lui stesso: aveva ceduto allo Spirito del Male? Fino a che punto la dottrina di Teilhard l'aveva corrotto nell'animo? Era lui responsabile delle derive e della possessione di padre Yves? E fino a che punto? Il genio, ma meglio chiamarla perversione, di Teilhard consisté nel fatto che la sua "offerta" fu alta come quella di qualsiasi altro studioso non cattolico attivo in questo campo, per costruire un ponte (illusorio) al di sopra di una voragine così invalicabile e impossibile.

E fu in vista di questa premessa che padre David, padre Yves, insieme a un'intera generazione di uomini e donne, cattolici e non, adottò la dottrina di Teilhard. E per quanti tentativi vi furono (ancora oggi) di conciliare queste teorie con la dottrina cattolica, l'errore fu inevitabile. Se per padre Yves si giunse alle estreme conseguenze, non da meno fu l'effetto devastante nel mondo e soprattutto all'interno della Chiesa.

Il Dio-Creatore non veniva più considerato un Essere divino-Persona (Io Sono), ma divenne immanente (5) nel mondo in una maniera misteriosa ed essenziale. Gesù, nella sua qualità di Redentore, non era più Colui che irrompe nell'universo umano (Incarnazione) e capovolge la storia, ma viene ridotto a una figura posta all'apice dell'evoluzione di quell'universo, a un elemento naturale come... gli aminoacidi! Gesù era così un "accidente dell'evoluzione", una specie di "scherzo cosmico", arrivando così a permeare la "piena consapevolezza" negli "ultimi giorni".

 

L'incontro con il gesuita Teilhard fu, per padre David "breve e penoso".

Mentre padre David gli raccontava dei suoi studi antropologici, de Chardin prese dalle sue mani la copia del suo libro e scrisse sul rovescio alcune parole, chiuse il libro, lo restituì e fissò David. Ciò che gli rimase impresso fu l'espressione degli occhi di Teilhard. Padre David si aspettava lo sguardo di un uomo che, spintosi così tanto avanti, con teorie ardite sui problemi più profondi della vita, gli avesse potuto offrire qualcosa di più profondo, condivisibile, appagante, edificante. Ma per David fu una grande delusione: gli occhi erano spalancati e non rivelavano alcun indizio e "non vi si scorgeva neppure il fuoco di una brillante intelligenza". Dopo qualche istante il vecchio gesuita disse a David: "Lei resterà fedele. Lei resterà fedele, padre. Cerchi lo spirito. Ma anche se tutto dovesse andare a catafascio, dia speranza. Speranza".

Nel mentre ritornava a casa aprì il libro per leggervi la dedica: " Hanno detto che con questo libro ho aperto il vaso di Pandora. Ma non si sono accorti di una cosa. In un angolino di esso si celava ancora la speranza".

Padre David fu disturbato per settimane dopo quell'incontro da un'idea che non gli dava pace: che sperare fosse diventato difficile per il settantatreenne gesuita.

Avviandosi, così, ai preparativi dell'esorcismo a padre Yves, padre David dovette arrendersi al fatto, fin troppo evidente, che sia per la dottrina, sia per la spiritualità, i due avevano una base in comune: Pierre Teilhard de Chardin. "Se padre Yves è in errore - confidò David al proprio vescovo, cercando consiglio - allora lo sono anch'io. E ora, che cosa devo fare?" Gli rispose il vescovo: "Io suppongo che se tutta questa paleontologia e gli insegnamenti di de Chardin dovessero portarla a un punto in cui fosse costretto a scegliere tra la fede o de Chardin, lei sceglierebbe la fede, padre David". Un flash, la dedica nel libro riportava la stessa conclusione: "Lei resterà fedele".

Ora era chiaro, padre David doveva confrontarsi con se stesso prima di procedere alla parte finale dell'esorcismo, doveva liberare prima se stesso dall'influenza della dottrina di Teilhard, prima di affrontare lo Spirito del Male che possedeva padre Yves, perché il tutto si giocava sulla medesima questione. Gli disse infatti padre Yves in segno di sfida: "Padre David, figlio mio, anche lei finirà per trovare la luce e uscire all'aperto e adorare la Nuova Epoca e il Nuovo Essere...". A quelle parole David sentì divampare in pieno nel proprio intimo il conflitto, un senso di approvazione, ma anche un senso di terrore che lo attanagliava.

Nel raccontare i fatti, padre David, ricorda ancora perfettamente il lento e profondo senso di nausea che s'impadronì di lui mentre era seduto dentro in quella stanza con l'inferno, durante l'esorcismo. Era una sensazione di disgusto permeata di paura. L'esorcismo rivelò una denuncia chiara alla dottrina di Teilhard sulla Persona di Gesù Cristo.

Il primo tentativo di esorcizzare Yves fallì perché il Male sputò in faccia a padre David il suo stesso problema, dal quale non riusciva ad uscirne fuori. Fu a quel punto che Yves (Jonathan durante l'esorcismo) gli gridò in faccia: "Tu sei esattamente come me, David! Padre David! Tu hai accettato il Signore della luce (Satana) come ho fatto io, vecchio fesso!" - strillò Jonathan tra una risata e l'altra.

Poi tolse la mano da quella di padre David, si alzò in piedi e con aria di trionfo e di disprezzo, gli gridò: "Medico, cura te stesso!". Disprezzo e risate, il Male aveva vinto il primo round: "E tu stavi tentando di esorcizzare me? - e giù risate e disprezzo - Fuori di qui. Torna nelle tenebre, idiota. F-U-O-R-I !!" furono le ultime parole cariche di odio, disprezzo e trionfo.

 

Padre David barcollava. La madre di padre Yves intenta a pregare con il rosario, gli dice con parole piene di dolore: "Ha ragione mio figlio. Lo schiavo del demonio. Ha ragione, padre David. Lei ha bisogno di purificarsi. Che Dio l'assista".

Ci vollero quattro settimane in un forzato "ritiro spirituale" attraverso il quale, giorno e notte, padre David esercitò su se stesso tutto ciò fosse stato possibile per liberarsi da ogni dubbio, da ogni errore, rigettare completamente le teorie di Teilhard e riprendere pieno possesso della vera fede, senza più alcun compromesso, senza novità! Tutte le tessere del mosaico trovarono il loro posto giusto. E così, Teilhard è sistemato, rifletté padre David amaramente.

In preda all'angoscia che non riusciva ancora a dominare, padre David si rese conto delle conseguenze di tutto ciò solo in quelle quattro settimane, in quella lotta solitaria e penosa veglia per la salvezza della propria anima.

Padre David visse il suo Getsemani, alla fine cadde in ginocchio con le mani congiunte in preghiera. Tutto sembrava perduto. In verità era perduto tutto ciò che lui aveva studiato, ogni direttrice e scappatoia del ragionamento intellettuale, della sottigliezza psicologica, le presunte prove teologiche, della logica filosofica, della dimostrazione storica.... Tutte queste cose assunsero l'aspetto di altrettanti oggetti posseduti, paccottiglia accumulata da David e ora gettata con profonda umiltà, nelle fiamme che stavano varcando la soglia del suo intimo io. E tutto ciò che padre David gettava in questo mare di fuoco bruciava e si dissolveva. Rimaneva accesa una forza, la sua forza di volontà, il suo libero arbitrio. Restava solo il tormento della libera scelta.

Padre David aveva vinto. Aveva scelto la Verità pura e semplice. Era davvero una giornata radiosa e padre David recitava l'Ave Maria nel greco di San Paolo, San Luca, San Giovanni: "Kaire Miriam, kekaritomene" e, commuovendosi fino alle lacrime, ripeteva a lungo quella parola dell'Arcangelo Gabriele alla Vergine: " kekaritomene, kekaritomene, kekaritomene... Piena di grazia....". Aveva vinto, aveva accolto la Grazia. Ora poteva portare a compimento l'esorcismo.

Padre David ritornò a casa di padre Yves che, nel frattempo, era rimasto tranquillo con la madre che disse: "Jonathan era stato bene tranne il momento in cui lei fu liberato... si sentì proprio male!" L'esorcismo riprese e padre Yves fu finalmente liberato dal demonio che lo teneva in possesso.

Mentre padre David dava gli ultimi colpi, tutti udirono la preghiera di una madre, rivolta alla Madre per eccellenza: "Tu eri Sua Madre! Tu l'hai visto morire. Tu l'hai visto redivivo. Tu capisci. Avresti potuto morire di dolore in un caso o nell'altro. Aiutami ora...", poi intonò la Salve Regina in gregoriano. Tutti si commossero.

L'esorcista era in ginocchio davanti a padre Yves, ora c'era il momento della confessione. Tutti uscirono dalla stanza, ora il volto di padre Yves era sereno e raggiante, il volto di chi era ritornato a credere, a sperare. Una pace invidiabile.

 

 __________________________

 

Riepilogo:

 

Le conclusioni non spettano a noi, a noi spetta il pregare e seguire la sana dottrina, fare sano discernimento e denunciare - quando si può - con carità e verità, l'errore e poi attendere pazientemente.

 

Certo è che qui abbiamo un quadro inquietante: i gesuiti. I Gesuiti che durante il concilio di Trento furono davvero eccezionali, santi e santificatori e sempre i gesuiti che nel concilio Vaticano II non solo non sono stati santi, ma neppure santificatori, anzi, hanno seminato errori, fior fiore di eresie oggi non condannate (ricordiamo anche il gesuita Karl Rahner) ma piuttosto sposate dagli attuali gesuiti che fanno corona di protezione attorno ai loro maestri.

 

In questa storia che vi abbiamo raccontato, scritta da un gesuita che per salvarsi l'anima lasciò i gesuiti, ci troviamo davanti al fatto che per colpa dell'eresia gesuitica un sacerdote si lasciò corrompere fino alla possessione mentre l'altro, l'esorcista, abbagliato dalle dottrine gesuitiche ed essendo professore, trasmette l'errore rendendosi conto, solo dopo, i danni seminati. La storia finisce bene perché, quando si combatte nel proprio Getsemani con Gesù e Maria, si esce sempre vittoriosi, ma quante lacrime, quanti drammi e quanti cadaveri lasciati per la via. Pensiamo a quanti sacramenti (Battesimi, Cresime, Eucaristia, la Confessione, il Matrimonio e pure il Viatico...) dati in questo modo, nell'eresia, quanti fedeli tratti in inganno! E la battaglia non è finita, forse siamo solo nel cuore di questa lotta, ma è certo che un pontificato gesuitico, con un Pontefice che non nasconde nella sua pastorale la simpatia per queste eresie facendole proprie, adottandole nello stile pastorale, non promette nulla di buono. Preghiamo incessantemente per il Papa e restiamo fedeli al Catechismo, ai Santi, ai Padri, ai Dottori, tutto il resto passerà, i Papi passano, ma la Chiesa trionferà, la dottrina trionferà: Gesù ha vinto tutto!

Laudetur Jesus Christus 

P.S. vi consigliamo - qui - anche l'esorcismo attraverso il quale il demonio fu costretto a recitare un magnifico sonetto circa l'Immacolatezza di Maria Santissima

_________________

 

Note

1) di Malachi Martin "In mano a Satana" cinque vite possedute dal demonio, cinque storie autentiche, del 1978, vedi qui per l'acquisto. Non si tratta di "racconti" inventati o storielle, sono fatti autentici e tutti documentati

2) ex gesuita padre Malachi Martin, un 'Savonarola' del nostro tempo, confidente del Vaticano - è stato segretario del cardinale Bea -   ha poi chiesto ed ottenuto la dispensa da papa Paolo VI, per perseguire una carriera più letteraria, mantenendo il voto di castità. Ha criticato molto la Chiesa modernista, con accuse che arrivano a 'ci sono dei satanisti in Vaticano' - vedi qui -

3) Pierre Teilhard de Chardin SJ - vedi qui.

4) po·stu·là·to/sostantivo maschile. Principio indimostrato la cui validità si ammette a priori per evidenza o convenzione allo scopo di fornire la spiegazione di determinati fatti o di costruire una teoria. In logica, proposizione o regola di inferenza che si assume, senza provarne la validità, fra i costituenti di un sistema deduttivo.

5) im·ma·nèn·te/ aggettivo. Insito e inseparabile  "le proprietà i. di un corpo". In filosofia (contrapposto a trascendente), di ogni realtà coessenziale con altre.



[Modificato da Caterina63 01/06/2016 12:49]
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  Chi sono i falsi profeti

di don Ivo Cisar

È nota la parola di Gesù: "Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci. Dai loro frutti li riconoscerete" (Mt 7,15-16).

Nello stesso vangelo secondo san Matteo si legge ancora: "Sorgeranno falsi cristi e falsi profeti e faranno grandi portenti e miracoli, così da indurre in errore, se possibile, anche gli eletti" (Mt 24,24).

Per falsi profeti s’intendono di solito coloro che seminano errori o, come spiega la Bibbia di Gerusalemme, dottori di menzogna che seducono il popolo con false sembianze di pietà, ma perseguendo fini interessati. Mons. S. Garofalo annota il passo: "I falsi profeti, notissimi dai libri del Vecchio Testamento, sono impostori e trafficanti della parola di Dio per il loro vantaggio".

La Bibbia di Navarra commenta: "Nella vita della Chiesa la figura di falsi profeti, di cui parla Gesù, è stata intesa dai Santi Padri come riferita agli eretici, i quali si rivestono con abiti esteriori di vita di pietà e di penitenza, ma il loro cuore non possiede i sentimenti di Cristo (san Girolamo, Commentum in Matthaeum, 7). San Giovanni Crisostomo applicava queste parole del Signore a coloro che simulano virtù che non hanno, e con questa finzione ingannano chi non li conosce (cfr. Omelie sul Vangelo di san Matteo, 23).

I falsi profeti si presentano in vesti di pecore, come se appartenessero all’ovile di Cristo, fingono lo zelo per la gloria di Dio, ma cercano la propria gloria e tramano per la rovina delle pecore.

S. Tommaso d’Aquino spiega, con san Giovanni Crisostomo, che i falsi profeti vengono chiamati "lupi rapaci", perché intendono nuocere agli altri (STh II-II, 172, 4 ad 3). Egli afferma che un profeta viene detto falso quando agisce come strumento del demonio (STh II-II, 172, 5c).

Il testo di Mt 7,15 viene citato nel Catechismo della Chiesa Cattolica a proposito dello scandalo: "Lo scandalo è grave quando a provocarlo sono coloro che, per natura o per funzione, sono tenuti a insegnare e a educare gli altri. Gesù lo rimprovera agli scribi e ai farisei: li paragona a lupi rapaci in veste di pecore" (CCC 2285).

Ma quale è la ragione profonda per la quale essi vengono chiamati falsi profeti e quale è concretamente il loro modo di agire?

1) Profeta non è principalmente colui che predice il futuro, ma colui che parla a nome di Dio, ispirato e incaricato da Lui. Siccome nel Vecchio Testamento i profeti preparavano la venuta di Cristo, essi ovviamente lo predicevano, anche nei suoi particolari. Evidentemente anche nel Nuovo Testamento, Cristo e i suoi, proclamando il regno del Padre (cfr. LG 35), lo indicavano come già presente e insieme futuro (cfr. LG 5).

Ora, proclamare il regno di Dio, ossia la sua grazia consistente nel perdono e nella salvezza futura, comporta l’invito e l’esortazione alla conversione: "dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù si recò nella Galilea predicendo il vangelo di Dio e diceva: ‘Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al vangelo" (Mt 1,15).
Anche i profeti richiamavano alla fede in Dio, alla purezza dei costumi, denunciando i peccati e minacciando castighi divini. Basti ricordare le figure di Elia pieno di zelo per la purezza della fede nell’unico vero Dio (1Re 18,20-40), quella di Isaia che parla contro la corruzione morale (Is 1-5), quella di Natan che denuncia i peccati di Davide (2Sam 12,1-14), quella di Giona che annuncia i castighi divini alla città di Ninive (Gio 3); non sono che alcuni esempi scelti tra i tanti possibili. Il monoteismo, la moralità e l’attesa della salvezza sono oggetti della predicazione dei profeti, che esortano alla conversione.
Ma appunto per questo i profeti trovavano resistenze e reazioni, fino a dover temere per la propria vita; esempio tipico è quello di Geremia, "oggetto di litigio e di contrasto per tutto il paese" (Ger 15,10), che viene arrestato e giudicato (Ger 26).


2) Specialmente in Geremia emerge la differenza tra i veri e i falsi profeti: questi ultimi non sono stati mandati da Dio e parlano di testa propria; ne nasce un’aspra lotta (vedi Ger 23,9 ss.; 26,7 ss.; 27,9 s.; 28; Ez 13; Mi 3,5 ss.; Zc 13,2 ss.). Tipico dei falsi profeti è il tentativo di lusingare, illudere, tranquillizzare e narcotizzare le coscienze, per piacere agli uomini. Se ne lamenta Dio: "Così dice il Signore degli eserciti: ‘Non ascoltate le parole dei profeti che profetizzano per voi; essi vi fanno credere cose vane, vi annunziano fantasie del loro cuore, non quanto viene dalla bocca del Signore. Essi dicono a coloro che disprezzano la parola del Signore: voi avrete la pace! e a quanti seguono la caparbietà del loro cuore dicono: non vi coglierà sventura" (Ger 23,16-17). "La mia mano sarà sopra i profeti delle false visioni e dai vaticini bugiardi; ... poiché ingannano il mio popolo dicendo: pace! e la pace non c’è... " (Ez 13,9). Così pure, mentre i falsi profeti predicevano il successo al re, il profeta Michea predisse la disfatta (1Re 22,5 ss.).

Già nel libro del Deuteronomio Dio metteva sull’avviso: "Qualora si alzi in mezzo a te un profeta o un sognatore che ti proponga un segno o un prodigio... ed egli ti dica: seguiamo dèi stranieri, che tu non hai mai conosciuti, e rendiamo loro un culto, tu non dovrai ascoltare le parole di quel profeta o di quel sognatore; perché il Signore vostro Dio vi mette alla prova per sapere se amate il Signore vostro Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima" (Dt 13,2-4). I segni che una profezia sia vera o falsa è la sua corrispondenza con la vera fede (Dt 13,2-6) e il suo adempimento (Dt 18,21-22), se cioè questi vi siano o se manchino.

Gesù dice che riconosciamo i falsi profeti dai loro frutti. Dei frutti dello Spirito Santo a differenza delle opere della carne parla san Paolo. Il profeta vero conduce alla fede, al pentimento, alla riconciliazione con Dio, alla bontà, alla fedeltà, al dominio di sé ecc., mentre il profeta falso semina impurità, idolatrie, dissensi, divisioni, fazioni, hairéseis-eresie, ecc. (Gal 5,19-23).

"Ma il frutto più caratteristico del falso profeta è l’impegno volto ad allontanare il popolo di Dio dal magistero della Chiesa, attraverso cui risuona nel mondo la dottrina di Cristo. Il Signore predice altresì la fine di questi truffatori: la perdizione eterna" (La Bibbia di Navarra, l.c.).

3) Insegnamento per noi.

a) La nostra esposizione è stata ridotta al minimo, abbiamo proceduto per cenni. San Giovanni apostolo ci avverte: "Carissimi, non prestate fede a ogni ispirazione, ma mettete alla prova le ispirazioni, per saggiare se vengono veramente da Dio, perché molti falsi profeti sono comparsi nel mondo. Da questo potete riconoscere lo spirito di Dio: ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio; ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio. Questo è lo spirito dell’anticristo che, come avete udito, viene, anzi è già nel mondo" (1Gv 4,1-3). Oltre all’attualità del tema (cfr. Giovanni Paolo II nell’omelia del 31 dicembre 1993) ne risulta che la profezia autentica deve essere in armonia con gli articoli fondamentali della fede cristiana.

Nell’Apocalisse di san Giovanni viene descritta la fine dei falsi profeti al servizio della bestia, ossia delle forze che, arrogandosi poteri divini, si erigono contro Cristo e la Chiesa (Ap 13,11-17).

b) San Paolo dichiara: "Se ancora io piacessi agli uomini, non sarei più servitore di Cristo!" (Gal 1,10).

Gesù ha proclamato: "Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande e la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi" (Mt 5,11-12).

Vi è un modo di "compiacere" che è secondo Cristo: "Ciascuno di noi cerchi di compiacere il prossimo nel bene, per edificarlo" (Rm 15,2). "Io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare l’utile mio ma quello di molti perché giungano alla salvezza" (1Cor 10,33).

Sempre tenendo presente, però: "Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti facevano i loro padri con i falsi profeti" (Lc 6,26).

c) Siamo popolo profetico di Dio (LG 12), sotto la guida del Magistero della Chiesa (LG 25) i laici partecipano all’ufficio profetico di Cristo (LG 35) per l’evangelizzazione del mondo (ibidem), mediante l’apostolato (ibidem e AA), specie se confermati-cresimati (AA 3). Evangelizzare vuol dire annunciare Cristo per la conversione (cfr. At 2,36).

Una componente della funzione profetica del cristiano è il dovere della correzione fraterna o dell’ammonimento fraterno, di cui parla a più riprese il Nuovo Testamento: "Se il tuo fratello commette una colpa, va’ e ammoniscilo... " (Mt 18,15). "Se un tuo fratello pecca, rimproveralo; ma se si pente, perdonagli" (Lc 17,3) Un presupposto della salvezza che consiste nel perdono dei peccati è la conoscenza dei peccati e il pentimento. La misericordia divina non significa che Dio chiude gli occhi davanti ai peccati, ma che ce li perdona, se ce ne pentiamo finché siamo in tempo: "Il Signore non ritarda nell’adempiere la sua promessa, come certuni dicono; ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo dio pentirsi (2Pt 3,9). Ma Gesù ammonisce pure: "Se non vi convertite, perirete tutti" (Lc 13,3.5). La correzione fraterna è una delle opere di misericordia spirituale, ben diversa dal giudicare il prossimo (Mt 7,1 ss.). Invece di giudicare le persone e tollerare il peccato, come spesso facciamo, dobbiamo condannare il peccato, senza condannare le persone (Lc 6,37), perché Dio vuole salvare tutti (1Tm 2,4).

Perciò san Paolo esorta i cristiani: "Cercate ciò che è gradito al Signore, e non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre, ma piuttosto condannatele apertamente, poiché di quanto viene fatto da costoro in segreto è vergognoso persino parlare" (Ef 5,10-12). Egli confida che i cristiani siano "capaci di correggere l’un l’altro" (Rm 15,14), ci esorta a correggere gli altri con dolcezza e umiltà (Gal 6,1), di accettare gli ammonimenti di coloro che ci sono preposti nel Signore, come pure di correggere gli indisciplinati (1Ts 5,12.14), di ammonire fraternamente (2Cor 2,7; 2Ts 3,15).

d) Quel che induce al peccato ed è peccato già in sé è il falso rispetto umano, di cui peccò già Adamo (Gn 3,6.12). Non solo non dobbiamo subirlo, ma dobbiamo essere profeti veri che si regolano secondo la parola di san Paolo: "Non conformatevi alla mentalità di questo secolo (mondo), ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a Lui gradito e perfetto" (Rm 12,2). Non seguendo i falsi profeti, accomodanti, che tentano di praticare sconti sulla dottrina e la morale di Cristo, per piacere agli uomini, dispiacendo a Dio, dal quale verranno giudicati, al quale dovranno rispondere (cfr. 2Cor 5,10; Rm 14,10-13; Gal 6,4-5), perché "responsabilità" vuol dire questo.

In conclusione: Dio manda i profeti, i quali parlano a nome Suo, denunciando i peccati, perché gli uomini possano rendersene conto e pentirsene e trovare la salvezza in Cristo. Ma alcuni autoinvitati si spacciano per profeti, mentre non lo sono, "pretendendo di essere dottori della legge mentre non capiscono né quello che dicono né alcuna di quelle cose che danno per sicure" (1Tm 1,7).

I falsi profeti addormentano le coscienze, i profeti veri le svegliano. E non si deve neppure tacere; specialmente le sentinelle costituite da Dio devono "suonare la tromba e dare l’allarme" (Es 33,2-3) avvertire della morte spirituale, conseguenza delle iniquità (Ez 33,10-16). Chi blandisce o tace colpevolmente compromette la salvezza eterna altrui.

Il mite san Francesco di Sales ha una parola molto forte: "Faccio eccezione per i nemici dichiarati di Dio e della Chiesa; quelli vanno screditati il più possibile: per esempio, le sette eretiche e scismatiche con i loro capi. È carità gridare al lupo quando si nasconde tra le pecore, non importa dove" (Filotea III 29).

Oggi si abusa della parola "speranza": è un termine inflazionato e spesso svuotato del suo contenuto proprio, soprannaturale, di virtù teologale, riferentesi a Dio (vedi per esempio Rm 5,5; 8,24); è divenuta una parola "riempitivo", immanentizzata, orizzontalizzata, storicizzata, non più trascendente, espressione della fede soprannaturale (vedi invece Ebr 11,1), ma una parola pseudoottimistica, ingannevole, anestetizzante, direi quasi "propagandistica". Se si studia bene l’Apocalisse, vi si constata un regresso nella storia e un progressivo aumento, crescita del male nel mondo (vedi Eduard Schick, L’Apocalisse, Roma, 1973, pp. 93, 99, 113, 114, 120, 126-129, 148-149, 185-186), donde la necessità dell’esortazione alla penitenza (vedi ivi, p. 127; cfr. Lc 13,1-5).

La voce dei falsi profeti spesso sovrasta quella dei veri, come quella di Anania in contrasto con Geremia (Ger 28). Ciò non porta alla conversione (penitenza) e alla salvezza. La gente pretende: "Non fateci profezie sincere, diteci cose piacevoli, profetateci illusioni!" (Is 30,10). Ma Dio avverte: "Non vi traggano in errore i profeti che sono in mezzo a voi e i vostri indovini; non date retta ai sogni che essi sognano. Poiché con inganno parlano come profeti a voi in mio nome; io non li ho inviati. Oracolo del Signore" (Ger 29,8-9). "I tuoi profeti hanno avuto per te visioni di cose vane e insulse, non hanno svelato le tue iniquità per cambiare la tua sorte; ma ti han vaticinato lusinghe, vanità e illusioni" (Lam 2,14). Così avviene anche oggi in certe conferenze, prediche, liturgie che non evangelizzano, cioè non inducono alla conversione-penitenza, ma sono falsamente consolatorie. San Paolo ha scritto: "Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole". (2Tm 4,3-4). E accenna anche a dei "falsi fratelli" (Gal 2,4).

San Gregorio Magno, commentando i passi biblici sui "cani muti" (Is 56,10), guardiani infedeli (ivi), non difensori (Ez 13,5), scrive dei falsi profeti: "La parola di Dio li rimprovera di vedere cose false, perché, per timore di riprendere le colpe, lusingano i colpevoli con promesse di sicurezza, e non svelano l’iniquità dei peccatori ai quali mai rivolgono una parola di riprensione. Il rimprovero è una chiave. Apre infatti la coscienza a vedere la colpa che spesso è ignorata anche da quello che l’ha commessa. ..." (Reg. past. 2,4).

I falsi profeti sono addormentatori di coscienze mediante l’aperturismo e lo pseudoottimismo ("aggiornamento" e "speranza"). Conducono all’indurimento nel peccato e all’impenitenza finale, peccati "irremissibili", perché contro lo Spirito Santo, contro la grazia di Dio (Mt 12,32); conducono non alla salvezza, ma alla perdizione (Fil 3,19; Mt 7,13).

Il peccato, in quanto contro Dio, non è evidente alla coscienza umana, ma ha bisogno di essere svelato nella sua vera dimensione e gravità: questa è la vera funzione profetica (vedi Is 58,1), come quella di Natan nei riguardi di Davide (2Sam 12,1-14). La nuova (o rinnovata) evangelizzazione non consiste nella sola istruzione (catechetica, questa viene dopo), né in un solo dialogo (vedi Dialogo e annuncio, 19 maggio 1991), ma nel kerygma o annuncio del regno di Dio congiunto all’invito alla penitenza: "Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino: convertitevi e credete al vangelo" (Mc 1,15, cfr. Mt 4,17). È l’annuncio di Cristo e della salvezza in Lui solo: "Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati" (At 2,38). "In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati" (At 4,12).


 

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 11 maggio 2005 - Pubblichiamo di seguito l’intervento pronunciato dal cardinale Joseph Ratzinger in occasione della Conferenza Internazionale organizzata dal Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute sul tema: “A immagine e somiglianza di Dio: Sempre? Il disagio della mente umana” (28 novembre 1996). 

* * *



Davanti al tema di questo convegno internazionale, emergono in me ricordi inquietanti. Permettetemi, vi prego, di raccontarvi a modo di introduzione questa esperienza personale, che ci riporta all’anno 1941, quindi nel tempo della guerra e del regime nazionalsocialista. Una delle nostre zie, che visitavamo frequentemente, era madre di un robusto figliolo, che era qualche anno più giovane di me, ma dimostrava progressivamente i segni tipici della sindrome di down. Suscitava simpatia nella semplicità della sua mente offuscata, e sua madre, che aveva già perduto una figlia per morte prematura, gli era sinceramente affezionata. 

Ma nel 1941 fu ordinato, da parte delle autorità del Terzo Reich, che egli doveva essere portato in un ricovero per ricevere un’assistenza migliore. Non si avevano ancora sospetti sulla operazione di eliminazione dei disabili mentali, che già era stata iniziata. Dopo poco tempo giunse la notizia che il bambino era morto di polmonite ed il suo corpo era stato cremato. Da quel momento si moltiplicarono le notizie di tal genere. Nel villaggio, nel quale avevamo abitato prima, facevamo volentieri visita ad una vedova, che era rimasta senza figli e si rallegrava per la visita dei bambini del vicinato. La piccola proprietà, che aveva ereditato da suo padre, poteva a stento darle di che vivere, ma era di buono spirito, anche se non senza qualche timore per il suo futuro. 

Più tardi venimmo a sapere che la solitudine, nella quale sempre più venne a trovarsi, aveva ottenebrato sempre più la sua mente: il timore per il futuro era divenuto patologico, così che a stento osava ancora mangiare, perché temeva sempre per il domani, nel quale forse sarebbe rimasta completamente senza cibo da mettere sotto i denti. Fu allora classificata come mentalmente disturbata, portata in un ricovero, e anche in questo caso giunse tosto la notizia che era morta di polmonite. 

Poco dopo accadde nel nostro attuale villaggio nuovamente la stessa cosa: il piccolo podere, attiguo alla nostra casa, era fino allora affidato alle cure di tre fratelli non sposati, ai quali apparteneva. Erano ritenuti mentalmente malati, ma erano nondimeno in grado di occuparsi della loro casa e della loro proprietà. Anch’essi sparirono in un ricovero e poco dopo fu riferito di loro che erano morti. A quel punto non ci poteva più essere dubbio, circa quanto stava accadendo: si trattava di una sistematica eliminazione di tutti coloro, che non erano considerati come produttivi. Lo stato si era arrogato il diritto di decidere chi meritava di vivere e chi doveva essere privato dell’esistenza in vantaggio della comunità e di se stesso, perché non poteva essere utile né agli altri né a se stesso. 

Agli orrori della guerra, che divenivano sempre più sensibili, questo fatto aggiunse un nuovo, diverso sgomento: avvertivamo la gelida freddezza di questa logica dell’utilità e del potere. Sentivamo come l’uccisione di queste persone umiliava e minacciava noi stessi, l’essenza umana che era in noi: se la pazienza e l’amore, che vengono dedicati alle persone sofferenti, vengono eliminati dall’esistenza umana come perdita di tempo e di denaro, allora non viene fatto solo del male agli uccisi, ma in quel caso vengono mutilati nello spirito proprio gli stessi sopravvissuti. Ci rendevamo conto che là ove il mistero di Dio, la sua dignità intoccabile in ciascun uomo non viene più rispettata, non vengono minacciati solo i singoli, ma l’essere umano stesso è in pericolo. Nel silenzio paralizzante, nel timore, che tutti bloccava, fu allora come una liberazione, quando il Cardinale von Galen levò la sua voce e ruppe la paralisi del timore, per difendere nei disabili mentali l’uomo stesso, immagine di Dio. 

A tutte le minacce contro l’uomo derivanti dal calcolo del potere e dell’utile si oppone la luminosa parola di Dio, con la quale la Genesi introduce il racconto della creazione dell’uomo: creiamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza – faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram, traduce la Volgata (Gen 1,26). Ma cosa si intende con questa parola? In cosa consiste la somiglianza divina dell’uomo? Il termine all’interno dell’Antico Testamento è per così dire un monolito; non appare più nell’Antico Testamento ebraico, anche se il Salmo 8 – “Cos’è l’uomo, perché tu ti ricordi di lui?” – rivela una parentela interiore con esso. Viene ripreso solo nella letteratura sapienziale. 

Il Siracide (17,2) vi fonda la grandezza dell’essere umano, senza propriamente voler dare un’interpretazione del significato della somiglianza con Dio. Il libro della Sapienza (2,23) fa un passo ulteriore e vede l’essere immagine di Dio essenzialmente fondato nell’immortalità dell’uomo: ciò che rende Dio Dio e lo distingue dalla creatura è proprio la sua immortalità e perennità. Immagine di Dio la creatura è quindi proprio per il fatto che partecipa dell’immortalità – non per sua natura, ma come dono del creatore. L’orientamento alla vita eterna è ciò che fa diventare l’uomo il corrispondente creato di Dio. 

Qui la riflessione potrebbe continuare e si potrebbe anche dire: vita eterna significa qualcosa di più che una semplice sussistenza eterna. È riempita di un senso, e solo così è vita che merita ed è capace di eternità. Eterna una realtà può essere solo a condizione che partecipi di ciò che è eterno: all’eternità della verità e dell’amore. Orientamento all’eternità sarebbe quindi orientamento alla eterna comunione di amore con Dio, e l’immagine di Dio rinvierebbe quindi di sua natura oltre la vita terrena. Non potrebbe affatto essere determinata staticamente, essere legata a qualche qualità particolare, ma sarebbe questo essere protesi oltre il tempo della vita terrena; si potrebbe comprendere solo nella tensione al futuro, nella dinamica verso l’eternità. Chi nega l’eternità, chi vede l’uomo solo come intramondano, non avrebbe pertanto in partenza alcuna possibilità di penetrare l’essenza della somiglianza con Dio. 

Ma questo è solo accennato nel libro della Sapienza, e non ulteriormente sviluppato. Così l’Antico Testamento ci lascia con una questione aperta, e si deve dar ragione ad Epifanio, che di fronte a tutti i tentativi di precisare il contenuto della somiglianza divina, afferma che non si deve “cercare di definire ove si colloca l’immagine, ma confessarne l’esistenza nell’uomo, se non si vuol ingiuriare la grazia di Dio” (Panarion, LXX, 2,7). 

Ma noi cristiani leggiamo in realtà l’Antico Testamento sempre nella tonalità dell’unica Bibbia, nell’unità con il Nuovo Testamento e riceviamo da esso la chiave per comprendere rettamente i testi. Come il racconto della creazione “In principio creò Dio” riceve la sua corretta interpretazione solo nella sua rilettura giovannea “In principio era la Parola”, così anche qui. In questo momento naturalmente io non posso, nel quadro di una breve prolusione, presentare la ricca e pluristratificata testimonianza del Nuovo Testamento relativamente al nostro problema. Cercherò semplicemente di richiamare due temi. 

Si deve rilevare innanzitutto e come fatto più importante che nel Nuovo Testamento Cristo viene designato come “l’immagine di Dio” (2 Cor 4,4; Col 1,15). I Padri hanno inserito qui un’osservazione linguistica, che forse non è così sostenibile, ma corrisponde certamente all’orientamento interiore del Nuovo Testamento e della sua reinterpretazione dell’Antico. Essi dicono: solo di Cristo viene insegnato che egli è “la immagine di Dio”, l’uomo invece non è la immagine, ma ad imaginem, creato ad immagine, secondo l’immagine. Egli diventa immagine di Dio, nella misura in cui entra in comunione con Cristo, si conforma a lui. Detto con altre parole: l’immagine originaria dell’uomo, che a sua volta ripresenta l’immagine di Dio, è Cristo, e l’uomo è creato a partire dalla sua immagine, su sua immagine. La creatura umana è allo stesso tempo progetto preliminare in vista di Cristo, ovvero: Cristo è l’idea fondamentale del Creatore, ed egli forma l’uomo in vista di lui, a partire da questa idea fondamentale. 

Il dinamismo ontologico e spirituale, che si cela in questa concezione, diventa particolarmente evidente in Rom. 8,29 e 1 Cor. 15, 49, ma anche in 2 Cor. 4,6. Secondo Rom. 8, 29 gli uomini sono predestinati, “ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli”. Questa conformazione all’immagine di Cristo si compie nella risurrezione, nella quale egli ci ha preceduto – ma la risurrezione, è necessario richiamarlo già qui, presuppone la croce. 

La prima Lettera ai Corinti distingue il primo Adamo, che divenne “anima vivente” (15,45; cfr Gen 2,7) e l’ultimo Adamo, che divenne Spirito datore di vita. “E come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste” (15,49). Qui è rappresentata con tutta chiarezza la tensione interiore dell’essere umano fra fango e spirito, terra e cielo, origine terrena e futuro divino. Questa tensione dell’essere umano nel tempo e oltre il tempo appartiene all’essenza dell’uomo. E questa tensione lo determina proprio nel centro della vita in questo tempo. Egli è sempre in cammino verso se stesso o si allontana da se stesso; è in cammino verso Cristo o si allontana da lui. Egli si avvicina alla sua immagine originaria, o la nasconde e la rovina. 

Il teologo di Innsbruck F. Lakner ha felicemente espresso questa concezione dinamica della somiglianza divina dell’uomo, caratteristica del Nuovo Testamento, nel seguente modo: “L’essere immagine di Dio dell’uomo si fonda sulla predestinazione alla filiazione divina attraverso la incorporazione mistica in Cristo”; l’essere immagine è quindi finalità insita nell’uomo, fin dalla creazione, “verso Dio per mezzo della partecipazione alla vita divina in Cristo”. 

Ci avviciniamo così ora però alla questione decisiva per il nostro tema: questa somiglianza divina può essere distrutta? ed eventualmente, come? Esistono esseri umani, che non sono immagine di Dio? La Riforma nella sua radicalizzazione della dottrina del peccato originale aveva risposto affermativamente a questa domanda e aveva detto: sì, con il peccato l’uomo può distruggere in se stesso l’immagine di Dio e di fatto l’ha distrutta. Infatti l’uomo peccatore, che non vuol riconoscere Dio e che non rispetta l’uomo o addirittura lo uccide – costui non ripresenta l’immagine di Dio, ma la deturpa, contraddice Lui, che è Santità, Verità e Bontà. 

Ricordando quanto detto all’inizio, ciò può e deve portarci alla domanda: in chi è più oscurata l’immagine di Dio, più sfigurata o più estinta – nel freddo assassino, ben cosciente di se stesso, potente e forse anche intelligente, che fa se stesso Dio e deride Dio o nel sofferente innocente, nel quale la luce della ragione guizza assai flebile o addirittura non è più percepibile? Ma la domanda in questo momento è prematura. Dapprima dobbiamo dire: la tesi radicale della Riforma si è dimostrata come insostenibile, proprio a partire dalla Bibbia. L’uomo è immagine di Dio in quanto uomo. E finché egli è uomo, è un essere umano, egli è misteriosamente proteso a Cristo, al Figlio di Dio fattosi uomo e quindi orientato al mistero di Dio. L’immagine divina è connessa con l’essenza umana in quanto tale, e non è in potere dell’uomo distruggerla completamente. 

Ma ciò che l’uomo certamente può fare è lo sfiguramento dell’immagine, la contraddizione interiore con essa. Qui occorre citare ancora una volta Lakner: “...la forza divina riluce proprio nel laceramento causato dalle contraddizioni... in questo mondo l’uomo come immagine di Dio è pertanto l’uomo crocifisso”. Fra la figura dell’Adamo terreno formato dal fango, che Cristo in comune con noi ha assunto nell’incarnazione e la gloria della resurrezione sta la croce: il cammino dalle contraddizioni e dagli sfiguramenti dell’immagine verso la conformazione con il Figlio, nel quale si manifesta la gloria di Dio, passa attraverso il dolore della croce. Fra i Padri della Chiesa, Massimo il Confessore ha più di altri riflettuto su questa connessione fra somiglianza divina e croce. 

L’uomo, che è chiamato alla “sinergia”, alla collaborazione con Dio, si è invece posto in opposizione a lui. Questa opposizione è “un’aggressione alla natura dell’uomo”. Essa “sfigura il vero volto dell’uomo, l’immagine di Dio, poiché distoglie l’uomo da Dio e lo rivolge verso se stesso ed erige fra gli uomini la tirannia dell’egoismo”. Cristo dall’interno della stessa natura umana ha compiuto il superamento di questo contrasto, la sua trasformazione in comunione: l’ubbidienza di Gesù, il suo morire a se stesso, diviene il vero esodo, che libera l’uomo dal suo decadimento interiore conducendolo all’unità con l’amore di Dio. 

Il crocifisso diviene così la vivente “icona dell’amore”; proprio nel crocifisso, nel suo volto scorticato e percosso, l’uomo diventa nuovamente trasparenza di Dio, l’immagine di Dio torna a rilucere. Così la luce dell’amore divino riposa proprio sulle persone sofferenti, nelle quali lo splendore della creazione si è esteriormente oscurato; perché esse in modo particolare sono simili al Cristo crocifisso, all’icona dell’amore, si sono accostate in una particolare comunanza a colui, che solo è la stessa immagine di Dio. 

Possiamo estendere a loro la parola, che Tertulliano ha formulato in riferimento a Cristo: “Per misero che possa essere stato il suo corpo..., esso sarà sempre il mio Cristo...” (Adv. Marc. III,17,2). Per grande che sia la loro sofferenza, per quanto sfigurati e offuscati possano essere nella loro esistenza umana – essi saranno sempre i figli prediletti di nostro Signore, ne saranno sempre in modo particolare l’immagine. Fondandosi sulla tensione fra nascondimento e futura manifestazione dell’immagine di Dio possiamo del resto applicare alla nostra questione la parola della prima Lettera di Giovanni: “noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato” (3,2). 

Noi amiamo in tutti gli esseri umani, ma soprattutto nei sofferenti, nei disabili mentali, ciò che essi saranno e ciò che essi in realtà già sono fin d’ora. Già fin d’ora essi sono figli di Dio – ad immagine di Cristo, anche se non è ancora manifesto ciò che essi diverranno. Cristo nella croce si è definitivamente assimilato ai più poveri, ai più indifesi, ai più sofferenti, ai più abbandonati, ai più disprezzati. E fra questi, vi sono coloro di cui il nostro colloquio oggi si occupa, coloro la cui anima razionale non arriva ad esprimersi perfettamente per mezzo di un cervello infermo o malato, come se, per una ragione o per un’altra, la materia resistesse ad essere assunta da parte dello spirito. Qui Gesù rivela l’essenziale dell’umanità, ciò che ne è il vero compimento, non l’intelligenza, né la bellezza, ancor meno la ricchezza o il piacere, ma la capacità di amare e di acconsentire amorosamente alla volontà del Padre, per sconcertante che esso sia. 

Ma la passione di Gesù sfocia nella sua resurrezione. Il Cristo risuscitato è il punto culminante della storia, l’Adamo glorioso verso il quale tendeva già il primo Adamo, l’Adamo “terreno”. Così si manifesta il fine del progetto divino: ogni uomo è in cammino dal primo al secondo Adamo. Nessuno di noi è ancora pienamente se stesso. Ciascuno deve diventarlo, come il grano di frumento che deve morire per portare frutto, come il Cristo resuscitato è infinitamente fecondo perché si è infinitamente donato. 

Una delle grandi gioie del nostro paradiso sarà senza dubbio scoprire le meraviglie che l’amore avrà operato in noi, e che l’amore avrà operato in ciascuno dei nostri fratelli e sorelle, e nei più colpiti, nei più sofferenti fra di essi, mentre noi non comprendevamo neppure come l’amore era possibile da parte loro, mentre il loro amore rimaneva nascosto nel mistero di Dio. Sì, una delle nostre gioie sarà di scoprire i nostri fratelli e sorelle in tutto lo splendore della loro umanità, in tutto il loro splendore di immagini di Dio. 

La Chiesa crede, fin da oggi, a questo splendore futuro. Essa vuole essere attenta e sottolineare anche il minimo segno che già lo lasci intravvedere. Perché, nell’al di là, ciascuno di noi brillerà tanto più quanto più avrà imitato il Cristo, nel contesto e con le possibilità che gli saranno state date. 
Ma mi sia permesso qui di rendere testimonianza all’amore della Chiesa per le persone mentalmente sofferenti. Sì, la Chiesa vi ama. Essa non ha verso di voi solo la “predilezione” naturale della madre per i più sofferenti dei suoi figli. Essa non resta ammirata solo davanti a ciò che voi sarete, ma a ciò che voi già siete: immagini di Cristo. 

Immagini di Cristo da onorare, da rispettare, da aiutare nella misura del possibile, certamente, ma soprattutto, immagini di Cristo portatrici di un messaggio essenziale sulla verità dell’uomo. Un messaggio che tendiamo troppo a dimenticare: il nostro valore davanti a Dio non dipende né dall’intelligenza, né dalla stabilità del carattere, né dalla salute che ci permettono molteplici attività di generosità. Questi aspetti potrebbero sparire in ogni momento. Il nostro valore davanti a Dio dipende solamente dalla scelta che avremo fatto di amare il più possibile, di amare il più possibile nella verità. 

Dire che Dio ci ha creati a sua immagine, significa dire che egli ha voluto che ciascuno di noi manifesti un aspetto del suo splendore infinito, che egli ha un progetto su ciascuno di noi, che ciascuno di noi è destinato a entrare, per un itinerario che gli è proprio, nell’eternità beata. La dignità dell’uomo non è qualcosa che si impone ai nostri occhi, non è misurabile né qualificabile, essa sfugge ai parametri della ragione scientifica o tecnica; ma la nostra civiltà, il nostro umanesimo, non hanno fatto progressi se non nella misura in cui questa dignità è stata più universalmente e più pienamente riconosciuta a sempre più persone. 

Ogni ritorno indietro in questo movimento di espansione, ogni ideologia o azione politica che estromettesse alcuni esseri umani dalla categoria di coloro che meritano rispetto, segnerebbero un ritorno verso la barbarie. E noi sappiamo che sfortunatamente la minaccia della nostra barbarie pende sempre sui nostri fratelli e sorelle che soffrono di una limitazione o di una malattia mentale. Uno dei nostri compiti di cristiani è di far riconoscere, rispettare e promuovere pienamente la loro umanità, la loro dignità e la loro vocazione di creature ad immagine e somiglianza di Dio. 

Vorrei approfittare di questa occasione che mi è offerta per ringraziare tutti coloro, e sono qui numerosi, che con la riflessione o la ricerca, lo studio o le diverse cure, si impegnano a rendere sempre più riconoscibile questa immagine. 

Sua Eminenza il Cardinale JOSEPH RATZINGER 
Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede 

[Testo distribuito dal Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute]



[Modificato da Caterina63 13/07/2016 11:10]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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[SM=g1740717] 26 luglio Memoria dei Santi Anna e Gioacchino. Riscopriamo questa storia meravigliosa....

genitori della Beata Vergine Maria
e patroni dei nonni

in video a cura del

Movimento Domenicano del Rosario

Chiariamo subito che i Testi Sacri nulla ci dicono sui genitori della Vergine Maria. Lo Spirito Santo ha permesso che neppure i loro autentici nomi giungessero fino a noi. Quello che sappiamo dei Santi Anna e Gioacchino, fu diffuso fin dal II secolo ad opera del Protovangelo di Giacomo, testo apocrifo di ispirazione cristiana, che anticamente si chiamava Storia della Natività di Maria. Il resto ci viene dalla pia Tradizione attraverso la quale, la Chiesa, ha voluto preservare proprio l'aspetto del contesto familiare in cui Maria nacque e visse, preparandosi a divenire ciò per cui Dio la volle per sé nel progetto dell'Incarnazione divina.

L’affermazione del culto in Occidente fu graduale. La sua immagine si trova già tra i mosaici dell’arco trionfale di S. Maria Maggiore (sec. V) e tra gli affreschi di S. Maria Antiqua (sec. VII); ma il suo culto cominciò verso il X secolo a Napoli e poi man mano estendendosi in altre località, fino a raggiungere la massima diffusione nel XV secolo, al punto che Papa Gregorio XIII (1502-1585), decise nel 1584 di inserire la celebrazione di Sant' Anna nel Messale Romano, estendendola a tutta la Chiesa; ma il suo culto fu più intenso nei Paesi dell’Europa Settentrionale anche grazie al libro di Giovanni Trithemius “Tractatus de laudibus sanctissimae Annae” (Magonza, 1494).

Gioacchino, invece, fu lasciato discretamente in disparte per lunghi secoli e poi inserito nelle celebrazioni in data diversa; Anna il 25 luglio dai Greci in Oriente e il 26 luglio dai Latini in Occidente, Gioacchino dal 1584 venne ricordato prima il 20 marzo, poi nel 1788 alla domenica dell’ottava dell’Assunta. San Pio X nel 1913 stabilì il culto al 16 agosto, fino a ricongiungersi nel nuovo calendario liturgico, alla sua consorte il 26 luglio.

Dice Gesù nel Vangelo “Dai frutti conoscerete la pianta” e noi conosciamo il fiore e il frutto derivato dalla annosa pianta: la Vergine, Immacolata fin dal concepimento, Colei che preservata dal peccato originale doveva diventare il tabernacolo vivente del Dio fatto uomo. Dalla santità del frutto, cioè di Maria, la Chiesa ha sempre dedotto la santità dei suoi genitori Anna e Gioacchino, ma anche esempio e modello di famiglia, modello per i coniugi, esempio e modello per i nonni dei quali sono i patroni.

Il “Protovangelo di san Giacomo” narra che Gioacchino, sposo di Anna, era un uomo pio e molto ricco e abitava vicino Gerusalemme, nei pressi della fonte Piscina Probatica; un giorno mentre stava portando le sue abbondanti offerte al Tempio come faceva ogni anno, il gran sacerdote Ruben lo fermò dicendogli: “Tu non hai il diritto di farlo per primo, perché non hai generato prole”.

Gioacchino ed Anna erano sposi che si amavano veramente, ma non avevano figli e ormai data l’età non ne avrebbero più avuti; secondo la mentalità ebraica del tempo, il gran sacerdote scorgeva la maledizione divina su di loro, perciò erano sterili. L’anziano ricco pastore, per l’amore che portava alla sua sposa, non voleva trovarsi un’altra donna per avere un figlio;

pertanto addolorato dalle parole del gran sacerdote si recò nell’archivio delle dodici tribù di Israele per verificare se quel che diceva Ruben fosse vero e una volta constatato che tutti gli uomini pii ed osservanti avevano avuto figli, sconvolto non ebbe il coraggio di tornare a casa e si ritirò in una sua terra di montagna e per quaranta giorni e quaranta notti supplicò l’aiuto di Dio fra lacrime, preghiere e digiuni.

Anche Anna soffriva per questa sterilità, a ciò si aggiunse la sofferenza per questa ‘fuga’ del marito; quindi si mise in intensa preghiera chiedendo a Dio di esaudire la loro implorazione di avere un figlio. Durante la preghiera le apparve un angelo che le annunciò: “Anna, Anna, il Signore ha ascoltato la tua preghiera e tu concepirai e partorirai e si parlerà della tua prole in tutto il mondo”. Così avvenne e dopo alcuni mesi Anna partorì. Il “Protovangelo di san Giacomo” conclude: “Trascorsi i giorni necessari si purificò, diede la poppa alla bimba chiamandola Maria, ossia prediletta del Signore”.

L’iconografia orientale mette in risalto rendendolo celebre, l’incontro alla porta della città, di Anna e Gioacchino che ritorna dalla montagna, noto come “l’incontro alla porta aurea” di Gerusalemme; aurea perché dorata, di cui tuttavia non ci sono notizie storiche. I pii genitori, grati a Dio del dono ricevuto, crebbero con amore la piccola Maria, che a tre anni fu condotta al Tempio di Gerusalemme, per essere consacrata al servizio del tempio stesso, secondo la promessa fatta da entrambi, quando implorarono la grazia di un figlio.

Dopo Gioacchino non compare più nei testi, mentre invece Anna viene ancora menzionata in altri vangeli apocrifi successivi. Il culto di Gioacchino e di Anna si diffuse prima in Oriente e poi in Occidente (anche a seguito delle numerose reliquie portate dalle Crociate); la prima manifestazione del culto in Oriente, risale al tempo di Giustiniano, che fece costruire nel 550 ca. a Costantinopoli una chiesa in onore di Sant' Anna.

Qualunque sia il luogo e il tempo in cui Sant'Anna diede alla luce la Madre di Dio, un fatto è certo, che essa con il marito fu la stretta parente del Verbo Incarnato, la nonna. Il suo primo titolo di gloria perciò è di essere stata la Madre dell'Immacolata, sia pure in maniera inconscia. La sua santità, come quella di Gioacchino, è fuori discussione perché la Chiesa, sia orientale che occidentale, lo attestano. Insegna la teologia cattolica che, quando Iddio elegge qualcuno ad un ufficio, gli da anche la grazia efficace necessaria per adempierlo bene.

Quando La Vergine Maria giunse all'età di circa 12 anni, Gioacchino e Anna si preoccuparono di cercarle un fidanzato tra la loro parentela, secondo l'usanza giudaica. Rimanere vergine, morire senza l'affetto di un marito e l'orgoglio di un figlio era reputato da tutti una vera disgrazia. Maria ubbidì ai suoi genitori, fidente che Dio le avrebbe fatto incontrare un giovane disposto a rispettare per tutta la vita il suo voto di verginità. Non è improbabile quindi che Sant' Anna abbia avuto pure la felice sorte di stringere al suo seno il Figlio di Dio o di cantargli la ninna nanna.

Spiegava Benedetto XVI: "Un secondo spunto di riflessione ci viene dall’odierna memoria dei Santi Gioacchino e Anna, genitori della Madonna e, dunque, nonni di Gesù. Questa ricorrenza fa pensare al tema dell’educazione, che ha un posto tanto importante nella pastorale della Chiesa. In particolare, ci invita a pregare per i nonni, che nella famiglia sono i depositari e spesso i testimoni dei valori fondamentali della vita.

Il compito educativo dei nonni è sempre molto importante, e ancora di più lo diventa quando, per diverse ragioni, i genitori non sono in grado di assicurare un’adeguata presenza accanto ai figli, nell’età della crescita.

Affido alla protezione di Sant’Anna e San Gioacchino tutti i nonni del mondo, indirizzando ad essi una speciale benedizione. La Vergine Maria, che – secondo una bella iconografia – imparò a leggere le Sacre Scritture sulle ginocchia della madre Anna, li aiuti ad alimentare sempre la fede e la speranza alle fonti della Parola di Dio. (Angelus 26.7.2009)


qui il testo in video [SM=g1740722]

gloria.tv/video/jbM2oTeQD4Cr4JaDJUupidigL

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EDITORIALE
Il beato Charles de Foucauld
 

«Secondo la loro fede, i musulmani ritengono l’islam come la loro vera casa e i popoli non-musulmani come destinati a essere sopraffatti da loro o dai loro discendenti… La loro fede li assicura che usciranno vincitori da questo scontro con gli europei». Lo scriveva già un secolo fa il beato Charles de Foucauld. Una profezia.

di Charles de Foucauld

Forse nessun europeo è stato così vicino ai musulmani d’Africa come il beato Charles de Foucauld (1858-1916), che a loro ha dedicato la vita fino al martirio. A distanza di quasi cent’anni, una sua lettera a René Bazin, scritta due mesi prima della morte, suona come una vera profezia che fa riflettere. Eccola

 

Ritengo che se, lentamente, dolcemente, i musulmani del nostro impero coloniale del Nord Africa non si convertono, sorgerà un movimento nazionalista simile a quello della Turchia. Si formerà un’élite intellettuale nelle grandi città, educata in Francia, ma senza lo spirito né il cuore francese, un’élite che avrà perso la fede islamica, ma che ne conserverà il nome per influenzare attraverso di essa le masse. 

D’altra parte, la massa dei nomadi e dei contadini resterà ignorante e distante da noi, fermamente maomettana, portata all’odio e al disprezzo contro i francesi, contro la nostra religione, contro il nostro dominio, non sempre benevolo. Il sentimento nazionalista e barbaresco crescerà nell’élite colta. Quando troverà l’occasione, per esempio durante qualche situazione difficile per la Francia, interna o esterna, utilizzerà l’islam come una leva per sobillare le masse ignoranti e così cercare di creare un impero musulmano indipendente in Africa.

L’impero francese in Africa — Algeria, Marocco, Tunisia, Africa occidentale — ha 30 milioni di abitanti.Grazie alla pace, potrà averne il doppio in meno di cinquant’anni. Questa crescita demografica sarà accompagnata da un grande sviluppo materiale. I Paesi si arricchiranno, saranno solcati da ferrovie, popolati da persone agguerrite e addestrati all’uso dei nostri armamenti, guidati da un’élite educata nelle nostre scuole. O noi impariamo a fare i membri di questa élite dei francesi, oppure prima o poi ci cacceranno via. E l’unico modo per diventare francesi è diventare cristiani.

Non si tratta di convertirli in un giorno, né tanto meno con la forza, ma dolcemente, in silenzio, con la persuasione, l’esempio, la buona educazione e l’istruzione, attraverso un contatto stretto e affettuoso. Questo è un lavoro soprattutto per i laici, che possono avere con i musulmani dei contatti assai più numerosi e più intimi che non i preti.

I musulmani possono diventare dei veri francesi? Eccezionalmente sì, ma in generale no. Molti dogmi fondamentali dell’islam si oppongono ai nostri principi. Con alcuni, e penso ai musulmani liberali che hanno ormai perso la fede, ci sono accomodazioni possibili. Ma con altri, e mi riferisco a coloro che aspettano il Madhì, non v’è nessuna possibilità di accordo. Escludendo i liberali, i musulmani credono che, giungendo i tempi del Giudizio Universale, verrà il Madhì che proclamerà una guerra santa per stabilire l’islam su tutta la terra, dopo aver sterminato o soggiogato tutti i non-musulmani.

Secondo la loro fede, i musulmani ritengono l’islam come la loro vera casa e i popoli non-musulmanicome destinati a essere sopraffatti da loro o dai loro discendenti. Considerano la sottomissione a una nazione non-musulmana come una situazione transitoria. La loro fede li assicura che usciranno vincitori da questo scontro con gli europei che oggi li dominano. La saggezza consiglia loro di patire con calma questa prova: “Quando un uccello intrappolato si agita, perde le piume e si spezza le ali, invece se resta tranquillo sarà integro il giorno della liberazione”.

Loro possono preferire un Paese a un altro, come preferiscono la Francia alla Germania perché ciritengono più miti; possono intrecciare amicizie con tale o tal’altro francese; possono combattere con grande coraggio per la Francia, per sentimento o per onore; possono dimostrare spirito guerriero, fedeltà alla parola, come d’altronde i mercenari dei secoli XVI e XVII. Ma, di norma, esclusa qualche eccezione, finché saranno musulmani, non saranno dei veri francesi. Aspetteranno con più o meno pazienza il giorno del Madhì, quando allora attaccheranno la Francia.

Ecco perché sempre più musulmani algerini si mostrano così ansiosi di chiedere la cittadinanzafrancese. Come possono chiedere di far parte di un popolo straniero che sanno sarà irrimediabilmente sconfitto e sottomesso? Diventare francesi davvero, implicherebbe una sorta di apostasia, una rinuncia alla fede nel Madhì.

 

(Lettera del beato Charles de Foucauld a René Bazin, dell’Accademia Francese, 29 luglio 1916)








  Cari Amici,
con la riapertura del sito Cooperatores Veritatis desideriamo farvi un regalo in formato pdf.

La Santa Messa - Breve esposizione dogmatica di Padre Gabriele Maria Roschini, Presentazione di mons. B. Gherardini.

Con l'Ordinario della Messa - in latino e in italiano - al termine del libretto

Per le richieste in formato cartaceo, scrivere a:
Suore Francescane dell'Immacolata
Monastero delle Murate
06012 Città di Castello (PG) - tel.075/8555779
Casa Mariana Editrice, Frigento (AV)
e.mail: francescanecittacastello@interfree.it

CLICCA QUI PER SCARICARE IL PDF GRATUITAMENTE

 

CHI PREGA SI SALVA

Il libro di preghiere con l'introduzione di Joseph Ratzinger

di 30Giorni

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Presentazione

Da che l’uomo è uomo, prega. Sempre e ovunque l’uomo si è reso conto che non è solo al mondo, che c’è qualcuno che lo ascolta. Sempre si è reso conto che ha bisogno di un Altro più grande e che deve tendere a Lui perché la sua vita sia ciò che deve essere. Ma il volto di Dio è sempre stato velato e solo Gesù ci ha mostrato il Suo vero volto. Chi vede Lui vede il Padre (cfr. Gv 14, 9). Così, se da una parte all’uomo risulta naturale pregare (chiedere nel momento del bisogno e ringraziare nel momento della gioia), d’altra parte c’è sempre anche la nostra incapacità di pregare e di parlare a un Dio nascosto.  Non sappiamo cosa conviene domandare, dice san Paolo (cfr. Rm8, 26). Perciò dobbiamo sempre dire al Signore, come i discepoli: «Signore, insegnaci tu a pregare» (Lc 11, 1). Il Signore ci ha insegnato il Padre nostro come modello dell’autentica preghiera e ci ha donato una Madre, la Chiesa, che ci aiuta a pregare. La Chiesa ha ricevuto dalla Sacra Scrittura un grande tesoro di preghiere. Nel corso dei secoli sono salite, dai cuori dei fedeli, numerose preghiere con cui essi sempre di nuovo si indirizzano a Dio. Nel pregare con la Madre Chiesa noi stessi impariamo a pregare. Sono molto contento perciò che 30Giorni faccia una nuova edizione di questo piccolo libro contenente le preghiere fondamentali dei cristiani maturatesi nel corso dei secoli. Ci accompagnano lungo tutte le vicende della nostra vita e ci aiutano a celebrare la liturgia della Chiesa pregando. A questo piccolo libro auguro che possa diventare un compagno di viaggio per molti cristiani.       

Cardinal Joseph Ratzinger, Roma 18 febbraio 2005

Un sacerdote risponde

Come prepararsi alla morte e come disporre per i propri suffragi

Quesito

Caro Padre Angelo!
Da quando, or sono alcuni anni, ho sentito dire che la grazia della buona morte è una grazia straordinaria che Dio accorda in modo speciale, ho l’abitudine di rivolgere più volte al giorno al Cielo la bella preghiera dell’Anima Christi santifica me etc., quasi come facessi la comunione spirituale. Colà, infatti, è racchiusa la bella supplica a Dio per cui lo si prega di accoglierci in cielo al momento della nostra morte.
Io, infatti, vorrei andare in Paradiso ma so che, per quanto mi sforzi, le mie giornate si chiudono piene di imperfezioni, pure quando, coll’aiuto di Dio, mi riesce di scampare il peccato grave. Per questo, spesso, prego come le ho descritto sopra.
Ora vengo a un paio di domande.
1.  La morte mi può cogliere in ogni momento e mille sono le occasioni che ha per prendermi. Che valore, che merito può avere la mia morte improvvisa? Io spero e prego che Iddio mi conceda di essere cosciente mentre muoio (possibilmente sazio di giorni), sicché io possa offrire la mia morte e tutto quel che comporta per l’espiazione dei miei peccati e per il bene della Chiesa. So che non è un bell’offrire, visto che tanto devo morire per forza… Nel caso però che non abbia il tempo di pensare al fatto che sto morendo (un incidente, un colpo, etc.), come mi presenterò di là, con che merito?
2. Io viaggio spesso; e spesso visito le chiese. Mi capita di vedere qualche vecchia tomba in esse e mi soffermo a pregare per il defunto che vi riposa. Dal momento che il suffragio dei vivi molto aiuta le anime nel Purgatorio, che strategie mi suggerisce per accaparrarmi quante più preghiere, dopo che sarò morto? La gente va sempre meno nei cimiteri: ci si può far seppellire in chiesa o fare un contratto con qualche convento di clausura, per cui i frati o le monache recitino regolarmente preghiere in mio suffragio?
Mentre le domando una benedizione e le assicuro le mie preghiere, la saluta e abbraccia il suo
Andrea

PS
Le direi “mi risponda con tutto il comodo”, ma ciò suonerebbe ironico, avendo appena parlato di come la morte sa essere intempestiva….


Risposta del sacerdote

Caro Andrea,
1. mi compiaccio anzitutto per la recita della bella preghiera dell’Anima Christi santifica me che ripeti varie volte al giorno.
Mi auguro che qualche visitatore ti sappia imitare.

2. Guardando alla nostra morte ci viene quasi istintivo pensare che moriremo su un letto, circondati da persone che ci vogliono bene e che ci stringeranno la mano fino all’ultimo.
Ma sappiamo che tante volte non avviene così e che in alcuni casi la morte è così improvvisa che non si ha neanche il tempo di pensare a Dio e alla nostra eternità.
Penso che capiti a tutti di schivare diverse volte la morte per un pelo e che in quel frangente si è pensa a tutto eccetto che a Dio.

3. Pertanto conviene preparare per tempo quel momento nella speranza che il Signore tenga conto delle nostre volontà e delle nostre determinazioni nel medesimo modo in cui i nostri posteri terranno conto delle nostre volontà testamentarie.
Alcuni Santi hanno fatto così. Tra questi mi piace pensare a San Giuseppe Cafasso, direttore spirituale di don Bosco e definito come la gemma o la perla del clero italiano.

4. Trascrivo a beneficio tuo e dei nostri visitatori l’atto di accettazione della morte composto e recitato da questo Santo che morì all’età di 49 anni il 23 giugno 1960.
Grande Iddio, io accetto e adoro la sentenza di morte pronunziata sopra di me, e portandomi col pensiero sul mio letto di morte, voglio fare adesso per allora una ultima e solenne protesta di quei sentimenti ed affetti con cui intendo terminare la mia mortale carriera.
Siccome questo miserabile corpo fu la cagione per cui offesi tanto il caro mio Dio, così per sua punizione e castigo ne fo ben di cuore un totale sacrificio all'offeso mio Signore. Per quello che riguarda il tempo o le circostanze tutte della mia morte, io mi rassegno pienamente, ad esempio del mio Divin Redentore, a tutto ciò che il Padre Celeste avrà disposto di me.
Accetto quella morte qualunque che Iddio nei suoi decreti crederà migliore per me.
Per compiere la volontà sua, intendo accettare da Lui o per Lui tutti quegli spasimi e dolori, che sarà in voler suo che io soffra in quel punto.
Questa è la mia ferma e precisa volontà, con cui intendo vivere e morire in qualunque momento Iddio voglia disporre di me.
Io mi metto tra le mani della mia cara madre Maria, del mio buon Angelo Custode, di san Giuseppe, dei Santi miei protettori, quali tutti attendo sul punto di mia morte e pel viaggio alla mia eternità. Amen”.

5. Ho letto anche che san Giuseppe Cafasso lasciò nel testamento la disposizione che si facessero celebrare per lui al più presto 400 Messe di suffragio e che per ogni Messa si desse l’elemosina di 150 centesimi.
Inoltre lasciò la disposizione che nella sua parrocchia natale ogni sera si recitasse il Rosario per lui col canto delle litanie, la recita del De profundis per la sua anima e si elevasse una lode alla Madonna, lasciando 400 lire annue per chi svolgeva questo incarico.
Per noi oggi è impensabile il secondo tipo di suffragio di cui si provvide San Giuseppe Cafasso. Ma il primo sì, si può fare. Le Messe verranno sempre celebrate fino alla fine del mondo.
Penso che tra le disposizioni testamentarie più necessarie vi debbano essere anche quelle relative ai suffragi.
Il Cafasso, che era un santo, vi ha provvisto molto bene.
Ricordo ancora che si può provvedere al proprio suffragio attraverso opere di carità. Il Cafasso volle che dopo la sua morte venisse data una lira a ogni carcerato. Era infatti anche confessore dei carcerati.
Anche oggi vi sono persone che lasciano in beneficenza a conventi e monasteri alcune somme perché si facciano i dovuti suffragi.
Oggi invece non è più possibile farsi seppellire in Chiesa. Viene concesso solo ai vescovi.

5. Tu sei ancora molto giovane. Ma non è mai sbagliato provvedere per tempo almeno con le parole di provvedere ai suffragi dopo la propria morte.

Ti auguro ogni bene per il tuo soggiorno permanente in Vienna, ti ricordo al Signore e ti benedico.
Padre Angelo


     


[Modificato da Caterina63 19/08/2016 18:00]
Fraternamente CaterinaLD

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Danilo Quinto. Se si fa il contrario di quello che faceva Gesù.....


 




Accanto a Gesù, che sceglie di affrontare il martirio sulla Croce, ci sono due persone, nella stessa situazione. La prima Lo insulta e bestemmia. La seconda, si pente dei suoi peccati. Così, il buon ladrone si salva, «si aggrappa all’unica speranza che gli era rimasta», scrive Giuseppe Ricciotti e riceve più di quanto ha chiesto. Il buon ladrone soffre sulla croce, ma al contrario dall’altro, non si dispera. Condivide la Croce di Cristo e sa, dopo le parole che gli sono state rivolte, che quella Croce lo condurrà in Paradiso. Sembra che, con la mano destra, voglia impedire che la lancia del soldato romano colpisca Cristo, mentre, con la sinistra, si aggrappa a chi lo ha salvato.

 

Se non si considera il pentimento e non gli si dà il giusto valore - si abolisce anche il peccato, che è una scelta cosciente. Un atto di volontà egoistico - che si contrappone a Dio, alla Sua legge e quindi alla Verità, quella che Gesù ha rivelato - che si rivolge anche contro il prossimo e contro se stessi. È il pentimento dei propri peccati, la via attraverso la quale si può ricevere la misericordia di Dio e, quindi, la salvezza. Dare per sottintesa la questione del pentimento, significa non considerare che alla fine dei tempi la porta sarà comunque stretta per coloro che su questa terra avranno negato Dio. «Non posso più trattenere a lungo il braccio della giustizia di mio figlio, che è già troppo pesante», disse la Santa Vergine a Fatima. Nel Vangelo, la questione del pentimento è sempre presente negli incontri che Gesù ha con le persone. Sono incontri rivolti solo a questo: alla conversione del peccatore e alla sua salvezza. A null’altro.


 

È la storia di San Matteo – l’esattore dei tributi per conto dei Romani, un ufficio odiato, ma anche ambito per la facilità con cui ci si arricchiva nel svolgerlo - così descritta da Beda il Venerabile: «Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: "Seguimi" (Mt 9, 9). Vide non tanto con lo sguardo degli occhi del corpo, quanto con quello della bontà interiore. Vide un pubblicano e, siccome lo guardò con sentimento di amore e lo scelse, gli disse: "Seguimi". Gli disse "Seguimi", cioè imitami. Seguimi, disse, non tanto col movimento dei piedi quanto con la pratica della vita. Infatti "chi dice di dimorare in Cristo, deve comportarsi come lui si è comportato" (1 Gv 2, 6). "Ed egli si alzò, prosegue, e lo seguì " (Mt 9, 9). Gesù lo guardò con sentimento di pietà e lo scelse. Non c'è da meravigliarsi che un pubblicano alla prima parola del Signore, che lo invitava, abbia abbandonato i guadagni della terra che gli stavano a cuore e, lasciate le ricchezze, abbia accettato di seguire colui che vedeva non avere ricchezza alcuna. Infatti lo stesso Signore che lo chiamò esternamente con la parola, lo istruì all'interno con un'invisibile spinta a seguirlo. Infuse nella sua mente la luce della grazia spirituale con cui potesse comprendere come colui che sulla terra lo strappava alle cose temporali, era capace di dargli in cielo tesori incorruttibili».

 

È la storia di Zaccheo: «Entrato in Gerico, Gesù attraversava la città. Ed ecco un uomo, chiamato Zaccheo, che era sovrintendente degli esattori del fisco e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non ci riusciva a causa della folla perché era piccolo di statura. Corse dunque avanti e per poterlo vedere salì sopra un sicomoro, perché doveva passare di là. Quando Gesù arrivò sul posto, alzò lo sguaïrdo, e gli disse: Zaccheo, presto, vieni giù perché oggi debbo fermarmi a casa tua. Egli discese in fretta e lo accolse con gioia in casa. E tutti, vedendo ciò, incominciarono a mormorare dicendo: È andato ad alloggiare in casa di un peccatore. Ma Zaccheo, fattosi avanti, disse al Signore: Ecco, Signore, la metà dei miei beni la dono ai poveri, e a quelli che ho frodato restituisco il quadruplo. Disse allora Gesù a lui: Oggi in questa casa è entrata la salvezza, perché anche lui è figlio di Abramo. Il Figlio dell'uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (Lu, 19,1-10). È immediata la risposta di Zaccheo al dono della Grazia: dichiara di essere in peccato (dice di aver frodato), si pente e vuole riparare, sanando l’ingiustizia che ha commesso.

 

È la storia dell’adultera: «Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro. Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: "Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?". Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia, poiché insistevano nell'interrogarlo, si alzò e disse loro: "Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei". E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: "Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?". Ed ella rispose: "Nessuno, Signore". E Gesù disse: "Neanch'io ti condanno; va' e d'ora in poi non peccare più"» (Gv 8,1-11). Gesù - che viene messo alla prova da persone che, in forza di quel che prevede la legge per una persona che si macchia di adulterio, intendono lapidarla - insegna che se si può giudicare il peccato, non si può esprimere un giudizio sulla persona che pecca, perché il giudizio spetta a Dio; libera la donna dalle sue colpe e la perdona, dopo che lei l’ha riconosciuto come Signore, che è un titolo messianico; chiama ancora peccato il comportamento che la donna ha commesso, non ne minimizza le conseguenze e la invita a non peccare più.

 

È la storia della donna cananea (Mt.15,21-28). La commenta così Beda il Venerabile: «Il Vangelo offre alla nostra considerazione la grande fede, la sapienza, la perseveranza e l’umiltà della Cananea. Questa donna era dotata di una pazienza non comune. Alla sua prima richiesta, il Signore non risponde nulla (Mt 15,23). Ciò nonostante, continua a implorare con insistenza il soccorso della sua bontà... O donna, grande è la tua fede; ti sia fatto come desideri (Mt 15,28). Sì, possiede una grande fede. Pur non conoscendo né gli antichi profeti né i recenti miracoli del Signore, né i suoi comandamenti e le sue promesse, e in più respinta da lui, ella persevera nella sua richiesta, non smette di insistere con colui che la fama gli aveva indicato come il Salvatore. E così la sua preghiera viene esaudita in modo strepitoso. Il Signore le dice: Ti sia fatto come desideri; e in quel momento la figlia della donna guarì. Quando qualcuno ha la coscienza macchiata dall’egoismo, dall’orgoglio, dalla vanagloria, dalla collera, dalla gelosia o da qualche altro vizio, ha, come quella Cananea, una figlia crudelmente tormentata da un demonio (Mt 15,22).

Corra perciò a supplicare il Signore di guarirla... e lo faccia con umile sottomissione; non si giudichi degno di partecipare alla sorte delle pecorelle d’Israele, delle anime pure, e si consideri indegno della ricompensa del cielo. La disperazione tuttavia non lo spinga a desistere dalla preghiera, ma abbia una fiducia incrollabile nell’immensa bontà del Signore. Colui che ha potuto trasformare un ladrone in un confessore della fede, un persecutore in apostolo e semplici pietre in figli di Abramo, sarà anche capace di trasformare un cagnolino in una pecorella d’Israele... Vedendo l’ardore della nostra fede e la tenacità della nostra perseveranza nella preghiera, il Signore finirà per aver pietà di noi e ci accorderà quello che desideriamo. Una volta messa da parte l’agitazione dei nostri cattivi sentimenti e sciolti i nodi dei nostri peccati, la serenità di spirito tornerà in noi unitamente alla possibilità di agire correttamente. Se, nell’esempio della Cananea, persevereremo nella preghiera con fede incrollabile, la grazia del nostro Creatore verrà in noi, correggerà in noi tutti gli errori, santificherà tutto ciò che è impuro, pacificherà ogni agitazione. Il Signore infatti è fedele e giusto; egli perdonerà i nostri peccati e ci purificherà da ogni bruttura se grideremo a lui con la voce implorante del nostro cuore».
 
È la storia della peccatrice che non ha nome. Dice Gesù: «Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco» (Lu 8, 47). L’uomo non può meritare il perdono dei peccati, perché essendo Dio l’offeso, la loro gravità non ha limiti. È necessario, quindi, il sacramento della Penitenza, col quale Dio rimette i peccati per i meriti di Suo Figlio. Una sola condizione è richiesta per ottenere il perdono: il nostro amore, il nostro pentimento, che è la prova che amiamo Dio. Ma è Dio colui che per primo ci ha amato (Gv 4,10). Quando Dio ci perdona, manifesta il suo amore per noi. Il nostro amore a Lui, di conseguenza, è sempre un amore di contraccambio, perché viene dopo il Suo.
 
È la straordinaria storia della conversione della samaritana (Gv 4, 1-42). Gesù, che sulla Croce dirà «Ho sete», rivolge alla samaritana le parole «Dammi da bere». La Sua non è un’esigenza solo fisiologica, ma spirituale: ha sete di salvare le anime. Per questo dona la Sua vita sulla Croce e per questo agisce con la Grazia – l’acqua viva - nei confronti di questa donna, che diventa disponibile a conversare con Lui, che era giudeo, gli confida i suoi sentimenti religiosi (cita Giacobbe), gli chiede l’acqua che non dà più sete, riconosce in Gesù – che conosce i suoi sentimenti e la sua vita – un profeta e dà inizio alla sua conversione, riconosce i propri peccati e infine accoglie la dottrina vera: adorare il Padre in spirito e verità. È, come dice Dante (1265-1321), «La sete natural che mai non sazia se non con l’acqua onde la femminetta samaritana domandò la grazia» (Purg., canto XXI, 1).
 
Incontrando venti prostitute salvate dalla Comunità fondata da Don Oreste Benzi, il Papa ha affermato: «Oggi a tutti voi io chiedo perdono per tutti i cristiani, i cattolici che hanno abusato di voi e anche perdono da parte mia di non aver pregato tanto per voi e per questa schiavitù». Gesù non era un dispensatore di misericordia. Incontrava le persone per convertirle e dava il Suo perdono solo quando queste si pentivano dei loro peccati. Con la sua inaudita avversione a predicare, per il bene del popolo di Dio e per la sua salvezza, la conversione, il Papa mostra di non comprendere il suo primario dovere e il fondamento del suo mandato, che rinuncia a praticare. È questo il dramma che vive la Chiesa fondata da Gesù, che in questo momento sta concorrendo a condannare per l’eternità le anime a lei affidate.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE
Castel Gandolfo
Mercoledì, 29 agosto 2012


Il martirio di San Giovanni Battista

Cari fratelli e sorelle,

in quest’ultimo mercoledì del mese di agosto, ricorre la memoria liturgica del martirio di san Giovanni Battista, il precursore di Gesù. Nel Calendario Romano, è l’unico Santo del quale si celebra sia la nascita, il 24 giugno, sia la morte avvenuta attraverso il martirio. Quella odierna è una memoria che risale alla dedicazione di una cripta di Sebaste, in Samaria, dove, già a metà del secolo IV, si venerava il suo capo. Il culto si estese poi a Gerusalemme, nelle Chiese d’Oriente e a Roma, col titolo di Decollazione di san Giovanni Battista. Nel Martirologio Romano, si fa riferimento ad un secondo ritrovamento della preziosa reliquia, trasportata, per l’occasione, nella chiesa di S. Silvestro a Campo Marzio, in Roma.

Questi piccoli riferimenti storici ci aiutano a capire quanto antica e profonda sia la venerazione di san Giovanni Battista. Nei Vangeli risalta molto bene il suo ruolo in riferimento a Gesù. In particolare, san Luca ne racconta la nascita, la vita nel deserto, la predicazione, e san Marco ci parla della sua drammatica morte nel Vangelo di oggi. Giovanni Battista inizia la sua predicazione sotto l’imperatore Tiberio, nel 27-28 d.C., e il chiaro invito che rivolge alla gente accorsa per ascoltarlo, è quello a preparare la via per accogliere il Signore, a raddrizzare le strade storte della propria vita attraverso una radicale conversione del cuore (cfr Lc 3, 4). Però il Battista non si limita a predicare la penitenza, la conversione, ma, riconoscendo Gesù come «l’Agnello di Dio» venuto a togliere il peccato del mondo (Gv 1, 29), ha la profonda umiltà di mostrare in Gesù il vero Inviato di Dio, facendosi da parte perché Cristo possa crescere, essere ascoltato e seguito. Come ultimo atto, il Battista testimonia con il sangue la sua fedeltà ai comandamenti di Dio, senza cedere o indietreggiare, compiendo fino in fondo la sua missione. San Beda, monaco del IX secolo, nelle sue Omelie dice così: San Giovanni Per [Cristo] diede la sua vita, anche se non gli fu ingiunto di rinnegare Gesù Cristo, gli fu ingiunto solo di tacere la verità. (cfr Om. 23: CCL 122, 354). E non taceva la verità e così morì per Cristo che è la Verità. Proprio per l’amore alla verità, non scese a compromessi e non ebbe timore di rivolgere parole forti a chi aveva smarrito la strada di Dio.

Noi vediamo questa grande figura, questa forza nella passione, nella resistenza contro i potenti. Domandiamo: da dove nasce questa vita, questa interiorità così forte, così retta, così coerente, spesa in modo così totale per Dio e preparare la strada a Gesù? La risposta è semplice: dal rapporto con Dio, dalla preghiera, che è il filo conduttore di tutta la sua esistenza. Giovanni è il dono divino lungamente invocato dai suoi genitori, Zaccaria ed Elisabetta (cfr Lc 1,13); un dono grande, umanamente insperabile, perché entrambi erano avanti negli anni ed Elisabetta era sterile (cfr Lc 1,7); ma nulla è impossibile a Dio (cfr Lc 1,36). L’annuncio di questa nascita avviene proprio nel luogo della preghiera, al tempio di Gerusalemme, anzi avviene quando a Zaccaria tocca il grande privilegio di entrare nel luogo più sacro del tempio per fare l’offerta dell’incenso al Signore (cfr Lc 1,8-20).

Anche la nascita del Battista è segnata dalla preghiera: il canto di gioia, di lode e di ringraziamento che Zaccaria eleva al Signore e che recitiamo ogni mattina nelle Lodi, il «Benedictus», esalta l’azione di Dio nella storia e indica profeticamente la missione del figlio Giovanni: precedere il Figlio di Dio fattosi carne per preparargli le strade (cfr Lc 1,67-79). L’esistenza intera del Precursore di Gesù è alimentata dal rapporto con Dio, in particolare il periodo trascorso in regioni deserte (cfr Lc 1,80); le regioni deserte che sono luogo della tentazione, ma anche luogo in cui l’uomo sente la propria povertà perché privo di appoggi e sicurezze materiali, e comprende come l’unico punto di riferimento solido rimane Dio stesso. Ma Giovanni Battista non è solo uomo di preghiera, del contatto permanente con Dio, ma anche una guida a questo rapporto. L’Evangelista Luca riportando la preghiera che Gesù insegna ai discepoli, il «Padre nostro», annota che la richiesta viene formulata dai discepoli con queste parole: «Signore insegnaci a pregare, come Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli» (cfr Lc 11,1).

Cari fratelli e sorelle, celebrare il martirio di san Giovanni Battista ricorda anche a noi, cristiani di questo nostro tempo, che non si può scendere a compromessi con l’amore a Cristo, alla sua Parola, alla Verità.

La Verità è Verità, non ci sono compromessi. La vita cristiana esige, per così dire, il «martirio» della fedeltà quotidiana al Vangelo, il coraggio cioè di lasciare che Cristo cresca in noi e sia Cristo ad orientare il nostro pensiero e le nostre azioni. Ma questo può avvenire nella nostra vita solo se è solido il rapporto con Dio.
La preghiera non è tempo perso, non è rubare spazio alle attività, anche a quelle apostoliche, ma è esattamente il contrario: solo se se siamo capaci di avere una vita di preghiera fedele, costante, fiduciosa, sarà Dio stesso a darci capacità e forza per vivere in modo felice e sereno, superare le difficoltà e testimoniarlo con coraggio. San Giovanni Battista interceda per noi, affinché sappiamo conservare sempre il primato di Dio nella nostra vita. Grazie.


Saluti:


Un pensiero infine per i giovani, gli ammalati e gli sposi novelli. La radicalità della fede e della vita di San Giovanni Battista ispiri il vostro essere credenti: cari giovani, manifestate apertamente in tutti i contesti la vostra appartenenza a Cristo e alla sua Chiesa; cari ammalati, attingete alla forza della preghiera per lenire le vostre sofferenze; e voi, cari sposi novelli, ponete sempre il Signore Gesù al centro della vostra vita familiare. Grazie a tutti voi. Una buona giornata. Grazie.

gloria.tv/video/bu1CtPqQfRyrKrJxdzJMBfuaX





[SM=g1740733]



[SM=g1740733] Nel 1987 san Giovanni Paolo II fece visita a San Michele Arcangelo presso il Santuario sul Gargano a lui dedicato.

Vogliamo umilmente riproporre alla vostra attenzione sia il Discorso che fece, improntato sul ruolo di San Michele e sul ruolo del Demonio, la nostra battaglia o con Dio insieme a San Michele, o contro Dio, cedendo alle lusinghe di Satana; sia la famosa Preghiera a San Michele composta da Papa Leone XIII, dopo che in una visione vide i demoni invadere la Chiesa e muoverle contro una cruenta battaglia.... e che si recitava al termine della Messa in ginocchio ai piedi dell'altare insieme al sacerdote. Vale davvero la pena di riscoprire queste perle preziose, e come l'aver ritrovato un "tesoro nel campo", prendercene cura per l'edificazione della nostra vita e di quella del nostro prossimo.

www.youtube.com/watch?v=Mn2kI11s6OY

gloria.tv/video/6K3PVfjDFVb6VKByRwhaauhDP

Movimento Domenicano del Rosario
www.sulrosario.org
info@sulrosario.org






[SM=g1740738] [SM=g1740750] [SM=g1740752]


[Modificato da Caterina63 01/09/2016 23:27]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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12/09/2016 20:37
 
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COME   E   PERCHÉ   PREGARE


        L'argomento meriterebbe assai più spazio, ma confidiamo nel Signore affinché sia Lui a parlarvi attraverso questa breve analisi.  Innanzitutto poniamo alcune domande:




Ti senti completo spiritualmente?


Lo sei veramente o pensi di esserlo?


Pensi forse di saperti completare da te stesso?


Riesci da solo a soddisfare la fame dello spirito, fame di pace, serenità e gioia?


Sai conquistare da solo il superamento dell'ansia interiore?


Sai rispondere da solo a quelle domante esistenziali che a volte assillano il cuore:


perché vivo, perché devo morire, perché la sofferenza?




       Se non sai rispondere, o non sei sicuro delle tue risposte, devi solo pregare, perché pregare significa andare alla   ricerca di Dio.


       Pregalo anche con il cuore, lasciando libera la tua anima di completarsi in Lui, che è fuoco divorante che consuma. In questa condizione la creatura conosce il volto del Creatore e il Suo Amore infinito.


      A volte, quando ci troviamo stretti dalla necessità, la preghiera diventa pressante. Allora siamo disposti a gridare: Signore, Figlio di Davide, abbi pietà di me!" (Mt. 15,27).


       Spesso, egoisticamente, siamo noi a decidere le nostre azioni ed i nostri comportamenti configurandoli alle nostre necessità, poi, siccome "siamo religiosi", preghiamo:"Signore, ti prego, fai andare le cose come ho deciso io". Dio è lì per servirci e non ci preoccupiamo minimamente di chiedere anche il suo parere.


        La preghiera richiede necessariamente una disposizione, un atteggiamento fondamentale: la fede, o meglio ancora, quelle realtà divine e umane insieme che la Tradizione cristiana ha chiamato "virtù teologali"; fede, speranza e carità.


        Per questo motivo San Francesco, davanti al Crocifisso, pregava chiedendo, "fede retta, speranza certa, carità perfetta, umiltà profonda, sapienza e discernimento" per osservare il suo santo e verace comandamento.


        Prima formula di preghiera, fra tutte, è il "Padre Nostro", via maestra per alimentare e far crescere la nostra fede, speranza e carità, il rapporto con Dio Padre.


        Ci sono infiniti modi di pregare. Il Vangelo ce ne insegna molti, e altri ancora i Beati e i Santi.


Santa Teresa d'Avila nel "Castello interiore" immagina l'anima come un castello da composto da sette ordini di stanze: queste stanze devono essere attraversate per raggiungere quella centrale, dove dimora Dio.



"Una volta entrati nelle prime stanze, dice Santa Teresa, troviamo molti animaletti molesti che tentano di ostacolarci: le passioni e gli idoli che non vogliono lasciarci procedere verso quella centrale. Sanno che se vi riusciremo loro moriranno". E allora, contro questi animaletti preghiamo come il salmista: "A te, o Signore, elevo l'anima mia. Dio mio, in te confido, non sia confusa! Non trionfino su di me i miei nemici". (Sal. 25).


Nelle seconde stanze, sempre Santa Teresa dice, che Dio comincia a manifestarsi indirettamente tramite le buone letture, le liturgie e i sacramenti. Allora noi preghiamo come Pietro: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente!" (Mt. Cap. 16).


Nelle terze stanze incontriamo il deserto, la prova che Dio ci chiede quando, pur essendo all'inizio del cammino, cominciamo a sentirci troppo sicuri di noi stessi e pensiamo di poter fare da soli. Allora preghiamo come San Francesco per ottenere l'umiltà: "Chi sei tu dolcissimo Iddio mio … Chi sono io vilissimo verme, disutile servo tuo ….".


Quando ci si trova nelle quarte stanze non si ha più bisogno di consigli.


Nelle quinte stanze l'anima viene guidata da Dio, ed il suo sguardo la scioglie come cera.


Nelle seste stanze l'anima si fidanza con Dio, e nelle settime avviene il matrimonio dell'anima con Dio. In queste stanze puoi pregare come Maria: L'Anima mia magnifica il Signore"(Leggi e medita il brano, dal Vangelo di Luca: 1,46-55).


Come pregare? Due consigli, il primo ce lo dà il Vangelo: - Quando preghi, entra nella tua camera e chiudi la porta, prega il Padre nel tuo segreto". Il secondo: prima di pregare, invoca lo Spirito Santo affinché ti suggerisca la preghiera più giusta, con San Paolo: ".. nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili, e Colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, perché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio". (Rm. 8,26-27).




Luca : 1,46-55  -   Cantico della Beata Vergine Maria 
MAGNIFICAT

Maria  visita  Santa  Elisabetta

......

Maria ed  S.Elisabetta.jpg (16496 byte)

 

Allora Maria disse:
"L'anima mia magnifica il Signore
     e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
perché ha guardato l'umiltà della sua serva.
    D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente
     e santo è il suo nome:
di generazione in generazione la sua misericordia
     si stende su quelli che lo temono.
Ha spiegato la potenza del suo braccio,
     ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni,
     ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati,
     ha rimandato i ricchi a mani vuote.
Ha soccorso Israele, suo servo,
     ricordandosi della sua misericordia,
come aveva promesso ai nostri padri,
     ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre."




Fraternamente CaterinaLD

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04/10/2016 22:53
 
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Preghiere per trovare lavoro o per benedire il proprio lavoro



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Preghiera per trovare lavoro

Signore ti lodo e ti ringrazio per la tua bontà.
Credo che tu pensi a me e che anche “i miei capelli sono tutti contati”.
Grazie perchè Tu sei Provvidenza.
Tu lo sai, Signore che anch’io ti amo e ti affido la mia vita.
E’ vero che mi hai detto di non preoccuparmi della mia vita (MT 6,25).
Però Tu vedi bene che ho bisogno di tutto questo.
Non ho lavoro e Tu che hai fatto il falegname, puoi conoscere
l’angoscia di chi non ha lavoro.
Tu sei, Signore, il mio datore di lavoro,
Tu sei Colui che può darmi abbondanza e prosperità.
E’ per questo che ho fiducia in Te, perchè sei il padrone della vigna.
Grazie, Signore, perchè sono sicuro che mi troverai un lavoro
là dove la tua provvidenza ha previsto.
Ti ringrazio Signore, perchè con Te posso riuscire nella vita.
Benedicimi Signore. Amen.

Preghiera per il lavoro

Gesù, che, pur essendo il padrone dell’Universo,
hai voluto assoggettarti alla legge del lavoro,
guadagnandoti il pane col sudore della tua fronte,
noi ti riconosciamo e ti proclamiamo
nostro modello e Redentore del lavoro.

Benedici, o divino operaio di Nazareth,
la nostra quotidiana fatica,
che ti offriamo come sacrificio
di espiazione e di propiziazione.

Benedici il sudore della nostra fronte,
affinché ci procuri un pane sufficiente
per noi e per le nostre famiglie.

E concedi che sul mondo del lavoro,
travagliato da tante incertezze e difficoltà,
risplenda sempre la Tua provvida benedizione,
e fa che tutti possano ottenere
e conservare un onesto e dignitoso lavoro.
Amen.


     


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FERMATEVI A LEGGERE SE AVETE DUE MINUTI

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“Un giorno qualsiasi, durante la cena, trovai il coraggio, e chiesi a mia moglie il divorzio. Le cose non andavano poi così bene tra di noi, e la routine aveva preso il sopravvento. Lei mi chiese il perché, ma io non risposi, e la sentii piangere tutta la notte.

Il giorno dopo le presentai la mia offerta: le lasciavo la casa, la macchina, e il 20% del negozio.
Lei mi guardò, con gli occhi gonfi di lacrime, e strappò via tutto. Rimasi di stucco. Cosa vuoi? Le chiesi. Lei all’inizio non rispose, poi me lo disse: voglio un mese di preavviso. Ricordi la prima notte di nozze quando in braccio mi portasti dentro casa? Certo, risposi. Bene, voglio che per un mese, a partire da oggi, mi porti fuori dal letto e fuori dalla porta in braccio. Ero esterrefatto, ma accettai.
La prima mattina fu strano, risentire questo contatto, mi sentivo goffo, ma la riuscii a portare giù, fino a fuori. E così di mattina in mattina, con nostro figlio dietro a guardarci, felice e sorridente.
Una mattina venne lui a chiedermelo “papà, è il momento di prendere in braccio la mamma”
era felice, vedeva in questo gesto come una sorta di fiaba con protagonisti i suoi genitori.

Mi abituai da subito, pensando come mi risultasse sempre più leggera da tenere in braccio.
Notai le sue rughe, qualche capello bianco. Quella donna mi aveva dedicato la sua giovinezza,e io la stavo ripagando con un divorzio.

Capii di amarla ancora, così l’ultimo giorno del fatidico “mese”, decisi di tornare a casa con un mazzo di fiori con un bigliettino con su scritto “ti prenderò in braccio tutti i giorni della mia vita”.. ma al ritorno scoprii la triste verità.

Mia moglie a casa non c’era, era in ospedale in coma… stava lottando contro il cancro, senza dirmi nulla.. e voleva che a nostro figlio rimanesse il ricordo di un padre innamorato della madre.
Lei sapeva bene cosa conta davvero in una famiglia, e non sono certo i soldi, o le auto, o le case..
Non diamo mai il giusto valore alle cose finché non lo perdiamo.”







SANTA MESSA E CANONIZZAZIONE DEI BEATI

Salomone Leclercq, Giuseppe Sánchez del Río, Manuel González García, Lodovico Pavoni, Alfonso Maria Fusco, 
Giuseppe Gabriele del Rosario Brochero, Elisabetta della Santissima Trinità Catez

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Piazza San Pietro
Domenica, 16 ottobre 2016

QUI PER IL VIDEO


 

All’inizio dell’odierna celebrazione abbiamo rivolto al Signore questa preghiera: «Crea in noi un cuore generoso e fedele, perché possiamo sempre servirti con lealtà e purezza di spirito» (Orazione Colletta).

Noi, da soli, non siamo in grado di formarci un cuore così, solo Dio può farlo, e perciò lo chiediamo nella preghiera, lo invochiamo da Lui come dono, come sua “creazione”. In questo modo siamo introdotti nel tema della preghiera, che è al centro delle Letture bibliche di questa domenica e che interpella anche noi, qui radunati per la canonizzazione di alcuni nuovi Santi e Sante. Essi hanno raggiunto la meta, hanno avuto un cuore generoso e fedele, grazie alla preghiera: hanno pregato con tutte le forze, hanno lottato, e hanno vinto.

Pregare, dunque. Come Mosè, il quale è stato soprattutto uomo di Dio, uomo di preghiera. Lo vediamo oggi nell’episodio della battaglia contro Amalek, in piedi sul colle con le braccia alzate; ma ogni tanto, per il peso, le braccia gli cadevano, e in quei momenti il popolo aveva la peggio; allora Aronne e Cur fecero sedere Mosè su una pietra e sostenevano le sue braccia alzate, fino alla vittoria finale.

Questo è lo stile di vita spirituale che ci chiede la Chiesa: non per vincere la guerra, ma per vincere la pace!

Nell’episodio di Mosè c’è un messaggio importante: l’impegno della preghiera richiede di sostenerci l’un l’altro. La stanchezza è inevitabile, a volte non ce la facciamo più, ma con il sostegno dei fratelli la nostra preghiera può andare avanti, finché il Signore porti a termine la sua opera.

San Paolo, scrivendo al suo discepolo e collaboratore Timoteo, gli raccomanda di rimanere saldo in quello che ha imparato e in cui crede fermamente (cfr 2 Tm 3,14). Tuttavia anche Timoteo non poteva farcela da solo: non si vince la “battaglia” della perseveranza senza la preghiera. Ma non una preghiera sporadica, altalenante, bensì fatta come Gesù insegna nel Vangelo di oggi: «pregare sempre, senza stancarsi mai» (Lc 18,1). Questo è il modo di agire cristiano: essere saldi nella preghiera per rimaneresaldi nella fede e nella testimonianza. Ed ecco di nuovo una voce dentro di noi: “Ma Signore, com’è possibile non stancarsi? Siamo esseri umani… anche Mosè si è stancato!...”. E’ vero, ognuno di noi si stanca. Ma non siamo soli, facciamo parte di un Corpo! Siamo membra del Corpo di Cristo, la Chiesa, le cui braccia sono alzate giorno e notte al Cielo grazie alla presenza di Cristo Risorto e del suo Santo Spirito. E solo nella Chiesa e grazie alla preghiera della Chiesa noi possiamo rimanere saldi nella fede e nella testimonianza.

Abbiamo ascoltato la promessa di Gesù nel Vangelo: Dio farà giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui (cfr Lc18,7). Ecco il mistero della preghiera: gridare, non stancarsi, e, se ti stanchi, chiedere aiuto per tenere le mani alzate. Questa è la preghiera che Gesù ci ha rivelato e ci ha donato nello Spirito Santo. Pregare non è rifugiarsi in un mondo ideale, non è evadere in una falsa quiete egoistica. Al contrario, pregare è lottare, e lasciare che anche lo Spirito Santo preghi in noi. E’ lo Spirito Santo che ci insegna a pregare, che ci guida nella preghiera, che ci fa pregare come figli.

I santi sono uomini e donne che entrano fino in fondo nel mistero della preghiera. Uomini e donne che lottano con la preghiera, lasciando pregare e lottare in loro lo Spirito Santo; lottano fino alla fine, con tutte le loro forze, e vincono, ma non da soli: il Signore vince in loro e con loro. Anche questi sette testimoni che oggi sono stati canonizzati, hanno combattuto la buona battaglia della fede e dell’amore con la preghiera. Per questo sono rimasti saldi nella fede, con il cuore generoso e fedele. Per il loro esempio e la loro intercessione, Dio conceda anche a noi di essere uomini e donne di preghiera; di gridare giorno e notte a Dio, senza stancarci; di lasciare che lo Spirito Santo preghi in noi, e di pregare sostenendoci a vicenda per rimanere con le braccia alzate, finché vinca la Divina Misericordia.





Il giuramento di Ippocrate da un manoscritto bizantino dell'XI secolo
Biblioteca Vaticana•

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-Il Giuramento di Ippocrate viene prestato dai medici-chirurghi e odontoiatri prima di iniziare la professione. Prende il nome da Ippocrate a cui il giuramento è attribuito; la data di composizione non è definita, ma pare certo non preceda il IV secolo a.C.

« Giuro per Apollo medico e Asclepio e Igea e Panacea e per tutti gli dei e per tutte le dee, chiamandoli a testimoni, che eseguirò, secondo le forze e il mio giudizio, questo giuramento e questo impegno scritto:
di stimare il mio maestro di questa arte come mio padre e di vivere insieme a lui e di soccorrerlo se ha bisogno e che considererò i suoi figli come fratelli e insegnerò quest'arte, se essi desiderano apprenderla, senza richiedere compensi né patti scritti; di rendere partecipi dei precetti e degli insegnamenti orali e di ogni altra dottrina i miei figli e i figli del mio maestro e gli allievi legati da un contratto e vincolati dal giuramento del medico, ma nessun altro.
Regolerò il tenore di vita per il bene dei malati secondo le mie forze e il mio giudizio; mi asterrò dal recar danno e offesa.
Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio; similmente a nessuna donna io darò un medicinale abortivo.
Con innocenza e purezza io custodirò la mia vita e la mia arte.
Non opererò coloro che soffrono del male della pietra, ma mi rivolgerò a coloro che sono esperti di questa attività.
In qualsiasi casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati, e mi asterrò da ogni offesa e danno volontario, e fra l'altro da ogni azione corruttrice sul corpo delle donne e degli uomini, liberi e schiavi.
Ciò che io possa vedere o sentire durante il mio esercizio o anche fuori dell'esercizio sulla vita degli uomini, tacerò ciò che non è necessario sia divulgato, ritenendo come un segreto cose simili.
E a me, dunque, che adempio un tale giuramento e non lo calpesto, sia concesso di godere della vita e dell'arte, onorato degli uomini tutti per sempre; mi accada il contrario se lo violo e se spergiuro. »




[Modificato da Caterina63 17/11/2016 17:38]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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DISCORSO DI SUA SANTITÀ PIO PP. XII 
AGLI UOMINI DI AZIONE CATTOLICA 
NEL XXX° DELLA LORO UNIONE*

 Domenica, 12 ottobre 1952


 

Nel contemplare questa magnifica adunanza di Uomini di Azione Cattolica, la prima parola che viene alle Nostre labbra é di ringraziamento a Dio per averCi fatto dono di un così grandioso e devoto spettacolo; poi, di riconoscenza a voi, diletti figli, per averlo voluto attuare dinanzi al Nostro sguardo esultante.

Noi ben sappiamo quali minacciose nubi si addensano sul mondo, e solo il Signore Gesù conosce la Nostra continua trepidazione per la sorte di una umanità, di cui Egli, Supremo Pastore invisibile, volle che Noi fossimo visibile padre e maestro. Essa intanto procede per un cammino che ogni giorno si manifesta più arduo. mentre sembrerebbe che i mezzi portentosi della scienza dovessero, non diciamo « cospargerlo di fiori », ma almeno diminuire, se non addirittura estirpare, la congerie di triboli e di spine che lo ingombrano.

Di tanto in tanto però — a confermarCi in questa trepida ansia — vuole Gesù nella sua bontà che le nubi si squarcino e appaia trionfante un raggio di sole; segno che i nembi anche più oscuri non distruggono la luce, ma soltanto ne nascondono il fulgore.

Ed ecco ora un pacifico esercito di uomini militanti nell'Azione Cattolica Italiana; cristiani vivi e vivificatori; pane buono e insieme preziosissimo fermento in mezzo alla massa degli altri uomini; centocinquanta mila, la maggior parte padri di famiglia, che vivono il loro battesimo e si adoperano a farlo vivere dagli altri. Né siete tutti. Centinaia di migliaia di Uomini Cattolici, trattenuti da gravi motivi, sono qui presenti con l'ardore del loro spirito, della loro fede, del loro amore. Uomini maturi e di ogni condizione: dirigenti, professionisti, impiegati, insegnanti, operai, lavoratori dei campi, militari: tutti fratelli ìn Cristo, tutti uniti come in un solo palpito di un unico cuore.

Vorremmo che poteste ammirare anche voi la stupenda visione che si offre in questo momento ai Nostri occhi; brameremmo che sentiste nel profondo dell'animo con quanto amore Noi vorremmo — se fosse possibile — scendere in mezzo a voi e abbracciarvi tutti, come se foste uno solo.

Diletti figli! Voi siete venuti a Roma per festeggiare il trentennio della vostra Unione — la prima delle Associazioni Nazionali di A. C. — Cinque anni or sono, gli Uomini che convennero nell'Urbe erano settanta mila; oggi quel numero è raddoppiato ed è qualche cosa di più che un simbolo del moltiplicato fervore della vostra vita cristiana.

In quell'ormai lontano settembre del 1947 Noi benedicemmo il vostro Labaro e vi appuntammo una medaglia d'oro. Vogliamo dirvi qui, al cospetto di Roma e dell'Italia, che voi avete ben corrisposto alla Nostra aspettazione in questi anni di lotte acute per la civiltà cristiana e italiana. Quella medaglia sta bene là, sul vostro vessillo, perchè voi siete stati fra i principali artefici della resistenza, che l'Italia, per sè e per il mondo, ha opposta alle forze del materialismo e della tirannia.

Oggi a mezzodì un nuovo concento di campane si è aggiunto allo squillo sonoro di tutti i sacri bronzi dell'Urbe, che salutano Maria e invitano i fedeli ad onorarla. In quell'ora voi avete inteso di fare a Noi, Vescovo di Roma, un dono particolarmente gradito. Nel cuore di un popolatissimo quartiere della Nostra diletta Città, per impulso dell'infaticabile vostro Assistente Ecclesiastico Centrale, sui disegni di un giovane architetto membro della Azione Cattolica, fra la meraviglia di quanti hanno potuto osservare la complessità del progetto e la rapidità della esecuzione, grazie alla bravura e alla tenacia delle maestranze, la vostra Unione ha fatto sorgere, con tutti gli edifici e le opere annesse, una bella e spaziosa chiesa, sede di parrocchia, intitolandola a S. Leone Magno.

Noi stimiamo di non far torto a nessuno dicendo che di questo Pontefice, grandissimo fra i grandi, pochi conoscono la intrepida attività per il bene civile e sociale di Roma e d'Italia, per conservare la purezza della fede e per riordinare e rafforzare l'organizzazione ecclesiastica; forse non molti ricordano che una gran parte della sua operosità fu spesa nella lotta contro l'eresia monofisita, la quale negava in Cristo due nature, la umana e la divina, realmente distinte, senza fusione nè mescolanza.

Ma tutti sanno che, mentre Attila, re degli Unni, scendeva vittorioso in Italia, devastando la Venezia e la Liguria, e si apprestava a marciare su Roma, Leone Papa rincorò Imperatore, Senato e popolo, tutti in preda al terrore; poi partì inerme e andò incontro all'invasore sul Mincio. E Attila lo ricevette degnamente e tanto si rallegrò della presenza del summus sacerdos, che rinunziò ad ogni azione di guerra e si ritirò oltre il Danubio. Questo memorabile fatto avvenne nell'autunno dell'anno 452, onde Noi siamo lieti di commemorarne qui solennemente con voi la decimoquinta ricorrenza centenaria. Diletti figli, Uomini di Azione Cattolica! Quando abbiamo appreso che il nuovo tempio doveva essere dedicato a S. Leone I, salvatore di Roma e dell'Italia dall'impeto dei barbari, Ci è venuto il pensiero che forse voi volevate riferirvi alle condizioni odierne. Oggi non solo l'Urbe e l'Italia, ma il mondo intero è minacciato.

Oh, non chiedeteCi qual è il « nemico », nè quali vesti indossi. Esso si trova dappertutto e in mezzo a tutti; sa essere violento e subdolo. In questi ultimi secoli ha tentato di operare la disgregazione intellettuale, morale, sociale dell'unità nell'organismo misterioso di Cristo. Ha voluto la natura senza la grazia; la ragione senza la fede; la libertà senza l'autorità; talvolta l'autorità senza la libertà. È un « nemico » divenuto sempre più concreto, con una spregiudicatezza che lascia ancora attoniti: Cristo sì, Chiesa no. Poi: Dio sì, Cristo no. Finalmente il grido empio : Dio è morto; anzi : Dio non è mai stato. Ed ecco il tentativo di edificare la struttura del mondo sopra fondamenti che Noi non esitiamo ad additare come principali responsabili della minaccia che incombe sulla umanità: un'economia senza Dio, un diritto senza Dio, una politica senza Dio. Il « nemico » si è adoperato e si adopera perchè Cristo sia un estraneo nelle Università, nella scuola, nella famiglia, nell'amministrazione della giustizia, nell'attività legislativa, nel consesso delle nazioni, là ove si determina la pace o la guerra.

Esso sta corrompendo il mondo con una stampa e con spettacoli, che uccidono il pudore nei giovani e nelle fanciulle e distruggono l'amore fra gli sposi; inculca un nazionalismo che conduce alla guerra.

Voi vedete, diletti figli, che non è Attila a premere alle porte di Roma; voi comprendete che sarebbe vano, oggi, chiedere al Papa di muoversi e andargli incontro per fermarlo e impedirgli di seminare la rovina e la morte. Il Papa deve, al suo posto, incessantemente vigilare e pregare e prodigarsi, affinché il lupo non finisca col penetrare nell'ovile per rapire e disperdere il gregge (cfr. Io. 10, 12); anche coloro, che col Papa dividono la responsabilità del governo della Chiesa, fanno tutto il possibile per rispondere all'attesa di milioni di uomini, i quali — come esponemmo nello scorso febbraio — invocano un cambiamento di rotta e guardano alla Chiesa come a valida ed unica timoniera. Ma questo oggi non basta: tutti i fedeli di buona volontà debbono scuotersi e sentire la loro parte di responsabilità nell'esito di questa impresa di salvezza.

Diletti figli, Uomini di Azione Cattolica! L'umanità odierna disorientata, smarrita, sfiduciata, ha bisogno di luce, di orientamento, di fiducia. Volete voi con la vostra collaborazione — sotto la guida della sacra Gerarchia — essere gli araldi di questa speranza e i messaggeri di questa luce? Volete essere portatori di sicurezza e di pace? Volete essere il grande, il trionfante raggio di sole che invita a destarsi dal torpore e a fortemente operare? Volete divenire — se così a Dio piacerà — animatori di questa moltitudine umana, in attesa di avanguardie che la precedano?

Allora è necessario che la vostra azione sia anzitutto cosciente.

L'uomo di Azione Cattolica non può ignorare ciò che la Chiesa fa e intende di fare. Egli sa che la Chiesa vuole la pace; che vuole una più giusta distribuzione della ricchezza; che vuole sollevare le sorti degli umili e degl'indigenti; sa che Cristo, Dio fatto uomo, è il centro della storia umana; che tutte le cose sono state fatte in Lui e per Lui. Egli sa che la Chiesa, quando auspica un mondo diverso e migliore, pensa ad una società avente per base e fondamento Gesù Cristo con la sua dottrina, i suoi esempi, la sua redenzione.

In secondo luogo bisogna che la vostra azione sia illuminatrice.

Nelle vostre fabbriche, nei vostri uffici, per le strade, nei luoghi ove prendete il sano svago o il necessario riposo, vi capiterà d'imbattervi in uomini « che hanno occhi per vedere e non vedono » (Ezech. 12, 2). Oggi. per esempio, s'incontra povera gente persuasa che la Chiesa, che il Papa, vogliono lo sfrutta mento del popolo, vogliono la miseria, vogliono — parrebbe inimmaginabile — la guerra! Gli autori e i propagatori di queste orrende calunnie riusciranno a sfuggire alla giustizia degli uomini, ma non potranno sottrarsi al giudizio di Dio. « Verrà un giorno... »! Signore, perdona loro! Intanto però è necessario di cogliere ogni occasione per aprire gli occhi a quei ciechi, spesso piuttosto vittime d'inganno che colpevoli.

Ancora : occorre che la vostra azione sia vivificatrice.

L'Azione Cattolica non sarà veramente tale, se non agirà sulle anime. Le grandi adunanze, i magnifici cortei, le pubbliche manifestazioni, sono certamente utili. Ma guai a confondere gli strumenti col fine per il quale debbono essere adoperati! Se la vostra azione non portasse la vita dello spirito dove è la morte; se non cercasse di sanare quella stessa vita dove è malata; se non la fortificasse dove è debole; sarebbe vana. Sappiamo che la vostra Presidenza Generale ha approntato un programma di lavoro « capillare », per rendere efficiente la presenza dei cattolici militanti in ogni luogo e con tutte le persone, in mezzo a cui vivono. Di quella « base missionaria », come si è voluto chiamarla, siate dunque voi i principali componenti e propulsori.

La vostra azione sia inoltre unificatrice.

Siate uniti fra i membri di una stessa Associazione; uniti fra le diverse Associazioni; uniti con gli altri « rami » dell'Azione Cattolica. Ma siate uniti e fatevi promotori di unione anche con le altre forze cattoliche, che combattono le vostre stesse incruente battaglie e son protese a vincere la vostra stessa lotta. — Diletti figli! Volete essere forti? Volete essere, con l'aiuto di Dio, invincibili? Siate pronti a sacrificare al bene supremo dell'unione, non diciamo i capricci — è chiaro —, m, anche qualche idea o programma, che potesse sembrarvi geniale. L'unione, tuttavia, non è unicità; questa distruggerebbe la varietà delle forze; varietà che non ha soltanto un valore estetico, ma arreca altresì vantaggi strategici e tattici di primissimo ordine.

La vostra azione sia finalmente obbediente.

Nessuno più di Noi desidera che il laicato esca da un certo stato di minorità, oggi più che mai immeritato nel campo dell'apostolato. Ma, d'altra parte, è evidente la necessità di una obbedienza pronta e filiale, ogniqualvolta la Chiesa parla per istruire le menti dei fedeli e per dirigerne l'attività. Essa si guarda bene dall'invadere la competenza dell'Autorità civile. Ma quando si tratta di questioni che toccano la religione o la morale, è dovere di tutti i cristiani, e specialmente dei militanti di Azione Cattolica, di adempire le sue disposizioni, di comprendere e seguire i suoi insegnamenti. Vorremmo anzi aggiungere che anche nel seno dell'Azione Cattolica è necessario di osservare una stretta disciplina fra i vari gradi delle Associazioni. Quando infatti si ha di fronte un esercito di ferrea organizzazione, a quale pericolo si esporrebbe una milizia scompaginata, nella quale ognuno si credesse autorizzato a giudicare e ad agire di proprio arbitrio?

Ed ora, prima di conchiudere queste Nostre parole, vorremmo affidarvi una « consegna ». Voi certamente ricordate che nello scorso mese di febbraio abbiamo rivolto ai fedeli di Roma una calda esortazione, affinchè il volto anche esterno dell'Urbe appaia fulgido di santità e di bellezza. Dobbiamo dire che clero e popolo sono fervidi all'opera, acciocchè non rimangano vane le Nostre speranze, non sia frustrata la Nostra fiducia. Ma Noi abbiamo al tempo stesso espresso l'augurio che il potente risveglio, a cui abbiamo esortato Roma, sia « presto imitato dalle vicine e lontane diocesi, affinchè ai Nostri occhi sia concesso di veder tornare a Cristo non soltanto le città, ma le nazioni, i continenti, l'umanità intera ». Per questo, che potremmo chiamare « secondo tempo », Noi contiamo sugli Uomini di Azione Cattolica, su tutta l'Azione Cattolica.

Allora, mentre gli empi continuano a diffondere i germi dell'odio, mentre gridano ancora : « Non vogliamo che Gesù regni sopra di noi »: « nolumus hunc regnare super nos » (Luc. 19, 15), un altro canto si leverà, canto di amore e di liberazione, spirante fermezza e coraggio. Esso si leverà nei campi e nelle officine, nelle case e nelle strade, nei parlamenti e nei tribunali, nelle famiglie e nella scuola.

Diletti figli, Uomini di Azione Cattolica! Fra qualche istante Noi impartiremo con tutta l'effusione del Nostro cuore paterno l'Apostolica Benedizione a voi, ai vostri cari, alle vostre opere, alle vostre Associazioni. Poi riprenderete il vostro cammino, tornerete alle vostre dimore, ritroverete il vostro lavoro.

Portate dappertutto la vostra azione illuminatrice e vivificatrice.

E sia il vostro canto un canto di certezza e di vittoria.

Christus vincit! Christus regnat! Christus imperat!

 


 

*Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, XIV, 
 Quattordicesimo anno di Pontificato, 2 marzo 1952 - 1° marzo 1953, pp. 357 - 362
 Tipografia Poliglotta Vaticana

 A.A.S., vol. XXXXIV (1952), n. 16, pp. 830 - 835.




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san Pio X
Fin dalla prima ("Sillabo sociale")

Motu Proprio



Motu Proprio dell’AZIONE POPOLARE CRISTIANA

Fin dalla prima Nostra Enciclica all’Episcopato dell’Orbe, facendo eco a quanto i Nostri gloriosi Predecessori ebbero stabilito intorno all’azione cattolica del Laicato, dichiarammo lodevolissima questa impresa, ed ancor necessaria nelle presenti condizioni della Chiesa e della civile società. E Noi non possiamo non encomiare altamente lo zelo di tanti illustri personaggi, che da lungo tempo si diedero a questo nobile compito, e l’ardore di tanta eletta gioventù, che alacre è corsa a prestare in ciò l’opera sua. Il XIX Congresso Cattolico, tenuto testé a Bologna, e da Noi promosso e incoraggiato, ha sufficientemente mostrato a tutti la vigoria delle forze cattoliche, e quello che possa ottenersi di utile e salutare in mezzo alle popolazioni credenti, ove questa azione sia ben retta e disciplinata, e regni unione di pensieri, di affetti e di opere in quanti vi concorrono.
Ci reca però non lieve rammarico che qualche disparere sorto in mezzo ad essi, abbia suscitato delle polemiche pur troppo vive, le quali, se non represse opportunamente, potrebbero scindere le medesime forze e renderle meno efficaci. Noi, che raccomandammo sopra tutto l’unione e la concordia degli animi prima del Congresso, perché si potesse stabilire di comune accordo quanto si attiene alle norme pratiche dell’azione cattolica, non possiamo ora tacere. E poiché le divergenze di vedute nel campo pratico mettono capo assai facilmente in quello teoretico, ed anzi in questo necessariamente devono tenere il loro fulcro, è d’uopo rassodare i principii, onde tutta dev’essere informata l’azione cattolica.
Leone XIII di s. m., Nostro insigne Predecessore, tracciò luminosamente le norme dell’azione popolare cristiana nelle preclare Encicliche Quod Apostolici muneris del 28 dicembre 1878, Rerum novarum del 15 maggio 1891, e Graves de communi del 18 gennaio 1901; e ancora in particolare Istruzione emanata per mezzo della Sacra Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari, il 27 gennaio 1902.
E Noi, che non meno del Nostro Antecessore vediamo il grande bisogno che sia rettamente moderata e condotta l’azione popolare cristiana, vogliamo che quelle prudentissime norme siano esattamente osservate; e che nessuno quindi ardisca allontanarsene menomamente.
E però, a tenerle più facilmente vive e presenti, abbiamo divisato di raccoglierle come in compendio nei seguenti articoli, quale Ordinamento fondamentale dell’azione popolare cristiana riportandole da quegli stessi Atti. Queste dovranno essere per tutti i cattolici la regola costante di loro condotta.

ORDINAMENTO FONDAMENTALE

I.
La Società umana, quale Dio l’ha stabilita, è composta di elementi ineguali, come ineguali sono i membri del corpo umano: renderli tutti eguali è impossibile, e ne verrebbe la distruzione della medesima Società (Encycl. Quod Apostolici muneris).

II.<
La eguaglianza dei vari membri sociali è solo in ciò che tutti gli uomini traggono origine da Dio Creatore; sono stati redenti da Gesù Cristo, e devono alla norma esatta dei loro meriti e demeriti essere da Dio giudicati, e premiati o puniti (Encycl. Quod Apostolici muneris).

III.
Di qui viene che, nella umana Società, è secondo la ordinazione di Dio che vi siano principi e sudditi, padroni e proletari, ricchi e poveri, dotti e ignoranti, nobili e plebei, i quali, uniti tutti in vincolo di amore, si aiutino a vicenda a conseguire il loro ultimo fine in Cielo; e qui, sulla terra, il loro benessere materiale e morale (Encycl. Quod Apostolici muneris).

IV.
L’uomo ha sui beni della terra non solo il semplice uso, come i bruti; ma sì ancora il diritto di proprietà stabile: né soltanto proprietà di quelle cose, che si consumano usandole; ma eziandio di quelle cui l’uso non consuma (Encycl. Rerum Novarum).

V.
E' diritto ineccepibile di natura la proprietà privata, frutto di lavoro o d’industria, ovvero di altrui cessione o donazione; e ciascuno può ragionevolmente disporne come a lui pare (Encycl. Rerum Novarum).

VI.
Per comporre il dissidio fra i ricchi ed i proletari fa mestieri distinguere la giustizia dalla carità. Non si ha diritto a rivendicazione, se non quando si sia lesa la giustizia (Encycl. Rerum Novarum).

VII.
Obblighi di giustizia, quanto al proletario ed ai padroni, sono questi: prestare interamente e fedelmente l’opera che liberamente e secondo equità fu pattuita; non recar danno alla roba, né offesa alla persona dei padroni; nella difesa stessa dei propri diritti astenersi da atti violenti né mai trasformarla in ammutinamenti (Encycl. Rerum Novarum).

VIII.
Obblighi di giustizia, quanto ai capitalisti ed ai padroni, sono questi: rendere la giusta mercede agli operai; non danneggiare i loro giusti risparmi, né con violenze, né con frodi, né con usure manifeste o palliate; dar loro libertà per compiere i doveri religiosi; non esporli a seduzioni corrompitrici ed a pericoli di scandali; non alienarli dallo spirito di famiglia e dall’amor del risparmio ; non imporre loro lavori sproporzionati alle forze, o mal confacenti coll’età o col sesso (Encycl. Rerum Novarum).

IX.
Obbligo di carità de’ ricchi e de’ possidenti, è quello di sovvenire ai poveri ed agl’indigenti, secondo il precetto Evangelico. Il qual precetto obbliga sì gravemente, che nel dì del giudizio dell’adempimento di questo in modo speciale si chiederà conto, secondo disse Cristo medesimo (Matth. XXV) (Encycl. Rerum Novarum).

X.
I poveri poi non devono arrossire della loro indigenza, né sdegnare la carità dei ricchi, sopra tutto avendo in vista Gesù Redentore, che, potendo nascere fra le ricchezze, si fece povero per nobilitare la indigenza ed arricchirla di meriti incomparabili pel Cielo (Encycl. Rerum Novarum).

XI.
Allo scioglimento della quistione operaia possono contribuir molto i capitalisti e gli operai medesimi con istituzioni ordinate a porgere opportuni soccorsi ai bisognosi, e ad avvicinare ed unire le due classi fra loro. Tali sono le società di mutuo soccorso; le molteplici assicurazioni private; i patronati per i fanciulli, e sopra tutto le corporazioni di arti e mestieri (Encycl. Rerum Novarum).

XII.
A tal fine va diretta specialmente l’Azione Popolare Cristiana o Democratica Cristiana colle sue molte e svariate opere. Questa Democrazia Cristiana poi dev’essere intesa nel senso già autorevolmente dichiarato, il quale, lontanissimo da quello della Democrazia Sociale, ha per base i principi della fede e della morale cattolica, quello sopra tutto di non ledere in veruna guisa il diritto inviolabile della privata proprietà (Encycl. Graves de communi).

XIII.
Inoltre la Democrazia Cristiana non deve mai immischiarsi con la politica, né dovrà mai servire a partiti ed a finì politici; non è questo il suo campo: ma essa dev’essere benefica a favore del popolo, fondata sul diritto di natura e sui precetti del Vangelo (Encycl. Graves de communi) (Istruz, della S. C. degli AA. EE. SS.).
I Democratici cristiani in Italia dovranno del tutto astenersi dal partecipare a qualsivoglia azione politica che nelle presenti circostanze, per ragioni di ordine altissimo, è interdetta ad ogni cattolico (Istruz, cit.).

XIV.
In compiere le sue parti, la Democrazia Cristiana ha obbligo strettissimo di dipendere dall’Autorità Ecclesiastica, prestando ai Vescovi ed a chi li rappresenta piena soggezione e obbedienza. Non è zelo meritorio, né pietà sincera intraprendere anche cose belle e buone in sé, quando non siano approvate dal proprio Pastore (Encycl. Graves de communi).

XV.
Perché tale azione democratico-cristiana abbia unità di indirizzo, in Italia, dovrà essere diretta dall’Opera de’ Congressi e de’ Comitati Cattolici; la quale Opera in tanti anni di lodevoli fatiche ha sì ben meritato della S. Chiesa, ed alla quale Pio IX e Leone XIII di s. m. affidarono l’incarico di dirigere il generale movimento cattolico, sempre sotto gli auspici e la guida dei Vescovi (Encycl. Graves de communi).

XVI. 
Gli scrittori cattolici, per tutto che ciò tocca gl’interessi religiosi e l’azione della Chiesa nella Società, devono sottostare pienamente, d’intelletto e di volontà, come tutti gli altri fedeli, ai loro Vescovi, ed al Romano Pontefice. Devono guardarsi sopra tutto di prevenire, intorno a qualunque grave argomento, i giudizi della Sede Apostolica (Istruz. della S.C. degli AA. EE. SS.).

XVII.
Gli scrittori democratici-cristiani, come tutti gli scrittori devono sottomettere alla preventiva censura dell’Ordinario tutti gli scritti, che riguardano la religione, la morale cristiana e l’etica naturale, in forza della Costituzione Officiorum et munerum (art. 41). Gli ecclesiastici poi, a forma della medesima Costituzione (art. 42), anche pubblicando scritti di carattere meramente tecnico, debbono previamente ottenere il consenso dell’Ordinario (Istruz. della S.C. degli AA. EE. SS.).

XVIII.
Debbono fare inoltre ogni sforzo ed ogni sacrifizio perché regnino fra loro carità e concordia, evitando qualsivoglia ingiuria o rimprovero. Quando sorgono motivi di dissapori, anziché pubblicare cosa alcuna sui giornali, dovranno rivolgersi all’Autorità Ecclesiastica, la quale provvederà secondo giustizia. Ripresi poi dalla medesima, obbediscano prontamente senza tergiversazioni e senza menarne pubbliche lagnanze; salvo, nei debiti modi ed ove sia richiesto dal caso, il ricorso all’Autorità superiore (Istruz. della S.C. degli AA. EE. SS.).

XIX.
Finalmente gli scrittori cattolici, nel patrocinare la causa dei proletari e dei poveri, si guardino dall’adoperare un linguaggio che possa ispirare nel popolo avversione alle classi superiori della società. Non parlino di rivendicazioni e di giustizia, allorché trattasi di mera carità, come innanzi fu spiegato. Ricordino che Gesù Cristo volle unire tutti gli uomini col vincolo del reciproco amore, che è perfezione della giustizia, e che porta l’obbligo di adoperarsi al bene reciproco (Istruz. della S.C. degli AA. EE. SS.). 


Le predette norme fondamentali, Noi, di moto proprio e di certa scienza, colla Nostra Apostolica Autorità le rinnoviamo in ogni loro parte, ed ordiniamo che vengano trasmesse a tutti i Comitati, Circoli ed Unioni Cattoliche di qualsivoglia natura e forma. Tali società dovranno tenerle affisse nelle loro sedi, e rileggerle spesso nelle loro adunanze. Ordiniamo inoltre che i giornali cattolici le pubblichino integralmente e dichiarino di osservarle; e le osservino infatti religiosamente: altrimenti siano gravemente ammoniti, e se ammoniti non si emendassero, verranno dalla Autorità Ecclesiastica interdetti.
Siccome poi a nulla valgono parole e vigoria d’azione, se non siano precedute, accompagnate e seguite costantemente dall’esempio; la necessaria caratteristica, che deve rifulgere in tutti i membri di qualunque Opera cattolica, è quella di manifestare apertamente la fede colla santità della vita, colla illibatezza del costume e colla scrupolosa osservanza delle leggi di Dio e della Chiesa. E questo perché è il dovere di ogni cristiano, e poi anche perché chi ci sta di contro, abbia rossore, non avendo nulla, onde dir male di noi (Tit. II, 8).
Di queste Nostre sollecitudini pel bene comune della azione cattolica, specialmente in Italia, speriamo colla divina benedizione, copiosi e felici frutti.

Dato in Roma presso S. Pietro il 18 decembre 1903, anno primo del Nostro Pontificato.

 



NON PIANGE PIU' NESSUNO di "Radicati nella fede".

 


 
Se non ci sono più preti non piange quasi più nessuno. È questa la triste constatazione che ci tocca fare.
Assistiamo alla più grande crisi sacerdotale della storia della Chiesa, intere terre in Europa sono ormai senza sacerdote e tutto tace. Non sentirete nemmeno un vescovo gridare all'allarme, piangere con i suoi fedeli, domandare a tutti una grande preghiera per le vocazioni sacerdotali; intimare un digiuno e una grande supplica perché il Signore abbia pietà del suo popolo.
 
Sentirete, questo sì, vescovi e responsabili di curia descrivere i numeri di questo calo vertiginoso di presenza dei preti nella Chiesa, li sentirete elencare i dati pacatamente, troppo pacatamente, in modo distaccato, come se fosse una situazione da accettare così com'è, anzi la chance per una nuova Chiesa più di popolo.
 
Nella nostra terra italiana, terra di antica cristianità, assisteremo in questi prossimi anni alla scomparsa delle parrocchie, allo stravolgimento, impensabile fino a qualche anno fa, della struttura più semplice del Cattolicesimo, di quella trama di comunità parrocchiali dove la vita cristiana era naturale per tutti... ma l'assoluta maggioranza dei cattolici impegnati farà finta di niente, perché i pastori hanno già fatto così.
È un “cataclisma”, un “terremoto”... ma nessuno piange, si fa finta di niente.
Si fa finta di niente, perché bisogna che la favola della primavera del Concilio continui. Ci si sottrae a qualsiasi verifica storica, si nega l'evidenza di una crisi senza precedenti.
 
E si prepara un futuro che ci sembra poco cattolico.
 
Sì, perché si parla di “ristrutturare” l'assetto delle comunità cristiane, di fare spazio ai laici (come se in questi anni non ne avessero avuto a sufficienza), si inventa un nuovo genere di fedeli cristiani che diventeranno gli addetti delle parrocchie, che di fatto sostituiranno i preti. Fedeli laici “clericalizzati”, un nuovo genere di preti che terranno le chiese... e nell'attesa di una qualche messa predicheranno loro, come cristiani adulti, il Verbo di verità...
 
...ma nessuno piange, nessuno prega gridando a Dio.
 
Forse non gridano perché da anni qualcuno ha preparato questo terremoto nella Chiesa.
 
Hanno svilito il sacerdozio cattolico, trasformando i preti da uomini di Dio ad operatori sociali delle comunità. Hanno ridotto loro il breviario e la preghiera, gli hanno imposto un abito secolare per essere come tutti, gli hanno detto di aggiornarsi perché il mondo andava avanti... e gli hanno detto di non esagerare la propria importanza, ma di condividere il proprio compito con i fedeli, con tutti.
 
E come colpo di grazia gli hanno dato una messa che è diventata la prova generale del cataclisma nella Chiesa: non più preghiera profonda, non più adorazione di Dio presente, non più unione intima al sacrificio propiziatorio di Cristo in Croce, ma cena santa della comunità. Tutta incentrata sull'uomo e non su Dio, tutta un parlare estenuante per fare catechesi e comunità. Una messa che è tutto un andirivieni di laici sull'altare, prova generale di quell'andirivieni di signori e signore che saranno le nostre ex parrocchie senza prete.
 
E con la messa “mondana”, hanno inculcato la dottrina del sacerdozio universale dei fedeli... stravolgendone il significato. I battezzati sono un popolo sacerdotale in quanto devono offrire se stessi in sacrificio, in unione con Cristo crocifisso, offrire tutta la loro vita con Gesù. I fedeli devono santificarsi: questo è il sacerdozio universale dei battezzati. Ma i fedeli non partecipano al sacerdozio ordinato che è di altra natura, che conforma a Cristo sacerdote. E’ attraverso il sacramento dell’Ordine che Cristo si rende presente nella grazia dei sacramenti. Se non ci fossero più preti sarebbero finite sia la Chiesa che la grazia dei sacramenti.
 
Martin Lutero e il Protestantesimo fecero proprio così: distrussero il sacerdozio cattolico dicendo che tutti sono sacerdoti: sottolineando appunto il sacerdozio universale, il laicato. 
Nella pratica della ristrutturazione delle parrocchie forse si finirà così: diverso sarebbe stato affrontare questa crisi con nel cuore e nella mente un'alta stima del sacramento dell'ordine, sapendo che il prete è uno dei doni più grandi per la Chiesa e per il popolo tutto; ma così non è: si affronterà questa crisi dopo anni di protestantizzazione e di relativizzazione del compito dei preti. Si affronterà questa crisi dopo anni di confusione totale nella vita del clero; dopo anni di disabitudine alla messa quotidiana e alla dottrina cattolica: così i fedeli faranno senza il prete, anzi già fanno senza. E quando un prete arriverà, non sapranno più che farsene, abituati a credere che il Signore li salva senza di loro e i loro sacramenti.
 
A noi sembra ingiusto far finta di niente.
 
Per questo chiediamo ai nostri fedeli di pregare con forza perché il Signore torni a concedere, come un tempo, tanti sacerdoti santi alla sua Chiesa.
Cari fedeli,abbiamo il coraggio di chiedere, anche con le lacrime, questa grazia al Sacro Cuore di Gesù e al Cuore Immacolato di Maria.
E teniamo come dono preziosissimo la Messa di sempre, la Messa della tradizione, che sola saprà dare nuovi sacerdoti alla Chiesa di Dio.

[Modificato da Caterina63 01/11/2016 16:57]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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I NOVISSIMI con Padre Stefano M. Manelli FI (1)

0001-novissimi-morte-1


Presentazione

Tra i lamenti profetici di San Pio da Pietrelcina, ben conosciuto era, ed è, il lamento da lui stesso ripetuto più volte con voce addolorata, nell’ultimo anno della sua vita: “Chi parla più del peccato?… Chi parla più della grazia?… Chi parla più dei Novissimi?…”

E’ proprio così, purtroppo. Sembra che ormai queste parole e questi temi (peccato, grazia, Novissimi) siano diventati completamente dei pericolosi “tabù” da allontanare e dimenticare. E in tal modo, molti argomenti di vita spirituale e morale vengono cancellati dai discorsi e dagli insegnamenti della Chiesa, con la rovina delle anime abbandonate e ridotte a povere cenerentole governate solo dall’ignoranza e dagli errori, in questo mondo che sta tutto “sotto il potere di Satana” (1Gv.5,19).

Forse, la tematica più vasta e fondamentale che è stata messa da parte è soprattutto quella dei Novissimi, con il suo insegnamento di base espresso dalla frase sintetica molto significativa: “Ricordati dei tuoi Novissimi e non peccherai in eterno” (cf Sir.7,36).

Parrebbe incredibile, ma se c’è un argomento che dovrebbe interessarci più di tutti, e più concretamente di ogni altro, dovrebbe essere appunto quello dei Novissimi, che costituiscono la conclusione della nostra vita terrena (la Morte) e l’inizio della nostra eternità infelice o beata (l’Inferno o il Paradiso). Non riflettere e non meditare sui nostri Novissimi significa, per noi, una follia tale che al termine della nostra esistenza potremmo trovarci tutti precipitati nell’orrore terrificante dell’Inferno eterno e di satana e di tutti i suoi angeli ribelli a Dio.

E’ da veri stolti dimenticare le parole di San Paolo che ci dice di “attendere alla vostra salvezza con timore e tremore…” (Fil.2,12). Come possiamo disinteressarci della cosa più importante che è l’assicurazione della nostra eternità nel Paradiso di Dio? Col nostro disinteresse nei riguardi dei Novissimi noi rischiamo la nostra dannazione nell’Inferno: non è forse da idioti e pazzi un disinteresse del genere?…

Eppure siamo arrivati a tanto, ormai, per cui il povero predicatore che si azzarda a ricordare i nostri Novissimi, viene accusato di essere un… povero antiquato. arretrato, stupido, terrorista, eretico… perché crede ancora che i Novissimi siano “verità di Fede”, ossia:

– MORTE quale separazione dell’anima dal corpo;

– GIUDIZIO DI DIO all’anima, subito dopo la morte;

– PURGATORIO per la purificazione delle colpe non espiate;

– INFERNO con la dannazione eterna;

– PARADISO con la beatitudine eterna.

Il presente libretto vuole essere un piccolo aiuto, invece, a quella salutare meditazione delle nostre supreme verità di Fede che ci sostengono nel concludere santamente la nostra vita terrena, tenendo presente appunto la massima fondamentale più salutare che resta sempre questa: “Ricordati dei tuoi Novissimi e non peccherai in eterno” (cf Sir.7,36).

La Madonna voglia assisterci con le Sue materne grazie nel meditare con frutto i Novissimi in ogni giorno del mese di novembre. (Padre Stefano Maria Manelli, FI)


0001-novissimi-morte-21° giorno

“In tutte le tue opere, ricordati dei Novissimi e non peccherai in eterno!” (cfSir.7,36). Questa massima del Siracide era molto cara a Sant’Agostino, e noi amiamo porla come pietra angolare (1Pt.2,7) per tutto il corso delle meditazioni e lo svolgimento delle riflessioni sui Novissimi durante l’intero mese di novembre, che è chiamato il Mese dei defunti e, più in particolare, il Mese delle Anime purganti, ossia delle anime defunte che si trovano in Purgatorio, in attesa di poter entrare nel Regno dei Cieli con l’aiuto dei nostri suffragi.

I quattro Novissimi sono questi: la Morte, il Giudizio, l’Inferno e il Paradiso. Si può senz’altro dire che essi sono le quattro colonne portanti del destino finale di ogni uomo. Nessun uomo, infatti, può evitare l’incontro con i quattro Novissimi al terminale della sua vita terrena.

… i Novissimi sono la verità più reale e la realtà più vera per ogni uomo…. e la Fede Cristiana, nostra maestra di vita, è la depositaria della verità dei quattro Novissimi che animano l’intero deposito della Rivelazione divina sia scritta (Sacra Scrittura), sia parlata e trasmessa (Tradizione, Magistero).

(…) A chi tocca la scelta dell’eternità nell’Inferno o nel Paradiso? Tocca soltanto all’uomo, ad ogni singolo uomo. Nessuno può essere sostituito in questa scelta finale, che è la più decisiva di ogni altra, una vera scelta eterna. La scelta, in effetti, si fa sulla terra, durante la vita. Alla fine ci sarà solo un rendiconto della vita di ciascuno per ottenere la sentenza inappellabile del Giudice Supremo, Dio. E’ con la scelta della mia vita svolta sulla terra… che preparo il Giudizio finale e inappellabile di Dio. Se, di fatto, scelgo di vivere in maniera meritevole dell’Inferno, meriterò l’Inferno…. Se invece scelgo di vivere in maniera degna del Paradiso, meriterò il Paradiso….

“Si muore come si vive”, dice una massima popolare. Ed è per questo che sant’Agostino può esortare, dicendo a tutti: “Vivi bene e muori bene!” (…) Si può capire già, a questo punto,che il destino eterno di ogni uomo è legato direttamente alla scelta dell’eternità che in concreto si vuole ottenere… (seguono le testimonianze di tre Santi che troverete nel tascabile che consigliamo tutti di richiedere qui)

La scelta di vivere santamente per andare in Paradiso – come hanno fatto tutti i Santi – è l’unica scelta che fa capire i Novissimi non con paura o terrore – come succede a noi che non siamo santi – ma con serenità, perché è proprio meditando sui Novissimi che si impara ad evitare ogni peccato, vivendo santamente per ottenere il Paradiso.


2° giorno

“Quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita?”(Mt.16,26). Queste parole di Gesù scolpiscono luminosamente l’interesse supremo che deve avere ogni uomo sulla terra. Quel che realmente conto per l’uomo, infatti, è salvarsi per l’eternità…. (..) Possibile che sia difficile rendersi conto dell’importanza primaria di questa verità?

(..) Rovinata e perduta la propria anima, infatti: “cosa – ammonisce Gesù – un uomo potrà dare in cambio della propria vita?” (Mt.16,26). Eppure, non si è forse in tanti a vivere così, da veri insensati? (..) In effetti la salvezza dell’anima sta nelle mani di ogni uomo. Se voglio, mi salvo. Se non voglio, non mi salvo e nessuno mi potrà salvare.

Se voglio salvarmi debbo usare i mezzi necessari alla salvezza, ossia la preghiera, la penitenza, i Sacramenti, le buone opere… Se non voglio salvarmi, trascuro i mezzi della salvezza e cerco di vivere nella strada “larga e comoda” del mondo, che “conduce alla perdizione” (Mt.7,13) con tutti i suoi vizi e scandali.

Se poi ci sono coloro che presumono di potersi assicurarsi da se stessi la salvezza, sarebbe ricordare a questi tali il Catechismo della Chiesa Cattolica che afferma con grande chiarezza: “Coloro che presumono di non aver bisogno di salvezza, sono ciechi sul proprio conto…”(n.588).

(..) Apriamo gli occhi e facciamoli aprire anche agli altri. “Il tempo è breve” (1Cor.7,29), ci ricorda San Paolo. Non possiamo sciuparlo…. nella vita non può esserci ammonimento più grande di questo: salvarsi l’anima! (seguono gli esempi di alcuni santi)

Se vogliamo far contenta la Madonna…. promettiamole di impegnarci a pensare alla salvezza della nostra anima, legandoci alla preghiera giornaliera del Santo Rosario così da meritare l’accoglienza di Lei nell’Aldilà, per vivere con Lei nel Paradiso dell’amore infinito di Dio.

-------------

“Beati i morti che muoiono nel Signore” (Ap.14,13); “Per me il morire è un guadagno”(Fil.1,21) esclamava San Paolo…. Appartiene ad ognuno di noi credenti il mistero della morte e la Chiesa lo presenta nella sua realtà di Fese, secondo il disegno di Dio per noi. (..) Con poche e misurate parole, il Catechismo di San Pio X illumina ancora insegnando testualmente che, fino al Giudizio universale, con la morte, per l’anima separata dal corpo: “la vista di Dio sarà la vera vita e la felicità dell’anima, mentre la privazione di Lui sarà la massima infelicità e come una morte eterna…”

Nel più recente Catechismo della Chiesa, giustamente, si accenna anche alla morte quale “salario del peccato” e “per coloro che muoiono nella grazia di Cristo è una partecipazione alla morte del Signore, per poter partecipare anche alla sua Risurrezione” (n.1006) e per questo: “il cristiano che muore in Cristo Gesù va in esilio dal corpo per abitare presso il Signore…” (n.1005).

Gli elementi costitutivi della nostra morte, quindi, sono: il termine della vita terrena; la separazione dell’anima dal corpo; il Giudizio particolare di Dio; l’entrata dell’anima nella Vita eterna o all’Inferno o in Paradiso….

Una figlia spirituale di San Padre Pio, un giorno gli rivolse queste parole: “Padre, ho tanto paura della morte!”… Il santo confessore stigmatizzato le rispose: “Chiediamo al Signore che ci mandi la morte quando siamo in grazia di Dio, assistiti da Lui, da Sua Madre e da San Giuseppe, dopo aver fatto il Purgatorio qui…” Una risposta magistrale e paterna che ci vuole insegnare più cose:

– mandarci la morte quando siamo in grazia di Dio è fondamentale, perché morire in peccato mortale significa precipitare direttamente all’Inferno;

– farci assistere da Lui, da Sua Madre e da San Giuseppe, nessun’altra assistenza potrebbe essere più preziosa….;

– chiamarci dopo aver fatto il Purgatorio qui è importantissimo proprio per noi, paurosi della sofferenza, così attenti ad evitare ogni sacrificio senza renderci conto che le sofferenze su questa terra sono “carezze” rispetto alle sofferenze del Purgatorio… e se noi sappiamo soffrire e offrire le sofferenze su questa terra, il Signore le fa valere al posto di quelle del Purgatorio (che sono tutt’altro che carezze!).


   il resto lo potrete leggere qui

  


Dopo la morte. Inferno o Paradiso. Cosa ci attende.





Riccardo Maccioni martedì 25 ottobre 2016

Il documento «Ad resurgendum cum Christo» sulla cremazione ci fa riflettere sulla nostra vita dopo la morte. Dobbiamo avere paura. Ecco cosa dice il Catechismo.

Giudizio Universale alla Cappella Sistina di Michelangelo

Giudizio Universale alla Cappella Sistina di Michelangelo

Credo alla vita eterna. Il cattolico lo ripete ogni domenica durante la Messa. Ma sa esattamente cosa significa? E l’Inferno esiste davvero?

L’impressione è che si diano per scontati concetti, verità di fede, che in realtà non lo sono. Forse andare a rileggere il Catechismo può essere utile.

 

I novissimi

Nel linguaggio della Chiesa le realtà ultime, cioè quello che accadrà a ogni uomo alla fine della sua vita terrena, si chiamano "novissimi". Paradossalmente, pur riguardando ciascuno di noi, se ne parla poco. L’idea infatti che si possa morire, le domande ultime su chi siamo e dove andremo, sono escluse dal dibattito pubblico, quasi che ignorandole non ci riguardassero. Invece si tratta di concetti fondamentali, importantissimi, cui non a caso la Chiesa dedica molta attenzione.

Più nello specifico i "novissimi" sono quattro: morte, giudizio, Inferno, Paradiso.

 

Morte

Inutile dire che si tratta dell’ultimo atto, del culmine della nostra esistenza terrena. E che, per il credente in Gesù Cristo, apre
alla vita nuova, eterna. Mentre il corpo infatti, recita il Catechismo della Chiesa cattolica, cade nella corruzione, l’anima, che è immortale va incontro al giudizio divino in attesa «di ricongiungersi al corpo quando, al ritorno del Signore, risorgerà trasformato». Il cristiano infatti crede nella risurrezione della carne. Significa che anche i nostri corpi mortali riprenderanno vita, che lo stato finale e definitivo dell’uomo non riguarderà solo l’anima spirituale.

Non a caso Tertulliano dice: la carne è il cardine della salvezza. Capire però come avverrà la risurrezione va oltre la capacità di comprensione dell’uomo, non si riesce a immaginarla. La Chiesa però ci dice che la vita eterna sarà preceduta dal giudizio.


Il giudizio

Per capire come sarà la nostra vita eterna, basterebbe conoscere come abbiamo vissuto su questa terra. Saremo giudicati sull’amore, ripetono i padri della Chiesa. E con loro, lo ribadisce spesso anche papa Francesco. Di sicuro, a fare la differenza, sarà il comportamento che abbiamo tenuto in questa vita, alla luce di quanto indica il Vangelo. Una volta morti, comunque, andremo incontro al "giudizio particolare", una sorta di conseguenza diretta, di retribuzione immediata, per la nostra fede e le nostre opere. L’effetto sarà l’ingresso, diretto o dopo un periodo di purificazione, nella beatitudine del cielo, oppure, Dio non voglia, nella dannazione eterna. Ci sarà poi un "giudizio finale". Consisterà, come recita il Catechismo della Chiesa cattolica, nella sentenza che il Signore Gesù «ritornando come giudice dei vivi e dei morti» emetterà sui giusti e gli ingiusti riuniti davanti a Lui. 

Avverrà alla fine del mondo. E a quel punto, il corpo risuscitato si unirà, «parteciperà alla retribuzione» che l’anima ha avuto nel giudizio particolare. «Credo nella risurrezione della carne» si prega durante la Messa.




Il Paradiso

 

Il Paradiso alla biblioteca nazionale di Vienna di Daniel Gran

Il Paradiso, "il cielo", consiste nella beatitudine eterna, nello stato di felicità suprema e definitiva. Non tutti però la raggiungono allo stesso modo. C’è chi infatti ha bisogno di un passaggio attraverso il Purgatorio. Si tratta di coloro che, pur morendo nell’amicizia
con Dio e sicuri della salvezza, prima di stare al Suo cospetto, hanno bisogno di un periodo di preparazione, devono purificarsi. Molti mistici sottolineano come sia l’anima stessa, ritenendosi impura, a sentire la necessità di uno stop. Un tempo, che in qualche modo, anche da terra possiamo accelerare. 

Offrendo preghiere, soprattutto Messe, per le anime del Purgatorio, ma anche elemosine, o penitenze. Senza dimenticare naturalmente, come si può fare nell’Anno Santo della misericordia, di ottenere indulgenze per loro.

 

Diverso è invece il percorso di chi muore nella grazia di Dio e non ha bisogno di purificazione. Chi si trova in questa condizione
entrerà subito a far parte della Chiesa del cielo dove vedrà Dio «a faccia a faccia» vivendo in comunione d’amore con la Santissima Trinità e intercedendo per le anime ancora pellegrine sulla terra. 

 

L’Inferno

La mappa dell'inferno di Sandro Botticelli


 

Anche se in tanti, intellettuali e non solo, tendono a negarne l’esistenza, considerandolo un retaggio medioevale, l’Inferno è una
verità di fede. Si tratta della dannazione eterna, pena riservata a chi muore, per libera scelta in peccato mortale. Se proviamo a immaginarlo, il pensiero corre ai gironi della commedia dantesca, alla causa-effetto tra i comportamenti tenuti in vita e la "retribuzione" eterna. In realtà non sappiamo bene come sia. Di sicuro la condanna principale consiste nella separazione
eterna da Dio, nel quale «unicamente l’uomo ha la vita e la felicità, per le quali è stato creato e alle quali aspira». Ci hai fatti per Te o Signore e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te, prega sant’Agostino nelle Confessioni. Ma come si concilia l’Inferno con l’infinita bontà di Dio, con la sua eterna e sconfinata misericordia, ci si chiederà a questo punto.

La risposta è nello stile del Padre che, pur volendo che tutti abbiano modo di pentirsi, avendo creato l’uomo libero e responsabile, rispetta le sue decisioni. Detto in altro modo è l’uomo stesso che, in totale autonomia, si esclude dalla comunione con Dio e, persino all’atto finale della sua vita, persiste nel peccato mortale, rifiutando l’amore misericordioso di Dio.

 
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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09/11/2016 09:00
 
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   quando Padre Pio vide Pio XII nella gloria del Paradiso....

Il Papa che Padre Pio “vide” in Paradiso
dal Numero 43 del 6 novembre 2016
 

«San Giovanni Rotondo 13 novembre 1958. 
Cara Madre Pascalina! Ieri mattina ho ricevuto la Sua cara lettera del 9 novembre. Non so come fare a ringraziarla per avermi informato sulla meravigliosa morte del Santo Padre. Che Dio la ricompensi di cuore. Davvero “Pretiosa in conspectu Domini mors sanctorum eius” (Sal 116,15)! 
Stiamo facendo gli esercizi spirituali e non ho ancora informato nessuno, eccetto Padre Pio. Ieri mattina egli ha ancora confessato, come di consueto. Poi si è sentito male, ha avuto anche un po’ di febbre, ed è stato costretto a riposarsi.

Ieri sera, verso le ore 18:45, sono andato nella sua stanza. Non conosco il motivo, ma mi riceve sempre con una particolare amabilità. Mi sono inginocchiato accanto al suo letto e ho baciato la sua mano: lui ha tenuto la mia baciandola. Poi ha preso la mia mano tra le sue mani, premendola al suo petto, mentre parlavo con lui. All’inizio ha sorriso un po’ dicendomi: “Sono buoni esercizi spirituali!”. Poi gli ho detto tutto ciò che Lei mi aveva comunicato: la pia morte del Santo Padre, il Magnificat, ecc. – e anche la convinzione Sua e di altri che Egli ora stia contemplando Dio. Padre Pio ha ascoltato tutto con grande commozione. Infine ho aggiunto ancora i Suoi saluti e la Sua richiesta di preghiera. Egli ha fatto un cenno benevolo, toccato anche dalle Sue parole “È ancora una ferita aperta e che fa male”. 

Poi la Sua domanda: “Cosa direbbe Padre Pio?”. Ho posto la domanda in questo modo: “Madre Pascalina domanda: che pensa Padre Pio?”. Con un volto quasi trasfigurato egli ha risposto: “È in Paradiso. Lo ho visto nella Santa Messa”. Non mi sono fidato delle mie orecchie e ho chiesto: “Lo ha visto in Paradiso?”. “Sì!” mi ha risposto con un sorriso quasi celestiale. 

Cara Madre Pascalina, siamo tutti convinti che il Santo Padre è un santo. E queste parole di Padre Pio sono una conferma gioiosa e piena di consolazione, non è vero? Come sono lieto di poterLe comunicare tutto questo. Lo sguardo di Padre Pio nell’eternità sia balsamo e sollievo per il Suo cuore addolorato! Prima di congedarmi da Padre Pio – era l’ora del Rosario e della conferenza – lui ha chiesto a me (un tale Frataccio!) di benedirlo.
Ci siamo quindi benedetti a vicenda. Manda la sua benedizione anche a Lei. Stamattina si è alzato più tardi e ha celebrato la Santa Messa senza confessare dopo. Ancora una cosa vorrei menzionare: il giorno della morte, Padre Pio ha sentito la notizia appena prima della sua Santa Messa. Poiché ogni padre celebra una Santa Messa per un Papa defunto, ha potuto subito dire la Messa per Lui. Forse già lì ha visto il Santo Padre nella sua gloria. Durante tutta la Messa Padre Pio ha pianto. “Vedete come egli lo amava!”.

Ancora una volta: che Dio La ricompensi! Nel cuore di Gesù, P. Dominicus, OFM Capp.».

Questo è il documento che attesta la santità di Pio XII e la gloria a lui concessa già subito dopo la morte, che Padre Pio “vide” fin da allora e che la Chiesa gli sta riconoscendo solo ora. È una lettera (1) scritta a Suor Pascalina (2), segretaria di Papa Pacelli, da Padre Domenico Meyer. È evidente che questa missiva è la risposta a un’altra che la Religiosa deve aver fatto pervenire, in qualche modo, al Cappuccino. Di questa prima lettera, però, non è stata ancora trovata traccia. Il suo contenuto è, comunque, facilmente deducibile. 

Padre Domenico (Enrico Luigi Mayer) nacque a Belleville, Illinois (USA), il 22 luglio 1892. Il 6 novembre 1948 venne a San Giovanni Rotondo come corrispondente di lingua inglese e tornò definitivamente negli USA il 22 agosto 1961. [...].

Chi lo ha conosciuto ricorda che Padre Domenico da Belleville non conosceva solo la sua lingua madre, ma anche il tedesco. È facile, quindi, immaginare che la sua presenza a San Giovanni Rotondo tornasse di grande utilità, sia per il servizio di Confessore con i pellegrini di lingua inglese e tedesca, che per rispondere alla copiosa corrispondenza dei devoti di quelle nazioni. Padre Pio era il suo Confessore e, al refettorio, mangiava sempre alla sua destra (3).

Non solo. Poiché era l’unico che gli sedeva accanto, beneficiava sempre del piatto del santo Cappuccino, che notoriamente mangiava pochissimo e passava al vicino di mensa ogni pietanza, dopo qualche cucchiaiata o forchettata. Tuttavia sembra che il ruolo del Frate americano a San Giovanni Rotondo non fosse solo quello di aiuto nel rispondere alle lettere, ma anche quello di osservare e riferire al Ministro Generale. E spesso le segrete relazioni di Padre Domenico erano molto pesanti. Anche nei confronti di Padre Pio. 

Grazie a questo Frate, comunque, sono giunte fino a noi le parole pronunciate dal santo Cappuccino a proposito di Pio XII. [...]. 

In realtà il contenuto del documento più che una novità rappresenta una conferma. Infatti Padre Agostino da San Marco in Lamis, uno dei direttori spirituali di Padre Pio, il 18 novembre 1958, riferendosi al discepolo, annotava nel suo Diario, pubblicato nel 1971: «Ha sentito tutto il dolore della sua anima per la morte del Papa Pio XII. Ma poi il Signore glielo ha fatto vedere nella gloria del Paradiso» (4). 
Un’altra autorevole testimonianza era stata raccolta da Gherardo Leone e pubblicata nel 2003 sulla rivista La Casa Sollievo della Sofferenza.
Il 26 maggio del 2002, Elena Pacelli Rossignani, figlia della sorella minore del Pontefice, Elisabetta Pacelli coniugata Rossignani, ha rivelato a Suor Margherita Marchione, biografa di Pio XII, che durante una delle sue visite a San Giovanni Rotondo «Padre Pio aveva confidato a lei e alla madre di essere stato destato verso le due e trenta della notte del 9 ottobre da un ticchettio, prodotto sui vetri della finestra da un uccellino bianco, cui aveva fatto seguito la chiara visione della morte di Pio XII e della sua salita al Cielo. Padre Pio aveva confidato inoltre di essere rimasto turbato e commosso da questa visione e di aver subito convocato i confratelli in cappella per una preghiera comune» (5). 

Ma non si può disconoscere alla lettera di Padre Domenico a Suor Pascalina e ha chi l’ha rinvenuta anche un altro merito: aver riportato in luce un antico legame fra due grandi “santi”, fatto di venerazione reciproca. 
Pio XII è stato certamente il Papa che più di ogni altro ha assunto «nella vita di Padre Pio una rilevanza straordinaria», poiché «amò e protesse il Cappuccino vivente sulle falde garganiche» ed «ebbe ed ha il grande pregio verso l’umanità di avere compreso lo spirito di Padre Pio, promosso le realizzazioni delle sue opere; verso il Signore, di aver protetto il suo servo prediletto e fedele» (6).

da Stefano Campanella, 
Il Papa che Padre Pio “vide” in Paradiso, 
in Studi su Padre Pio, vol. 3/2007


Note
1) Copia della missiva, scritta in tedesco e firmata a mano in calce è conservata a Roma, presso il Collegium Paulinum. 
2) Suor Pascalina, al secolo Josephine Lehnert, nacque a Ebersberg, nei pressi di Monaco di Baviera, il 29 agosto 1894. A 23 anni entrò tra le Suore Insegnanti della Santa Croce. Pochi mesi dopo, nel 1918, venne chiamata a prestare servizio alla Nunziatura di Monaco all’arrivo del nunzio Eugenio Pacelli. Un servizio che continuò quando il Nunzio fu spostato a Berlino e poi a Roma quando il cardinale Pacelli fu nominato Segretario di Stato e anche dopo la sua elezione al Soglio Pontificio, che terminò solo dopo la morte di Pio XII. Suor Pascalina è morta a Vienna nel 1983.
3) Nel refettorio antico del convento di San Giovanni Rotondo, è esposta la fotografia in cui si vede, appunto, Padre Domenico che prende posto accanto a lui. 
4) Agostino da San Marco in Lamis, Diario, San Giovanni Rotondo 2003, Ed. Padre Pio da Pietrelcina, p. 222.
5) Gherardo Leone, Padre Pio e Pio XII: un feeling durato vent’anni che ha consentito il sollievo della sofferenza e i gruppi di preghiera, in La Casa, 19 (2003), p. 12.
6) Felice Spaccucci, I cinque Papi di Padre Pio, Napoli, Laurenziana, pp. 57-58.




don Elia. Santità o morte

 
Senza voler minimamente sminuire gli abomini dottrinali, morali e liturgici che imperversano da cinquant’anni e ai nostri giorni stanno raggiungendo il culmine, questo non è un motivo valido per idealizzare il passato e fissarlo in una versione immodificabile.
Santificatevi e siate santi, perché io sono santo 
(Lev 11, 44; cf. 1 Pt 1, 16).

Culmine delle deformazioni dottrinali morali e liturgiche

Come è falsa l’opinione che quanto si faceva e insegnava prima dell’ultimo Concilio fosse tutto da aborrire e cancellare, così lo è quella che quanto si è fatto e insegnato dopo sia da respingere e condannare in blocco. La prima è espressione di una mistificazione ideologica, la seconda di una strategia difensiva che rischia di diventare settaria. Certo, non è il deposito trasmessoci dalla Tradizione che andava riformato, ma è il modo di pensarlo e di viverlo che avrebbe potuto essere rinnovato nella continuità, in quel processo vitale di crescita che si attua nella Chiesa sotto l’impulso e la guida dello Spirito Santo. D’altronde la fedeltà alla Tradizione non esclude nuovi sviluppi né ulteriori progressi nella comprensione e attuazione di ciò che Cristo ha affidato agli Apostoli: il Regno di Dio germinato in terra è quel piccolo seme che, trasformatosi in albero maestoso, continua a produrre fiori e frutti.

Senza voler minimamente sminuire gli abomini dottrinali, morali e liturgici che imperversano da cinquant’anni e ai nostri giorni stanno raggiungendo il culmine, questo non è un motivo valido per idealizzare il passato e fissarlo in una versione immodificabile. Un certo modo di insegnare la dottrina e di guidare le anime ha ingenerato in tanti l’impressione di un Dio arcigno e lontano, se non astratto e incomprensibile, che esige sacrifici impossibili minacciando castighi e scagliando fulmini. Uno stile educativo improntato a una severità talvolta arbitraria provocava in molti casi un senso di frustrazione e di angoscia che negli adolescenti, già travolti dall’esplosione ormonale, diventava un formidabile detonatore della compulsione sessuale o di violente reazioni di rivolta, determinando il più delle volte l’abbandono della religione. Per rimediare ai guasti causati dal peccato originale nella nostra natura non basta l’indottrinamento o la disciplina, ma è necessario guidare le persone all’esperienza dell’amore di Dio.
 
Non è, questa, una ritirata nel sentimentalismo sotto la spinta di chissà quali pressioni, né un esausto cedimento all’onnipervasiva influenza dell’attuale neomodernismo. È semplicemente una presa di coscienza del pericolo di smarrire l’essenza della vita cristiana, oltre a perdere la pace interiore; sarebbe la più perfida vittoria del nemico. Nessuno nega che sia doveroso gridare allo scandalo e combattere l’errore con argomentazioni convincenti, ma in questo sforzo non dobbiamo dimenticare di essere solo strumenti: siamo strumenti liberi e consapevoli, certo, ma non arbitri della lotta. Non lasciamo che la polemica ci inaridisca interiormente, spingendoci a ridurre la fede a un complesso di freddi teoremi e a trascurare l’ineffabile amicizia divina. Il mondo – e buona parte della stessa Chiesa – sono sedotti da falsi profeti che procedono a forza di slogan di facile presa emotiva e snobbano le controversie come relitti di un ambiente chiuso allo “spirito”; così la maggior parte di quanti si ritengono credenti non riesce ormai a seguire neppure un’argomentazione delle più semplici. In un contesto del genere, rischiamo di parlarci addosso o di ribadire fra noi all’infinito quel che vorremmo sentirci dire dall’alto.
 
Molti di noi sono approdati alla Messa tradizionale in seguito a conversioni radicali in cui hanno sperimentato l’irruzione della grazia, che si è servita di strumenti imperfetti e ha guidato i neofiti per tappe progressive. Un atteggiamento troppo rigido basato su una visione manichea, da parte di un ministro sacro, avrebbe potuto stroncare o snaturare anche un sincero ritorno a Dio, vanificando così l’opera divina e trasformando il convertito o in un deluso o in un fanatico. Non bisogna rendere inappetibili la verità e il bene, né presentarli in modo che non siano fruibili se non da una ristretta cerchia di eletti. L’uomo non è soltanto ragione e volontà, ma anche cuore; mi risulta che ci siano sufficienti testimonianze della Tradizione per non sentirmi solo nell’affermarlo. Interrogate un sant’Agostino, un san Bonaventura, un san Giovanni della Croce… La vera teologia non ha mai divorziato dalla mistica, così come una mistica sana si fonda su una buona teologia. Chiamatelo sentimentalismo, se volete, ma io non rinuncio per questo alla ricerca di Dio.
 
L’emergenza attuale necessita indubbiamente di fini teologi e acuti controversisti, ma ancor più di mistici e di santi. Le due qualità non si escludono affatto, ma è oggettivamente raro che la stessa persona raggiunga le vette nell’uno e nell’altro campo, a meno che non riesca a sfruttare ogni minuto disponibile per pregare e studiare, facendo dello studio una preparazione alla vita di unione e un mezzo di santificazione condito di umiltà e compunzione. La scrutazione del mistero divino fa sgorgare lacrime di pentimento, nostalgia, gratitudine, esultanza, adorazione; esse preservano dalla presunzione e, quale pioggia celeste, fecondano uno sforzo che corre sempre il rischio di incagliarsi nelle secche del dottrinarismo o dell’intellettualismo. L’amore, l’amore è ciò che vuole il nostro Dio, mentre le anime fedeli reclamano dei santi… È sempre stato così, ma quanto più oggi! Come rispondere a quest’impari sfida, se non mettendosi totalmente a disposizione del Signore per mezzo di Maria, con tutte le proprie risorse ed esperienze?
 
La parola fa breccia nei cuori, permettendo così alla grazia di trasformarli, se chi parla vive ciò che dice o almeno desidera viverlo, applicando a sé per primo ciò che raccomanda agli altri. Quante volte mi è venuto da pensare, sul pulpito o in confessionale: «Perché non dico questo a me stesso?». Certo, il predicatore deve comunque proclamare la verità e il confessore applicare la dottrina, a prescindere dal modo in cui la vive personalmente e dal grado di santità che ha raggiunto; ma, se vi aderisce con tutto l’essere e si è votato a praticarla, la differenza si sente: il suo parlare ha un accento che muove gli animi, commuove i cuori, smuove i macigni, promuove i costumi. Il tono di un santo schiude l’accesso anche alle affermazioni più dure ad accettarsi dallo spirito del tempo: ebbene sì, Dio castiga ancora, pur servendosi delle cause create. Non è una visione ferma all’Antico Testamento (accusa di chiaro stampo marcionita), ma schiettamente evangelica: proprio perché Egli è misericordioso, utilizza anche mezzi di correzione, specie quando si abusa sfacciatamente della Sua pazienza. Poiché, oltretutto, la misericordia non annulla la giustizia, rimane pur vero che ogni peccato, anche se perdonato quanto all’offesa, deve comunque essere espiato quanto alla colpa, in questa vita o nell’altra; le prove che Dio permette sono quindi anche mezzi di purificazione.
 
Chi contesta questo – fosse pure vescovo, cardinale o papa – è fuori della Chiesa Cattolica, per il semplice fatto che nega implicitamente dei dogmi di fede come quelli riguardanti il Giudizio, l’Inferno e il Purgatorio. Un grande rappresentante del monachesimo quale san Colombano fa un’affermazione analoga – straordinariamente attuale – con quella perentoria chiarezza e libertà di spirito che è caratteristica dei Santi. Leggetela di seguito, citata dalla lucida analisi di un giovane levita escluso dal sacerdozio a causa del suo attaccamento alla liturgia di sempre. Non è una sterile polemica in contraddizione con quanto scritto fin qui, ma il vibrante appello, in seguito all’infamia di Lund, di qualcuno che ama sinceramente Dio e la Chiesa e, non essendogli per ora concesso di servirli se non con la preghiera e l’offerta, cerca di farlo così. Preghiamo perché si apra una via per lui e per quanti sono in situazioni analoghe, vittime delle accecanti ingiustizie perpetrate in nome dell’imperante misericordismo dei lupi travestiti da agnello.
 
Queste le parole con cui un grandissimo Santo, uno dei padri dell’Europa, non temeva di rivolgersi al Papa e ai vescovi del suo tempo. Ignaro, forse, di quanto profetiche e utili sarebbero state a noi, fedeli dell’AD 2016.
«Oh, come sarebbe davvero doloroso e deplorevole, se la fede cattolica non fosse custodita proprio nella Sede Apostolica. […]
Dicono che Eutiche, Nestorio, Dioscoro… eretici, come sappiamo, del passato, siano stati accolti ai nostri giorni in non so quale sinodo dal Papa. […] Ecco la causa di tutto lo scandalo… tutto quello che non viene dalla fede, infatti, è peccato.
È già una colpa per voi, o Papa, se avete deviato da quanto vi era stato affidato e avete trascurato la prima fede; hanno ragione i vostri subalterni più giovani di resistervi e di non essere in comunione con voi, finché non venga cancellato e consegnato all’oblio il ricordo dei perversi.
Se tale accusa è vera e non inventata, scambiate a vicenda le vostre parti: i vostri figli sono venuti a trovarsi in testa e voi in coda, duole anche dirlo; e saranno pertanto vostri giudici coloro che conservarono integra la fede, chiunque siano, anche quando sembrano vostri inferiori; infatti sono veri e autentici cattolici coloro che non hanno mai accolto né difeso gli eretici né certuni sospetti di eresia, ma hanno conservato lo zelo per la fede genuina. […]
Perciò, come è grande il vostro onore in rapporto alla dignità della cattedra, così voi dovete avere una grande sollecitudine, per non perdere la vostra dignità a causa di qualche perversità. Infatti voi avrete autorità finché rimarrete nella retta dottrina.
In realtà è vero clavigero del Regno dei Cieli chi, grazie alla sua autentica dottrina, lo apre a coloro che ne sono degni e lo chiude a coloro che ne sono indegni; altrimenti, se agirà diversamente, non potrà né aprire né chiudere.
Essendo vere tutte queste considerazioni ed essendo accettate senza alcuna obiezione da tutti coloro che conoscono il vero, […] non capisco perché voi, divenuti forse orgogliosi [per questa vostra dignità, ndr], rivendichiate per voi stesso non so quale privilegio di maggior autorità e potere nelle cose divine rispetto a tutti gli altri [vostri predecessori, ndr].
Sappiate, peraltro, che minore sarà il vostro potere presso il Signore, se anche solo pensate ciò nel vostro cuore. Infatti, l’unità della fede è stata in tutto il mondo la fonte dell’unità del potere e del primato [petrino, ndr], in modo che, ovunque, si conceda da parte di tutti libertà alla verità e parimenti si precluda tutti la via all’errore, perché fu proprio la professione della verità a dare il privilegio al Detentore delle chiavi, vero maestro di tutti noi. […]

Non si addice pertanto alla dignità della Chiesa romana questa fama della presente mancanza di fermezza, in modo che qualsiasi forza la possa smuovere dalla solidità della vera fede, per la quale tanti martiri versarono il sangue, preferendo morire piuttosto che apostatare. […]
Dunque, Papa, per non venir privato dell’onore dovuto ai successori degli Apostoli, custodisci la fede apostolica, confermala con la testimonianza, corroborala con gli scritti […].

E VOI, VESCOVI, PER LA PACE DELLA CHIESA, SOCCORRETE LE VOSTRE PECORE! Le quali, già impaurite come per il terrore dei lupi, temono per di più fortemente voi stessi, piene di confusione perché sospinte da un ovile all’altro. Così sono esitanti: un po’ vengono, un po’ si allontanano; come vengono, così vanno e sempre sono in preda al timore e allo sconcerto […].
Non si tratta, infatti, solo di un’onda minacciosa solitaria […], ma è uno sconvolgimento di tutto il mare, che in verità da ogni parte si gonfia ed è agitato e minaccia di far naufragare la mistica nave. Perciò io, timido marinaio, oso gridare: Vigilate! Perché l’acqua è già entrata nella Chiesa e la nave è in pericolo!
Noi, infatti, siamo discepoli dei santi Pietro e Paolo e di tutti quei Discepoli che scrissero il canone divino mossi dallo Spirito Santo, tutti noi Irlandesi, abitanti dell’estremità del mondo, e nulla accogliamo all’infuori della dottrina evangelica e apostolica; non ci fu nessun eretico tra noi, nessun giudeo, nessuno scismatico; al contrario, siamo irremovibili nella dottrina cattolica, come fin dal principio è stata tramandata da voi, veri successori dei Santi Apostoli.

Esorto pertanto Voi, miei padri e difensori, a dissipare la confusione che regna tra i vostri figli e discepoli, i quali per causa vostra sono disorientati, e ciò che è ancora più importante, VI SPRONO A SPAZZAR VIA DALLA CATTEDRA DI SAN PIETRO LA CALIGINE DEL SOSPETTO. Convocate dunque un’assemblea, perché vi scagioniate da ciò di cui vi si accusa; non vi trovate infatti, davanti ad una semplice gara di corsa [ma alla battaglia finale, ndr].
Come sento dire, vi si imputa di accogliere gli eretici! Ma sia lungi dal credere che ciò sia stato, sia o sarà vero».
(San Colombano Abate, Lettera al Papa Bonifacio IV, AD 613)



[Modificato da Caterina63 12/11/2016 15:56]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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IL LIBRO

 




«False testimonianze»: è uscito il libro del sociologo delle religioni Rodney Stark che fa piazza pulita di quattro secoli di miti storici anticattolici. Dalle crociate all'antisemitismo, dall'Inquisizione all'antimodernità, ecco perché la storia sul ruolo della Chiesa nella società va riscritta.



di Peppino Zola

False testimonianze

Caro direttore,

vorrei segnalare a te ed ai tuoi sempre più numerosi lettori un libro che mi sembra molto interessante: si tratta di “False testimonianze”, dello storico e sociologo della religione Rodney Stark (Lindau, euro 25). La novità di quest’opera sta nel fatto che con essa l’autore intende sfatare alcune false leggende storiche e culturali, che sono state inventate ad arte per danneggiare la reputazione dei cattolici e della loro Chiesa. Infatti, il sottotitolo così recita: “Come smascherare alcuni secoli di storia anticattolica”.
E l’autore termina la sua prefazione con queste parole: “Non sono cattolico e non ho scritto questo libro per difendere la Chiesa. L’ho scritta per difendere la storia”.
Onore alla onestà intellettuale di Rodney Stark.

Il libro, infatti, affronta i temi principali sui quali, nei secoli, si è affermata, da parte dei nemici della Chiesa (che continuano ad esserci, più agguerriti di prima), una sorta di pensiero obbligatorio (e quindi non libero) con il quale si è riusciti a convincere tanti che la Chiesa sarebbe necessariamente retrograda, antistorica, antiscientifica, etc..

L’autore, con grande rigore, confuta una serie di accuse fatte alla Chiesa, come il suo antisemitismo, l’intolleranza verso i pagani, “l’invenzione dei Secoli Bui”, naturalmente le crociate, l’inquisizione, le eresie, addirittura l’accusa per la quale i cattolici sarebbero stati favorevoli alla schiavitù, l’antimodernità ed anche altro.

Io sono stato colpito, in particolare, dal capitolo dedicato ai “Secoli Bui”, in cui Stark dimostra come, in realtà, quelli furono secoli di grande progresso, in tutti i campi del sapere e della vita umana. I secoli bui sono stati letteralmente inventati dagli idolatri del Rinascimento e dell’Illuminismo, contro la più elementare verità delle cose. In realtà, soprattutto grazie all’influenza dell’educazione cristiana, i c.d. secoli bui costituirono tempi di notevole progresso tecnologico e morale, nonché di progresso nella cultura, nella musica, nell’arte e nella letteratura, nella teologia. Insomma, fu un’epoca che mise le basi per una straordinaria evoluzione delle possibilità umane, purtroppo in gran parte sprecate per avere in seguito abbandonato l’origine religiosa di quelle basi. Ma come si fanno a definire bui anni in cui vissero Dante. Agostino, Ambrogio, Tommaso d’Aquino,  Cimabue, Giotto, Chauser e così via?

Mi sembra che l’opera di Stark sia molto importante, in un’epoca in cui gli occidentali in genere, ed i cattolici in particolare, vivono una sorta di complesso di inferiorità, causato, mi sembra, proprio dal fatto che troppi credono alle favole inventate dai laicisti di questi ultimi quattro secoli. Ho l’impressione che talora i cattolici siano diventati troppo timidi (o vergognosi) nell’annunciare la novità di Cristo perché hanno, nel loro retropensiero, il complesso causato dalle crociate e da cose del genere. 

E’ utile, allora, ricordare loro che, innanzi tutto, quelle credenze e quei retropensieri sono per la gran parte falsi, perché inventati dai nemici di Cristo e della sua Chiesa. Noi cristiani sappiamo per dogma che ognuno di noi nasce con il peccato originale e quindi siamo coscienti di essere peccatori, come ci ricordiamo all’inizio di ogni Santa Messa. Ma dovremmo anche sapere che, dopo la resurrezione di Cristo, ciò non ci può impedire di essere ingenuamente baldanzosi, perché “Dio ha bisogno degli uomini” così come sono. Gli errori non ci possono fermare, soprattutto quando gli errori non sono tali (o lo sono solo in parte). Noi spesso chiediamo perdono anche per errori passati (per via della comunione del “corpo mistico”) ed è giusto. Facendo così spesso speriamo di essere meglio compresi dagli altri. A volte capita. Ma spesso ho l’impressione che questa insistenza sia un po’ come dare le perle ai porci. Stark ci aiuta, tra l’altro, a renderci conto che non tutti i peccati di cui ci accusiamo sono veri.








Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Il “male minore” porta Male (1° parte: Male minore, nuovo nome della barbarie?)






01 male


L’argomento del “male minore” è un argomento che puntualmente salta fuori quando vi sono da prendere determinate decisioni politiche o legislative. I favorevoli al “male minore” si pongono sulla linea del “cedere per non perdere”, sulla necessità di “limitare i danni”. Chi sposa questa prospettiva afferma che è doveroso scegliere un “male minore” se questo può servire a evitare un “male maggiore”.


 


INDICE:


       1 ) “Male minore”, nuovo nome della barbarie?


Male minore e “nuovi diritti” legalizzati


2) Male minore e aborto


3) Male minore e fecondazione extracorporea


4) Male minore e divorzio


5) Male minore e contraccezione artificiale


Male minore e “nuovi diritti” reclamati


6) Male minore e matrimonio gay


7) Male minore e droga libera


8) Male minore, eutanasia e suicidio assistito


9) Male minore, eutanasia passiva e Testamento biologico


10) Conclusione


              Bibliografia, Filmografia, Articoli e Studi


 


1) “MALE MINORE”, NUOVO NOME DELLA BARBARIE?


L’argomento del “male minore” è un argomento che puntualmente salta fuori quando vi sono da prendere determinate decisioni politiche o legislative. I favorevoli al “male minore” si pongono sulla linea del “cedere per non perdere”, sulla necessità di “limitare i danni”. Chi sposa questa prospettiva afferma che è doveroso scegliere un “male minore” se questo può servire a evitare un “male maggiore”. Oppure, trovandosi di fronte a due mali, si afferma l’obbligo di scegliere il minore perché bisogna avere il coraggio di “sporcarsi le mani”, mentre non scegliere affatto è considerata una condotta da irresponsabili.


02 Hannah ArendtTra coloro che si sono espressi contro la teoria del “male minore” vi è senz’altro la scrittrice e filosofa tedesca Hannah Arendt, famosa è la sua affermazione: “Chi sceglie il male minore dimentica rapidamente di aver scelto a favore di un male”.


Nel 1940 la Arendt, di origini ebraiche, è costretta a fuggire in America per sottrarsi alla persecuzione nazista. Successivamente, nei primi anni Sessanta, ha la possibilità di seguire a Gerusalemme, come inviata del settimanale New Yorker, tutte le centoventi sedute del processo a Adolf Eichmann, il criminale nazista responsabile della deportazione di milioni di ebrei. Il resoconto del processo e le considerazioni della scrittrice saranno raccolte nel libro “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme”, pubblicato nel 1963, dove, con l’argomento del “male minore”, Arendt riesce a spiegare come i “buoni cittadini” possano essere resi partecipi di politiche del male.


L’idea espressa da Arendt è quella secondo cui i Consigli ebraici, optando ogni volta per il male minore della mitigazione degli orrori nazisti, avevano inconsapevolmente contribuito alla distruzione del loro stesso popolo e, in ultima analisi, alla loro stessa rovina; mentre se si fossero organizzati, non collaborando con i tedeschi nel tentativo di moderare le loro politiche, avrebbero potuto avere più chances di sopravvivenza. In altre parole, con l’intento di salvare se stessi e altri ebrei, ebrei eminenti – definiti dalla scrittrice “aiutanti delle SS” e “strumenti degli assassini” – avevano collaborato con i nazisti delle nazioni occupate, lasciando che moltissimi di loro fossero deportati e uccisi:



“Ad Amsterdam come a Varsavia, a Berlino come a Budapest, i funzionari ebrei erano incaricati di compilare le liste delle persone da deportare e dei loro beni, di sottrarre ai deportati il denaro per pagare le spese della deportazione e dello sterminio, di tenere aggiornato l’elenco degli alloggi rimasti vuoti, di fornire forze di polizia per aiutare a catturare gli ebrei e a caricarli sui treni e, infine, ultimo gesto, di consegnare in buon ordine gli inventari dei beni della comunità per la confisca finale”.



I capi ebraici erano gli unici a conoscere il segreto della destinazione finale delle deportazioni e, non informando le future vittime, anche quando ispirati dal senso di pietà, si trasformarono nei signori della vita e della morte:



“La verità vera era che sia sul piano locale sia su quello internazionale c’erano state comunità ebraiche, partiti ebraici, organizzazioni assistenziali ebraiche. Ovunque c’erano ebrei, c’erano stati capi ebraici riconosciuti e questi capi, senza eccezioni, avevano collaborato con i nazisti, in un modo o nell’altro, per una ragione o per l’altra…


La pura verità, è che se il popolo ebraico fosse stato disorganizzato e senza capi ci sarebbero stati caos e miseria, ma il numero totale delle vittime difficilmente avrebbe raggiunto i 4,5-6 milioni di persone”.



Le accuse mosse da Arendt alle élites ebraiche scatenano immediate e aspre polemiche: Arendt viene definita un’antisionista priva di compassione e di obiettività, un’ebrea affetta da odio verso se stessa che confonde perversamente le vittime con i carnefici. Le autorità ebraiche, invece, vengono da più parti giustificate e difese in nome della loro scelta per il male minore. La filosofa tedesca ribatte alle critiche affermando che, se ogni resistenza vera e propria era irrealizzabile, c’era pur sempre la possibilità di “non fare niente”, e in quella circostanza “non fare niente” era proprio ciò che i capi ebraici avrebbero dovuto fare.


Il “male minore” si incontra anche nelle risposte di Eichmann durante le fasi del processo a suo carico: siamo scesi a patti con il diavolo senza vendergli l’anima; noi che figuriamo colpevoli oggi, siamo però stati i soli a restare al nostro posto per evitare che le cose andassero anche peggio, mentre coloro che non hanno fatto nulla si sono sottratti alle loro responsabilità, pensando solo a se stessi, alla salvezza delle loro anime.


Benché l’accusa israeliana cerchi di dipingere Eichmann come il mostro responsabile della morte di milioni di ebrei:



“L’assassino di un popolo”, “un nemico del genere umano… nato uomo ma vissuto come una belva nella giungla… che non merita più di essere chiamato uomo”, un uomo che “ha commesso crimini orrendi, che non hanno nulla di umano perché sono al di là della frontiera che separa l’uomo dalla bestia”, e “che agì con entusiasmo, con piena soddisfazione e con passione fino alla fine”.



Arendt, al contrario, lo descrive come “l’incarnazione dell’assoluta banalità del male”. Si vuole farne uno Iago, un Macbeth, un Riccardo III, vi si vuole vedere una profondità diabolica, perversa, demoniaca – constata polemicamente la filosofa -, invece è un uomo qualunque, un piccolo borghese, al massimo un po’ codardo, che, non diversamente da tanti altri “bravi padri di famiglia”, non guarda troppo a fondo nei compromessi che è costretto a fare per mandare avanti la propria esistenza, cogliendo in essi l’occasione per fare carriera.


03 adolf eichmann al processoCiò che la scrittrice scorge nel criminale nazista è la dicotomia tra la persona e gli atti compiuti, nel senso che “le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso”. L’immagine che Eichmann offre di sé è, infatti, ben lontana da quella di un esaltato, di un folle, di una persona diabolica mossa dal puro piacere di compiere atti malvagi, egli appare piuttosto un uomo docile, un normale funzionario, che giustifica il ruolo cruciale avuto nell’esecuzione dell’olocausto con il fatto di aver semplicemente svolto il suo lavoro, “di avere eseguito ordini come qualunque soldato avrebbe dovuto fare durante una guerra”. Una motivazione che, nel corso del dibattimento processuale, uscirà spesso dalla sua bocca:



“Si viveva in un’epoca di crimine legalizzato dallo Stato. La responsabilità era di coloro che davano gli ordini. Io sentivo che la mia adesione al nazionalismo che veniva predicato significava fare il mio dovere secondo il mio giuramento”.


“Dovevo obbedire, dovevo farlo. Un uomo può essere messo in una condizione che può portare alla follia e nella quale basta un niente, nemmeno un atto premeditato, per fargli tirare fuori una pistola”.



E quando il procuratore gli domanda: “In coscienza, si ritiene colpevole di complicità nell’assassinio di migliaia di ebrei, sì o no?”, Eichmann risponde:



“Sul piano umano, sì, perché sono colpevole di aver organizzato le deportazioni”, ma “i rimpianti sono inutili perché non servono a resuscitare i morti. I rimpianti non hanno senso… è più importante trovare i modi per impedire che ciò accada nel futuro…


Tengo a dichiarare che considero questo assassinio, lo sterminio degli ebrei, uno dei crimini più orrendi della storia dell’umanità. Dichiaro, per concludere, che già allora io stesso pensavo che questa soluzione violenta non fosse giustificata… La consideravo un atto mostruoso. Ma ero legato al mio giuramento d’obbedienza e dovevo occuparmi nel mio settore dell’organizzazione dei trasporti. Non ero sciolto dal mio giuramento. Quindi non mi sento responsabile, nel profondo di me stesso. E mi sento liberato da ogni colpa. Ero sollevato per non aver avuto nulla a che fare con lo sterminio fisico. Ero fin troppo occupato dal lavoro che mi avevano ordinato. Ero capace e svolgevo il mio lavoro dietro una scrivania. Facevo il mio dovere conformemente agli ordini. Non ho mai avuto rimproveri per non aver compiuto il mio dovere o di aver mancato in qualcosa nel fare il mio dovere. E ancora una volta, oggi, lo voglio ripetere”.



Disgraziatamente – nota Arendt – Eichmann non era un caso isolato, uomini del suo stampo si potevano incontrare in moltissimi altri burocrati, normali “padri di famiglia”, tedeschi “medi”, una massa compatta di uomini “normali” i cui atti erano però mostruosi:



“Ma il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali.


Dal punto di vista delle nostre istituzioni giuridiche e dei nostri canoni etici, questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, poiché implica – come già fu detto e ripetuto a Norimberga dagli imputati e dai loro patroni – che questo nuovo tipo di criminale, realmente hostis generis humani, commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male”.



Il problema etico più inquietante – osserva in sostanza Arendt – non è rappresentato tanto dagli ideatori della politica criminale, da chi ha commesso il male “per amore del male”, bensì dal grande numero di coloro che non erano né demoni né fanatici e che, semplicemente, non avevano le motivazioni per rifiutarsi di agire secondo quanto stabilito dalla legge. Nell’ambito della collaborazione dei tedeschi qualunque, soprattutto di quelli impegnati nel servizio civile, Arendt riesce a dimostrare come “l’argomento del male minore” sia diventato il più importante “armamentario terrorista e criminale”, e come questo sia stato usato “per abituare i funzionari e la popolazione ad accettare in generale il male in sé”, al punto tale per cui “chi sceglie il male minore dimentica rapidamente di aver scelto a favore di un male”.


04 Zygmun BaumanLa tesi della filosofa tedesca sarà ripresa dal filosofo polacco di origini ebraiche Zygmunt Bauman (“Modernità e Olocausto, Il Mulino, Bologna 1992), secondo il quale non ci vuole niente di più di questo perché si dia il male: uomini e donne qualunque che



“continuino ad assecondare il gioco della storia con i dadi truccati di una ragione che destituisce di valore ogni pretesa di senso, per accordarsi all’universalità del calcolo costi-benefici”.



05 Eyal WeizmanPiù di recente, le osservazioni di Arendt sono state richiamate e calate nell’odierno contesto politico da Eyal Weizman – un architetto israeliano che insegna all’University of London -, che nel 2009 ha pubblicato con Nottetempo un libretto intitolato proprio “Il male minore”. Weizman cerca di svelare cosa si nasconde dietro il concetto di “male minore” nell’uso politico contemporaneo, e si chiede se la cultura del male minore può giungere a giustificare la violenza, fino a farla persino proliferare:



“Nella nostra postutopica cultura politica contemporaneail termine [male minore] è così profondamente naturalizzato e invocato in una serie di contesti incredibilmente diversi tra loro – dalla morale individuale situazionale alle relazioni internazionali, passando dai tentativi di governare le economie della violenza nel contesto della ‘guerra del terrore’ a quelli degli attivisti umanitari e dei diritti umani di destreggiarsi in mezzo ai paradossi dell’assistenza – che esso sembra aver completamente preso il posto che precedentemente era riservato al termine ‘bene’”.



L’architetto israeliano porta quale esempio emblematico di questa visione, nell’ambito della cosiddetta “guerra del terrore”, il libro “Il male minore” di Michael Ignatieff, studioso di diritti umani e vicesegretario del Partito Liberale Canadese:



“Ignatieff propone che gli stati liberali stabiliscano meccanismi che regolino la violazione di alcuni diritti e consentano ai loro servizi di sicurezza di impegnarsi in forme di violenza extra-giuridica – vale a dire ‘mali minori’ – al fine di evitare o limitare potenziali ‘mali maggiori’ (Ignatieff ritiene per esempio che gli omicidi mirati rientrino ‘nel legittimo contesto del male minore’ poiché si spiegano come alternativa alla punizione collettiva).


Questi esecutori postmoderni dovrebbero dunque calcolare vari generi di misure distruttive in maniera utilitaristica, non in relazione al male che producono ma a quello che prevengono. Questo dovrebbe essere sufficiente a domandarci se il ‘male minore’ non sostituisca la ‘banalità del male’ come forma contemporanea di esecuzione”.



Una siffatta “economia della violenza” – osserva Weizman -, potrebbe originare gravi conseguenze, dato che “le questioni di violenza sono sempre imprevedibili”, ma anche pericolosi paradossi, con scenari di proliferazione della violenza invece della sua prevenzione:



“Il presunto male minore potrebbe essere più violento della violenza a cui si oppone e potrebbe non esserci fine alle sfide che derivano dall’impossibilità di calcolo”.


Inoltre, “una misura meno brutale è anche una misura facilmente naturalizzabile, accettabile, tollerabileQuando misure eccezionali vengono normalizzate, possono venire applicate più frequentemente. […] alla fine, potrebbero essere commessi più mali minori, con il risultato di un grande male raggiunto cumulativamente”.



Optare per il “male minore” – afferma dunque Weizman – conduce all’accettazione e normalizzazione di un determinato male e, quindi alla sua reiterazione e diffusione, per questo egli arriva a suggerire che il “male minore” possa essere in realtà “il nuovo nome della nostra barbarie”.


L’architetto nota, inoltre, che proprio l’argomento del “male minore” è stato spesso usato dai regimi totalitari. Famoso è il detto di Stalin – ricordato anche da Arendt (“Le uova alzano la voce”) – secondo il quale “non puoi rompere le uova senza fare una frittata”, vale a dire: a forza di rompere le uova prima o poi si produrrà necessariamente la frittata desiderata. Con il suo slogan Stalin vuole insegnare che l’edificazione del regime della vera giustizia tra gli uomini si può realizzare solo attraverso grandi sacrifici di vite umane. “La strada verso l’utopia (intesa come risultato di bene) è lastricata di mali minori”, commenta Weizman.


La frase dell’architetto israeliano richiama alla mente il noto proverbio “Le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni”, che oltre a calzare a pennello con il nostro ragionamento, ci mostra anche qual è la meta finale di chi accetta di compiere il male a “fin di bene”, di scendere cioè a compromessi con il male, seppure con la buona intenzione di prevenire un male più grande: la meta finale è l’inferno, la dannazione eterna. Uno scenario ben rappresentato anche dal seguente racconto:


La tentazione


06 tentazione


C’era una volta un eremita così perfetto che aveva già un piede in Paradiso.


Viveva di quasi niente in una grotta scavata nei fianchi di una montagna verde dove raccoglieva frutti selvatici, bacche e qualche radice per il pranzo della domenica.



  • “Come posso tentarlo?”, si chiedeva continuamente il diavolo.


Lo spiava, fiutava le sue impronte, lo esaminava dalla testa ai piedi per trovare il minimo punto debole. Niente. Pestava i piedi, si arrabbiava, imprecava, finché decise di passare all’attacco diretto.


Si presentò all’eremita, che stava rammollendo un pezzo di pane raffermo nell’acqua della sorgente.



  • “Salve”, gli disse Satana. “Sai chi sono io?”.

  • “Il diavolo”, risposte tranquillamente l’eremita.

  • “Dio mi ha dato il permesso di tentarti. Vorrei che tu commettessi un peccato grave”.

  • “Parla”, disse l’eremita. “Ti ascolto”.

  • “Assassina qualcuno”.

  • “No. È fuori discussione”.

  • “Allora assali una donna”.

  • “È una cosa bestiale e disgustosa. Non lo farò mai. Vattene, diavolo. Non hai fantasia”.

  • “Almeno bevi un sorso di vino. Non è neanche un peccato. Accontentami”.

  • L’eremita sospirò: “Va bene. Un sorso non è nulla di male”.


Immediatamente gli comparve tra le mani una brocca di vino fresco e frizzante. Ne bevve un sorso. Prese fiato e ne bevve un altro.



  • “Uhm”, disse. “È gradevole”. Bevve un altro lungo sorso e disse: “È forte… È diabolico!”.


Cominciò a ridere stupidamente. Poi riprese a bere, malfermo sulle ginocchia.


Una ragazzina saliva per il sentiero.



  • “Buongiorno sant’uomo”, disse. “Ti ho portato qualche mela e del pane”.


Ululando, con gli occhi annebbiati, l’eremita afferrò la ragazzina per i capelli e la sbatté a terra. La poverina urlò con tutte le sue forze. Suo padre, che lavorava nei campi, la udì e accorse. L’eremita vedendo arrivare l’uomo afferrò una grossa pietra e lo colpì con tutte le sue forze.


Quando ritornò in sé, l’eremita vide l’uomo che giaceva ai suoi piedi in un lago di sangue.



  • “Credo sia morto”, disse Satana, con aria virtuosa. Raccolse un fiore e se lo mise in bocca.

  • L’eremita si gettò in ginocchio inorridito: “Signore Dio, che cosa ho fatto?”.

  • Il diavolo rispose: “Di tre mali hai scelto il minore. Questo ti farà passare lunghe giornate in mia compagnia”.


Fischiettando, con le mani in tasca, si avviò. Dopo qualche passo si fermò, si voltò e come chiamasse un vecchio compagno di strada, disse:



  • “Allora, eremita, vieni?”.


Non esistono mali minori…


Il racconto mostra non soltanto che la scelta del male minore non ha prevenuto alcunché ma che, anzi, proprio quella scelta, la scelta del male minore, è stata decisiva per il verificarsi del male maggiore che altrimenti non ci sarebbe stato.


Come si è arrivati a questo disastroso epilogo e alla tragica sorte che alla fine attende il protagonista della storia (la dannazione eterna)? Ci si è arrivati solo dopo il cedimento alla tentazione diabolica, non a caso il titolo del racconto non è “il male minore”, ma appunto “La tentazione”.


La scelta tra “male minore” e “male maggiore” potrebbe dunque essere solo una tentazione? La risposta non può che essere sì perché in realtà, dal punto di vista morale, il “caso perplesso” non esiste. Alla voce “Minor male” del Dizionario di Teologia Morale (Editrice Studium, 1969) del Cardinale Pietro Palazzini, si legge:



“Di due mali scegliere e perciò compiere il minore non è lecito, se si tratta di due mali morali ossia di due operazioni che sono in se stesse violazione della legge morale. La tesi è evidente. Un male non diventa bene o lecito, perché c’è un altro male più grande, che si potrebbe scegliere. Il problema morale, proposto nella domanda ‘Se è lecito o obbligatorio scegliere di due mali il minore’, suppone una cosa, che in realtà non può esistere, cioè il cosiddetto caso perplesso, nel quale l’uomo sarebbe costretto a scegliere tra due atti peccaminosi, così che se non scelga l’uno, necessariamente debba scegliere l’altro. Un tale caso moralmente è impossibile. Perché l’uomo può sempre astenersi da qualsiasi atto positivo, che importa la scelta di un mezzo. L’uomo può sempre non fare, se fare l’una o l’altra cosa sia sempre peccato; e questo non fare non è peccato in sé (p. es., non procurare l’aborto).


Se da questa omissione seguono, in virtù di circostanze, gravi danni, p. es. la morte della madre, o della madre e del bambino insieme, l’uomo non è responsabile per questi danni, perché nessuno è responsabile per le conseguenze della condotta da lui seguita quando non c’era possibilità d’agire senza peccare.


Scegliere il minor male è lecito, quando questo minor male non è in sé un male morale (peccato), ma è o un male puramente fisico o un atto od omissione in sé buona o indifferente, dal quale o dalla quale però, nel caso concreto, seguirà un effetto accidentale cattivo, meno grave però di quello che produrrebbe un altro mezzo; p. es. di due farmaci, che producono tutti e due un effetto cattivo sulla salute, ma che sono ugualmente utili per me, io devo scegliere il meno nocivo, perché ho l’obbligo di non recare nocumento alla mia salute”.



La convinzione che tra due mali si debba scegliere il minore e il fatto che in questa scelta, che si crede obbligata o quantomeno necessaria, si racchiuda invece una tentazione, è stata svelata anche da Mary McCarthy, la scrittrice amica della Arendt, la quale osserva: “Se qualcuno ti punta addosso una pistola e ti dice ‘Uccidi il tuo amico o io uccido te’, ti sta semplicemente tentando”.


Anche Weizman, al pari di Arendt, arriva alla conclusione secondo cui sia preferibile “non fare niente” piuttosto che collaborare con il male. Scrive infatti Weizman: quando nient’altro è possibile



“fare niente è l’ultima forma effettiva di resistenza, e le conseguenze pratiche del rifiuto, e perciò del caos, sono quasi sempre migliori, se abbastanza persone rifiutano […] Dobbiamo avere il coraggio di pensare oltre l’economia e i calcoli della violenza e della sofferenza, oltre l’ordine aritmetico ‘del più e del meno’ che regola lo scambio dei beni e della sofferenza umana, oltre le interminabili negoziazioni, complessità, contingenze e complicità del pragmatismo miope della ‘politica del male minore’”.



Meglio il caos piuttosto che il compromesso con il male, dicono in sostanza sia Arendt che Weizman.


Dunque, con il male non si scende a patti, nemmeno se si presenta in forma “minore”, o mascherato da atto di giustizia, o come prevenzione di un male più grande, con esso non si tratta a costo di morirne, come insegna da sempre anche il cristianesimo. Scrive San Paolo nella Lettera ai Romani:



“Non facciamo il male affinché ne venga il bene” (Rm 3,8).


“Aborrite il male e attenetevi fermamente al bene” (Rm 12,9).


“Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene” (Rm 12,21).



Parole riprese da Giovanni Paolo II nel Messaggio per la celebrazione della 28° giornata mondiale della pace:



“Il male non si sconfigge con il male: su quella strada, infatti, anziché vincere il male, ci si fa vincere dal male”.



La scelta del minore dei mali, che di fatto si traduce nell’imboccare la scorciatoia del compromesso, è quindi una tentazione diabolica che non solo non previene il male maggiore, ma a esso prepara la strada e spalanca la porta. Dopodiché il male comincerà a chiedere, di volta in volta, sempre di più (pendio scivoloso) insinuandosi dall’ingresso nelle stanze vicine, e poi da queste in tutti gli altri ambienti, finché non diventerà il legittimo padrone dell’intero edificio.


07 Ernest HelloQuesta verità secondo cui, dal cedimento alla tentazione diabolica – mediante l’accettazione di scendere a patti con il male – si arrivi all’inesorabile vittoria finale del male, è stata evidenziata con sagace ironia dallo scrittore francese e apologista cristiano Ernest Hello (1828 – 1885) che, nell’opera L’homme del 1872, così scrive:



“Lo spirito del male dice: ‘Riposati. Che farai nella mischia? Altri combatteranno abbastanza. Tu che sei savio, non iscomodare le tue abitudini. Il male, continua il diavolo, è sempre esistito ed esisterà sempre nelle stesse proporzioni. I pazzi che vogliono combatterlo non guadagnano nulla e perdono il loro riposo. Tu che sei savio, dà ad ogni cosa la sua parte e non dichiarare a niente la guerra. È impossibile illuminare gli uomini. Perché dunque tentarlo? Fa pace con le opinioni che non sono tue. Non sono esse tutte ugualmente legittime?’.


Così parla il demonio; e l’uomo separato dalla verità, perché ha paura di lei, che è l’Atto puro, l’uomo, insensibilmente e a sua insaputa, si unisce all’errore […] discende a poco a poco, durante il suo sonno, in quell’indifferenza glaciale, placida e tollerante, che non s’indigna di niente, perché non ama niente, e che si crede dolce perché è morta.


E il demonio vedendo quest’uomo immobile, gli dice: ‘Tu gusti il riposo del savio’; vedendolo neutro tra la verità e l’errore, gli dice: ‘Tu li domini entrambi’; vedendolo inattivo, gli dice: ‘Tu non fai del male’; vedendolo senza risorsa, senza vita, senza reazione contro la menzogna e il male […], gli dice ‘Io t’ho ispirato una filosofia savia, una dolce tolleranza, tu hai trovato la calma nella carità’, perché il demonio pronunzia spesso le parole di tolleranza e di carità.


L’uomo vivo, l’uomo attivo che ama e che è unito all’unità, afferra il rapporto delle cose, e unisce fra loro le verità.


L’uomo morto ha perduto il senso dell’unità. Non unisce più verità fra di loro: non concilia più, per la contemplazione dell’armonia, le cose che devono esser conciliate, le cose vere, buone e belle.


Ma in cambio, compone una parodia satanica dell’unità; cerca di amare insieme il vero e il falso, il bene e il male, il bello e il brutto; non sempre si adira, almeno in apparenza, se si affermano i dogmi, ma preferisce che si neghino.


Non avendo voluto unire ciò che è unito, credere a tutta la verità, conciliare quel che è conciliabile, cerca di unire ciò che è necessariamente ed eternamente contradittorio, di credere insieme alla verità e all’errore, di conciliare il Sì e il No; non avendo voluto amare Dio tutto intiero, cerca di amare Dio e il diavolo: ma è l’ultimo che preferisce”.


“Che si direbbe d’un medico il quale, per carità, avesse riguardi verso la malattia del suo cliente? Immaginate questo tenero personaggio. Direbbe al malato: Dopo tutto, amico mio, bisogna essere caritatevole. Il cancro che vi corrode è forse in buona fede. Suvvia, siate gentile, fate con lui un po’ d’amicizia; non bisogna essere intrattabili; fate la parte del suo carattere. In questo cancro, esiste forse una bestia; essa si nutre della vostra carne e del vostro sangue, avreste il coraggio di rifiutarle quanto le occorre? La povera bestia morirebbe di fame. Del resto, io sono condotto a credere che il cancro è in buona fede e adempio presso di voi ad una missione di carità.


È il delitto del secolo decimonono quello di non odiare il male, e di fargli delle preposizioni. Non vi ha che una proposizione da fargli, è di scomparire. Ogni accomodamento concluso con lui somiglia neppure al suo trionfo parziale, ma al suo trionfo completo, perché il male non sempre domanda di scacciare il bene, domanda il permesso di coabitare con lui. Un istinto segreto lo avverte che domandando qualche cosa, domanda tutto. Appena non è più odiato, si sente adorato”.



Il presupposto secondo cui non sia lecito fare il male, nemmeno a fin di bene, nasce dal fatto che ci sono azioni che sono sempre cattive, lo sono in se stesse e perciò la loro natura “intrinsecamente cattiva” non cambia al cambiare del fine e delle circostanze, per questo motivo non è mai lecito compierle. Scrive Giovanni Paolo II nell’Enciclica Veritatis Splendor:



“Sono gli atti che, nella tradizione morale della Chiesa, sono stati denominati ‘intrinsecamente cattivi’ (intrinsece malum): lo sono sempre e per sé, ossia per il loro stesso oggetto, indipendentemente dalle ulteriori intenzioni di chi agisce e dalle circostanze. Per questo, senza minimamente negare l’influsso che sulla moralità hanno le circostanze e soprattutto le intenzioni, la Chiesa insegna che ‘esistono atti che, per se stessi e in se stessi, indipendentemente dalle circostanze, sono sempre gravemente illeciti, in ragione del loro oggetto’.


Lo stesso Concilio Vaticano II, nel contesto del dovuto rispetto della persona umana, offre un’ampia esemplificazione di tali atti: ‘Tutto ciò che è contro la vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio, l’aborto, l’eutanasia e lo stesso suicidio volontario; tutto ciò che viola l’integrità della persona umana, come le mutilazioni, le torture inflitte al corpo e alla mente, gli sforzi per violentare l’intimo dello spirito; tutto ciò che offende la dignità umana, come le condizioni infraumane di vita, le incarcerazioni arbitrarie, le deportazioni, la schiavitù, la prostituzione, il mercato delle donne e dei giovani, o ancora le ignominiose condizioni del lavoro con le quali i lavoratori sono trattati come semplici strumenti di guadagno, e non come persone libere e responsabili; tutte queste cose, e altre simili, sono certamente vergognose e, mentre guastano la civiltà umana, ancor più inquinano coloro che così si comportano, che non quelli che le subiscono, e ledono grandemente l’onore del Creatore”.


“Insegnando l’esistenza di atti intrinsecamente cattivi – prosegue il papa -, la Chiesa accoglie la dottrina della Sacra Scrittura. L’apostolo Paolo afferma in modo categorico: ‘Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il Regno di Dio’ (1Cor 6,9-10).


Se gli atti sono intrinsecamente cattivi, un’intenzione buona o circostanze particolari possono attenuarne la malizia, ma non possono sopprimerla: sono atti ‘irrimediabilmente’ cattivi, per se stessi e in se stessi non sono ordinabili a Dio e al bene della persona: ‘Quanto agli atti che sono per se stessi dei peccati (cum iam opera ipsa peccata sunt) – scrive sant’Agostino -, come il furto, la fornicazione, la bestemmia, o altri atti simili, chi oserebbe affermare che, compiendoli per buoni motivi (causis bonis), non sarebbero più peccati o, conclusione ancora più assurda, che sarebbero peccati giustificati?’.


Per questo, le circostanze o le intenzioni non potranno mai trasformare un atto intrinsecamente disonesto per il suo oggetto in un atto ‘soggettivamente’ onesto o difendibile come scelta”.



L’assunto “fare il bene, non fare il male”, non è di certo una prerogativa del cristianesimo ma una caratteristica innata dell’essere umano, ovvero della cosiddetta “legge morale naturale”. Le prime riflessioni sul “diritto naturale” risalgono allo stoicismo greco, che riconobbe l’esistenza di un “diritto di natura” che non muta nel tempo e nello spazio, un diritto che, proprio per la caratteristica di appartenere alla natura umana, vale per tutti gli uomini.


“Bisogna fare il bene ed evitare il male” è il primo e fondamentale principio del diritto naturale. Da questo discendono altri doveri, anch’essi definiti dallo stoicismo greco, i quali sono nel contempo anche diritti: dare a ciascuno il suo (concetto di giustizia), onora il padre e la madre, non ledere alcuno, non fare all’altro quello che non vuoi patire tu (regola d’oro), valido anche nella sua accezione positiva: fai all’altro ciò che vuoi sia fatto a te, bisogna rispettare i patti. Si tratta di principi base della vita sociale, di attitudini che regolano i rapporti con gli altri, di dettami universalmente validi e conosciuti, per questo motivo su di essi non è ammessa ignoranza.


Anche San Paolo, nella Lettera ai Romani, parla di legge morale naturale “scritta nel cuore” dell’uomo:



“Quando i pagani, che non hanno la legge, per natura agiscono secondo la legge, essi, pur non avendo legge, sono legge a se stessi. Essi dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono” (Rm 2,14-15).



Quindi, i pagani, pur non avendo la legge rivelata (Dieci Comandamenti) sono lo stesso in grado – grazie all’uso della coscienza e della ragione – di distinguere il bene dal male e, perciò, di agire optando per il primo ed evitando il secondo, perché si tratta di  una prerogativa connaturale all’uomo (“scritta nel cuore”). Per questo motivo, nessun uomo può appellarsi al fatto che, non credendo egli in Dio, non sia tenuto a discernere il bene dal male e perciò autorizzato ad agire come gli pare e piace. Né uno Stato democratico e civile, chiamato a realizzare il bene comune, può fare a meno di considerare quest’istanza fondamentale e i principi che ne discendono, essendo essi alla base della vita sociale e del vivere comunitario. Non c’è bisogno quindi di essere credenti per stabilire, per esempio, l’iniquità dell’omicidio: uccidere una persona è chiaramente un atto contrario al diritto naturale. Ciò rende sicuramente valido il divieto di “pena di morte”, ma altrettanto validi saranno anche il divieto di aborto e quello di eutanasia.


 


Male minore e “nuovi diritti” legalizzati


Ora, nonostante la cattiveria intrinseca di certe azioni, che ogni persona provvista di ragione e di una coscienza funzionante è in grado di vedere, non v’è dubbio che negli ultimi quarant’anni della nostra epoca si sia assistito a un fiorire di leggi inique – volte a garantire i cosiddetti “nuovi diritti” -, che violano innegabilmente la legge morale naturale. Il fatto è ancor più grave se si considera che queste violazioni del diritto naturale sono potute avvenire grazie al contributo decisivo dei cattolici, proprio quei cattolici che dovrebbero avere una marcia in più nell’ambito del discernimento del bene dal male, visto che loro, oltre a possedere la legge morale naturale che a tutti è data, hanno in più la legge rivelata all’uomo da Dio in persona: i Dieci Comandamenti e il Vangelo. Per questo motivo i cattolici sono doppiamente responsabili della deriva etica consumatasi nella storia recente e ancora oggi prepotentemente in corso, doppiamente responsabili per il fatto di aver violato sia il diritto naturale che i Comandamenti di Dio.


Com’è stato possibile, in Paesi culturalmente avanzati e con alti livelli di civiltà come il nostro, arrivare all’introduzione di leggi barbare in violazione di principi naturalmente riconoscibili? E soprattutto, cos’è che ha portato i politici cattolici a dare il proprio voto e assenso a questi “nuovi diritti” iniqui e immorali? Tutto questo è potuto avvenire proprio grazie all’argomento oggetto della nostra riflessione: la tentazione, l’abbaglio, la scelta del “male minore”.


Ognuno dei “nuovi diritti”, introdotti nelle ultime quattro decadi, ha alla radice questa scelta nefasta: la scelta del male a fin di bene. Una scelta in cui il “bene” viene rimpiazzato dal “male minore” e l’istanza fondamentale “bisogna fare il bene ed evitare il male” – istanza su cui si gioca tutta l’esistenza umana sulla terra e quella eterna futura, sia che si creda in Dio oppure no – diventa semplicemente “bisogna scegliere il male minore per evitare il male maggiore”. In ciascuno dei “nuovi diritti” già introdotti, così come in quelli che si stanno reclamando a gran voce, vi è alla radice questo calcolo utilitaristico dei costi/benefici che prende in esame solo il presunto male (maggiore) che si previene, e non tiene per nulla in considerazione né il bene, né il male che la scelta del “male minore” produce.


Tuttavia, quando dalla teoria si passa alla verifica dei fatti, quando cioè si vanno a controllare i risultati prodotti da queste politiche del compromesso sui princìpi fondamentali, i nodi tornano tutti quanti al pettine. Si può, infatti, notare che il “male maggiore” che si doveva prevenire non è stato affatto prevenuto e che anzi, spesso, è stata proprio la legittimazione del “male minore” a preparare la strada al verificarsi del “male maggiore”. Inoltre – grazie all’effetto “normalizzante” prodotto dalla legalizzazione e grazie all’innescarsi del meccanismo del cosiddetto “pendio scivoloso” -, si è potuta registrare sia la reiterazione ed espansione del “male minore” di partenza, che la nascita di nuovi mali a esso conseguenti. Tutto questo ha portato al risultato finale di un “trionfo completo” del male – come direbbe Ernest Hello -, o di “un grande male raggiunto cumulativamente”, se usiamo le parole di Weizman.


Esaminiamo ora, uno per uno, i “nuovi diritti” che sono stati legalizzati, concentrandoci in particolare sulla situazione italiana. Partiremo per ciascuno di essi dalla radice (“male minore”) che ne ha determinato la legalizzazione, poi ci occuperemo di valutare le conseguenze che, di fatto, ne sono discese. (segue)





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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