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Papa Francesco Viaggio Apostolico Cuba, America e Philadelphia 19-27 settembre 2015

Ultimo Aggiornamento: 28/09/2015 12:18
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21/09/2015 12:05
 
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VIAGGIO APOSTOLICO DEL SANTO PADRE FRANCESCO 
A CUBA, NEGLI STATI UNITI D'AMERICA 
E VISITA ALLA SEDE DELL'ORGANIZZAZIONE DELLE NAZIONI UNITE 

(19-28 SETTEMBRE 2015)

CELEBRAZIONE DEI VESPRI CON SACERDOTI, CONSACRATI E SEMINARISTI

OMELIA DEL SANTO PADRE

Cattedrale, La Habana
Domenica, 20 settembre 2015

[Multimedia]



Parole pronunciate dal Santo Padre

Il Cardinale Jaime [Ortega y Alamino] ci ha parlato di povertà, e la sorella Yaileny [Suor Yaileny Ponce Torres, Figlia della Carità] ci ha parlato dei più piccoli: “Sono tutti bambini”. Io avevo pronta un’omelia da dire ora, in base ai testi biblici, ma quando parlano i profeti – e ogni sacerdote è profeta, ogni battezzato è profeta, ogni consacrato è profeta – è bene ascoltare loro. E dunque consegno l’omelia al Cardinale Jaime perché la faccia arrivare a voi e sia pubblicata. Poi la mediterete. E adesso parliamo un po’ su quello che hanno detto questi due profeti.

Il Cardinale Jaime ha dovuto pronunciare una parola molto scomoda, estremamente scomoda, che va anche controcorrente rispetto a tutta la struttura culturale, tra virgolette, del mondo. Ha detto: “povertà”. E l’ha ripetuta più volte. E penso che il Signore ha voluto che la ascoltassimo più volte e la accogliessimo nel cuore. Lo spirito mondano non la conosce, non la vuole, la nasconde, non per pudore, ma per disprezzo. E se deve peccare e offendere Dio perché non venga la povertà, lo fa. Lo spirito del mondo non ama la via del Figlio di Dio, che spogliò sé stesso, si fece povero, si fece nulla, si umiliò, per essere uno di noi.

La povertà che fece paura a quel ragazzo così generoso: aveva osservato tutti i comandamenti, e quando Gesù gli disse: “Ecco, vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri”, si fece triste, ebbe paura della povertà. La povertà, cerchiamo sempre di sfuggirla, sia per cose ragionevoli, ma sto parlando di sfuggirla nel cuore. Saper amministrare i beni, è un dovere, perché i beni sono un dono di Dio, ma quando quei beni entrano nel cuore e incominciano a dirigere la tua vita, allora hai perso. Non sei più come Gesù. Hai la tua sicurezza dove l’aveva il giovane triste, quello che se ne andò rattristato. Per voi, sacerdoti, consacrati, consacrate, credo che può essere utile ciò che diceva sant’Ignazio – e questa non è propaganda pubblicitaria di famiglia! –, lui diceva che la povertà è il muro e la madre della vita consacrata. La madre perché genera più fiducia in Dio. E il muro perché la protegge da ogni mondanità. Quante anime distrutte! Anime generose, come quella del giovane intristito, che sono partiti bene e poi si sono attaccati a quella mondanità ricca, e sono finiti male. Vale a dire, mediocri. Sono finiti senza amore perché la ricchezza impoverisce, ma impoverisce male. Ci toglie il meglio che abbiamo, ci rende poveri dell’unica ricchezza che conta, per farci mettere la sicurezza in altre cose.

Lo spirito di povertà, lo spirito di spogliazione, lo spirito di lasciare tutto, per seguire Gesù. Questo lasciare tutto, non lo invento io. Ricorre più volte nel Vangelo. Nella chiamata dei primi che lasciarono le barche, le reti, e lo seguirono. Quelli che lasciarono tutto per seguire Gesù. Una volta mi raccontava un vecchio prete saggio, parlando di quando lo spirito di ricchezza, di mondanità ricca, entra nel cuore di un consacrato, di un sacerdote, di un vescovo, di un papa, di chiunque, diceva che quando uno incomincia ad accumulare denaro, e per assicurarsi il futuro, certo, allora il futuro non sta in Gesù, sta in una compagnia di assicurazione di tipo spirituale, che io controllo. Dunque, quando, per esempio, una congregazione religiosa – mi diceva lui – incomincia ad accumulare denaro e a risparmiare, risparmiare, Dio è così buono che le manda un economo disastroso, che la manda in fallimento. Sono tra migliori benedizioni di Dio per la sua Chiesa, gli economi disastrosi, perché la rendono libera, la rendono povera. La nostra Santa Madre Chiesa è povera, Dio la vuole povera, come ha voluto povera la nostra Santa Madre Maria. Amate la povertà come una madre. E semplicemente vi suggerisco, se qualcuno di voi vuole farlo, di domandarvi: come va il mio spirito di povertà? Come va la mia spogliazione interiore? Credo che possa far bene alla nostra vita consacrata, alla nostra vita presbiterale. Dopo tutto, non dimentichiamoci che è la prima delle Beatitudini: “Beati i poveri in spirito”, quelli che non sono attaccati alla ricchezza, ai poteri di questo mondo.

E la sorella ci parlava degli ultimi, dei più piccoli che, anche se sono grandi, alla fine li trattiamo come bambini perché si presentano come bambini. “Il più piccolo”. Questa è un’espressione di Gesù. E sta nel protocollo sul quale saremo giudicati: “Quello che avete fatto al più piccolo di questi fratelli, l’avete fatto a me” (cfr Mt 25). Ci sono servizi pastorali che possono essere più gratificanti dal punto di vista umano, senza essere cattivi o mondani, ma quando uno cerca di dare preferenza interiore al più piccolo, al più abbandonato, al più malato, a quello che nessuno considera, che nessuno vuole, al più piccolo, e si mette al servizio del più piccolo, costui sta servendo Gesù nel modo più alto. Tu [si rivolge alla suora] sei stata mandata dove non volevi andare. E hai pianto. Hai pianto perché non ti piaceva, e questo non vuol dire che sei una suora piagnona, no. Dio ci liberi dalle suore piagnone! Che stanno sempre a lamentarsi… Questo non lo dico io, lo diceva santa Teresa, alle sue monache. Viene da lei. Guai a quella suora che va in giro tutto il giorno a lamentarsi che “mi hanno fatto un’ingiustizia”. Nel linguaggio castigliano dell’epoca diceva: “Guai alla suora che va dicendo: mi hanno trattato senza ragione”. Tu hai pianto perché eri giovane, avevi altre aspettative, pensavi forse che in una scuola potevi fare più cose, e che potevi organizzare un futuro per la gioventù… E ti hanno mandato lì: “Casa di Misericordia”, dove la tenerezza e la misericordia del Padre si fa più evidente, dove la tenerezza e la misericordia del Padre si fa carezza. Quante religiose, e quanti religiosi, bruciano – e ripeto il verbo: bruciano – la loro vita accarezzando “materiale” di scarto, accarezzando quelli che il mondo scarta, quelli che il mondo disprezza, che il mondo preferisce non ci siano; quello che il mondo oggi, con metodi di analisi nuovi che esistono, quando si prevede che può venire con una malattia degenerativa, si propone di mandarlo indietro, prima che nasca. E’ il più piccolo. E una ragazza giovane, piena di aspettative, incomincia la sua vita consacrata rendendo presente la tenerezza di Dio nella sua misericordia. A volte non lo capiscono, non lo sanno, ma com’è bello per Dio, e quanto bene può fare, per esempio, il sorriso di uno spastico, che non sa come farlo, o quando ti vogliono baciare e ti sbavano la faccia.

E’ la tenerezza di Dio, è la misericordia di Dio. O quando sono arrabbiati e ti danno un colpo… E bruciare la mia vita così, con “materiale” di scarto agli occhi del mondo, questo non parla solamente di una persona; ci parla di Gesù, che, per pura misericordia del Padre, si fece nulla, si annientò, dice il testo della Lettera ai Filippesi, capitolo 2. Si fece nulla. E questa gente a cui tu dedichi la tua vita, imitano Gesù, non perché lo hanno voluto, ma perché il mondo li ha portati a questo. Sono nulla e li si nasconde, non li si mostra, o non li si visita. E se possibile, e se si arriva in tempo, li si manda indietro. Grazie per quello che fai, e a voi, grazie a tutte queste donne e a tante donne consacrate, al servizio di ciò che è inutile, perché non si può fare nessuna impresa, non si possono guadagnare soldi, non si può portare avanti assolutamente nulla di “costruttivo”, tra virgolette, con questi nostri fratelli, con i minori, con i più piccoli. Lì risplende Gesù. E lì risplende la mia scelta per Gesù. Grazie a te a tutti i consacrati e le consacrate che fanno questo.

“Padre, io non sono suora, io non mi curo di malati, io sono prete, e ho una parrocchia, o aiuto un parroco. Chi è il mio Gesù prediletto? Chi è il più piccolo? Chi è che mi mostra di più la misericordia del Padre? Dove lo posso trovare?”. Naturalmente, ritorno sempre al protocollo di Matteo 25. Lì trovate tutti: l’affamato, il carcerato, il malato… Lì potete trovarli. Ma c’è un posto privilegiato per il sacerdote dove si manifesta l’ultimo, il minimo, il più piccolo, ed è il confessionale.  
E lì, quando quell’uomo, o quella donna, ti mostra la sua miseria – attenzione!, che è la stessa che hai tu e da cui Dio ti ha salvato, per non farti arrivare fino a lì – quando ti mostra la sua miseria, per favore, non sgridarlo, non punirlo, non castigarlo. Se non hai peccato, tira la prima pietra, ma solo a questa condizione. Se no, pensa ai tuoi peccati. E pensa che tu puoi essere quella persona. E pensa che tu, potenzialmente, puoi arrivare ancora più in basso. E pensa che tu, in quel momento, hai un tesoro tra le mani, che è la misericordia del Padre.
Per favore – ai sacerdoti - : non stancatevi di perdonare. Siate perdonatori. Non stancatevi di perdonare, come faceva Gesù. Non nascondetevi dietro paure o rigidità. Come questa suora, e tutte quelle che fanno il suo stesso lavoro, non perdono la calma quando trovano il malato sporco e messo male, ma lo servono, lo puliscono, lo curano, così voi, quando arriva il penitente, non essere maldisposto, non essere nevrotico, non cacciarlo dal confessionale, non sgridarlo. Gesù lo abbracciava. Gesù lo amava. Domani festeggiamo san Matteo. Come rubava quello! E poi, come tradiva il suo popolo! E dice il Vangelo che, la sera, Gesù andò a cena con lui e altri come lui. Sant’Ambrogio ha una frase che mi commuove molto: “Dove c’è misericordia, c’è lo spirito di Gesù. Dove c’è rigidità, ci sono solo i suoi ministri”.

Fratello sacerdote, fratello vescovo, non abbiate paura della misericordia. Lascia che scorra attraverso le tue mani e il tuo abbraccio di perdono, perché colui o colei che sta lì è il più piccolo. E perciò è Gesù.

Questo è quello che mi viene da dire dopo aver ascoltato questi due profeti. Il Signore ci conceda queste grazie che loro hanno seminato nei nostri cuori: povertà e misericordia. Perché lì c’è Gesù.







 

Ci siamo riuniti in questa storica Cattedrale di La Habana per cantare con i salmi la fedeltà di Dio verso il suo Popolo, e ringraziarlo per la sua presenza e la sua infinita misericordia. Fedeltà e misericordia fatte memoria non solo nelle mura di questa casa, ma anche in alcuni che hanno i “capelli bianchi”, un ricordo vivente, attualizzato, del fatto che “infinita è la sua misericordia e la sua fedeltà dura in eterno”. Fratelli, ringraziamo insieme il Signore!

Ringraziamo per la presenza dello Spirito con la ricchezza dei diversi carismi nei volti di tanti missionari che sono venuti in queste terre, diventando cubani tra i cubani, segno dell’eterna misericordia del Signore.

Il Vangelo ci presenta Gesù in dialogo con il Padre, ci pone nel centro dell’intimità tra il Padre e il Figlio divenuta preghiera. Quando si avvicinava la sua ora, Gesù pregò il Padre per i suoi discepoli, per quelli che stavano con Lui e per quelli che sarebbero venuti (cfr Gv 17,20). Ci fa pensare il fatto che, nella sua ora cruciale, Gesù ponga nella sua preghiera la vita dei suoi, la nostra vita. E chiede al Padre che li mantenga nell’unità e nella gioia. Gesù conosceva bene il cuore dei suoi, conosce bene il nostro cuore. Perciò prega, chiede al Padre che non li prenda una coscienza che tende ad isolarsi, a rifugiarsi nelle proprie certezze, sicurezze, nei propri spazi, a disinteressarsi della vita degli altri, chiudendosi in piccole “aziende domestiche”, che rompono il volto multiforme della Chiesa.

Situazioni che sfociano nella tristezza individualista, in una tristezza che a poco a poco lascia spazio al risentimento, alla continua lamentela, alla monotonia; «questo non è il desiderio di Dio per noi, questa non è la vita nello Spirito» (Esort. ap.Evangelii gaudium, 2) alla quale Lui vi ha chiamato, alla quale ci ha chiamato. Per questo Gesù prega, chiede che la tristezza e l’isolamento non prevalgano nel nostro cuore. E noi vogliamo fare lo stesso, vogliamo unirci alla preghiera di Gesù, alle sue parole per dire insieme: «Padre, custodiscili nel tuo nome … perché siano una sola cosa, come noi» (Gv 17,11) «e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11).

Gesù prega e ci invita a pregare perché sa che ci sono cose che possiamo ricevere solamente come dono, cose che possiamo vivere solo come un regalo. L’unità è una grazia che può darci solo lo Spirito Santo, a noi spetta chiederla e mettere a disposizione il meglio di noi stessi per essere trasformati da questo dono.

E’ frequente confondere unità con uniformità, con un fare, sentire e dire tutti le stesse cose. Questo non è unità, ma omogeneità. Questo significa uccidere la vita dello Spirito, uccidere i carismi che Egli ha distribuito per il bene del suo Popolo. L’unità si vede minacciata ogni volta che vogliamo rendere gli altri a nostra immagine e somiglianza. Per questo l’unità è un dono, non è qualcosa che si possa imporre a forza o per decreto. Sono lieto di vedervi qui, uomini e donne di diverse generazioni, contesti, esperienze di vita differenti, uniti per la preghiera in comune. Chiediamo a Dio che faccia crescere in noi il desiderio di prossimità. Che possiamo essere prossimi, stare vicini, con le nostre differenze, propensioni, stili, però vicini. Con le nostre discussioni, le nostre “litigate”, parlando di fronte e non alle spalle. Che siamo pastori vicini al nostro popolo, che ci lasciamo mettere in discussione, interrogare dalla nostra gente. I conflitti, le discussioni nella Chiesa sono auspicabili e, oserei dire, addirittura necessarie. Segno che la Chiesa è viva e lo Spirito continua ad agire e continua a renderla dinamica. Guai a quelle comunità dove non c’è un sì o un no! Sono come quegli sposi che non discutono più perché hanno perso l’interesse, hanno perso l’amore.

In secondo luogo, il Signore prega perché noi siamo riempiti della stessa “gioia perfetta” che Egli possiede (cfr Gv 17,13). La gioia dei cristiani, e specialmente dei consacrati è un segno molto chiaro della presenza di Cristo nella loro vita. Quando ci sono volti tristi è un segnale di allarme, di qualcosa che non va bene. E Gesù fa questa richiesta al Padre nientemeno che prima di recarsi all’orto degli ulivi, quando deve rinnovare il suo “fiat”. Non dubito che tutti voi dobbiate portare il peso di non pochi sacrifici e che per alcuni, da decenni, i sacrifici siano stati duri. Gesù prega, anch’Egli a partire dal suo sacrificio, perché noi non perdiamo la gioia di sapere che Egli vince il mondo. Questa è la certezza che ci spinge giorno dopo giorno a riaffermare la nostra fede. «Egli - con la sua preghiera, sul volto del nostro Popolo - ci permette di alzare la testa e ricominciare, con una tenerezza che mai ci delude e che sempre può restituirci la gioia» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 3).

Quanto è importante, che preziosa testimonianza per la vita del popolo cubano è quella di irradiare sempre e dappertutto questa gioia, nonostante le stanchezze, gli scetticismi, a volte anche la disperazione, che è una tentazione molto pericolosa che atrofizza l’anima!

Fratelli, Gesù prega perché siamo una cosa sola e la sua gioia rimanga in noi. Facciamo la stessa cosa: uniamoci gli uni agli alti in preghiera.




 
 
 

SALUTO DEL SANTO PADRE 
AI GIOVANI DEL CENTRO CULTURALE PADRE FÉLIX VARELA

La Habana
Domenica, 20 settembre 2015

[Multimedia]


Parole pronunciate dal Santo Padre

Voi siete in piedi e io sto seduto. Che vergogna! Ma, sapete perché sto seduto? Perché ho preso appunti di alcune cose che ha detto il nostro compagno e delle quali voglio parlarvi. Una parola si è imposta con forza: sognare. Uno scrittore latinoamericano diceva che noi uomini abbiamo due occhi, uno di carne e uno di vetro. Con l’occhio di carne vediamo ciò che guardiamo. Con l’occhio di vetro vediamo ciò che sogniamo. Bello, vero?

Nell’obiettività della vita deve entrare la capacità di sognare. E un giovane che non è capace di sognare è recintato in sé stesso, è chiuso in sé stesso. Tutti sognano cose che non accadranno mai… Ma sognale, desiderale, cerca orizzonti, apriti, apriti a cose grandi. Non so se a Cuba si usa la parola, ma noi argentini diciamo “no te arrugues”, non tirarti indietro, apriti. Apriti e sogna. Sogna che il mondo con te può essere diverso. Sogna che se darai il meglio di te, aiuterai a far sì che questo mondo sia diverso. Non lo dimenticate, sognate. A volte vi lasciate trasportare e sognate troppo, e la vita vi taglia la strada. Non importa, sognate. E raccontate i vostri sogni. Raccontate, parlate delle cose grandi che desiderate, perché più grande è la capacità di sognare – e la vita ti lascia a metà strada –, più cammino hai percorso. Perciò, prima di tutto sognare.

Hai detto una piccola frase che avevo scritto qui durante l’intervento, ma l’ho sottolineata e ho preso qualche appunto: che sappiamo accogliere e accettare chi la pensa diversamente. In realtà noi, a volte, siamo chiusi. Ci mettiamo nel nostro piccolo mondo: “O è così, o niente”. E sei andato oltre: che non ci chiudiamo nelle conventicole delle ideologie o delle religioni. Che possiamo crescere di fronte agli individualismi. Quando una religione diventa conventicola, perde il meglio che ha, perde la sua realtà di adorare Dio, di credere in Dio. È una conventicola. È una conventicola di parole, di preghiere, di “io sono buono, tu sei cattivo”, di prescrizioni morali. E quando io ho la mia ideologia, il mio modo di pensare e tu hai il tuo, mi chiudo in questa conventicola dell’ideologia.

Cuori aperti, menti aperte. Se la pensi in modo diverso da me, perché non ne parliamo? Perché stiamo sempre a litigare su ciò che ci separa, su ciò in cui siamo diversi?  Perché non ci diamo la mano in ciò che abbiamo in comune? Dobbiamo avere il coraggio di parlare di quello che abbiamo in comune. E dopo possiamo parlare di quello che di diverso abbiamo o pensiamo. Ma dico parlare. Non dico litigare. Non dico chiuderci. Non dico “spettegolare”, come hai detto tu. Ma ciò è possibile solo quando ho la capacità di parlare di ciò che ho in comune con  l’altro, di ciò per cui siamo capaci di lavorare insieme. A Buenos Aires – in una parrocchia nuova, in una zona molto, molto povera – un gruppo di giovani universitari stava costruendo alcuni locali parrocchiali.  E il parroco mi ha detto: “Perché non vieni un sabato e così te li presento?”. Si dedicavano a costruire il sabato e la domenica.
Erano ragazzi e ragazze dell’università. Sono andato e li ho visti, e me li hanno presentati: “Questo è l’architetto, è ebreo, questo è comunista, questo è cattolico praticante, questo è…”. Erano tutti diversi, ma tutti stavano lavorando insieme per il bene comune. Questa si chiama amicizia sociale, cercare il bene comune. L’inimicizia sociale distrugge. E una famiglia si distrugge per l’inimicizia. Un paese si distrugge per l’inimicizia. Il mondo si distrugge per l’inimicizia. E l’inimicizia più grande è la guerra. Oggigiorno vediamo che il mondo si sta distruggendo per la guerra. Perché sono incapaci di sedersi e parlare: “Bene, negoziamo. Che cosa possiamo fare in comune? In quali cose cederemo? Ma non uccidiamo altra gente”. Quando c’è divisione, c’è morte. C’è morte nell’anima, perché stiamo uccidendo la capacità di unire. Stiamo uccidendo l’amicizia sociale. Questo vi chiedo oggi: siate capaci di creare l’amicizia sociale.

Poi c’è un’altra parola che hai detto. La parola speranza. I giovani sono la speranza di un popolo. Questo lo sentiamo dire dappertutto. Ma che cos’è la speranza? È essere ottimisti? No. L’ottimismo è uno stato d’animo. Domani ti alzi col mal di fegato e non sei ottimista, vedi tutto nero. La speranza è qualcosa di più. La speranza è sofferta. La speranza sa soffrire per portare avanti un progetto, sa sacrificarsi. Tu sei capace di sacrificarti per un futuro o vuoi solo vivere il presente e che quelli che verranno si arrangino? La speranza è feconda. La speranza dà vita. Tu sei capace di dare vita, o diventerai un ragazzo o una ragazza spiritualmente sterile, incapace di creare vita per gli altri, incapace di creare amicizia sociale, incapace di creare patria, incapace di creare grandezza? La speranza è feconda. La speranza si dà nel lavoro. Voglio ricordare qui un problema molto grave che si sta vivendo in Europa, cioè il gran numero di giovani che non ha lavoro. Ci sono Paesi in cui la percentuale dei giovani dai 25 anni in giù disoccupati è del 40%. Penso a un Paese. In un altro paese del 47 %, e in un altro ancora del 50%. È chiaro che un popolo che non si preoccupa di dare lavoro ai giovani, un popolo – e quando dico popolo non dico governi –, un intero popolo che non si preoccupa della gente, che questi giovani lavorino, questo popolo non ha futuro.

I giovani entrano a far parte della cultura dello scarto. E tutti sappiamo che oggi, in questo impero del dio denaro, si scartano le cose e si scartano le persone. Si scartano i bambini perché non li si vuole o perché li si uccide prima che nascano. Si scartano gli anziani – sto parlando del mondo, in generale –, si scartano gli anziani perché non producono più. In alcuni Paesi, c’è la legge sull’eutanasia, ma in tanti altri c’è un’eutanasia nascosta, occulta. Si scartano i giovani perché non si dà loro lavoro. Allora, che cosa resta a un giovane senza lavoro? Se un Paese non inventa, se un popolo non inventa possibilità di lavoro per i suoi giovani, a quel giovane restano solo o le dipendenze o il suicidio, o andare in giro a cercare eserciti di distruzione per creare guerre. Questa cultura dello scarto sta facendo del male a tutti noi, ci toglie la speranza. Ed è quello che hai chiesto per i giovani: vogliamo speranza. Speranza che è sofferta, è laboriosa, è feconda. Ci dà lavoro e ci salva dalla cultura dello scarto. E questa speranza convoca, convoca tutti, perché un popolo che sa autoconvocarsi per guardare al futuro e costruire l’amicizia sociale – come ho già detto, anche se si pensa in modi diversi –, questo popolo ha speranza.

E se io incontro un giovane senza speranza – l’ho già detto una volta – quel giovane è un “pensionato”. Ci sono giovani che sembrano andare in pensione a 22 anni. Sono giovani con una tristezza esistenziale. Sono giovani che hanno puntato la loro vita sul disfattismo di base. Sono giovani che si lamentano. Sono giovani che fuggono dalla vita. Il cammino della speranza non è facile e non si può percorrere da soli. C’è un proverbio africano che dice: “Se vuoi andare in fretta, vai solo, ma se vuoi arrivare lontano, vai accompagnato”. E io voglio che voi, giovani cubani, anche se la pensate in modo diverso, anche se avete punti di vista diversi, andiate in compagnia, insieme, cercando la speranza, cercando il futuro e la nobiltà della patria.

Abbiamo iniziato con la parola “sognare”, e voglio concludere con un’altra espressione che mi hai detto e che io uso spesso: lacultura dell’incontro. Per favore, non dividiamoci tra noi. Andiamo insieme, uniti, anche se la pensiamo diversamente, anche se sentiamo diversamente. Ma c’è qualcosa che è superiore a noi, è la grandezza del nostro popolo, è la grandezza della nostra patria, ed è a questa bellezza, a questa dolce speranza della patria, che dobbiamo arrivare. Grazie.

Bene, vi saluto augurandovi ogni bene, augurandovi… tutto quello che vi ho detto. Ve lo auguro. Pregherò per voi. E vi chiedo di pregare per me. E se qualcuno di voi non è credente – e non può pregare perché non è credente – che almeno mi auguri cose buone. Che Dio vi benedica, vi faccia procedere lungo questo cammino di speranza verso la cultura dell’incontro, evitando quelle conventicole di cui ha parlato il nostro compagno.  E che Dio vi benedica tutti.


 

Cari amici,

Provo una grande gioia nel poter stare con voi proprio qui in questo Centro Culturale, così significativo per la storia di Cuba. Rendo grazie a Dio per avermi concesso l’opportunità di avere quest’incontro con tanti giovani che, col proprio lavoro, studio e preparazione, stanno sognando e anche già realizzando il domani di Cuba.

Ringrazio Leonardo per le sue parole di saluto, e specialmente perché, pur potendo parlare di molte altre cose, certamente importanti e concrete, come le difficoltà, le paure, i dubbi – tanto reali e umani -, ci ha parlato di speranza, di quei sogni e aspirazioni che sono fortemente impressi nel cuore dei giovani cubani, al di là delle loro differenze di formazione, di cultura, di fede e di idee. Grazie, Leonardo, perché io stesso, quando guardo voi, la prima cosa che mi viene nella mente e nel cuore è la parola speranza. Non posso concepire un giovane che non si muova, che rimanga bloccato, che non abbia sogni né ideali, che non aspiri a qualcosa di più.

Ma qual è la speranza di un giovane cubano in quest’epoca della storia? Né più né meno che quella di qualsiasi altro giovane di qualsiasi parte del mondo. Perché la speranza ci parla di una realtà che è radicata nel profondo dell’essere umano, indipendentemente dalle circostanze concrete e dai condizionamenti storici in cui vive. Ci parla di una sete, di un’aspirazione, di un anelito di pienezza, di vita realizzata, di un misurarsi con ciò che è grande, con ciò che riempie il cuore ed eleva lo spirito verso cose grandi, come la verità, la bontà e la bellezza, la giustizia e l’amore. Senza dubbio, questo comporta un rischio. Chiede di essere disposti a non lasciarsi sedurre da ciò che è passeggero e caduco, da false promesse di felicità vuota, di piacere immediato ed egoista, di una vita mediocre, centrata su se stessi, e che lascia nel cuore solo tanta tristezza e amarezza. No, la speranza è audace, sa guardare oltre la comodità personale, le piccole sicurezze e compensazioni  che restringono l’orizzonte, per aprirsi a grandi ideali che rendono la vita più bella e dignitosa. Io chiederei a ciascuno di voi: Cos’è che muove la tua vita? Cosa c’è nel tuo cuore, in cui abitano le tue aspirazioni? Sei disposto a rischiare sempre per qualcosa di più grande?

Qualcuno di voi potrebbe dirmi: “Sì, Padre, l’attrazione per questi ideali è grande. Sento il loro richiamo, la loro bellezza, lo splendore della loro luce nella mia anima. Ma, nello stesso tempo, la realtà della mia debolezza e delle mie poche forze è molto pesante perché io riesca a decidermi a percorrere il cammino della speranza. La meta è molto alta e le mie forze sono poche. Meglio accontentarsi di poco, di cose forse meno grandi però più realiste, più alla portata delle mie possibilità”. Comprendo questa reazione, è normale sentire il peso di quanto è arduo e difficile, tuttavia, attenti a non cadere nella tentazione della delusione, che paralizza l’intelligenza e la volontà, e a non lasciarci prendere dalla rassegnazione, che è un pessimismo radicale di fronte ad ogni possibilità di raggiungere i nostri sogni. Questi atteggiamenti alla fine sfociano o in una fuga dalla realtà verso paradisi artificiali o in un trincerarsi nell’egoismo personale, in una specie di cinismo, che non vuole ascoltare il grido di giustizia, di verità e di umanità che si leva intorno a noi e dentro di noi.

Ma che fare? Come trovare vie di speranza nella situazione in cui viviamo? Come fare perché questi sogni di pienezza, di vita autentica, di giustizia e verità, siano una realtà nella nostra vita personale, nel nostro paese e nel mondo? Penso che ci sono tre idee che possono essere utili per tenere viva la speranza.

La speranza, un cammino fatto di memoria e discernimento. La speranza è la virtù di colui che è in cammino e si dirige da qualche parte. Non è dunque un semplice camminare per il gusto di camminare, bensì ha un fine, una meta, che è quella che dà senso e illumina la strada. Nello stesso tempo, la speranza si nutre della memoria, comprende con il suo sguardo non solo il futuro ma anche il passato e il presente. Per camminare nella vita, oltre a sapere dove vogliamo andare, è importante sapere anche chi siamo e da dove veniamo. Una persona o un popolo che non ha memoria e cancella il suo passato, corre il rischio di perdere la sua identità e rovinare il suo futuro. È necessaria pertanto la memoria di ciò che siamo, di ciò che costituisce il nostro patrimonio spirituale e morale. Credo che questa sia l’esperienza e l’insegnamento di quel grande cubano che è stato Padre Félix Varela. Ed è necessario anche il discernimento, perché è essenziale aprirsi alla realtà e saperla leggere senza timori e pregiudizi. Non servono le letture parziali o ideologiche, che deformano la realtà affinché entri nei nostri piccoli schemi prestabiliti, provocando sempre delusione e disperazione. Discernimento e memoria, perché il discernimento non è cieco, ma si realizza sulla base di solidi criteri etici, morali, che aiutano a discernere ciò che è buono e giusto.

La speranza, un cammino accompagnato. Dice un proverbio africano: «Se vuoi andare in fretta, vai da solo; se vuoi andare lontano, vai in compagnia». L’isolamento o la chiusura in sé stessi non generano mai speranza, invece la vicinanza e l’incontro con l’altro sì. Da soli non arriviamo da nessuna parte. E con la esclusione non si costruisce un futuro per nessuno, neanche per sé stessi. Un cammino di speranza esige una cultura dell’incontro, del dialogo, che superi i contrasti e il confronto sterile. Perciò è fondamentale considerare le differenze nel modo di pensare non come un rischio, ma come una ricchezza e un fattore di crescita. Il mondo ha bisogno di questa cultura dell’incontro, ha bisogno di giovani che vogliano conoscersi, che vogliano amarsi, che vogliano camminare uniti e costruire un paese come lo sognava José Martí: «Con tutti e per il bene di tutti».

La speranza, un cammino solidale. La cultura dell’incontro deve condurre naturalmente a una cultura della solidarietà. Apprezzo molto quanto ha detto Leonardo all’inizio quando ha parlato della solidarietà come forza che aiuta a superare ogni ostacolo. Effettivamente, se non c’è solidarietà non c’è futuro per nessun Paese. In cima a qualsiasi altra considerazione o interesse, ci dev’essere la preoccupazione concreta e reale per l’essere umano, che può essere mio amico, mio compagno, o anche qualcuno che la pensa in modo diversa, che ha le sue idee, ma che è un essere umano e un cubano tanto quanto me. Non basta la semplice tolleranza, occorre andare oltre e passare da un atteggiamento diffidente e difensivo a uno di accoglienza, di collaborazione, di servizio concreto e di aiuto effettivo. Non abbiate paura della solidarietà, del servizio, del dare la mano all’altro in modo che nessuno sia lasciato fuori dalla strada.

Questa strada della vita è illuminata da una speranza più alta: quella che ci viene dalla fede in Cristo. Egli si è fatto nostro compagno di viaggio, e non solo ci incoraggia ma ci accompagna, sta al nostro fianco e ci tende la sua mano di amico. Egli, il Figlio di Dio, ha voluto farsi uno come noi, per percorrere anche la nostra strada. La fede nella sua presenza, il suo amore e la sua amicizia, accendono e illuminano tutte le nostre speranze e illusioni. Con Lui, impariamo a discernere la realtà, a vivere l’incontro, a servire gli altri e a camminare nella solidarietà.

Cari giovani cubani, se Dio stesso è entrato nella nostra storia e si è fatto uomo in Gesù, si è caricato sulle spalle la nostra debolezza e il nostro peccato, non abbiate paura della speranza, non abbiate paura del futuro, perché Dio scommette su di voi, crede in voi, spera in voi.

Cari amici, grazie per questo incontro. La speranza in Cristo vostro amico vi guidi sempre nella vostra vita. E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Il Signore vi benedica!

   

 

 
 
 
 
 


[Modificato da Caterina63 21/09/2015 14:36]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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