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Testi del cardinale Caffarra

Ultimo Aggiornamento: 02/01/2018 20:58
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Da Bologna con amore: fermatevi
Intervista di Matteo Matzuzzi
IL FOGLIO quotidiano, 15 marzo 2014


Perorazione del cardinal Caffarra dopo il concistoro e il rapporto Kasper. Non toccate il matrimonio di Cristo. Non si giudica caso per caso, non si benedice il divorzio. L'ipocrisia non è misericordia.

Bologna, due settimane dopo il concistoro sulla famiglia, il cardinale arcivescovo di Bologna, Carlo Caffarra, affronta con il Foglio i temi all'ordine del giorno del Sinodo straordinario del prossimo ottobre e di quello ordinario del 2015: matrimonio, famiglia, dottrina dell'Humanae vitae, penitenza.


La "Familiaris Consortio" di Giovanni Paolo II è al centro di un fuoco incrociato. Da una parte si dice che è il fondamento del Vangelo della famiglia, dall’altra che è un testo superato. È pensabile un suo aggiornamento?

Se si parla del gender e del cosiddetto matrimonio omosessuale, è vero che al tempo della Familiaris Consortio non se ne parlava. Ma di tutti gli altri problemi, soprattutto dei divorziati-risposati, se ne è parlato lungamente. Di questo sono un testimone diretto, perché ero uno dei consultori del Sinodo del 1980. Dire che la Familiaris Consortio è nata in un contesto storico completamente diverso da quello di oggi, non è vero. Fatta questa precisazione, dico che prima di tutto la Familiaris Consortio ci ha insegnato un metodo con cui si deve affrontare le questioni del matrimonio e della famiglia. Usando questo metodo è giunta a una dottrina che resta un punto di riferimento ineliminabile. Quale metodo? Quando a Gesù fu chiesto a quali condizioni era lecito il divorzio della liceità come tale non si discuteva a quel tempo, Gesù non entra nella problematica casuistica da cui nasceva la domanda, ma indica in quale direzione si doveva guardare per capire che cosa è il matrimonio e di conseguenza quale è la verità dell’indissolubilità matrimoniale. Era come se Gesù dicesse: "Guardate che voi dovete uscire da questa logica casuistica e guardare in un’altra direzione, quella del Principio". Cioè: dovete guardare là dove l’uomo e la donna vengono all’esistenza nella verità piena del loro essere uomo e donna chiamati a diventare una sola carne. In una catechesi, Giovanni Paolo II dice: "Sorge allora cioè quando l’uomo è posto per la prima volta di fronte alla donna la persona umana nella dimensione del dono reciproco la cui espressione (che è l’espressione anche della sua esistenza come persona) è il corpo umano in tutta la verità originaria della sua mascolinità e femminilità". Questo è il metodo della Familiaris Consortio.


Qual è il significato più profondo e attuale della "Familiaris Consortio"?

"Per avere occhi capaci di guardare dentro la luce del Principio", la Familiaris Consortio afferma che la Chiesa ha un soprannaturale senso della fede, il quale non consiste solamente o necessariamente nel consenso dei fedeli. La Chiesa, seguendo Cristo, cerca la verità, che non sempre coincide con l’opinione della maggioranza. Ascolta la coscienza e non il potere. E in questo difende i poveri e i disprezzati. La Chiesa può apprezzare anche la ricerca sociologica e statistica, quando si rivela utile per cogliere il contesto storico. Tale ricerca per sé sola, però, non è da ritenersi espressione del senso della fede (FC 5). Ho parlato di verità del matrimonio. Vorrei precisare che questa espressione non denota una norma ideale del matrimonio. Denota ciò che Dio con il suo atto creativo ha inscritto nella persona dell’uomo e della donna. Cristo dice che prima di considerare i casi, bisogna sapere di che cosa stiamo parlando. Non stiamo parlando di una norma che ammette o non eccezioni, di un ideale a cui tendere. Stiamo parlando di ciò che sono il matrimonio e la famiglia. Attraverso questo metodo la Familiaris Consortioindividua che cosa è il matrimonio e la famiglia e quale è il suo genoma: uso l’espressione del sociologo Donati, che non è un genoma naturale, ma sociale e comunionale. È dentro questa prospettiva che l’Esortazione individua il senso più profondo della indissolubilità matrimoniale (cf FC 20). La Familiaris Consortio quindi ha rappresentato uno sviluppo dottrinale grandioso, reso possibile anche dal ciclo di catechesi di Giovanni Paolo II sull’amore umano. Nella prima di queste catechesi, il 3 settembre 1979, Giovanni Paolo II dice che intende accompagnare come da lontano i lavori preparatori del Sinodo che si sarebbe tenuto l’anno successivo. Non l’ha fatto affrontando direttamente temi dell’assise sinodale, ma dirigendo l’attenzione alle radici profonde. È come se avesse detto, Io Giovanni Paolo II voglio aiutare i padri sinodali. Come li aiuto? Portandoli alla radice delle questioni. È da questo ritorno alle radici che nasce la grande dottrina sul matrimonio e la famiglia data alla Chiesa dalla Familiaris Consortio. E non ha ignorato i problemi concreti. Ha parlato anche del divorzio, delle libere convivenze, del problema dell’ammissione dei divorziati-risposati all’Eucaristia. L’immagine quindi di una Familiaris Consortio che appartiene al passato; che non ha più nulla da dire al presente, è caricaturale. Oppure è una considerazione fatta da persone che non l’hanno letta.

Molte conferenze episcopali hanno sottolineato che dalle risposte ai questionari in preparazione dei prossimi due Sinodi, emerge che la dottrina della "Humanae Vitae" crea ormai solo confusione. È così, o è stato un testo profetico?

Il 28 giugno 1978, poco più di un mese prima di morire, Paolo VI diceva: "Della Humanae Vitae, ringrazierete Dio e me". Dopo ormai quarantasei anni, vediamo sinteticamente cosa è accaduto all’istituto matrimoniale e ci renderemo conto di come è stato profetico quel documento. Negando la connessione inscindibile tra la sessualità coniugale e la procreazione, cioè negando l’insegnamento dellaHumanae Vitae, si è aperta la strada alla reciproca sconnessione fra la procreazione e la sessualità coniugale: from sex without babies to babies without sex. Si è andata oscurandosi progressivamente la fondazione della procreazione umana sul terreno dell’amore coniugale, e si è gradualmente costruita l’ideologia che chiunque può avere un figlio. Il single uomo o donna, l’omosessuale, magari surrogando la maternità. Quindi coerentemente si è passati dall’idea del figlio atteso come un dono al figlio programmato come un diritto: si dice che esiste il diritto ad avere un figlio. Si pensi alla recente sentenza del tribunale di Milano che ha affermato il diritto alla genitorialità, come dire il diritto ad avere una persona. Questo è incredibile. Io ho il diritto ad avere delle cose, non le persone. Si è andati progressivamente costruendo un codice simbolico, sia etico sia giuridico, che relega ormai la famiglia e il matrimonio nella pura affettività privata, indifferente agli effetti sulla vita sociale. Non c’è dubbio che quando l’Humanae Vitae è stata pubblicata, l’antropologia che la sosteneva era molto fragile e non era assente un certo biologismo nell’argomentazione. Il magistero di Giovanni Paolo II ha avuto il grande merito di costruire un’antropologia adeguata a base dell’Humanae Vitae. La domanda che bisogna porsi non è se l’Humanae Vitae sia applicabile oggi e in che misura, o se invece è fonte di confusione. A mio giudizio, la vera domanda da fare è un’altra.

Quale?

L’Humanae Vitae dice la verità circa il bene insito nella relazione coniugale? Dice la verità circa il bene che è presente nell’unione delle persone dei due coniugi nell’atto sessuale?.

Infatti, l’essenza delle proposizioni normative della morale e del diritto si trova nella verità del bene che in esse è oggettivata. Se non ci si mette in questa prospettiva, si cade nella casuistica dei farisei. E non se ne esce più, perché ci si infila in un vicolo alla fine del quale si è costretti a scegliere tra la norma morale e la persona. Se si salva l’una, non si salva l’altra. La domanda del pastore è dunque la seguente: come posso guidare i coniugi a vivere il loro amore coniugale nella verità? Il problema non è di verificare se i coniugi si trovano in una situazione che li esime da una norma, ma qual è il bene del rapporto coniugale. Qual è la sua verità intima. Mi stupisce che qualcuno dica che l’Humanae Vitae crea confusione. Che vuol dire? Ma conoscono la fondazione che dell’Humanae Vitae ha fatto Giovanni Paolo II? Aggiungo una considerazione. Mi meraviglia profondamente il fatto che, in questo dibattito, anche eminentissimi cardinali non tengano in conto le centotrentaquattro catechesi sull’amore umano. Mai nessun Papa aveva parlato tanto di questo. Quel Magistero è disatteso, come se non esistesse. Crea confusione? Ma chi afferma questo è al corrente di quanto si è fatto sul piano scientifico a base di una naturale regolazione dei concepimenti? È al corrente di innumerevoli coppie che nel mondo vivono con gioia la verità di Humanae Vitae?

Anche il cardinale Kasper sottolinea che ci sono grandi aspettative nella Chiesa in vista del Sinodo e che si corre il rischio di una pessima delusione se queste fossero disattese. Un rischio concreto, a suo giudizio?

Non sono un profeta né sono figlio di profeti. Accade un evento mirabile. Quando il pastore non predica opinioni sue o del mondo, ma il Vangelo del matrimonio, le sue parole colpiscono le orecchie degli uditori, ma nel loro cuore entra in azione lo Spirito Santo che lo apre alle parole del pastore. Mi domando poi delle attese di chi stiamo parlando. Una grande rete televisiva statunitense ha compiuto un’inchiesta su comunità cattoliche sparse in tutto il mondo. Essa fotografa una realtà molto diversa dalle risposte al questionario registrate in Germania, Svizzera e Austria. Un solo esempio. Il 75 per cento della maggior parte dei paesi africani è contrario all’ammissione dei divorziati risposati all’Eucaristia. Ripeto ancora: di quali attese stiamo parlando? Di quelle dell’Occidente? È dunque l’Occidente il paradigma fondamentale in base al quale la Chiesa deve annunciare? Siamo ancora a questo punto? Andiamo ad ascoltare un po’ anche i poveri. Sono molto perplesso e pensoso quando si dice che o si va in una certa direzione altrimenti sarebbe stato meglio non fare il Sinodo. Quale direzione? La direzione che, si dice, hanno indicato le comunità mitteleuropee? E perché non la direzione indicata dalle comunità africane?

Il cardinale Müller ha detto che è deprecabile che i cattolici non conoscano la dottrina della Chiesa e che questa mancanza non può giustificare l’esigenza di adeguare l’insegnamento cattolico allo spirito del tempo. Manca una pastorale familiare?

È mancata. È una gravissima responsabilità di noi pastori ridurre tutto ai corsi prematrimoniali. E l’educazione all’affettività degli adolescenti, dei giovani? Quale pastore d’anime parla ancora di castità? Un silenzio pressoché totale, da anni, per quanto mi risulta. Guardiamo all’accompagnamento delle giovani coppie: chiediamoci se abbiamo annunciato veramente il Vangelo del matrimonio, se l’abbiamo annunciato come ha chiesto Gesù. E poi, perché non ci domandiamo perché i giovani non si sposano più? Non è sempre per ragioni economiche, come solitamente si dice. Parlo della situazione dell’Occidente. Se si fa un confronto tra i giovani che si sposavano fino a trent’anni fa e oggi, le difficoltà che avevano trenta o quarant’anni fa non erano minori rispetto a oggi. Ma quelli costruivano un progetto, avevano una speranza. Oggi hanno paura e il futuro fa paura; ma se c’è una scelta che esige speranza nel futuro, è la scelta di sposarsi. Sono questi gli interrogativi fondamentali, oggi. Ho l’impressione che se Gesù si presentasse all’improvviso a un convegno di preti, vescovi e cardinali che stanno discutendo di tutti i gravi problemi del matrimonio e della famiglia, e gli chiedessero come fecero i farisei: "Maestro, ma il matrimonio è dissolubile o indissolubile? O ci sono dei casi, dopo una debita penitenza…?". Gesù cosa risponderebbe? Penso la stessa risposta data ai farisei: "Guardate al Principio". Il fatto è che ora si vogliono guarire dei sintomi senza affrontare seriamente la malattia. Il Sinodo quindi non potrà evitare di prendere posizione di fronte a questo dilemma: il modo in cui s’è andata evolvendo la morfogenesi del matrimonio e della famiglia è positivo per le persone, per le loro relazioni e per la società, o invece costituisce un decadimento delle persone, delle loro relazioni, che può avere effetti devastanti sull’intera civiltà? Questa domanda il Sinodo non la può evitare. La Chiesa non può considerare che questi fatti (giovani che non si sposano, libere convivenze in aumento esponenziale, introduzione del c.d. matrimonio omosessuale negli ordinamenti giuridici, e altro ancora) siano derive storiche, processi storici di cui essa deve prendere atto e dunque sostanzialmente adeguarsi. No. Giovanni Paolo II scriveva nella Bottega dell’Orefice che "creare qualcosa che rispecchi l’essere e l’amore assoluto è forse la cosa più straordinaria che esista. Ma si campa senza rendersene conto". Anche la Chiesa, dunque, deve smettere di farci sentire il respiro dell’eternità dentro all’amore umano?Deus avertat!

Si parla della possibilità di riammettere all’Eucaristia i divorziati risposati. Una delle soluzioni proposte dal cardinale Kasper ha a che fare con un periodo di penitenza che porti al pieno riaccostamento. È una necessità ormai ineludibile o è un adeguamento dell’insegnamento cristiano a seconda delle circostanze?

Chi fa questa ipotesi, almeno finora non ha risposto a una domanda molto semplice: che ne è del primo matrimonio rato e consumato? Se la Chiesa ammette all’Eucarestia, deve dare comunque un giudizio di legittimità alla seconda unione. È logico. Ma allora – come chiedevo – che ne è del primo matrimonio? Il secondo, si dice, non può essere un vero secondo matrimonio, visto che la bigamia è contro la parola del Signore. E il primo? È sciolto? Ma i papi hanno sempre insegnato che la potestà del Papa non arriva a questo: sul matrimonio rato e consumato il Papa non ha nessun potere. La soluzione prospettata porta a pensare che resta il primo matrimonio, ma c’è anche una seconda forma di convivenza che la Chiesa legittima. Quindi, c’è un esercizio della sessualità umana extraconiugale che la Chiesa considera legittima. Ma con questo si nega la colonna portante della dottrina della Chiesa sulla sessualità. A questo punto uno potrebbe domandarsi: e perché non si approvano le libere convivenze? E perché non i rapporti tra gli omosessuali? La domanda di fondo è dunque semplice: che ne è del primo matrimonio? Ma nessuno risponde. Giovanni Paolo II diceva nel 2000 in un’allocuzione alla Rota che "emerge con chiarezza che la non estensione della potestà del Romano Pontefice ai matrimoni rati e consumati, è insegnata dal Magistero della Chiesa come dottrina da tenersi definitivamente anche se essa non è stata dichiarata in forma solenne mediante atto definitorio". La formula è tecnica, "dottrina da tenersi definitivamente" vuol dire che su questo non è più ammessa la discussione fra i teologi e il dubbio tra i fedeli.

Quindi non è questione solo di prassi, ma anche di dottrina?

Sì, qui si tocca la dottrina. Inevitabilmente. Si può anche dire che non lo si fa, ma lo si fa. Non solo. Si introduce una consuetudine che a lungo andare determina questa idea nel popolo non solo cristiano: non esiste nessun matrimonio assolutamente indissolubile. E questo è certamente contro la volontà del Signore. Non c’è dubbio alcuno su questo.

Non c’è però il rischio di guardare al sacramento solo come una sorta di barriera disciplinare e non come un mezzo di guarigione?

È vero che la grazia del sacramento è anche sanante, ma bisogna vedere in che senso. La grazia del matrimonio sana perché libera l’uomo e la donna dalla loro incapacità di amarsi per sempre con tutta la pienezza del loro essere. Questa è la medicina del matrimonio: la capacità di amarsi per sempre. Sanare significa questo, non che si fa stare un po’ meglio la persona che in realtà rimane ammalata, cioè costitutivamente ancora incapace di definitività. L’indissolubilità matrimoniale è un dono che viene fatto da Cristo all’uomo e alla donna che si sposano in lui. È un dono, non è prima di tutto una norma che viene imposta. Non è un ideale cui devono tendere. È un dono e Dio non si pente mai dei suoi doni. Non a caso Gesù, rispondendo ai farisei, fonda la sua risposta rivoluzionaria su un atto divino. ‘Ciò che Dio ha unito’, dice Gesù. È Dio che unisce, altrimenti la definitività resterebbe un desiderio che è sì naturale, ma impossibile a realizzarsi. Dio stesso dona compimento. L’uomo può anche decidere di non usare di questa capacità di amare definitivamente e totalmente. La teologia cattolica ha poi concettualizzato questa visione di fede attraverso il concetto di vincolo coniugale. Il matrimonio, il segno sacramentale del matrimonio produce immediatamente tra i coniugi un vincolo che non dipende più dalla loro volontà, perché è un dono che Dio ha fatto loro. Queste cose ai giovani che oggi si sposano non vengono dette. E poi ci meravigliamo se succedono certe cose".

Un dibattito molto appassionato si è articolato attorno al senso della misericordia. Che valore ha questa parola?

Prendiamo la pagina di Gesù e dell’adultera. Per la donna trovata in flagrante adulterio, la legge mosaica era chiara: doveva essere lapidata. I farisei infatti chiedono a Gesù cosa ne pensasse, con l’obiettivo di attirarlo dentro la loro prospettiva. Se avesse detto "lapidatela", subito avrebbero detto "Ecco, lui che predica misericordia, che va a mangiare con i peccatori, quando è il momento dice anche lui di lapidarla". Se avesse detto "non dovete lapidarla", avrebbero detto "ecco a cosa porta la misericordia, a distruggere la legge e ogni vincolo giuridico e morale". Questa è la tipica prospettiva della morale casuistica, che ti porta inevitabilmente in un vicolo alla fine del quale c’è il dilemma tra la persona e la legge. I farisei tentavano di portare in questo vicolo Gesù. Ma lui esce totalmente da questa prospettiva, e dice che l’adulterio è un grande male che distrugge la verità della persona umana che tradisce. E proprio perché è un grande male, Gesù, per toglierlo, non distrugge la persona che lo ha commesso, ma la guarisce da questo male e raccomanda di non incorrere in questo grande male che è l’adulterio. "Neanche io ti condanno, va e non peccare più". Questa è la misericordia di cui solo il Signore è capace. Questa è la misericordia che la Chiesa, di generazione in generazione, annuncia. La Chiesa deve dire che cosa è male. Ha ricevuto da Gesù il potere di guarire, ma alla stessa condizione. È verissimo che il perdono è sempre possibile: lo è per l’assassino, lo è anche per l’adultero. Era già una difficoltà che facevano i fedeli ad Agostino: si perdona l’omicidio, ma nonostante ciò la vittima non risorge. Perché non perdonare il divorzio, questo stato di vita, il nuovo matrimonio, anche se una "reviviscenza" del primo non è più possibile? La cosa è completamente diversa. Nell’omicidio si perdona una persona che ha odiato un’altra persona, e si chiede il pentimento su questo. La Chiesa in fondo si addolora non perché una vita fisica è terminata, bensì perché nel cuore dell’uomo c’è stato un tale odio da indurre perfino a sopprimere la vita fisica di una persona. Questo è il male, dice la Chiesa. Ti devi pentire di questo e ti perdonerò. Nel caso del divorziato risposato, la Chiesa dice: "Questo è il male: il rifiuto del dono di Dio, la volontà di spezzare il vincolo messo in atto dal Signore stesso". La Chiesa perdona, ma a condizione che ci sia il pentimento. Ma il pentimento in questo caso significa tornare al primo matrimonio. Non è serio dire: sono pentito ma resto nello stesso stato che costituisce la rottura del vincolo, della quale mi pento. Spesso – si dice – non è possibile. Ci sono tante circostanze, certo, ma allora in queste condizioni quella persona è in uno stato di vita oggettivamente contrario al dono di Dio. La Familiaris Consortio lo dice esplicitamente. La ragione per cui la Chiesa non ammette i divorziati-risposati all’Eucaristia non è perché la Chiesa presuma che tutti coloro che vivono in queste condizioni siano in peccato mortale. La condizione soggettiva di queste persone la conosce il Signore, che guarda nella profondità del cuore. Lo dice anche San Paolo: "Non vogliate giudicare prima del tempo". Ma perché – ed è scritto sempre nella Familiaris Consortio – "il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quella unione di amore fra Cristo e la Chiesa significata e attuata dall’Eucaristia" (FC 84). La misericordia della Chiesa è quella di Gesù, quella che dice che è stata deturpata la dignità di sposo, il rifiuto del dono di Dio. La misericordia non dice: "Pazienza, vediamo di rimediare come possiamo". Questa è la tolleranza essenzialmente diversa dalla misericordia. La tolleranza lascia le cose come sono per ragioni superiori. La misericordia è la potenza di Dio che toglie dallo stato di ingiustizia.


Non si tratta di accomodamento, dunque.

Non è un accomodamento, sarebbe indegno del Signore una cosa del genere. Per fare gli accomodamenti bastano gli uomini. Qui si tratta di rigenerare una persona umana, e di questo è capace solo Dio e in suo nome la Chiesa. San Tommaso dice che la giustificazione di un peccatore è un’opera più grande che la creazione dell’universo. Quando viene giustificato un peccatore, accade qualcosa che è più grande di tutto l’universo. Un atto che magari avviene in un confessionale, attraverso un sacerdote umile, povero. Ma lì si compie un atto più grande della creazione del mondo. Non dobbiamo ridurre la misericordia ad accomodamenti, o confonderla con la tolleranza. Questo è ingiusto verso l’opera del Signore.

Uno degli assunti più citati da chi auspica un’apertura della Chiesa alle persone che vivono in situazioni considerate irregolari è che la fede è una ma i modi per applicarla alle circostanze particolari devono essere adeguati ai tempi, come la Chiesa ha sempre fatto. Lei che ne pensa?

La Chiesa può limitarsi ad andare là dove la portano i processi storici come fossero derive naturali? Consiste in questo annunciare il Vangelo? Io non lo credo, perché altrimenti mi chiedo come si faccia a salvare l’uomo. Le racconto un episodio. Una sposa ancora giovane, abbandonata dal marito, mi ha detto che vive nella castità ma fa una fatica terribile. Perché, dice, "non sono una suora, ma una donna normale". Ma mi ha detto che non potrebbe vivere senza Eucaristia. E quindi anche il peso della castità diventa leggero, perché pensa all’Eucaristia. Un altro caso. Una signora con quattro figli è stata abbandonata dal marito dopo più di vent’anni di matrimonio. La signora mi dice che in quel momento ha capito che doveva amare il marito nella croce, "come Gesù ha fatto con me". Perché non si parla di queste meraviglie della grazia di Dio? Queste due donne non si sono adeguate ai tempi? Certo che non si sono adeguate ai tempi. Resto, le assicuro, molto male nel prendere atto del silenzio, in queste settimane di discussione, sulla grandezza di spose e sposi che, abbandonati, restano fedeli. Ha ragione il professor Grygiel quando scrive che a Gesù non interessa molto cosa pensa la gente di lui. Interessa cosa pensano i suoi apostoli. Quanti parroci e vescovi potrebbero testimoniare episodi di fedeltà eroica. Dopo un paio d’anni che ero qui a Bologna, ho voluto incontrare i divorziati-risposati. Erano più di trecento coppie. Siamo stati assieme un’intera domenica pomeriggio. Alla fine, più d’uno m’ha detto di aver capito che la Chiesa è veramente madre quando impedisce di ricevere l’Eucaristia. Non potendo ricevere l’Eucaristia, comprendono quanto sia grande il matrimonio cristiano, e bello il Vangelo del matrimonio.

Sempre più spesso viene sollevato il tema del rapporto tra il confessore e il penitente, anche come possibile soluzione per venire incontro alla sofferenza di chi ha visto fallire il proprio progetto di vita. Qual è il suo pensiero?

La tradizione della Chiesa ha sempre distinto – distinto, non separato – il suo compito magisteriale dal ministero del confessore. Usando un’immagine, potremmo dire che ha sempre distinto il pulpito dal confessionale. Una distinzione che non vuol significare una doppiezza, bensì che la Chiesa dal pulpito, quando parla del matrimonio, testimonia una verità che non è prima di tutto una norma, un ideale verso cui tendere. A questo momento entra con amorevolezza il confessore, che dice al penitente: "Quanto hai sentito dal pulpito, è la tua verità, la quale ha a che fare con la tua libertà, ferita e fragile". Il confessore conduce il penitente in cammino verso la pienezza del suo bene. Non è che il rapporto tra il pulpito e il confessionale sia il rapporto tra l’universale e il particolare. Questo lo pensano i casuisti, soprattutto nel Seicento. Davanti al dramma dell’uomo, il compito del confessore non è di far ricorso alla logica che sa passare dall’universale al singolare. Il dramma dell’uomo non dimora nel passaggio dall’universale al singolare. Dimora nel rapporto tra la verità della sua persona e la sua libertà. Questo è il cuore del dramma umano, perché io con la mia libertà posso negare ciò che ho appena affermato con la mia ragione. Vedo il bene e lo approvo, e poi faccio il male. Il dramma è questo. Il confessore si pone dentro questo dramma, non al meccanismo universale-particolare. Se lo facesse inevitabilmente cadrebbe nell’ipocrisia e sarebbe portato a dire "va bene, questa è la legge universale, però siccome tu ti trovi in queste circostanze, non sei obbligato". Inevitabilmente, si elaborerebbe una fattispecie ricorrendo la quale la legge diventa eccepibile. Ipocritamente, dunque, il confessore avrebbe già promulgato un’altra legge accanto a quella predicata dal pulpito. Questa è ipocrisia! Guai se il confessore non ricordasse mai alla persona che si trova davanti che siamo in cammino. Si rischierebbe, in nome del Vangelo della misericordia, di vanificare il Vangelo dalla misericordia. Su questo punto Pascal ha visto giusto nelle sue Provinciali, per altri versi profondamente ingiuste. Alla fine l’uomo potrebbe convincersi che non è ammalato, e quindi non è bisognoso di Gesù Cristo. Uno dei miei maestri, il servo di Dio padre Cappello, grande professore di diritto canonico, diceva che quando si entra in confessionale non bisogna seguire la dottrina dei teologi, ma l’esempio dei santi.



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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05/12/2015 03:53
 
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12PORTE - 19 marzo 2015: Parole commosse e accorate quelle che abbiamo appena ascoltato, che il Cardinale Caffarra ha pronunciato al termine della Messa con la comunità universitaria.
Pochi minuti prima, l’ufficio stampa della diocesi aveva trasmesso un comunicato scritto in cui l’Arcivescovo fa ancora delle considerazioni molto pensose:
“Addolora, ma non stupisce, costatare con che dispiegamento di forze si cerca di far passare l’idea che il cristianesimo e il cattolicesimo in particolare, siano i nemici della libertà, delle giuste rivendicazioni, del progresso scientifico, della laicità, della democrazia.
Ogni ideologia che non riesce a farsi alleata la Chiesa, la perseguita ferocemente, sia uccidendo i cristiani sia insultando ciò che essi hanno di più caro.
E vede giusto: in una Chiesa fedele al Vangelo non troverebbe mai l’appoggio incondizionato e cieco, di cui ogni menzogna ha bisogno per sopravvivere.
Che dire poi del tempismo che vede in contemporanea il teatrino del Cassero profanare il dramma del Calvario e sulle sponde del Mediterraneo la demolizione delle croci e di ogni simbolo cristiano dalle chiese assaltate dall’ISIS?”.

Fin qui le dichiarazioni dell’Arcivescovo, Card. Caffarra. Abbiamo deciso di non mostrarvi le immagini in questione, che sono già state ampiamente mostrate dai mezzi di informazione.
Non credo di avere altre considerazioni da fare. Mi sento invece di rivolgere a voi che mi seguite un appello.
Stasera, non si va a letto senza prima aver verificato se il crocifisso nelle nostre case è presente e onorato.
Magari gli togliamo di dosso un po’ di polvere e poi, senza tante parole lo onoriamo mettendoci in ginocchio e baciando questo segno dell’amore misericordioso di Dio.

Impariamo noi per primi il rispetto dei segni della nostra fede, anche con gesti pubblici ed esteriori, senza ostentazione, ma anche senza nascondere le ragioni della nostra fede in Dio.
Perché “Dio ha tanto amato il mondo, da dare il suo Unico Figlio”.

www.youtube.com/watch?v=2ojmaY28uqE


"Perché non posso tacere"
Lettera ai fedeli pubblicata su Bologna Sette domenica 13 aprile 2014


Carissimi fedeli,

i fatti accaduti in questi giorni mi costringono in coscienza a dirvi alcune parole. Essi sono noti ai più. La Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale la proibizione della fecondazione umana eterologa. Un Tribunale ha riconosciuto la così detta maternità surrogata, cioè l’utero in affitto. Un altro Tribunale della Repubblica ha imposto all’anagrafe di un Municipio di trascrivere un matrimonio [si fa per dire] omosessuale. Questi i fatti.

Ciò che come uomo, come cristiano, e come vostro pastore mi coinvolge profondamente non sono i comportamenti corrispondenti a quelle decisioni. Mi ricordo della parola dell’Apostolo: "Non vogliate …giudicare nulla prima del tempo, finché venga il Signore. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno avrà la sua lode da Dio" [1Cor 4,5]. Non mi interessa dunque l’aspetto etico della cosa; e non è di temi etici che parlo. Purtroppo la questione è molto più profonda. E’ una questione antropologica. Si sta gradualmente introducendo nella nostra convivenza una visione dell’uomo che erode e devasta i fondamentali della persona umana come tale. Non è di condotte quindi ciò di cui stiamo discutendo. E’ la persona umana come tale che è in pericolo, poiché si stanno ridefinendo artificialmente i vissuti umani fondamentali: il rapporto uomo – donna; la maternità e la paternità; la dignità e i diritti del bambino.

Al riguardo il Santo Padre Francesco in data 11 aprile u.s. ha detto: "occorre ribadire il diritto dei bambini a crescere in una famiglia, con un papà e una mamma … continuando a maturare nella relazione, nel confronto con ciò che è la mascolinità e la femminilità di un padre e di una madre, e così preparando la maturità affettiva … Con i bambini non si può sperimentare. Non sono cavie da laboratorio".

Sono in questione le relazioni fondamentali che strutturano la persona umana. "Non c’è che un peccato: dire che una foglia verde è grigia, / per questo il sole in cielo rabbrividisce / … non c’è che un credo: sotto l’ala di nessun terrore al mondo / le mele dimenticano di maturare sui meli" (G. K. Chesterton).

Carissimi fedeli, entriamo nella Settimana Santa. Perché Dio si è fatto uomo? Perché è morto crocifisso? Non c’è che una risposta: perché ricco di misericordia, ha amato perdutamente l’uomo. Ogni volta che ferisci l’uomo; che lo depredi della sua umanità, tu ferisci il Dio – uomo. Tu neghi il fatto cristiano. Ecco perché non ho potuto tacere.Perché non sia resa vana la Croce di Cristo.


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COMUNICATO 11 marzo 2015


Nella mia responsabilità di Vescovo nella Chiesa cattolica e come Presidente della Conferenza Episcopale Emilia–Romagna, anche a nome dei miei confratelli Vescovi della regione, sento il preciso dovere di esprimere la più forte protesta per la pubblicazione a puntate, su di un diffuso quotidiano, di servizi giornalistici sulla Confessione ottenuti traendo deliberatamente in inganno il confessore e violando con ciò la sacralità del Sacramento, che come primo requisito richiede la sincerità della contrizione del penitente. Nello sconcerto per l’accaduto e con l’animo ferito da un profondo dolore intendo ribadire che:

a) tali servizi configurano oggettivamente una grave offesa alla verità di un Sacramento della fede cristiana, la Confessione

b) tali servizi sono anche una grave mancanza di rispetto verso i credenti, che vi ricorrono come a un bene tra i più preziosi perché dischiude loro i doni della Misericordia di Dio; e verso i sacerdoti confessori in quanto, esponendoli al dubbio di un possibile inganno, ne inficiano la libertà del giudizio, che è fondata sul rapporto fiduciario col penitente, come tra padre e figlio

c) quanto sia grave il comportamento suddetto, risulta anche dal fatto che rientra nei delitti più gravi, a norma del motu proprio di Benedetto XVI “Inter graviora delicta” art. 4, §2 (21.5.2010).

+ Carlo Card. Caffarra
Arcivescovo
Presidente della Conferenza Episcopale Emilia-Romagna

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Comunicato del 18 marzo 2015


Le fotografie della serata “Venerdì credici” al Cassero di Bologna sono un insulto di inarrivata bassezza e di diabolica perfidia a Cristo in Croce. Non si era ancora giunti a un tale disprezzo della religione cristiana e di chi la professa da irridere, tramite l’abominevole volgarità dell’immagine, persino la morte di Gesù sulla Croce.

Addolora, ma non stupisce, constatare con che dispiegamento di forze si cerca di far passare l’idea che il cristianesimo e il cattolicesimo in particolare, siano i nemici della libertà, delle giuste rivendicazioni, del progresso scientifico, della laicità, della democrazia.
Ogni ideologia che non riesce a farsi alleata la Chiesa, la perseguita ferocemente, sia uccidendo i cristiani sia insultando ciò che essi hanno di più caro. E vede giusto: in una Chiesa fedele al Vangelo non troverebbe mai l’appoggio incondizionato e cieco, di cui ogni menzogna ha bisogno per sopravvivere. Che dire poi del tempismo che vede in contemporanea il teatrino del Cassero profanare il dramma del Calvario e sulle sponde del Mediterraneo la demolizione delle croci e di ogni simbolo cristiano dalle chiese assaltate dall’ISIS?

Quando si invoca la libertà di espressione a giustificazione della libertà di insulto, c’è da chiedersi se sia prossima la fine della democrazia. E ci si domanda a che titolo l’Istituzione comunale possa concedere in uso gratuito ambienti pubblici a gruppi che li utilizzano per farne luogo di insulto e di dileggio.

+ Carlo Card. Caffarra
Arcivescovo









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[Modificato da Caterina63 05/12/2015 04:02]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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12/12/2015 11:37
 
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Il cardinale Caffarra
 

Oggi, 12 dicembre, Carlo Caffarra lascia l'incarico di arcivescovo di Bologna. Non ha voluto per sé alcun saluto ufficiale, andandosene in punta di piedi, nel suo stile. Ma non deve essere dimenticato il suo lavoro di pastore, soprattutto l'impegno nella battaglia decisiva per l'uomo: la famiglia e il matrimonio.

di Francesco Agnoli


Proprio in questi giorni si è venuto a sapere, ma non da lui, che aveva donato alcuni milioni di euro dell'eredità Faac alla Caritas della città. Bologna non è più così "sazia e disperata", come la aveva definita il predecessore di Caffarra, Giacomo Biffi: ci sono anche lì, oggi, persone in difficiltà anche economica e il pastore non le ha dimenticate.

Cosa resterà del magistero di questo grande cardinale? Sicuramente il suo esempio di vita personale: chi lo ha conosciuto, sa quanto sia un servo fedele della Chiesa, un pastore teso non a predicare "novità" originali, di cui pavoneggiarsi come i teologi alla moda, ma a penetrare sempre più nella ricchezza inesauribile del Vangelo e della Tradizione della Chiesa.

Così ha dedicato parte della sua vita ad indagare il "mistero buono" dell'amore sponsale, certo che il progetto di Dio sul maschio e la femmina non può che essere il bene per ogni uomo, in tutti i tempi e sotto ogni cielo.

Per questo fu scelto, nel 1981, da Giovanni Paolo II come presidente del Pontificio Istituto per gli studi su Matrimonio e Famiglia, la cui nascita fu annunciata, insieme a quella del Pontificio Consiglio per la Famiglia, il 13 maggio 1981: proprio nel giorno dell'attentato a Wojtyla e dell' anniversario dell' apparizione di Fatima. Proprio Lucia di Fatima, ha ricordato recentemente Caffarra, lo aveva ammonito per lettera, con parole che il cardinale ha così riassunto: «Lo scontro finale tra il Signore e il regno di Satana sarà sulla famiglia e sul matrimonio. Non abbia paura, aggiungeva, perché chiunque lavora per la santità del matrimonio e della famiglia sarà sempre combattuto e avversato in tutti modi, perché questo è il punto decisivo».

Comprendere la famiglia ha significato per Caffarra leggere sempre meglio la natura relazionale dell'uomo; la sua identità maschile o femminile; l'Incarnazione; la teologia del corpo. Quest'ultima si può condensare, in estrema sintesi, nella sua parte filosofica, così: «La persona umana è una persona corporale e il corpo umano è un corpo personale». Ciò significa che la visione del corpo cristiana esclude lo spiritualismo (di qui la grande storia della carità cristiana), così come il materialismo (che riduce l'uomo al suo corpo, finendo per nuocergli, come dimostrano le patologie oggi in crescita: anoressia, bulimia, autolesionismo...).

L'unità della persona umana determina anche il fatto che la sessualità buona, vera, è quella in cui l'uomo e la donna amano con tutto se stessi: il "sesso senza amore", il sesso come dominio e uso del corpo altrui, in altre parole, è disumano. Questo concetto, espresso nelle encicliche tanto amate dal cardinale di Bologna,Humanae vitae e Familiaris consortio, non è stato ancora ben compreso neppure in ambiente cattolico. Per questo anche i libri che il cardinale ci lascia, pubblicati per lo più da Cantagalli ed Ares, sono una fonte preziosa cui continuare ad attingere.


  GRAZIE EMINENZA, GRAZIE DI TUTTO CUORE.....





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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 mons. Caffarra aveva promesso il silenzio assoluto dopo il ritiro, per essergli riusciti a strappargli una intervista, allora vuol dire che il momento è davvero grave....


Renzi e Mattarella
 

La Nuova BQ intervista l'Arcivescovo emerito di Bologna: "Firmando questa legge, il Capo dello Stato ha sottoscritto una ridefinizione del matrimonio. Ma una norma non cambia la realtà".

Poi parla dell'Amoris Laetitia: "Il cap. VIII non è chiaro. Se il Papa avesse voluto mutare il magistero avrebbe avuto il dovere grave di dirlo chiaramente". E ricorda di quando Lucia di Fatima gli disse che "lo scontro sarebbe stato sul matrimonio".

di Marco Ferraresi

Parlare di famiglia non è mai stato così complicato. Persino dentro la Chiesa. Fa problema anzitutto l’oggetto del discorso: cosa è veramente famiglia? E come pretendere che non vi sia confusione nella società civile, se pure nella Chiesa si oscurano talora verità fondamentali sul matrimonio? La controversia sul cap. VIII dell’esortazione Amoris Laetitia di Papa Francesco e la recente legge italiana sulle unioni civili destano sconcerto.

Ne parliamo con il Card. Carlo Caffarra, Arcivescovo emerito di Bologna. Caffarra è stato fondatore e Preside dell’Istituto Giovanni Paolo II per gli studi sul matrimonio e la famiglia. Già partecipante come esperto al Sinodo dei vescovi sulla famiglia del 1980, è membro di nomina pontificia ai Sinodi del 2014 e del 2015. Risponde alle domande con la semplicità e la franchezza degli uomini della sua terra: “Quella fettaccia di terra tra il grande fiume e la grande strada”, dice orgogliosamente citando Guareschi.

Eminenza, cos’è la famiglia?

E’ la società che trae origine dal matrimonio, patto indissolubile tra un uomo e una donna, che ha la finalità di unire i coniugi e trasmettere la vita umana.

Da un’unione civile, secondo la legge Cirinnà nasce una famiglia?

No. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, firmando questa legge, ha sottoscritto una ridefinizione del matrimonio. Ma un provvedimento normativo non cambia la realtà delle cose. Occorre dirlo: i sindaci (soprattutto, naturalmente, quelli cattolici) devono fare obiezione di coscienza. Celebrando un’unione civile si renderebbero infatti corresponsabili di un atto gravemente illecito sul piano morale.

Perché questa crisi di identità della famiglia in Occidente?

Me lo chiedo spesso, ma non ho una risposta esaustiva. Comunque, una concausa è un processo di “debiologizzazione”, per il quale non si ritiene più che il corpo abbia un linguaggio (e dunque un significato) oggettivo. Questo significato viene così determinato dalla libertà della persona. Si è spezzato,nella coscienza occidentale, il legame tra bios e logos.

In una prospettiva di fede, non vi sono pure cause soprannaturali?

Nel 1981 stavo fondando per volontà di San Giovanni Paolo II l’Istituto per gli studi sul matrimonio e la famiglia. La fondazione era prevista per il 13 maggio, data della prima apparizione della Madonna a Fatima. Il Papa in quel giorno subì l’attentato, da cui uscì miracolosamente salvo per grazia – a dire dello stesso Pontefice – della Madonna. Dopo i primi anni di vita dell’Istituto, scrissi a suor Lucia, la veggente di Fatima, chiedendo preghiere per l’opera, e aggiungendo che non aspettavo risposta. Una risposta però arrivò comunque.

Che cosa le rispose?

Suor Lucia scrisse – e, vorrei sottolineare, siamo  nei primi anni ’80 – che vi sarebbe stato un tempo di uno “scontro finale” tra il Signore e Satana. E il terreno di scontro sarebbe stato costituito dal matrimonio e dalla famiglia. Aggiunse che coloro i quali avrebbero lottato per il matrimonio e la famiglia sarebbero stati perseguitati. Ma anche che costoro non avrebbero dovuto temere, perché la Madonna ha già schiacciato la testa al serpente infernale.

Parole profetiche: è quello che sta accadendo?

Viviamo una situazione inedita. Mai era accaduto che si ridefinisse il matrimonio. E’ Satana che sfida Dio, come dicendo: “Vedi? Tu proponi la tua creazione. Ma io ti dimostro che costituisco una creazione alternativa. E vedrai che gli uomini diranno: si sta meglio così”. L’arco intero della creazione si regge, secondo la Scrittura, su due colonne: il matrimonio ed il lavoro umano. Non è ora nostro tema il secondo, pure soggetto ad una “crisi definitoria”; per quanto qui concerne, il matrimonio è stato istituzionalmente distrutto.

La Chiesa può rispondere a simile sfida?

Deve rispondere, per ragioni direi strutturali. La Chiesa si interessa del matrimonio perché il Signore l’ha elevato a sacramento. Cristo stesso unisce gli sposi. Si badi, non è una metafora: secondo le parole di San Paolo, nel matrimonio il vincolo tra gli sposi si innesta nel vincolo sponsale tra Cristo e la Chiesa, e viceversa. L’indissolubilità non è anzitutto una questione morale (“gli sposi non devono separarsi”), ma ontologica: il sacramento opera una trasformazione nei coniugi. Sicché, dice la Scrittura, non sono più due, ma uno. Questo è detto chiaramente in Amoris Laetitia (par. 71-75). Il sacramento, poi, infonde negli sposi la carità coniugale. E di questo parlano benissimo i capitoli IV e V dell’Esortazione. Inoltre, il sacramento costituisce gli sposi in uno Stato di vita pubblico nella Chiesa e nella società. Come ogni Stato di vita nella Chiesa, anche lo Stato coniugale ha una missione: il dono della vita, che si continua nell’educazione dei figli. Qui il capitolo VII diAmoris Laetitia colma addirittura, a mio avviso, una lacuna nel dibattito dei vescovi al Sinodo.

In pratica, cosa dovrebbe fare la Chiesa?

Una sola cosa: comunicare il Vangelo del matrimonio. Ho detto “comunicare”, perché non si tratta solo di un evento linguistico. La comunicazione del Vangelo significa guarire l’uomo e la donna dalla loro incapacità di amarsi e introdurli nel grande Mistero di Cristo e la Chiesa. Questa comunicazione avviene attraverso l’Annuncio e la catechesi; e attraverso i Sacramenti. Ci sono persone che, dopo una catechesi sul Sacramento del Matrimonio, vengono a dirmi: perché nessuno mi ha mai parlato di queste realtà meravigliose? I giovani, soprattutto, devono essere al centro delle nostre preoccupazioni. La questione educativa in materia è “la” questione decisiva. Il Papa ne parla ampiamente nei par. 205-211.

Eminenza, che dire della questione dell’accesso ai sacramenti dei divorziati risposati? Il Papa ne tratta al cap. VIII, del quale sono state offerte però letture contrapposte.

Anzitutto, vorrei sottolineare che il Papa stesso nel par. 307 afferma che, prima di occuparci dei matrimoni falliti, dobbiamo preoccuparci di quelli da costruire. E, aggiungo, il problema della sua domanda resta quantitativamente limitato. Certo, sul piano dottrinale è tutt’altro che da trascurare. A tal proposito, rispondo a partire da quattro premesse.

1) Il matrimonio è indissolubile. Come dicevo, prima che un obbligo morale, l’indissolubilità è un dato ontologico. Spiace osservare che non tutti i Padri sinodali avessero ben chiaro tale fondamento ontologico.

2) La fedeltà coniugale non è un ideale da raggiungere. La forza di essere fedeli è donata nel sacramento (vi immaginate il marito che dice alla moglie: “Esserti fedeli è un ideale che cerco di raggiungere, ma ancora non riesco”?). Troppe volte si usa in Amoris Laetitia la parola “ideale”, occorre attenzione sul punto.

3) Il matrimonio non è un fatto privato, disponibile dagli sposi. E’ una realtà pubblica per il bene della Chiesa e della società.

4) Il cap. VIII, oggettivamente, non è chiaro. Altrimenti come si spiegherebbe il “conflitto di interpretazioni” accesosi anche tra vescovi? Quando ciò accade, occorre verificare se vi siano altri testi del Magistero più chiari, tenendo a mente un principio: in materia di dottrina della fede e di morale il Magistero non può contraddirsi. Non si devono confondere contraddizione e sviluppo. Se dico S è P e poi dico S non è P, non è che abbia approfondito la prima. L’ho contraddetta.

Amoris Laetitia, dunque, insegna o no che vi sia uno spazio di accesso ai sacramenti per i divorziati risposati?

No. Chi versa in uno stato di vita che oggettivamente contraddice il sacramento dell’Eucaristia, non può accedervi. Come insegna il Magistero precedente, possono invece accedervi coloro che, non potendo soddisfare l’obbligo della separazione (ad es. a causa dell’educazione dei figli nati dalla nuova relazione), vivano in continenza. Questo punto è toccato dal Papa in una nota (la n. 351). Ora, se il Papa avesse voluto mutare il Magistero precedente, che è chiarissimo, avrebbe avuto il dovere, e il dovere grave, di dirlo chiaramente ed espressamente. Non si può con una nota, e di incerto tenore, mutare la disciplina secolare della Chiesa. Sto applicando un principio interpretativo che in Teologia è sempre stato ammesso. Il Magistero incerto si interpreta in continuità con quello precedente.

Dunque, nessuna novità?

La novità, oltre alla possibilità data dal S. Padre di eccepire, a giudizio prudente dei vescovi, ad alcune norme canoniche, è soprattutto nel prendersi cura di questi fratelli divorziati risposati, cercando di imitare il nostro Salvatore nella modalità con cui Egli incontrava le persone più bisognose del “medico” . Il cap. VIII (“accompagnare, discernere, integrare”), a mio modesto avviso, è la guida di questo “prendersi cura”. Non dobbiamo cadere nell’inganno mass-mediatico di ridurre tutto a “Eucarestia sì-Eucarestia no”.

 



CENTO SECONDI PER LA VITA OTTO BREVI INTERVENTI
TRASMESSI DA TELEPACE 1997



LA DIGNITÀ DELLA PERSONA UMANA

“Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro quella perduta, finché non la ritrova?” 
E’ l’inizio di una delle più commoventi parabole del Signore. Che cosa ci commuove e ci stupisce ogni volta che ascoltiamo queste parole? E’ la cura che il Pastore ha di quell’una; la passione che sente per essa. Egli non pensa: “ma di che mi preoccupo? Su cento ne ho perso una solamente: me ne restano novantanove!”. Non solo. Il Pastore va a cercare quella sola “finché non la ritrova”. Egli non si stanca; Egli la rivuole vicino a sé. 
Che cosa significa in fondo questo racconto? Che davanti a Dio ogni e singola persona ha un valore assoluto, possiede una preziosità infinita. Davanti al Signore non esiste il genere umano: esisto io, esisti tu; non esiste una folla più o meno grande di uomini e donne: esiste il singolo. Ecco perché pur restandogliene novantanove, si preoccupa di quell’unica. 
Approfondiamo un momento questa verità. Poiché la persona, ogni persona, possiede un valore infinito, essa non può essere scambiata con niente. Gesù infatti ha detto: “Che cosa vale per l’uomo, guadagnare il mondo intero se poi perde se stesso?” Cioè: il mondo intero vale meno di una sola persona. Il valore della persona non dipende da ciò che ha, ma dal puro e semplice fatto di essere una persona. Allora non ci sono persone che valgono di più di altre o meno di altre: una persona già concepita e non ancora nata non vale meno di una persona adulta. Ogni persona gode della stessa dignità e merita lo stesso rispetto, la stessa venerazione.


IL FONDAMENTO DELLA DIGNITÀ DELLA PERSONA UMANA

“In Cristo ci ha scelti prima della creazione del mondo, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo”. 
Sono parole che troviamo nella Lettera agli Efesini: esse hanno un significato immenso. Ci svelano la ragione ultima, il fondamento ultimo della dignità infinita di ogni persona. 
Due domande soprattutto ci portiamo dentro al core: da dove vengo? Dove sono indirizzato? “Da dove vengo?” cioè: che cosa spiega il mio esserci? E’ per caso che io esisto? Il fatto della mia vita è una pura casualità? Non esisti per caso. Tu esisti, perché sei stato scelto: sei stato pensato e voluto dal Padre che è nei cieli. Quando? Prima della creazione del mondo, Egli ti ha pensato, ti ha voluto. Ha pensato proprio a te; ha voluto proprio te. I tuoi genitori volevano, desideravano genericamente un bambino/una bambina. Il Padre che è nei cieli ha pensato a te e voluto te, quando il mondo non esisteva ancora. Ecco da dove vieni: tu vieni da un atto di amore del Padre. 
Ma portiamo nel cuore anche un’altra domanda: dove vado? Cioè: a che cosa sono destinato? Al nulla eterno? “Predestinandoci ad essere suoi figli adottivi”: Egli ha voluto che tu esistessi, perché vuole che tu sia partecipe della sua stessa Vita, come figlio adottivo. Ora possiamo capire perché ogni e singola persona possiede una dignità infinita: a causa dell’intimo legame che unisce ogni e singola persona a Dio creatore e Padre. Ogni e singola persona è voluta in ogni istante della sua vita da Dio stesso, e chiamata a partecipare alla Sua stessa Vita divina. Anche tu, in questo momento! Ecco perché la persona umana non appartiene, non può appartenere a nessuno se non a Dio stesso; ecco perché Dio ha nel cuore un sorta di passione per ogni persona: è la sua creatura in modo unico, come non lo è nessun altra creatura. 
“Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi, il figlio dell’uomo perché te ne prendi cura?” si chiede il salmista. Al paragone dell’immensità dell’universo, la singola persona sembra niente. Eppure tutto l’immenso universo vale meno di una sola persona umana, poiché solo l’uomo è stato voluto da Dio per Se stesso.

 3 
L’INVIOLABILITÀ DELLA VITA UMANA

“Domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello, perché ad immagine di Dio Egli ha fatto l’uomo” (Gen. 9,5-6). 
Queste solenni parole sono state dette dal Signore Iddio a Noè, dopo il diluvio, ed in Noè ad ognuno di noi. Non toccare, non violare la dignità di una persona umana, non distruggerne la vita, perché te ne sarà chiesto conto: nessuno ha diritto di disporre della vita di un altro. 
 La persona umana e la sua vita sono inviolabili, perché sono proprietà esclusiva e dono di Dio Creatore e Padre: Egli è l’unico Signore della persona e della vita umana. Dobbiamo pensare questa “proprietà” che Dio Creatore e Padre esercita nei nostri confronti non come un arbitrio minaccioso, bensì come cura e sollecitudine di Padre per ciascuno di noi. Egli conta - dice Gesù - perfino i capelli del nostro capo e non ne cade neppure uno, senza che Egli lo voglia. Dobbiamo sentire profondamente, intimamente questa appartenenza al Signore, che ci rende inviolabili di fronte a tutti, come la sentiva il salmista: “Io sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre”. 
Questa inviolabilità della persona nella sua vita, fondata ultimamente sulla singolare relazione che ogni persona ha con Dio Creatore, si esprime nel comandamento: “Non uccidere”. “La scelta deliberata di privare un essere umano innocente della sua vita è sempre cattiva dal punto di vista morale e non può mai essere lecita” (EV 57): anche quando una sedicente legge umana lo giustificasse. 
Questa proibizione “non uccidere” riguarda ugualmente ogni essere umano innocente: nel diritto alla vita, ogni persona umana innocente possiede la stessa inviolabilità. Essere padrone del mondo o l’ultimo miserabile si questa terra, non conta nulla. Davanti alla legge di Dio “non uccidere” siamo tutti assolutamente uguali. Anzi, se mi è consentito esprimermi in questo modo, qualcuno è più uguale degli altri. Chi? i più deboli, i più indifesi. Sono soprattutto due categorie di persone: la persona già concepita e non ancora nata, e la persona ammalata di una malattia ormai terminale. E di queste due persone e dei due abominevoli delitti che le privano della loro vita, parleremo nei prossimi due incontri.


L’ABOMINEVOLE DELITTO DELL’ABORTO

“Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo; prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato” (Ger. 1,5). 
Queste parole sono state dette dal Signore al profeta Geremia, ma sono vere anche per ciascuno di noi. Esse, se le ascoltiamo nel cuore, suscitano un’indescrivibile commozione. Parlano del formarsi della persona umana nel grembo materno e ci dicono che questo avvenimento, così mirabile e misterioso, non accade per caso: quella persona che viene concepita e formata sotto il  cuore della madre, è già conosciuta e voluta nel cuore di Dio. ecco perché fra i delitti che l’uomo può compiere contro la vita, l’aborto procurato è semplicemente “abominevole”. Esso è, infatti, l’uccisione deliberata e diretta, comunque venga attuata, di una persona umana nella fase iniziale della sua esistenza, quella compresa tra il concepimento e la nascita. Perché è un delitto “abominevole” più di chiunque altro? perché uccide la persona più innocente che esista; perché uccide la persona più debole ed incapace di difendersi che esista; perché uccide la persona che più di ogni altra si affida alla cura degli altri. 
Esiste oggi attorno a questo abominevole delitto una vera e propria congiura della menzogna, che mira a nascondere la realtà, anzi a chiamare bene il male. Si chiama infatti l’aborto, una “libera decisione” per la maternità. In realtà, la donna che ricorre all’aborto, non decide se diventare o non madre: ella è già madre. Decide semplicemente di uccidere il proprio figlio, che già esiste. Anzi, ancora peggio, si cerca di far rientrare l’aborto nei programmi di “salute riproduttiva”: come se la maternità fosse una malattia! Non solo, ma si presentano le legislazioni abortive come scelta di rispetto delle varie opinioni in una società sempre più pluralista: l’unica opinione a non essere rispettata è tuttavia quella della persona più interessata a tutta la questione, quella che vive nel grembo materno! 
“Quello che avete fatto al più piccolo di questi miei fratelli, l’avete fatto a me!”: nel bene e nel male!


IL DELITTO DELL’EUTANASIA

“Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore” (Rom 14,8). 
Sono parole che l’apostolo Paolo scrisse ai cristiani di Roma ed attraverso li lui lo Spirito Santo a ciascuno di noi. Sono stupende: esse ci parlano della verità della nostra totale appartenenza al Signore, in qualsiasi condizione noi ci troviamo. In qualsiasi condizione, in qualsiasi situazione non cessa la nostra appartenenza al Signore, poiché niente, né morte né vita, ci può separare dall’amore che il Padre ha per ciascuno di noi. Proviamo allora a prendere in esame una situazione umana molto particolare, quella della malattia. Anzi, della c.d. malattia terminale, la malattia cioè giunta ad un tale grado di gravità da non consentire più speranza alcuna di guarigione, ma solo l’imminenza della morte, spesso fra sofferenze gravi. 
Di fronte ad una persona umana che si trova in queste condizioni, che cosa significa “rispetto della dignità della persona e delle vita umana”? Non significa certamente due cose, sulle quali vorrei attirare la vostra attenzione. 
- Non significa attribuirsi il diritto di procurarsi in anticipo la morte o di procurarla ad altri, ponendo così fine «dolcemente» alla vita propria ed altrui. E’ l’eutanasia, cioè un’azione od omissione che di natura sua e/o nell’intenzione procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. L’eutanasia, dunque, può configurarsi, o come suicidio o come omicidio. Sia in una forma sia nell’altra, l’eutanasia è, nella sua intima natura, rifiuto di riconoscere la sovranità assoluta di Dio sulla vita e sulla morte. Quando poi l’eutanasia assume la forma dell’omicidio, acquista una particolare gravità: sulla base di che cosa medici e legislatori si arrogano il diritto di decidere chi merita di vivere e chi deve morire? 
- Rispetto della vita dell’ammalato terminale non significa neppure ciò che oggi viene chiamato accanimento terapeutico, cioè interventi medici non più adeguati alla reale situazione dell’ammalato, perché ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare e anche perché troppo gravosi per lui e la sua famiglia. Rinunciare a questi trattamenti assolutamente sproporzionati significa semplicemente riconoscere umilmente la nostra condizione di creature davanti a Dio. 
- Non dunque eutanasia, non accanimento terapeutico, ma la via dell’amore e della vera pietà, che aiuta il malato all’incontro definitivo col Signore: “nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso...”.


LA DIGNITÀ DELL’AMORE CONIUGALE

“Dio li benedisse e disse loro: siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra” (Gen 1,28). 
Queste parole ci svelano un grande mistero: all’origine di ogni persona umana non sta solamente l’atto creativo di Dio, ma anche l’atto generativo dell’uomo e della donna. Perché questo è un grande mistero? perché in questo avvenimento si ha una certa partecipazione-cooperazione dell’uomo e della donna all’opera creatrice di Dio. E’ un fatto che ci riempie di profonda  commozione. Il Padre celebra il suo Amore redentivo, quando nei templi celebriamo la divina Eucarestia; il Padre celebra il suo Amore creativo, quando due sposi si uniscono, divenendo due in una sola carne, ponendo  le condizioni del concepimento di una nuova persona umana. L’atto dell’amore coniugale è il tempio santo in cui Dio celebra la liturgia del suo Amore creatore. Se devono essere degni, santi e pieni di bellezza i templi di pietra, nei quali Dio celebra il suo Amore redentivo, non meno degno, santo e pervaso da intima bellezza deve essere il tempio dell’amore coniugale in cui Dio celebra il suo Amore creativo. 
Ora siamo in grado di renderci conto di tutta la dignità che possiede e deve possedere l’atto della generazione umana. Essa non è un evento puramente biologico, teso a dare origine ad un individuo, per perpetuare una specie, quella umana. Come già abbiamo detto tante volte, questo modo di pensare non rispetta la verità della persona. Ogni persona è scelta, cioè pensata e voluta già prima della creazione del mondo: il suo concepimento quindi non è un evento dovuto al casuale incrociarsi di forze impersonali. Nella biologia della generazione è inscritta la generazione della persona: è presente l’attività creativa di Dio. L’attività generativa umana è in un certo senso il “sacramento” dell’attività creativa di Dio: l’amore del Creatore trova la sua adeguata cooperazione nell’amore dei due sposi. Non era dunque un’esagerazione, quando un Padre della Chiesa affermava che il matrimonio era stato elevato al di sopra di tutti i doni terreni perché artefice di immagini di Dio. 
Vedete: la dignità della persona e della vita umana ci ha condotti a contemplare la dignità del matrimonio e dell’amore coniugale. La stima dell’una sta in piedi o cade assieme alla stima dell’altro. Infatti fra vita umana, dono della vita ed amore coniugale esiste un nesso intrinseco: averlo spezzato è stato una delle grandi disgrazie spirituali del nostro tempo. Ma di questo parleremo nel prossimo incontro.


LA PROCREAZIONE ARTIFICIALE E LA CONTRACCEZIONE

La dignità della persona umana, il rispetto assoluto che si deve alla sua vita, esigono che la vita umana abbia origine non in un  qualsiasi modo, ma in un modo tale che colui che va ad essere concepito sia rispettato nella sua dignità infinita. Quale è il modo giusto, cioè adeguato alla dignità sua propria, di concepire una persona umana? Ne esiste uno solo: l’atto proprio dell’amore coniugale, quell’atto cioè in cui i due sposi si donano reciprocamente così da essere “due in una carne sola”. Perché solo questo modo rispetta la dignità della persona? Proviamo ad esaminare l’altro modo, cioè quello artificiale. Intendo parlare della fecondazione in vitro. 
Questo procedimento è tale per cui chi pone le condizioni del concepimento non sono più gli sposi, ma un tecnico. Gli sposi offrono solo il “materiale germinale” che poi, debitamente manipolato dal tecnico, potrà dare origine ad una persona umana. Se riflettiamo attentamente, noi vediamo in questo procedimento una vera e propria produzione di una persona: ora si producono le cose, non le persone. 
Che questo procedimento sia governato da una “logica produttiva” è confermato puntualmente da molti elementi. Si producono più embrioni, per essere sicuri del risultato. Si chiamano “embrioni sovra-numerari”: l’espressione è terribile! Una persona può essere in sovra-numero? In ordine a che cosa? ma la persona umana non è semplicemente numerabile! ognuna è unica nel suo incalcolabile valore. Inoltre, ormai un bambino non lo si rifiuta più a nessuno: alle coppie lesbiche o gay; alla donna anziana e sola. E’ la tremenda logica del “bisogno-richiesta-offerta”. Si dimentica semplicemente che il concepito è una persona! E nessuna persona può essere vista solo come qualcosa di cui ho bisogno per la mia felicità, a cui ho diritto. Ho diritto alle cose, non alle persone. 
Ma la rottura del vincolo che lega amore coniugale a dono della vita, non va solo nel senso che si separa la vita dall’amore coniugale colla procreazione artificiale, ma anche nel senso che si separa l’amore coniugale dalla vita con la contraccezione. La contraccezione contraddice precisamente l’integra verità dell’amore coniugale e della sua espressione propria. 
Ricuperare pienamente il senso della dignità della vita e del suo valore equivale in primo luogo a recuperare una profonda stima dell’amore coniugale: una profonda stima di cui oggi sentiamo urgente bisogno.


GESÙ CRISTO, RIVELAZIONE DELLA NOSTRA DIGNITÀ

“Il Verbo si è fatto carne ed ha preso dimora fra noi”. 
Siamo giunti alla fine di queste nostre riflessioni sul valore della vita umana, sulla dignità della persona. Le sette riflessioni precedenti erano come sette raggi che, pur partendo da punti di vista diversi, andavano tutte verso un centro. Quale? Gesù Cristo, la sua persona, la sua vita, la sua morte e risurrezione. E’ in Lui infatti che noi vediamo, noi conosciamo la verità intera circa l’incomparabile dignità della persona umana ed il valore della vita. Egli infatti è il Dono che il Padre ci ha fatto, perché noi avessimo la vita e l’avessimo in abbondanza. In Lui noi abbiamo la suprema rivelazione di quanto il Padre sia interessato a ciascuno di noi, se per salvarci ha deciso che il suo Unigenito Figlio morisse sulla Croce. Ed infatti, quando l’uomo scoprì, seppe durante la notte di Natale, per la prima volta, che Dio era venuto a visitarlo in quel modo, si accese nel suo cuore un immenso stupore: lo stupore di fronte alla dignità della sua persona. Quello stupore non è più cessato: è il Vangelo, è il Cristianesimo. 
Ma vorrei richiamare la vostra attenzione, ammirata e stupita, su due aspetti dei questa rivelazione della dignità dell’uomo, che risplende in Gesù Cristo. 
Egli ha percorso tutto il cammino dell’esistenza umana, anche i nove mesi dentro al grembo di una donna. Anzi la prima volta che l’uomo riconobbe che Dio lo aveva visitato, fu quando si trovava ancora nel grembo di Maria; non solo, ma a riconoscerlo fu un’altra persona umana già concepita e non ancora nata. Oh mirabile incontro, il primo, dell’uomo col Dio fatto uomo! ambedue ancora nel grembo materno. 
L’altro aspetto su cui voglio richiamare la vostra attenzione è il seguente: il Verbo fattosi uomo si identificò coi più piccoli! Quale meraviglia questa umiltà di Dio, e nello stesso tempo come ora risplende la gloria della persona umana come tale, come persona umana! Egli arrivò perfino a dire: “quello che avete fatto a uno di questi piccoli, l’avete fatto a me”. Mai era stata annunciata una tale identificazione: ciò che si fa al più piccolo degli uomini, è fatto al Figlio di Dio, a Dio stesso. 
Sia sempre nel nostro cuore questa certezza: la certezza che ciascuno di noi ha davanti a Dio un valore assoluto. 



[Modificato da Caterina63 02/01/2018 20:37]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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01/07/2016 21:47
 
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Card. Caffarra. MISERICORDIA E CONVERSIONE: simul stant, simul cadunt.


 


La conferenza da cui è tratto il testo che segue è stata svolta il 30 maggio 2016 ad Ancona nell’ambito dell’iniziativa «Inscindibili: Giustizia, Verità Misericordia. Se mancano le prime due, l’ultima non è tale», realizzata dall’associazione culturale Oriente Occidente.


MISERICORDIA E CONVERSIONE: simul stant, simul cadunt.

Questa sera vorrei riflettere con voi sul più grande e drammatico evento che accade su questa terra: l’incontro della divina misericordia con l’uomo peccatore, e la giustificazione di questi. Dunque non parlerò della misericordia come virtù morale dell’uomo, ma esclusivamente come divino attributo.
 
1. Consentitemi di iniziare da un testo di sant’Ambrogio. In una delle sue opere principali, I sei giorni della creazione, dopo aver meditato sulla creazione dell’uomo, scrive:
«Ringrazio il Signore Dio nostro che ha creato un’opera così meravigliosa nella quale trovare il suo riposo. Creò il cielo e non leggo che si sia riposato; creò la terra e non leggo che si sia riposato; creò il sole, la luna, e le stelle e non leggo che si sia riposato; ma leggo che ha creato l’uomo e che a questo punto si sia riposato avendo un essere cui rimettere i peccati» (1).
Il testo è profondo, oltre che dotato di una sua intima bellezza. Cerchiamo di coglierne il pensiero.

 

Quando il Creatore ha dato origine al mondo, Egli aveva un disegno, si proponeva uno scopo: attraverso la creazione manifestare le sue perfezioni (2). Per ragioni a noi inconoscibili, Egli ha voluto rivelare di Se Stesso, come attributo più propriamente Suo, la misericordia come volontà di perdonare. Dio si riposa perché ha finito il suo lavoro, in quanto ha detto di Sé ciò che creando voleva dire di Sé: misericordia che perdona. Creando l’uomo infatti, ha creato qualcuno nei confronti del quale avrebbe potuto esercitare la sua misericordia, dal momento che l’uomo può peccare. Un grande teologo italiano scrive: «Il peccato, che è in ogni modo male, consente a Dio di manifestarsi come colui che perdona, e che, appunto riposando, non ha altro da fare» (3).
 
Gesù ha potuto dire che in cielo c’è più festa per un peccatore che si converte che per novantanove giusti che non hanno bisogno di convertirsi (4). Più gioia, perché gli angeli vedono realizzarsi compiutamente il progetto creativo del Padre: manifestare la sua misericordia nel perdono del peccatore.
 
Quando ero Arcivescovo di Ferrara incontrai un gruppo di pescatori. Uno di loro mi fece una domanda assai profonda. Mi disse: «noi mettiamo i pesci pescati dentro a barili cilindrici. Immaginiamo che tutto l’universo sia come uno dei nostri barili, dentro al quale siamo noi. Io le chiedo: quale è il fondo del barile? Quale è il suo nome?». Non sapeva che proprio dalla sua domanda era nata tutta la filosofia. Ho risposto: «Il fondo è la misericordia di Dio. Il nome del fondo è misericordia». Non dovremmo mai stancarci di riflettere su questo.
 
Qui noi troviamo la chiave interpretativa ultima delle vicende umane, della storia umana. La storia umana deve essere pensata come l’incontro fra il male morale che si oggettiva nelle fondamentali strutture del vivere umano e la misericordia di Dio, che in Cristo offre il perdono. Mi sembra che questa sia la visione di S. Paolo: «Tutti hanno peccato e sono privi della Gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù» (5).
È l’Atto redentivo di Cristo, eucaristicamente sempre presente nel mondo mediante la fede della Chiesa, la chiave di volta di tutto l’arco della creazione, il punto focale in cui tutto l’universo si raccoglie. E noi uomini del XX secolo sappiamo bene il “peso specifico” di questa teo-drammaturgia che viene rappresentata dentro alla nostra storia.
 
Assistiamo infatti ai nostri giorni alla compiuta realizzazione di un secolare processo di sradicamento della libertà dell’uomo dalla verità dell’uomo. È una libertà in senso letterale impazzita. Già Platone nel primo libro della Republica aveva mostrato che questa idea ed esperienza di libertà porta alla tirannia.
 
A questo punto è inevitabile la domanda sull’esito finale di questo incontro della misericordia di Dio, la quale ha preso letteralmente corpo nel Verbo incarnato, colla persona umana che è nel peccato. Ma non è di questo che dobbiamo parlare questa sera.
 
Dunque teniamo per certo che, come scrive S.Tommaso, «la misericordia è l’attributo che più di ogni altro deve essere attribuito a Dio» (6). È il nome col quale soprattutto [maxime] desidera essere invocato.
 
Dalla lettura del Vangelo risulta senza ombra di dubbio che la rivelazione suprema della Misericordia di Dio in Cristo Gesù è il perdono del peccatore, o come dice la Teologia, la giustificazione del peccatore.
 
San Tommaso insegna che questo atto divino è più grande dell’atto creativo; manifesta cioè maggiormente l’onnipotenza divina (7). Per la seguente ragione: il perdono del peccatore introduce questi nella partecipazione alla stessa vita divina, mentre la creazione è la produzione di una natura mutevole e transitoria. Il valore della divina grazia, della santità anche di un solo peccatore perdonato è maggiore che il valore di tutto l’universo intero (8). Vediamo, sia pure brevemente, in che cosa consiste questo atto supremo della misericordia di Dio nei confronti dell’uomo.
La Sacra Scrittura usa analogie molto forti. Essa parla di “nuova creazione” (9); di “nuova nascita” (10); di “rigenerazione” (11). Se cerchiamo di comprendere il significato reale di queste immagini, giungiamo alle seguenti conclusioni.
 
Trattasi di una operazione divina: è Dio stesso – il Padre in Cristo mediante lo Spirito Santo – che compie questo atto. Ciò che Dio compie è la elevazione del peccatore alla partecipazione alla sua divina natura, alla sua stessa vita: è una operazione deiforme. Deiforme nel suo principio: solo Dio può compiere questa azione; nel suo scopo: vuole rendere l’uomo simile al Figlio unigenito del Padre (12).
 
L’azione deiforme non può che compiersi, dentro all’universo visibile, nella persona umana in quanto solo essa è dotata di spirito intellettuale e libero. E Dio è luce (13); Dio è Amore (14). La Sacra Scrittura parla infatti dell’azione deiforme come un’alleanza che viene siglata tra Dio e l’uomo (15).
L’immagine ci fa comprendere bene che l’evento che stiamo narrando ha due attori: Dio e l’uomo. L’uno di fronte all’altro. Teniamo ben presente questo fatto: l’uomo sta di frante a Dio come un soggetto veramente libero nei suoi confronti. Indubbiamente quanto stiamo dicendo pone formidabili problemi filosofici e teologici, ma è di importanza fondamentale per tutto il nostro discorso. È il caso serio del Cristianesimo.
 
La persona umana incontrata dall’operazione deiforme si trova in una condizione di peccato; non si trova solamente in una condizione di non-conformità, ma di de-formità: è priva della Gloria di Dio, direbbe S. Paolo (16).
 
Dunque: (a) l’operazione deiforme perché possa compiersi, implica il consenso libero della persona; (b) questo consenso, data la condizione dell’uomo, deve avere come due dimensioni: la decisione di abbandonare la condizione di peccato, il consenso all’offerta di amore proposta da Dio. Il vocabolario cristiano chiama questo supremo atto della nostra libertà conversione. 
 
Se leggiamo per esempio il racconto evangelico di Zaccheo, tutto quanto abbiamo detto finora è narrato in modo stupendo (17). L’incontro avviene per iniziativa di Gesù; la proposta è accettata da Zaccheo; questi decide di abbandonare pienamente la sua vita di ladro; l’alleanza è siglata: «oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché anch’egli è figlio di Abramo».
 
La suprema rivelazione della misericordia di Dio verso l’uomo è dunque un evento umano-divino; un dialogo tra la grazia di Dio che perdona e la libertà dell’uomo che detesta il peccato e consente al dono. Dio «conduce l’uomo alla giustizia conformemente alla condizione della natura umana. Ma l’uomo ha una natura che possiede la libertà. Pertanto Dio non conduce alla giustizia coloro che hanno l’uso della libertà, senza il loro consenso libero. E quindi infonde in essi la grazia che santifica in modo tale che simultaneamente Egli muove la libertà ad accettare il dono» (18).
 
2. Dalla riflessione precedente risulta che ci sono due modi profondamente sbagliati di narrare l’evento misericordioso della rinnovazione dell’alleanza fra Dio e l’uomo, spezzata dal peccato. Annunciare la misericordia di Dio senza esortare alla conversione; esortare alla conversione senza l’annuncio della misericordia.
 
2.1/ La prima narrazione è sbagliata e dal punto di vista dell’operazione divina e dal punto di vista della persona umana, ed ha conseguenze devastanti e sull’immagine che il credente può farsi di Dio e sulla persona umana.
 
La grande Tradizione del pensiero cristiano ha sempre pensato la “logica” della Provvidenza divina come conduzione di ogni creatura al suo fine, rispettando la condizione naturale propria della creatura medesima. Pensare la divina Onnipotenza come la facoltà divina di raggiungere lo scopo della creazione, prescindendo dalla condizione propria di ogni creatura, significa dare il nome di Dio ad un concetto pagano: il Fato. La gloria di Dio non risplende sulle ceneri della sua creazione.
 
La condizione dell’uomo è la libertà, la quale si realizza, all’interno dell’azione misericordiosa che stiamo considerando, nella figura della conversione dell’uomo. Parlare della misericordia di Dio che perdona lasciando in ombra l’atto libero della conversione, è parlare di un idolo creato dall’uomo, non del Dio vero e vivente.
 
Un tale modo di parlare non solo è falso quanto al divino attributo della onnipotenza, ma nega il divino attributo della giustizia e della santità. Dio non può rinnovare la sua alleanza con l’uomo, come se la persona umana non si trovasse in una condizione di peccato. Il profeta teme di morire, avendo visto Dio e sapendosi peccatore e quindi esposto all’ira di Dio (19). Un annuncio della misericordia che non parlasse simultaneamente della necessità della conversione, ignorerebbe tutti i grandi temi del giudizio di Dio, dell’ira di Dio (20).
 
2.2/ Non meno falso sarebbe esortare alla conversione non alla luce del volto divino della misericordia.
 
Un tale modo di pensare la proposta cristiana, sarebbe semplicemente la sua corruzione. La proposta cristiana infatti non è principalmente una proposta etica; non è la promulgazione di un codice morale più perfetto. È la narrazione di un evento di misericordia che ha in sé la forza di cambiare la vita; è l’offerta gratuita, incondizionata di una rigenerazione della propria umanità. È dono, non comandamento; è grazia, non legge.
 
Noi sappiamo che è stato l’errore pelagiano quello di negare questa intima trasformazione dell’uomo per opera della grazia. Immaginiamo di camminare sulla riva di un fiume con un amico, e che questi scivolando cada in acqua. A diversità dell’amico, egli non sa nuotare. Come lo si può salvare? Certamente non insegnandogli dalla riva come si fa a nuotare, ma buttandosi in acqua, abbracciandolo e portarlo a riva.
 
Eravamo caduti nel gorgo dei nostri peccati e trascinati dalla corrente alla morte. Dio in Gesù non ci ha salvati insegnandoci a nuotare [= dandoci la Legge], ma buttandosi lui stesso dentro la corrente [= si è fatto uomo ed ha preso su di Sé il nostro peccato]. Ci chiede di lasciarci abbracciare, e di non svincolarci dal suo abbraccio [= convertirci; cioè detestare il nostro peccato e proporre di non peccare più].
 
2.3/ Vorrei ora mostrarvi brevemente gli effetti devastanti che le due narrazioni sbagliate hanno.
 
In ordine al culto che noi dobbiamo a Dio, non è indifferente ciò che pensiamo di Dio. Ora la prima narrazione distrugge nella coscienza religiosa la verità su Dio, poiché cambia il significato del centro della rivelazione che Dio ha fatto di Sé: Colui che è misericordioso. Come abbiamo già lungamente esposto, misericordia divina significa che Egli in Gesù distrugge il peccato. Poiché non c’è perdono senza conversione, essendo la persona un soggetto libero ed in una condizione di peccato, la prima narrazione conduce la persona umana a pensare “non devo avere alcuna preoccupazione anche se rimango come sono; tanto Dio è misericordioso”. Si capisce allora quanto diceva secondo alcune testimonianze Padre Pio: ”temo di più la misericordia che la giustizia di Dio”. E S. Alfonso, Dottore della Chiesa: “ne manda più all’inferno la misericordia che la giustizia di Dio”.
 
La prima narrazione demolisce il “caso serio” del Cristianesimo, e rende inutile l’Atto redentivo di Cristo.
 
Essa conduce la persona ad una duplice menzogna: la prima quella di commettere il male più facilmente; la seconda di pensare che poi alla fine… Dio non se la prende poi tanto per questo. E toglie la possibilità di pensare un fondamento ultimo alla coscienza del dovere e dell’obbligazione morale.
 
La seconda narrazione, essendo una corruzione del Cristianesimo, allontana profondamente l’uomo da esso. La proposta cristiana così narrata, infatti, diventa noiosa, poiché una proposta di vita che consista solamente nella promulgazione di un codice morale, diventa scostante. Ma sopratutto allontana chi ha più bisogno di incontrare Cristo, cioè i peccatori, come viene continuamente detto nel Vangelo.
 
Qualcuno potrebbe chiedermi: in quale delle due narrazioni oggi la Chiesa è più in pericolo di cadere? È mia personale convinzione che è nella prima. 
 
3. Vorrei ora, come ultimo punto della mia riflessione, rispondere alla seguente domanda: a quali condizioni spirituali si può custodire il mirabile et cattolico tra Misericordia di Dio e conversione dell’uomo?
 
Custodendo nel proprio spirito tre intime convinzioni; oserei chiamarli tre vissuti esistenziali.
 
3.1/ Custodire nella sua integra purezza la propria coscienza morale. La coscienza è la prima e fondamentale rivelazione di Dio: Socrate ha insegnato questo all’Occidente. Nella coscienza risuona la voce di Dio.
 
Il concetto di coscienza vissuto ormai nella nostra cultura occidentale ha degradato la coscienza morale dalla sua suprema dignità. Essa non rimanda ad Altro: la coscienza è semplicemente auto-coscienza. Oggi dire: “in coscienza…” è sinonimo di: “la mia opinione è che…”. Questa riduzione della coscienza è stato esiziale per il Cristianesimo, perché ne ha svuotato il senso soteriologico. Ha reso vana la Croce di Cristo (21).
 
3.2/ Avere l’intima esperienza della propria libertà davanti a Dio. I grandi maestri dello spirito nel Cristianesimo amavano dire: camminare alla presenza di Dio. Se riflettiamo un momento vediamo che la libertà è un’esperienza di relazione. E quindi la misura della grandezza della mia libertà è data dalla grandezza del suo referente.
 
Certamente un pastore che vivesse sempre colle sue pecore, avrebbe un’esperienza della sua libertà nei loro confronti: è lui che li conduce dove vuole. Ma rivela un’esperienza molto più profonda di libertà un inglese quando pronuncia un famoso proverbio: “nella mia capanna entra vento e acqua, ma non Sua Maestà Britannica senza il mio permesso”.
 
Il referente della nostra libertà è sempre e solamente un bene creato? Sarebbe una libertà finita. Il referente ultimo è Dio stesso: la libertà dell’uomo possiede una certa infinità.
 
Uno ben più grande di sua Maestà Britannica dice: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno… mi apre la porta…» [Ap.3,20]. Se uno non ha mai sperimentato questo “stare davanti a Dio”, tutto il discorso sulla Misericordia e conversione fa solo un po’ di prurito alle orecchie dell’ascoltatore, e serve solo a far prendere un po’ di aria ai denti di chi lo pronuncia.
 
3.3/ Avere l’intima esperienza che il peccato è un male di cui non si può pensare uno maggiore, perché è il male della persona umana come tale (22). Rimando a questo punto alla manzoniana narrazione della notte dell’Innominato, il quale poi ha potuto sperimentare mediante il suo Vescovo la Misericordia di Dio in tutta la sua potenza.
 
Tutti e tre questi vissuti esistenziali mi sembrano oggi ampiamente assenti dal modo comune di pensare in Occidente. Ecco perché l’annuncio cristiano si trova dentro inedite difficoltà. Inedite, perché né il paganesimo antico né quello dei popoli che non hanno sentito l’annuncio evangelico viveva e vivono in tale condizione spirituale.
 
4./ Concludo e finisco. E lo faccio chiedendovi di mettere a confronto nel vostro spirito due testi.
 
Il primo è della Liturgia latina ed è una preghiera: O Dio che manifesti la tua onnipotenza soprattutto nella grazia del perdono… (23).
 
Il secondo è di uno dei più grandi pensatori del XIX secolo, Soeren Kierkegaard. 
“Un peccatore essenziale, uno che capisca essenzialmente di essere un peccatore […]: la sua unica passione è il pentimento. Umanamente è un disperato, ma cristianamente è salvo perché è credente” [Diario 3797, Morcelliana ed., Brescia 1982, vol.10, pag.72]. 
_________________________
Note:
(1) I sei giorni della Creazione, Giorno VI, Omelia IX, c.10, 76; Opera Omnia di S. Ambrogio, CN ed, Roma 1979, vol.1, pag. 419.
(2) Cfr. Rom.1,20.
(3) Inos Biffi, nota 2 al testo ambrosiano sopra citato.
(4) Cfr. Lc.15,7.
(5) Rom. 3,23-24.
(6) S. Tommaso, Summa Theologiae, II-II, q. 30, a. 4.
(7) Cfr. I-II, q.113, a.9.
(8) Ibid. ad 2um.
(9) Cfr. 2 Cor. 5,16; Gal. 6,15; Ef. 2,15.
(10) Cfr. Gv. 3,3.
(11) Cfr. 1Pt. 1,3.
(12) Dante chiama il regno dei beati il deiforme regno [ Par.II,20 ].
(13) Cfr. 1Gv. 1,5.
(14) Ibid. 4,8.
(15) Cfr. per es. Ger. 31, 33-34.
(16) Cfr. Rom. 3,23.
(17) Cfr. Lc. 19,1-10.
(18) S. Tommaso, Summa Theologiae, I-II, q.113, a.3; ed anche ad 3um.
(19) Cfr. Is.
(20) «Non pensate, fratelli, che Dio non sia giusto quando usa misericordia verso di noi, o che receda dalla regola della sua giustizia. Egli è giusto e quando condanna e quando perdona» [S. Agostino, Discorsi su Salmi XCLVII, 13; PL 37, 1922]. «L’ira è un tratto essenziale ed ineliminabile dell’immagine di Dio che si riscontra sia nell’AT sia nel NT. Quando si è convinti, come lo è tutto il NT che è tremendo cadere nelle mani di Dio (Ebr. 10 31); che Egli ha il potere di salvare e di dannare (Giac. 4,12); che Egli deve essere temuto perché può, al di là della morte corporale, distruggere l’anima ed il corpo nell’inferno (Lc 12,5; Mt 10,28 ), è certamente presente la viva consapevolezza dell’ira di Dio» [GLNT VIII, pag.1189].
(21) Vedi T. Styczen, Essere se stessi è trascendere se stessi. Sull’antropologia di K.Woitila, in K. Wojtila, Persona e Atto, Rusconi Libri, Milano 1999, pagg.709-753, specialmente 743-759.
(22) Su questo punto vedi le profonde pagine del beato Antonio Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, CN ed., Opera vol. 24, pagg. 471-473.
(23) Messale Romano.

[Fonte]





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Pubblicato il 12 lug 2016

Registrazione dell'omelia del Card. Carlo Caffarra, alla Messa in suffragio del Cardinal Giacomo Biffi, nel primo anniversario della morte. Cattedrale di San Pietro, 11 luglio 2016.

www.youtube.com/watch?v=yLqfHCrHT4o






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 Cardinale Carlo Caffarra:
"Schönborn sbaglia, e questo è ciò che vorrei dire al Santo Padre"

Così inizia la folgorante intervista sulla "Amoris laetitia" del cardinale Carlo Caffarra alla studiosa tedesco-americana Maike Hickson, pubblicata l'11 luglio sul blog OnePeter5:


_____

D. – Lei ha già parlato, in una recente intervista, dell'esortazione papale "Amoris laetitia" e ha detto che specialmente il capitolo 8 non è chiaro e ha già causato confusione anche tra i vescovi. Se lei avesse la possibilità di parlare di questo con papa Francesco, che cosa gli direbbe? Quale sarebbe il suo suggerimento su ciò che papa Francesco potrebbe e dovrebbe ora fare, visto che c'è tanta confusione?

R. – In "Amoris laetitia" [308] il Santo Padre Francesco scrive: “Capisco coloro che preferiscono una pastorale più rigida che non dia luogo ad alcuna confusione”. Da queste parole deduco che anche Sua Santità si rendeva conto che l’insegnamento dell’esortazione poteva dare origine a confusioni nella Chiesa. Personalmente, e così pensano tanti miei fratelli in Cristo cardinali, vescovi, e fedeli laici, desidero che la confusione sia tolta, ma non perché preferisco una pastorale più rigida, ma perché semplicemente preferisco una pastorale più chiara, meno ambigua.

Ciò premesso, con tutto il rispetto, l’affetto, e la devozione che sento il bisogno di nutrire verso il Santo Padre, gli direi: Santità, chiarisca, per favore, questi punti:

a) Quanto Vostra Santità dice alla nota 351 ["In certi casi… anche l'aiuto dei sacramenti] del n. 305 è applicabile anche ai divorziati-risposati che intendono comunque continuare a vivere "more uxorio"? E pertanto quanto insegnato da "Familiaris consortio" n. 84, da "Reconciliatio et poenitentia" n. 34, da "Sacramentum caritatis" n. 29, dal Catechismo della Chiesa Cattolica n. 1650 e dalla comune dottrina teologica, è da ritenersi abrogato?

b) L’insegnamento costante nella Chiesa ed ultimamente rinnovato da "Veritatis splendor" n. 79, che esistono norme morali negative che non ammettono eccezioni, in quanto proibiscono atti, quale per esempio l’adulterio, intrinsecamente disonesti, è da ritenersi vero anche dopo "Amoris laetitia"?

Questo direi al Santo Padre. E se poi il Santo Padre, nel suo sovrano giudizio, avesse intenzione di intervenire pubblicamente per togliere la confusione, ha a disposizione molti modi.

*

Ma naturalmente anche il seguito dell'intervista è tutto da leggere.

Ad esempio dove il cardinale Caffarra dice che si rivolgerebbe così a un fedele cattolico confuso sulla dottrina del matrimonio:

"Io semplicemente gli direi: Leggi e rifletti sul Catechismo della dottrina cattolica, ai numeri 1601-1666. E quando senti dei discorsi sul matrimonio – anche da parte di preti, vescovi, cardinali – e tu verifichi che non sono in conformità con il Catechismo, non dare ascolto ad essi. Sono dei ciechi che guidano dei ciechi".

Oppure dove definisce l'esercizio dell'omosessualità "intrinsecamente irrazionale e quindi disonesto", argomentando poi con cura questo giudizio tagliente, specie alla luce della "profetica" enciclica di Paolo VI "Humanae vitae".

Ma di grande interesse è anche la confutazione che Caffarra fa di un passaggio chiave della recente intervista a "La Civiltà Cattolica" del cardinale Christoph Schönborn, l'esegeta della "Amoris laetitia" prediletto da papa Francesco:

*

D.– Come commenterebbe la recente asserzione del cardinale Christoph Schönborn secondo cui la "Amoris laetitia" è una dottrina obbligante e tutti i precedenti documenti del magistero su matrimonio e famiglia devono ora essere letti alla luce di "Amoris laetitia"?

R. – Rispondo con due semplici osservazioni.
La prima. Non si deve solo leggere il precedente magistero sul matrimonio alla luce di "Amoris laetitia", ma si deve leggere anche "Amoris laetitia" alla luce del magistero precedente. La logica della vivente tradizione della Chiesa è bipolare. Ha due direzioni, non una.
La seconda è più importante. Il mio caro amico cardinale Schönborn nell’intervista a "La Civiltà Cattolica" non tiene conto di un fatto che sta accadendo nella Chiesa dopo la pubblicazione di "Amoris laetitia". Vescovi e molti teologi fedeli alla Chiesa e al magistero sostengono che su un punto specifico ma molto importante non esiste continuità, ma contrarietà tra "Amoris laetitia" e il precedente magistero.
Questi teologi e filosofi non dicono questo con spirito di contestazione al Santo Padre. Ed il punto è questo: "Amoris laetitia" dice che, date alcune circostanze, il rapporto sessuale fra divorziati-risposati è lecito. Anzi applica a questi, a riguardo delle intimità sessuali, ciò che il Concilio Vaticano II dice degli sposi [cfr. nota 329].
Pertanto o è lecito un rapporto sessuale fuori del matrimonio: affermazione contraria alla dottrina della Chiesa sulla sessualità; o l’adulterio non è un atto intrinsecamente disonesto, e quindi possono darsi delle circostanze a causa delle quali esso non è disonesto: affermazione contraria alla tradizione e dottrina della Chiesa. E quindi in una situazione come questa il Santo Padre, come già scrissi, deve secondo me chiarire. Se dico “S è P” e poi dico “S non è P”, la seconda proposizione non è uno sviluppo della prima, ma la sua negazione.
Nè si risponda: la dottrina resta, si tratta di prendersi cura di alcuni casi. Rispondo: la norma morale “non commettere adulterio” è una norma negativa assoluta, che non ammette eccezioni. Ci sono molti modi fare il bene, ma c’è un solo modo di non fare il male: non fare il male.



La traduzione di tutta l'intervista.

da http://www.lanuovabq.it/it/articoli-santita-la-prego-risponda-a-queste-tre-domande-su-amoris-laetitia-16757.htm 

 

«Santità, la prego risponda a queste tre domande su Amoris Laetitia»

 

Riflessioni e domande sulla Amoris Laetitia
intervista di Maike Hickson, 11 luglio 2016

 

In una recente intervista Lei ha parlato dell'esortazione Amoris Laetitia, e ha detto che in particolare il capitolo 8 non è chiaro e ha già causato confusione anche tra i vescovi. Se avesse la possibilità di parlare con Papa Francesco su questo argomento, che cosa vorrebbe dirgli? Quale sarebbe la sua raccomandazione su ciò che Papa Francesco potrebbe o dovrebbe fare, dato che c'è tanta confusione?

 

«In Amoris Laetitia [308] il Santo Padre Francesco scrive: “capisco coloro che preferiscono una pastorale più rigida che non dia luogo ad alcuna confusione”. Da queste parole deduco che anche Sua Santità si rendeva conto che l'insegnamento dell'Esortazione poteva dare origine a confusioni nella Chiesa. Personalmente, e così pensano tanti miei fratelli in Cristo cardinali, vescovi, e fedeli laici, desidero che la confusione sia tolta, ma non perché preferisco una pastorale più rigida, ma semplicemente preferisco una pastorale più chiara, meno ambigua. Ciò premesso, con tutto il rispetto, l'affetto, e la devozione che sento per il Santo Padre gli direi: “Santità, chiarisca, per favore, questi punti: 

1) quanto Vostra Santità dice alla nota 351 del n°305, è applicabile anche ai divorziati risposati che intendono comunque continuare a vivere more uxorio; e pertanto quanto insegnato da Familiaris consortio n°84, da Reconciliatio et poenitentia n°34, da Sacramentum caritatis n°29, dal Catechismo della Chiesa Cattolica n°1650, dalla comune dottrina teologica, è da ritenersi abrogato?

2) l'insegnamento costante della Chiesa e ultimamente rinnovato da Veritatis splendor n°79, che esistono norme morali negative, che non ammettono eccezioni, in quanto proibiscono atti, quale per es. l'adulterio, intrinsecamente disonesti, è da ritenersi valido anche dopo Amoris Laetitia? Ecco questo direi al Santo Padre. Se poi il S. Padre, nel suo sovrano giudizio, avesse intenzione di intervenire pubblicamente per togliere confusione, ha a disposizione molti modi».

 

Lei è anche un teologo morale. Qual è il Suo consiglio per i cattolici confusi per quanto riguarda l'insegnamento morale della Chiesa cattolica sul matrimonio e la famiglia? Che cosa è una coscienza autorevole, ben formata, quando si tratta di questioni come la contraccezione, il divorzio e le seconde nozze, così come l'omosessualità?

 

«La condizione in cui versa oggi in Occidente il matrimonio, è semplicemente tragica. Le leggi civili ne hanno cambiato la definizione, poiché lo hanno sradicato dalla dimensione biologica della persona umana. Hanno separato la biologia della generazione dalla genealogia della persona. Ma di questo parlerò dopo. Ai fedeli cattolici così confusi circa la dottrina della fede riguardo al matrimonio dico semplicemente: “leggete e meditate il Catechismo della Chiesa Cattolica nn.1601-1666. E quando sentite qualche discorso sul matrimonio, anche se fatto da sacerdoti, vescovi, cardinali, e verificate che non è conforme al Catechismo, non ascoltateli. Sono ciechi che conducono altri ciechi”».

 

Potrebbe spiegare, in questo contesto, il concetto morale che nulla di ciò che è ambiguo vincola la coscienza cattolica, e in modo particolare quando è dimostrato essere intenzionalmente ambiguo?

 

«I logici ci insegnano che una proposizione è ambigua quando può essere interpretata in due significati diversi e/o contrari. È ovvio che una tale proposizione non può avere il nostro assenso teorico e/o pratico, perché non ha un significato certo».

 

Al fine di aiutare i cattolici in questo periodo di grande confusione, ci sarebbe qualcosa che Papa Pio XII potrebbe ancora insegnare a noi, per quanto riguarda le questioni del matrimonio e del divorzio, la formazione dei bambini alla Vita Eterna, dal momento che ha così ampiamente scritto su queste cose?

 

«Il magistero di Pio XII sul matrimonio e sull'educazione dei figli è stato molto ricco e frequente. E infatti, dopo la Sacra Scrittura è l'autore più citato dal Vaticano II. Mi sembra che ci siano due discorsi particolarmente importanti per rispondere alla sua domanda. Il primo è il Radiomessaggio sulla coscienza cristiana che deve essere rettamente educata nei giovani del 23 marzo 1952, in AAS vol. 44, 270-278. Il secondo è il Discorso in occasione del Congresso della Féderation mondiale des Jeunesses Fèminines Catholique, ibid. 413-419. Questo secondo è di grande importanza magisteriale: tratta dell'etica della situazione».

 

Il gesuita tedesco, padre Klaus Mertes, ha appena detto in un'intervista a un giornale tedesco che la Chiesa cattolica «dovrebbe aiutare a stabilire un diritto umano di omosessualità». Quale dovrebbe essere la corretta risposta della Chiesa a tale proposta?

 

«Sinceramente non riesco a comprendere come un teologo cattolico possa pensare e scrivere di un diritto umano legato alla omosessualità. In senso preciso un diritto (soggettivo) è una facoltà moralmente legittimata e legalmente tutelata di compiere un'azione. L'esercizio dell'omosessualità è intrinsecamente irragionevole e quindi disonesta. Un teologo cattolico non può pensare che la Chiesa deve impegnarsi per “stabilire un diritto umano all'omosessualità”».

 

Più fondamentalmente, fino a che punto gli uomini possono avere un diritto umano, ad esempio, una richiesta di giustizia – per fare ciò che è sbagliato agli occhi di Dio, come, ad esempio, praticare la poligamia?

 

«Il tema dei diritti soggettivi ha ormai cambiato in modo sostanziale di senso. Si identifica il diritto con i propri desideri. Ma non abbiamo qui lo spazio per affrontare questa tematica dal punto di vista del legislatore umano».

 

[L'intervistatrice pone al cardinale due domande con tre quesiti, tutti riguardano l'insegnamento tradizionale della Chiesa circa i fini a cui è ordinato il matrimonio e il primato della procreazione e dell'educazione dei figli per il Cielo, NdR]

 

«Il rapporto amore coniugale-procreazione/educazione è una correlazione, direbbero i filosofi. Cioè: è un rapporto di interdipendenza fra due realtà distinte. L'amore coniugale sessualmente espresso quando i due coniugi diventano una sola carne, è l'unico luogo eticamente degno di dare origine ad una nuova persona umana. La capacità di dare origine ad una nuova persona umana è inscritta nell'esercizio della sessualità coniugale, la quale è il linguaggio sponsale della reciproca donazione fra gli sposi. In breve: coniugalità e dono della vita sono inscindibili. Che cosa è accaduto sopratutto dopo il Concilio? Contro l'insegnamento del Concilio stesso, si è talmente insistito sull'amore coniugale, da considerare la procreazione una semplice conseguenza collaterale dell'atto dell'amore coniugale. Il beato Paolo VI nell'Enciclica Humanae Vitae corresse questa visione, giudicandola contraria e alla retta ragione e alla fede della Chiesa. E San Giovanni Paolo II, nell'ultima parte delle sue stupende Catechesi sull'amore umano mostrò il fondamento antropologico dell'insegnamento del suo predecessore: l'atto della contraccezione è obiettivamente una menzogna detta con il linguaggio sponsale del corpo. Quali le conseguenze di questo insegnamento? La prima e la più grave è stata la separazione tra sessualità e procreazione. Si è partiti dal sex without babies e si è arrivati al babies without sex: la separazione è completa. La biologia della generazione è separata dalla genealogia della persona. Si giunge così a “produrre” i bambini in laboratorio; e all'affermazione di un [supposto] diritto al figlio. Un non senso. Non esiste un diritto ad una persona, ma solo alle cose. A questo punto c'erano tutte le premesse per nobilitare la condotta omosessuale, perché non si vede più la sua intima irragionevolezza, e la grave intrinseca disonestà della congiunzione omosessuale. E così siamo giunti a cambiare la definizione di matrimonio, perché l'abbiamo sradicato dalla biologia della persona. Veramente Humanae Vitae è stata una grande profezia!

 

Che cos'è, nella sua essenza, il fine del matrimonio e della famiglia?

 

«È l'unione legittima tra un solo uomo e una sola donna in vista della procreazione ed educazione dei figli. Se i due sono battezzati, questa stessa realtà – non un'altra – diviene il simbolo reale dell'unione Cristo-Chiesa. E li pone in uno stato di vita pubblico nella Chiesa, con un ministero loro proprio: la trasmissione della fede ai loro figli».

 

Nel contesto dell'attuale aumento di confusione morale: a che punto l'indifferentismo religioso può portare al relativismo morale (per esempio, l'affermazione che si può essere salvi in qualsiasi religione)? Per essere più precisi, se una religione favorisce la poligamia, ma si afferma che è salvifica, non si arriva quindi alla conclusione che la poligamia, dopo tutto, non è illecita?

 

«Il relativismo è come una metastasi. Se accetti i suoi principi, ogni esperienza umana sia personale che sociale viene corrotta. L'insegnamento del beato J.H. Newman è al riguardo di grandissima attualità. Egli verso la fine della sua vita, disse che il germe patogeno che corrompe il senso religioso e la coscienza morale, è il “principio liberale”, così egli lo chiama. E cioè: la convinzione che in ordine al culto che dobbiamo a Dio, è indifferente ciò che pensiamo di Lui; la convinzione che tutte le religioni hanno lo stesso valore. Newman giudica il principio così inteso completamente contrario a ciò che chiama “il principio dogmatico”, il quale sta alla base della proposta cristiana. Dal relativismo religioso al relativismo morale il passo è breve. Non c'è nessun problema nel fatto che una religione giustifichi la poligamia, ed un altra la condanni. Non esiste infatti nessuna verità assoluta riguardo a ciò che è bene/male».

 

Come commenterebbe la recente asserzione del cardinale Christoph Schönborn secondo cui laAmoris Laetitia è una dottrina obbligante e tutti i precedenti documenti del magistero su matrimonio e famiglia devono ora essere letti alla luce di Amoris Laetitia?

 

«Rispondo con due semplici osservazioni. La prima. Non si deve solo leggere il precedente magistero sul matrimonio alla luce di Amoris Laetitia, ma si deve leggere anche Amoris Laetitia alla luce del magistero precedente. La logica della vivente tradizione della Chiesa è bipolare. Ha due direzioni, non una. La seconda è più importante. Il mio caro amico cardinale Schönborn nell’intervista a La Civiltà Cattolica non tiene conto di un fatto che sta accadendo nella Chiesa dopo la pubblicazione di Amoris Laetitia. Vescovi e molti teologi fedeli alla Chiesa e al magistero sostengono che su un punto specifico ma molto importante non esiste continuità, ma contrarietà tra Amoris Laetitia e il precedente magistero. Questi teologi e filosofi non dicono questo con spirito di contestazione al Santo Padre. Ed il punto è questo:Amoris Laetitia dice che, date alcune circostanze, il rapporto sessuale fra divorziati-risposati è lecito. Anzi applica a questi, a riguardo delle intimità sessuali, ciò che il Concilio Vaticano II dice degli sposi [cfr. nota 329]. Pertanto o è lecito un rapporto sessuale fuori del matrimonio: affermazione contraria alla dottrina della Chiesa sulla sessualità; o l’adulterio non è un atto intrinsecamente disonesto, e quindi possono darsi delle circostanze a causa delle quali esso non è disonesto: affermazione contraria alla tradizione e dottrina della Chiesa. E quindi in una situazione come questa il Santo Padre, come già scrissi, deve secondo me chiarire. Se dico “S è P” e poi dico “S non è P”, la seconda proposizione non è uno sviluppo della prima, ma la sua negazione. Né si risponda: la dottrina resta, si tratta di prendersi cura di alcuni casi. Rispondo: la norma morale “non commettere adulterio” è una norma negativa assoluta, che non ammette eccezioni. Ci sono molti modi fare il bene, ma c’è un solo modo di non fare il male: non fare il male».

 

In generale, qual è la sua raccomandazione di pastore per noi laici su ciò che dobbiamo fare ora, al fine di preservare la fede cattolica, tutta e intera, e in ordine al crescere i nostri figli per la vita eterna?

 

«Le dirò molto sinceramente che non vedo altro luogo in cui possa trasmettersi la fede che si deve credere e vivere, all'infuori della famiglia. Ciò che in Europa durante il crollo dell'Impero romano e le invasioni barbariche hanno fatto i monasteri benedettini, oggi nell'impero della nuova barbarie spirituale-antropologica lo possono fare le famiglie credenti. E grazie a Dio esistono ancora. A questa riflessione mi stimola un piccolo poema di Chesterton, scritto all'inizio del XX secolo: La ballata del cavallo bianco. È una grande meditazione poetica su un fatto storico. È l'anno 878. Il re d'Inghilterra Alfredo il Grande aveva appena sconfitto il re di Danimarca Guthrum, che aveva invaso l'Inghilterra. È dunque un momento di pace e serenità. Ma durante la notte dopo la vittoria, il re Alfredo ha un terribile sogno: vede l'Inghilterra invasa da un altro esercito, così descritto. “...arriveranno con carta e penna [uno strano esercito che non ha armi, ma carta e penna]/ e avranno l'aspetto serio e pulito dei chierici,/ da questo segno li riconoscerete,/ dalla rovina e dal buio che portano;/ da masse di uomini devoti al Nulla/...riconoscerete gli antichi barbari,/ saprete che i barbari sono tornati”. Le famiglie credenti saranno le vere fortezze. E il futuro è nella mani di Dio».


[Modificato da Caterina63 22/07/2016 22:47]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Carlo Caffarra papa Francesco

Solennità di sant’Agostino

Pavia, 28 agosto 2016


Eccellenza venerata e carissima;

Signor Sindaco di questa città splendida per storia, arte, e scienza;

Gentili Autorità Civili e Militari, la cui presenza onora la celebrazione:

considero grande dono fattomi dal Signore celebrare questa Santa Eucaristia presso le spoglie mortali di Agostino, Padre della Chiesa e dell’Occidente. Devo questo dono alla benevolenza del Vs. Ecc.mo Vescovo, giovane in età ma non in sapienza. Grazie, fratello carissimo. 

1. Cari fratelli e sorelle, le tre letture appena proclamate nel loro insieme ci hanno presentato la realtà della Chiesa nella sua condizione storica.

La Chiesa, come ci viene detto nella prima lettura, è l’unità umana ricostruita dall’obbedienza all’insegnamento degli Apostoli e dalla “frazione del pane”, cioè dalla celebrazione eucaristica. L’espressione inequivocabile dell’unità riedificata dalla fede e dal Sacramento, è la scomparsa delle categorie “mio-tuo”: «tenevano ogni cosa in comune».

Se dalla prima lettura passiamo alla pagina evangelica, la presentazione della Chiesa diventa drammatica. Accanto all’amabile ed attraente figura del Buon Pastore, si muovono lupi rapaci. Essi si sono introdotti nel gregge del Signore “per rapire e disperdere”; e di fronte ai lupi vi sono pastori-mercenari che fuggono, impauriti dal pericolo.

Ma la seconda lettura è ancora più drammatica. Essa preannuncia per la Chiesa «un giorno in cui non si sopporterà più la sana dottrina…rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole». Cari amici, il contrasto non poteva essere più violento: una Chiesa costruita sull’ascolto dell’insegnamento degli Apostoli - una Chiesa percorsa dal “prurito di udire qualcosa” di diverso, dando ascolto ad affabulatori, «secondo le proprie voglie».

A questo punto non dobbiamo commettere l’errore di intendere la Parola di Dio in senso cronologico, come se ognuna delle tre letture narrasse periodi storici diversi della Chiesa: ad una Chiesa santa ed immacolata degli inizi succede a lungo tempo una Chiesa corrotta e mondana. No, non è questo che la Parola di Dio vuole dirci. Che cosa allora? E cominciamo allora ad andare alla scuola del vostro Santo Compatrono, il quale, in un testo bellissimo, risponde alla nostra domanda.

Agostino commenta il testo biblico che narra la misteriosa lotta tra Giacobbe e l’Angelo. Da essa il padre del popolo ebraico esce benedetto da Dio, ma azzoppato per tutta la vita. Scrive dunque Agostino: «la parte lesa di Giacobbe rappresenta i cattivi cristiani, perché nello stesso Giacobbe ci sia e la benedizione e lo zoppicare… Ora la Chiesa zoppica. Poggia solidamente su un solo piede, l’altro è invalido» [Discorso 5,8; NBA XXIX, pag.94-95. La sottolineatura è mia]. La Chiesa della quale parla la prima lettura è la stessa Chiesa della quale parla Paolo nella seconda lettura. La Chiesa vera e la Chiesa – chiamiamola così – del quotidiano è la stessa realtà; è la stessa Chiesa quella che, come Giacobbe, poggia saldamente su un piede e sull’altro zoppica. Un grande scrittore inglese ha detto: «Per i grandi santi e per i grandi peccatori c’è la Chiesa Cattolica; per la gente dabbene basta la Chiesa Anglicana» [O. Wilde].

«Ecco perché – scrive Agostino – la Chiesa di Cristo ha fedeli saldi nella fede, ma ha pure fedeli tentennanti, e non può non essere senza quelli stabili nella fede, né senza quelli instabili» [Discorso 76, 3.4; NBA XXX/1, pag.519].

 

2. Come dobbiamo vivere dentro alla nostra casa che è la Chiesa, nella quale, come ci ha appena detto Agostino, ci sono cristiani forti nella fede e cristiani deboli?

La Parola di Dio ascoltata risponde a questa domanda, rivolgendosi distintamente a noi pastori e a voi fedeli.

2.1: a noi pastori. «Carissimo… annunzia la Parola, insisti in ogni occasione opportuna ed inopportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina… compi la tua opera di annunciatore del Vangelo». Quali parole tremende sono rivolte a noi pastori! «Voi»  dice Agostino, rivolto a voi fedeli «ascoltate(le) con attenzione, noi (le) ascolteremo con tremore… Quanto a voi ascoltate come pecore di Dio e osservate come Dio vi abbia posto al sicuro. Qualunque sia il comportamento di chi vi sta a capo, cioè di noi, voi state sempre al sicuro per la sicurezza che vi ha donato il Pastore d’Israele. Dio non abbandona le sue pecore» [Discorso 46,1…2; NBA XXIX, pag.796.797].

Le nostre città, la nostra nazione, la nostra Europa stanno attraversando una crisi mortale. La cifra della loro agonia è il freddo inverno demografico che stiamo attraversando. La parola che Dio rivolge a noi pastori ci costringe ad alcune domande: stiamo compiendo l’opera di annunciare il Vangelo o ci accontentiamo di esortare le persone a buoni sentimenti morali, quali per esempio tolleranza, apertura, accoglienza? Non dobbiamo essere sordi al vero bisogno, alla struggente necessità che abita nel cuore di uomini e donne che vivono con ansia i giorni cupi e tristi che stiamo attraversando. Non dobbiamo, noi pastori, essere sordi all’angoscia che abita nel cuore di padri e madri, che pensano con paura al futuro dei loro bambini. È necessario che i pastori della Chiesa testimonino, dicano che dentro ogni istante, dentro ogni evento abita una Presenza, un Ospite che guida tutto ciò che accade al bene di coloro che Dio ama.

 Fino a quando sulle nostre spirituali rovine sarà celebrata l’Eucarestia, esse potranno risorgere. Le pie esortazioni morali lasciamole ad altri.

Quando il 24 agosto 410 Alarico I re dei Visigoti saccheggiò Roma, nello sconcerto generale – era dal tempo di Brenno che non accadeva – Girolamo scrisse: «è occupata la città che aveva occupato il mondo intero» [Lettera a Principia CXXVII,12; CSEL, t. LVI, pag.154, 16]. Ed aggiunge con un’immensa angoscia: «in una sola città tutto il mondo è perito». Girolamo non vedeva più futuro.

Ben diversa fu la reazione di Agostino. Egli non soffre meno per le notizie che gli arrivano da Roma. «Ci sono state trasmesse cose orrende: stragi, incendi, rapine, uccisioni, torture… su tutte abbiamo gemuto, spesso abbiamo pianto, siamo appena riusciti a consolarci» [Discorso sulla caduta di Roma,6; PL 40, 715-724]. Ma egli portò a compimento La Città di Dio, vera pietra miliare della nostra civiltà. Il santo vescovo insegnò ai suoi fedeli il modo giusto di porsi dentro la storia; e dentro alle rovine dell’Impero gettò i semi di una nuova civiltà.

Ciò che desiderava, ciò che Agostino voleva, era trasmettere vera speranza, e proprio in un momento in cui tutto l’Impero ed in esso la sua Africa stavano crollando. Sul suo letto di morte egli seppe che i Vandali erano entrati in città.

Trasmettere la speranza fondata sulla fede la quale, rinunciando al progetto di una vita ritirata fatta di preghiera e studio, lo fece capace di partecipare veramente all’edificazione della Chiesa e della città. La speranza che Agostino seppe trasmette era incrollabile, perché era certo che Dio era venuto a vivere la nostra tribolata vicenda umana, e dal di dentro l’aveva salvata. È questo Dio che ci dà il diritto di sperare, non un qualsiasi Dio, ma solo il Dio che ha un volto umano perché si è fatto uomo.

Il Signore dunque faccia tacere sulle nostre labbra di pastori parole vuote, e metta sulla nostra bocca parole vere.

2.2.  La Parola di Dio si rivolge anche a voi fedeli. E vi dice: «Non siate tra coloro che non sopportano più la sana dottrina, ma per il prurito di sentire qualcosa di nuovo, non circondatevi di maestri che vi dicono ciò che voi avete piacere sentirvi dire, rifiutando di dare ascolto alla verità, per volgervi alle favole». Ma è Gesù che nel Santo Vangelo vi dice parole di consolazione. Egli vi dice: «Io sono la porta delle pecore… se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà ed uscirà e troverà pascolo».

Ecco come le spiega Agostino. «Si può dire che noi entriamo quando ci raccogliamo nella nostra interiorità per pensare, e che usciamo quando ci esteriorizziamo mediante l’azione; e poiché, come dice l’Apostolo, è per mezzo della fede che Cristo abita nel nostro cuore, entrare per Cristo significa pensare alla luce della fede, mentre uscire per Cristo significa tradurre la fede in azione davanti agli uomini» [Comm. al Vangelo di Giovanni 45,15; NBA XXIV, pag.913]. Ecco, cari fedeli, che cosa vi dice il Buon Pastore: pensate alla luce della fede; traducete la fede in atti.

Concludo. In uno scritto contro i Manichei, Agostino ci rivela le ragioni per cui resta nella Chiesa. Eccole.

«Mi mantiene fermo (nella Chiesa) il consenso dei popoli e delle genti; mi mantiene fermo quell’autorità avviata dai miracoli, nutrita dalla speranza, aumentata dalla carità, confermata dall’antichità; mi mantiene fermo la successione dei Vescovi sulla stessa sede di Pietro… fino al presente Sommo Pontefice; mi mantiene fermo infine lo stesso nome di Cattolica» [Contro la Lettera di Mani detta del Fondamento 4.5; NBA XIII/2, pag.307].

Cari fedeli, ascoltate il vostro Compatrono. In questi momenti di grave incertezza mantenetevi fermi nella Chiesa. Abbiamo ragioni vere e belle per farlo. È in essa che incontriamo il nostro Salvatore.





Il cardinal Caffarra tra i malati
 

Il cardinale emiliano stronca l'acquisto di gameti femminili della Regione. "Gravissimo trattare cellule umane come un appalto. Verranno spesi 650 mila euro di soldi pubblici per ingannare donne sottoposte a trattamenti mostruosi. Così la veterinaria entra nell'umano". Nell'intervista con la Nuova BQ, i mea culpa per vescovi che hanno abbandonato la Dottrina e l'urgenza di una battaglia educativa: "Non possiamo stare fermi, Gesù ci invita a gridare dai tetti". 

“I bambini non si comprano e le donne non sono cave di estrazione. Non possiamo limitarci a denunciare, ma dobbiamo scendere in piazza perché è Gesù che ci ha detto di gridare sui tetti”. Non è una chiamata alle armi, ma un appello forte quello che il Cardinale Carlo Caffarra fa in questa intervista alla Nuova BQ commentando la decisione della Regione Emilia Romagna di acquistare da banche del seme estere gameti femminili e maschili per promuovere la fecondazione eterologa. Caffarra dice di intervenire non come arcivescovo emerito di Bologna, ma come figlio di questa terra secondo “un diritto che mi è dato dall’essere io un emiliano”. Ma sull’iniziativa duplice dell’assessore regionale Sergio Venturi (acquisto di gameti all’estero e donazione gratuita di volontari “altruisti” italiani) ha deciso che non è più il momento di stare con le mani in mano.

Eminenza, la decisione della Regione porta a un punto di non ritorno?

E’ una cosa gravissima e aberrante. Non ci si rende conto che si sta sradicando la genealogia della persona dalla genealogia naturale. La persona umana nasce radicandosi in carne e sangue in una genealogia ed è incredibile che a dire questo debba essere un vescovo perché non sto facendo altro che richiamare la coscienza civile a una dimensione naturale e biologica della persona. Così si distrugge il tessuto delle relazioni dentro le quali la persona umana cresce armoniosamente.

Eppure l’iniziativa è benedetta con i crismi di legge, a quanto pare…

I nostri padri costituenti non vedevano un altro modo di essere famiglia se non quello del matrimonio tra uomo e donna. E non riconoscerlo significa essere accecati da un’ideologia che impedisce di vedere come stanno veramente le cose.

A poco serve dunque dire che i gameti verranno donati?

Se ho capito bene qui si parla di dono, in realtà questo si riferisce alla campagna di raccolta, ma la Regione ha già avviato anche un bando per trovare le banche dei gameti esteri da cui acquistare soprattutto ovociti femminili. Ma questo non è gratuito: la regione spenderà 650mila euro nel biennio! E per farlo ha indetto un bando con una manifestazione di interesse. Ci rendiamo conto che stiamo trattando cellule riproduttive come un appalto stradale? Non siamo in grado di comprendere che stiamo usando denari pubblici per comprare uomini?

Finché le istituzioni controllavano un mercato tra privati c’era sempre l’ipocrisia di potersi chiudere gli occhi...

Ma ormai la veterinaria è entrata pienamente nell’umano. Gli ordinamenti giuridici hanno sempre avuto un trattamento di favore verso il matrimonio tra uomo e donna. Era il cosiddetto privilegium juris, questo non significa che bisogna punire gli omosessuali o i celibi, ma l’autorità pubblica che è responsabile del bene comune sa che la pietra fondamentale dell’edificio sociale è il rapporto uomo e donna da cui derivano in ordine alla procreazione e alla educazione nuove persone umane. Questa scelta di agire e di non favorire il matrimonio è contro il bene comune.

Si ammanta il tutto con la giustificazione dell’inverno demografico…

…ma non si dice mai quanti embrioni vengono distrutti, né si dice mai quali sono le percentuali di insuccesso. E neppure si fa comprendere che la donna sarà sottoposta a dei trattamenti ormonali massacranti. E’ un grande inganno, compiuto con fondi pubblici. Non si può tacere.

Ancora una volta la sua Emilia, regione all’avanguardia dei nuovi diritti e della nuova antropologia dei desideri che si fanno diritti. Oltre che sazia disperata adesso è anche transumana?

E’ con grande dolore che constato ciò. Ma non vedo altra soluzione se non un grandissimo impegno educativo, non possiamo pensare di ricostruire il tessuto collettivo del sociale se non attraverso una vera svolta nell’ambito educativo. E’ un processo lungo, ma non vedo altre strade.

Ma come? Siamo in una terra governata da politici che si dicono cattolici…

Qui tocchiamo un tasto dolente. Noi vescovi dobbiamo pronunciare dei grandi mea culpa: abbiamo lasciato cadere nelle nostre comunità l’insegnamento della Dottrina sociale della Chiesa, abbiamo smesso di educare a una fede che diventi criterio di giudizio su ciò che accade nella storia degli uomini e delle donne. Non abbiamo fornito criteri di valutazione, il risultato è che non vediamo più il legame tra ciò che celebriamo alla domenica e ciò che faremo al lunedì.

Provi a spiegarlo lei: perché disporre dei gameti è un atto contro natura?

Perché si producono le cose, non i bambini e questa è una produzione di bambini. Ma la logica della produzione deturpa la dignità della persona. Il bambino viene così deturpato nella sua dignità. In secondo luogo il corpo della donna non è una miniera, una cava da cui estrarre ciò che mi serve per compiere i miei desideri, perché un ovocita non è il tessuto della cornea di cui mi servo per dare la vista a un cieco. L’ovocita ha in sé la potenza di dare origine ad una nuova persona, non è una cellula qualsiasi.

Sembra un concetto semplice, ma ormai è diventato difficile da far capire…

E’ un problema culturale.

Perché la Chiesa si trova sempre a rincorrere queste tematiche?

In realtà la Chiesa che viene accusata di essere in ritardo, è sempre la prima a dire le cose. Solo che non viene ascoltata. Quando Benedetto XV definì la I Guerra Mondiale un’inutile strage, venne attaccato e lo apostrofarono come “Maledetto XV”. Oggi tutti gli storici sono concordi nel definire la Grande Guerra in questo modo.

Anche questa di disporre della vita umana come un oggetto è un’inutile strage?

Direi che ha in sé i crismi dell’ingiustizia contro il Creatore. Papa Francesco ha riferito una frase del Papa emerito Benedetto XVI che in una conversazione con lui ha detto che i peccati oggi sono peccati contro Dio Creatore, è Dio che si sta sfigurando.

Eppure, sempre a proposito di vescovi reticenti, non si ricorda mai che cosa rischia un’anima che li compie.

Certo, infatti proprio la prossima settimana presenterò il libro del cardinal Ruini che parla di Inferno e Paradiso. C’è un’eternità nella vita felice, ma c’è un’eternità anche nella dannazione.

Il mondo cattolico però è combattuto: è sufficiente denunciare questa deriva antiumana o bisogna fare qualcosa di più?

Il male va fermato. Papa Francesco ha parlato di una guerra mondiale che mira alla distruzione del matrimonio. Se ci troviamo di fronte ad una guerra non possiamo limitarci a dire “Io queste cose non le faccio, io non sono un soldato di questa guerra”. No, dobbiamo scendere in piazza e fare di tutto per fermare il male e rispettare il diritto alla vita e all’educazione libera.

E’ una posizione da Chiesa nelle catacombe?

Non siamo ancora nelle catacombe, ricordo che la Chiesa non ha mai scelto di andarci. Quando ce l’hanno mandata c’è stata, ma la Chiesa non sceglie mai le catacombe. Dobbiamo essere fedeli e saldi al dettato di Gesù, di cui spesso per il nostro torpore e i nostri peccati ci dimentichiamo: “Quello che vi dico nelle orecchie, gridatelo sui tetti”.

 




[Modificato da Caterina63 08/10/2016 19:53]
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  Famiglia, sinodo, modernità: Amoris laetitia
Pavia, 20 maggio 2016


La formulazione del tema della nostra riflessione è assai impegnativa, in quanto ci chiede di confrontarci con due realtà, famiglia e modernità, la cui relazione è tutt’altro che pacifica. Ma questo rapporto mi è stato chiesto di studiarlo alla luce di un grande evento ecclesiale, il Sinodo che, dopo due sessioni, si è concluso colla Esortazione Apostolica Amoris laetitia [AL].

Per dare un certo ordine alla mia riflessione, e contenerla entro ragionevoli limiti di tempo, desidero esporvi prima lo schema.

Cercherò di rispondere a due domande.
La primaperché tanto interesse della Chiesa nei confronti del matrimonio e della famiglia?
La seconda: quale è l’approccio fondamentale della Chiesa al matrimonio e alla famiglia?

Aggiungerò poi un’appendice riguardante il problema dell’accesso dei divorziati risposati all’Eucaristia.

 

1. INTERESSE DELLA CHIESA AL MATRIMONIO E FAMIGLIA

Fin dall’inizio, la chiesa si è profondamente interessata al matrimonio e alla famiglia. Un solo richiamo. Come risulta dalle lettere di S.Paolo, la catechesi dell’Apostolo comprende anche una esortazione su come i battezzati devono vivere nello stato matrimoniale (1). Ma è soprattutto dopo il Concilio di Trento che si moltiplicano i documenti.

Le ragioni di un tale interesse sono, diciamo, sia di carattere strutturale sia di carattere congiunturale.

Di carattere strutturale: la Chiesa si interessa al Matrimonio perché è un sacramento (a); perché pone il battezzato che lo riceve in uno stato di vita che gli conferisce una missione specifica nella Chiesa (b). Come nella Chiesa esiste lo stato di vita della verginità consacrata, così nella Chiesa esiste lo stato di vita coniugale.

1.1 Ragioni strutturali

(a) Dobbiamo avere una comprensione profonda di che cosa è un sacramento, e specificatamente il sacramento del matrimonio.

 Partiamo dalla constatazione più semplice. In ogni sacramento, esclusi due (confessione e matrimonio), voi potete osservare che si fa uso di un elemento naturale: l’acqua, per esempio, nel Battesimo. E se ne fa lo stesso uso che nella vita quotidiana delle persone: l’acqua serve per lavarsi. Ma quando essa viene usata nel sacramento del Battesimo, acquista una potenza sovrannaturale: purificandoci da ogni peccato ci genera alla vita divina. Viene subito da chiederci quello che si chiese Nicodemo: ma come è possibile questo? (2). È possibile, perché mediante quel rito e in quel rito è presente ed operante la potenza del Signore risorto, il quale nello Spirito Santo compie lo straordinario evento della rigenerazione della persona umana.

Ed ora veniamo al matrimonio. Ciò che lo costituisce, come sappiamo (3), è il consenso matrimoniale, libero e consapevole. Quando il consenso coniugale viene scambiato fra due battezzati, Cristo opera inesso e mediante esso ed unisce gli sposi. È questo il grande mistero del matrimonio dei battezzati. È Dio stesso che in Cristo unisce i due sposi. Ed il vincolo che li unisce, partecipa dello stesso vincolo che unisce Cristo e la Chiesa. Partecipa significa che è della stessa natura, anche se, ovviamente, non della stessa intensità.  Fate bene attenzione. Il riferimento a Cristo e alla Chiesa ed al loro vincolo non è una metafora o un esempio morale, del tipo che i due sposi devono amarsi come Cristo e la Chiesa si amano. Sto parlando di una realtà “prodotta” dall’azione di Cristo, e che in ragione di ciò che è, permane indipendentemente dai comportamenti degli sposi. È un vero cambiamento che Cristo compie nella persona degli sposi; li rende immagini reali del legame Suo colla Chiesa. Trattasi di una realtà, quella del sacro vincolo matrimoniale, in forza della quale si dà una reciproca dimora: del vincolo che unisce Cristo e la Chiesa nel vincolo che unisce i due sposi, e del vincolo che unisce i due sposi nel vincolo che unisce Cristo e la Chiesa (4).

Ma Il Signore non fa le cose a metà. Avendo elevati gli sposi ad una tale dignità – essere simbolo reale  del vincolo che unisce Cristo e la Chiesa –, Egli dona loro una capacità di amare che eleva il naturale amore coniugale. È il dono della carità coniugale. Non abbiamo ora il tempo di approfondire questo tema, sul quale AL riflette assai lungamente (5).

In conclusione. Il sacramento opera una reale trasformazione nella persona dei coniugi che riguarda il loro essere stesso.

(b)  E siamo già entrati nella seconda ragione strutturale per cui la Chiesa si interessa del matrimonio e della famiglia. Come ogni sacramento, anche il sacramento del matrimonio è un azione pubblica la quale colloca gli sposi in uno stato di vita pubblico, con la responsabilità quindi di un compito, di una missione ecclesiale pubblica. Missione che compete esclusivamente ad essi. Quale?

La missione di donare la vita e di essere i primi educatori nella fede. AL dedica un intero capitolo al tema educativo (6). Gli sposi in questo sono insostituibili: nessuno può prendere il loro posto, anche se devono farsi aiutare. Sono insostituibili, perché la loro missione è radicata nel sacramento ricevuto. È un compito, un munus – direbbero i canonisti – sacramentale. Come lo è quello del sacerdote.


1. 2 Ragioni congiunturali

La condizione in cui versano oggi il matrimonio e la famiglia sono tali che non possono non destare profonda preoccupazione nella chiesa. Cercherò di essere molto breve.

Penso che la situazione possa essere descritta con un famoso verso di Virgilio: rari nantes in gurgite vasto (7). Attraverso processi culturali assai complessi, in Occidente il matrimonio e famiglia è stato de-costruito, e come smontato. Abbiamo ancora tutti i pezzi dell’edificio, ma non abbiamo più l’edificio.

Facciamo un esempio. Chi è la madre? Chi ha dato l’ovulo? Chi ha compiuto la gestazione? Chi ha pagato l’affitto dell’utero? Uno dei pezzi dell’edificio, il concetto di maternità, non è più univoco. E così per gli altri pezzi.

 La conseguenza è stata che in una tale situazione abbiamo dovuto affidarci al potere per sapere cos’è il matrimonio. Abbiamo così oscurato un’intuizione presente da sempre nella coscienza dell’umanità, formulata già da Aristotile quando scriveva che l’uomo è un animale coniugale prima che politico (8).

È un fatto di una gravità smisurata, mai accaduto nella storia dell’umanità: è stata cambiata la definizione stessa di matrimonio. Come è potuto accadere? Me lo chiedo spesso. Per il momento non ho trovato altra risposta che la seguente: la de-biologizzazione della persona umana. Il corpo della persona non ha in sé alcun significato; è la libertà che lo decide; è un oggetto. La sessualità si è come liquefatta.

 

2. LA CHIESA DI FRONTE AL MATRIMONIO E ALLA FAMIGLIA

Vorrei in questa seconda parte della mia riflessione narrare come la Chiesa “percorre la via della famiglia”, per usare un’espressione cara a san Giovanni Paolo II (9). A me sembra che questa narrazione possa essere scritta in tre capitoli. Il primo narra la modalità fondamentale con cui la Chiesa considera il matrimonio e la famiglia. Il secondo narra quale diagnosi la Chiesa fa della situazione in cui versa oggi il matrimonio e la famiglia. Il terzo narra il modo con cui la Chiesa si prende cura del matrimonio e della famiglia.

2.1. Per vedere un oggetto deve esserci la luce. Collo stesso atto l’occhio vede l’oggetto e la luce. In modo diverso tuttavia. L’oggetto è ciò che vedo; la luce è ciò mediante cui vedo. Quale è la luce mediante la quale la Chiesa vede ed invita a vedere il matrimonio e la famiglia? E’ stato uno dei grandi meriti del Magistero di Giovanni Paolo II aver aiutato la Chiesa a porsi questa fondamentale domanda e a rispondervi.

È la luce che brilla “al Principio”. Mi spiego. Quando i farisei chiedono a Gesù se e lecito divorziare per qualunque motivo o solo per l’adulterio della donna, Egli rimanda al “Principio” (10), cioè al momento in cui Dio creò l’uomo e la donna. Gesù cioè dice che i farisei avevano…acceso la luce sbagliata per guardare il matrimonio: lo comprendevano alla luce delle possibilità umane; alla luce di ciò che accadeva. E’ alla luce del progetto di Dio, di come Dio l’ha pensato che bisogna guardare al matrimonio. AL parte da questo (11). La Chiesa dunque si prende cura del matrimonio e della famiglia in primo luogo compiendo un’operazione ortottica.

2.2. Alla luce del Principio, la Chiesa compie la seconda operazione del suo prendersi cura del matrimonio e della famiglia: offre la chiave interpretativa dell’attuale condizione in cui versa il matrimonio e la famiglia. Partendo da una domanda che ogni persona umana in un modo o in un altro si pone. Ascoltiamo come la formula S.Paolo: «acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente» [Rom.7,22].

La legge della mia mente: chi di noi non vede spiritualmente che dentro all’amore per il quale ci sentiamo fatti, dimora il “per sempre”? chi direbbe all’amata “ti amo con tutto me stesso per un quarto d’ora”? chi di noi non sente che  il corpo è il linguaggio della persona, la quale rifiuta intimamente di essere trattata come un oggetto di cui fare uso? Perché allora la dittatura del provvisorio sta regnando nella nostra cultura? Perché siamo colpiti dall’incapacità di leggere il linguaggio sposale del corpo, e di conoscerne la grammatica?

Dunque: da una parte l’intimo dell’uomo che acconsente alla verità, alla bontà, alla bellezza dell’amore coniugale; dall’altra la smentita quotidiana e massiccia di questa naturale inclinazione.

Tutti i grandi legislatori hanno cercato di dare una soluzione a questa condizione paradossale dell’uomo. Mosè, dice ancora Gesù nella già citata risposta ai farisei, considerando la “durezza“ del cuore umano ha regolamentato il divorzio perché uomo e donna si facessero meno male possibile.

Altri, grandi poeti soprattutto, hanno amaramente concluso che la persona umana è proprio fatta male: ha desideri così grandi che non può sperare di poterli adempiere (12).

Alla luce del Principio, la Chiesa interpreta questa paradossale condizione umana come caduta da una dignità regale, ed invocazione di redenzione. Redenzione dell’amore coniugale; anzi S.Paolo parla più concretamente di una redenzione del corpo [ cfr.Rom.8,23 ]. La festa finisce perché non c’è più vino. E la prima ad accorgersene è la Donna.

La seconda operazione che esprime la cura che la Chiesa si prende del matrimonio e della famiglia, è aiutare l’uomo a prendere coscienza della sua radicale incapacità di amare, del suo bisogno di essere guarito da questa ferita. Diciamolo in linguaggio biblico: chiede all’uomo di convertirsi.

2.3 La terza operazione costituisce il cuore della cura che la Chiesa si prende del matrimonio e della famiglia. Essa è la comunicazione del Vangelo del Matrimonio.  Ho detto intenzionalmente “ comunicazione”, per evitare che pensiate ad un evento puramente linguistico. Ed ancor meno ad una esortazione morale.

 La comunicazione del Vangelo del matrimonio è il dono di un amore coniugale: che guarisce l’uomo e la donna dalla loro naturale incapacità di amarsi; che li inserisce in un Mistero di amore come tralcio innestato nella vite; che li rende capaci di amarsi come Cristo ha amato la Chiesa donando Se Stesso.

Come avviene questa comunicazione? Mediante la Parola che trasmette la fede; mediante i Santi Sacramenti della Confessione, dell’Eucarestia, e del Matrimonio. Non posso ora fermarmi su ciascuno di questi mezzi della comunicazione. Consentitemi di fare qualche breve considerazione sul primo.

E’ assolutamente necessario che ci sia una catechesi seria della Dottrina della fede circa il matrimonio e la famiglia. Dovremmo eliminare dai corsi di preparazione al matrimonio qualsiasi in contro sulla psicologia della coppia o cose del genere. Non è compito della Chiesa. Questa conoscenza della fede va continuamente approfondita cogli sposi. Quante volte, dopo una catechesi sul matrimonio mi sono sentito dire: ma perché queste verità non le dite? Sono sposato/a da anni, e non pensavo che il matrimonio fosse una cosa tanto grande. Il Magistero dei Sommi Pontefici è molto ricco al riguardo. S. Giovanni Paolo II ha dedicato decine di catechesi al tema. Benedetto XVI nell’Enciclica Deus Caritas estha scritto pagine stupende sul rapporto tra eros e agape . Ed anche Papa Francesco ha dedicato al tema diverse catechesi, prima del Sinodo ordinario.

2.4 Un’ultima domanda: quando la Chiesa si prende cura del matrimonio e della famiglia, esiste un categoria di persone “privilegiate”? Qualcuno potrebbe rispondere subito: i divorziati risposati. Non è così, nonostante che i mass media hanno cercato di farcelo credere.

Come il S. Padre ha detto più volte, chi deve essere aiutato oggi, sono i giovani che non raramente non percepiscono più la bontà intrinseca del matrimonio, e non si sposano (13). Le persone che devono essere prese in cura particolare sono le persone in formazione. In una parola la questione educativa è la questione centrale. Dopo anni di silenzio nelle comunità cristiane sulla castità, ci troviamo di fronte giovani che non solo non conoscono più la grammatica del linguaggio sponsale del loro corpo, ma questa lingua è per loro una lingua straniera mai appresa. Che sia un bene sposarsi non è più evidente. La stessa sorte ha subito la consacrazione verginale. Mi trovo nella città che custodisce le spoglie mortali di S. Agostino, che ha vissuto un’epoca per tanti versi simile alla nostra. Egli ha dovuto scrivere il De bono coniugali – Il bene del matrimonio. La Chiesa oggi deve compiere questa grande opera educativa, poiché se è importante prendersi cura dei matrimoni falliti, è ancora più importante lavorare perché non falliscano e siano costruiti su una roccia solida (14). La prima condizione perché questo accada è un grande impegno educativo, secondo quelle tre operazioni in cui si realizza la cura che la Chiesa ha del matrimonio e della famiglia.

 

APPENDICE: i divorziati risposati.

Prima di affrontare il problema limitato dell’accesso all’Eucarestia dei divorziati risposati – è di questo che intendo parlare in questa appendice – devo fare alcune premesse assai importanti.

La prima riguarda la vera natura dell’indissolubilità del matrimonio fra battezzati.

Essa non è in primo luogo un obbligo morale derivato da una legge divina o dalla promessa scambiatasi tra gli sposi. Essa è un dono fatto dal Signore mediante il sacramento del matrimonio. È un effetto del sacramento del matrimonio. Poiché l’alleanza tra i due è radicata nel vincolo che unisce Cristo e la Chiesa, come il tralcio nella vite, perciò stesso quella partecipa della stabilità di questo. Ecco perché, quando la significazione sacramentale è perfetta – i due sposi sono diventati una sola carne – nessuna autorità umana, compreso il Papa, può sciogliere un matrimonio tra battezzati.

Ogni dono che il Signore fa alla persona umana diventa un compito, poiché Dio nella sua Provvidenza ha sempre un sommo rispetto della libertà umana.  Il Risorto unisce gli sposi, li dona l’uno all’altra per sempre; hanno  la responsabilità di custodire il dono. 

La seconda premessa è che l’indissolubilità, più in generale il matrimonio inteso cristianamente, non è un ideale, una sorte di meta da raggiungere e verso cui tendere. Vorrei vedere la reazione di una sposa alla quale il marito dicesse: ”guarda che la fedeltà a te è per me un ideale verso cui cerco di tendere, ma che non posseggo ancora”. Presentare il matrimonio cristiano come un ideale, rischia di far pensare che per i battezzati può esistere una forma di coniugio che non è ancora sacramento.

Altro è dire e pensare che il dono del sacramento del matrimonio nella sua pienezza esige di essere sempre più compreso nella sua bellezza e vissuto sempre più nella santità. È in questo senso che due sposi venuti nella mia cappella privata per celebrare il 70.mo del loro matrimonio, hanno potuto dirmi: «ci amiamo più ora che nei primi anni del nostro matrimonio».

La terza premessa è di carattere generale, ma trova applicazione anche nel nostro caso. Quando leggiamo un testo del Magistero che non risulta del tutto chiaro, occorre verificare se ci sono altri testi più chiari che affrontano lo stesso problema, e verificarne la soluzione. È questa una regola che gli operatori del diritto conoscono molto bene ed applicano spesso. Notate bene. La regola non implica che  il Magistero  abbia uno sviluppo. Più semplicemente si nega che in materia di dottrina possa contraddirsi.

Tutto ciò premesso, la domanda è: AL insegna che i divorziati risposati possono accedere all’Eucaristia pur continuando a vivere come marito e moglie?  La mia risposta è negativa. Per le seguenti ragioni.

È fuori discussione che fino alla pubblicazione di AL questa era la risposta data dal Magistero della Chiesa. Si veda l’Esortazione Apostolica Familiaris consortio 84; l’Esortazione Apostolica Sacramentum Caritatis 29. Tutti i Teologi, senza eccezione, così hanno insegnato. Sia il Codice di Diritto Canonico (15) sia il Catechismo della Chiesa Cattolica (16) hanno la stessa posizione.

Se il Santo Padre Francesco avesse voluto introdurre un cambiamento al riguardo, avrebbe dovuto dirlo espressamente e chiaramente. Ma in nessun passaggio di AL si dice questo. C’è chi si richiama ad una nota al testo dell’Esortazione, la nota 351, dove, secondo alcuni interpreti, si ammetterebbe il divorziato risposato alla Comunione senza il proposito di vivere in continenza, come insegnano le due Esortazioni richiamate. Sarebbe stato assai strano che il Papa avesse introdotto un cambiamento di una disciplina secolare, ritenuta fondata sulla Dottrina, in una nota che, a domanda di un giornalista sull’aereo in ritorno da Lesbo, ha detto di non ricordare neppure (17).

Tutti i pastori della Chiesa sanno che l’ambiguità nella guida dei fedeli è molto dannosa. Per cambiare una prassi su una questione che attiene alla dottrina su tre Sacramenti – Matrimonio, Confessione, Eucarestia –, è necessario dirlo senza ambiguità. Ed il Santo Padre Francesco non è certo persona che tema di dire ciò che pensa.

Tuttavia è un fatto che molti – non parlo dei giornali – anche Vescovi hanno affermato esservi in AL un vero cambiamento nel punto che stiamo discutendo, cosa che altri vescovi negano. Esiste dunque nella Chiesa oggi un vero conflitto di interpretazioni, dal quale si deduce quanto meno che il testo non è chiaro. Pertanto fino a quando la competente autorità non interpreta autenticamente, si deve ricorrere alle regole generali dell’interpretazione dei documenti magisteriali [cfr. terza premessa].

Ma la risposta data sopra va inserita in alcune considerazioni più ampie, sulle quali AL si prolunga ampiamente. Devo ovviamente sintetizzare molto.

La non ammissibilità all’Eucaristia non è basata sulla certezza della Chiesa che quelle persone sono in stato di peccato mortale: de internis non iudicat praetor, neque Ecclesia (18). Non si basa sulla condizione soggettiva, ma sulla condizione oggettiva e publica di vivere in uno stato di vita che contraddice il significato del Sacramento dell’Eucarestia. Detto e spiegato questo la Chiesa ha concluso il suo dialogo coi divorziati risposati? Affatto. Ed è qui la nuova ispirazione di AL. La nuova ispirazione può essere espressa dai tre verbi usati dal Santo Padre: accompagnare, discernere, integrare. Tre verbi che esprimono tre condotte del pastore che hanno una sola sorgente: un cuore misericordioso.

 

CONCLUSIONE

Mi piace concludere con un testo poetico di Karol Woitila, desunto dal dramma La bottega dell’orefice.

Non esiste nulla che più dell’amore occupi sulla superficie della vita umana più spazio, e non esiste nulla che più dell’amore sia sconosciuto e misterioso. Divergenza fra quello che si trova sulla superficie e quello che è l’amore: ecco la fonte del dramma. Questo è uno dei più grandi drammi dell’esistenza umana... creare qualcosa che rispecchi l’Essere e l’Amore assoluto è forse la cosa più straordinaria che esista. Ma si campa senza rendersene conto (19).

Il sacramento del matrimonio dona all’uomo e alla donna di compiere questa cosa straordinaria – rispecchiare l’Essere e l’Amore assoluto – nell’ordinarietà della loro vita quotidiana: «questo mistero è grande; lo dico in relazione a Cristo e alla Chiesa» [Ef.5,32].

 

 

Note:

(1) Cfr.per es.1Cor.7.1-7

(2) Cfr.Giov.3,4

(3) La Chiesa su questo punto non ha mai ceduto di fronte ad altre proposte. La prima formulazione di questo principio si ha nella risposta ai dubbi dei Bulgari data da papa Nicolò I, il 13 novembre 86.Cfr.DS 643.

(4)  Dopo il Concilio di Trento, con alcune grandi eccezioni, per opera soprattutto di un teologo spagnolo Gabriel Vasquez [ 1549-1604], si ebbe un grave impoverimento nella concezione teologica della sacramentalità del matrimonio. Esso è un contratto semplicemente umano, nel quale Dio assicura agli sposi la sua grazia.

(5)  Sono i capp. IV e V dell’Esortazione: centrali in tutti i sensi.

(6)  Cfr.cap.VII

(7)  Eneide I,22.

(8)  L’uomo << è per sua natura più incline a vivere in coppia che ad associarsi politicamente, in quanto la famiglia è qualcosa di anteriore e di più necessario dello Stato>>[ Etica a Nicomaco VIII,12,1162° ]. Anche la nostra Costituzione ha riconosciuto questa anteriorità.

(9)  Lettera alle Famiglie 2 febbraio 1994,n°1.

(10)  Cfr.Mc 10,6-9. Giovanni Paolo II dedicò tutta la prima parte delle sue Catechesi sull’amore umano a spiegare questo rimando del Signore. Anche AL riprende questo tema .Cfr.nn. 61-66.

(11)  Oltre al riferimento precedente si deve leggere attentamente il  cap.I° di AL.

(12)  Si legga per es. la stupenda seconda elegia del primo libro di Properzio, su amore e morte.

(13)  Cfr.AL 205.

(14)  «Oggi, più importante di una pastorale dei fallimenti è lo sforzo pastorale per consolidare i matrimoni e così prevenire le rotture» [ AL 307]. 

(15)  Cfr. Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, Dichiarazione sull’ammissibilità alla Comunione dei divorziati risposati [20 giugno 2000], n°2. Citata anche in AL, n° 302. 

(16)  Cfr.n°1650

(17)  È la risposta a J. M. Guenon del Figaro. Il testo è rinvenibile nel sito della Sala Stampa Vaticana.

(18)  Cfr. due testi assai chiari di S. Tommaso: Commento alla lettera ai Romani II,1,176; Commento al Vangelo di Matteo VII,1.

(19)  In Tutte le opere letterarie, ed. Bompiani, Milano 2001, 821.869.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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DUPLICE CITTADINANZA Cella di Noceto (PR), 29 ottobre 2016


La presenza nel mondo è esigenza e problema che ha accompagnato la coscienza dei discepoli del Signore fin dal giorno di Pentecoste. È esigenza ultimamente fondata sul mistero dell’Incarnazione; è problema, perché il discepolo di Gesù vive paradossalmente due cittadinanze. «La nostra patria infatti sta nei cieli, donde aspettiamo anche quale salvatore il Signore Gesù Cristo» [Fil. 3,20].

Il termine greco corrispondente a patria suggerisce l’immagine della società politica, lo Stato, e l’Apostolo vuole dirci che il cristiano è intimamente estraneo non solo allo Stato, ma anche più in generale al mondo terreno [Cfr. H. Strathmann, GLNT X, 1327-1328]. Ma possiamo anche constatare negli scritti apostolici, che la catechesi apostolica dona orientamenti anche molto precisi su come comportarci nei confronti dell’autorità politica ed in genere nelle condizioni di questo mondo. Insomma, nel mondo ma non del mondo. Questa l’esigenza dello stato di vita cristiano.

Come pensare e vivere questa condizione esistenziale, è una domanda che ha sempre accompagnato la coscienza cristiana. Colla riflessione che andrò proponendo, mi pongo dentro questo itinerario cristiano.

Per dare un certo ordine al mio dire, procederò nel modo seguente. Nel primo punto vi proporrò un sommario schizzo storico. Mel secondo proporrò alcune riflessioni propositive-orientative.



1. SCHIZZO STORICO

Possiamo cominciare dal c.d. Editto di Milano del 313 [Trattasi in realtà di una lettera scritta ai governatori da Costantino I e Licinio, a Milano, dove i due si erano incontrati, nella quale si riconosce ai cristiani libertà di culto]. Oggi la storiografia tende a ridimensionarne l’importanza, tuttavia esso comunque apre ai cristiani la porta per una presenza pubblica nell’Impero. Per altro, già l’Editto di Galerio del 311 prescriveva la restituzione dei beni confiscati ai cristiani [corpori christianorum], sancendo così la loro esistenza come corporazione a tutti gli effetti.

Richiamo solo, nell’età patristica, tre orientamenti che ispirano la presenza dei cristiani nella società: la carità verso i poveri; la creazione di scuole; l’assunzione di responsabilità civili, a causa dello sfacelo delle istituzioni imperiali. Carità, educazione, sussidiarietà. Mi limito solo a due esemplificazioni: la costruzione di Basiliade [Così fu chiamata dall’amico Gregorio di Nazianzo (cfr.Or.43,63) la “Città Nuova” fondata da Basilio allo scopo di accogliere e curare i lebbrosi, i feriti, i malati, i poveri, i pellegrini]. vera città ospedaliera, da parte di Basilio [330ca-379] Arcivescovo di Cesarea di Cappadocia; l’organizzazione della carità a Roma da parte del Papa Gregorio Magno [590-604]. Un altro punto assai importante, che può essere solo ricordato, è la progressiva correzione del Diritto romano matrimoniale alla luce del Vangelo.

Partendo dal Medioevo, a me sembra che il cammino del pensiero cristiano sulla duplice cittadinanza abbia conosciuto TRE GRANDI SVOLTE.

LA PRIMA SVOLTA la si ebbe, a mio umile giudizio, con Tommaso d’Aquino. La svolta è rinvenibile nei seguenti nodi del pensiero tommasiano: il rapporto tra fede e ragione; il dialogo con Aristotile; la grande importanza data alla virtù della giustizia nella riflessione etica. Mi fermo un momento.

Il modo con cui Tommaso pensa il rapporto fede-ragione assicura, all’interno del pensiero cristiano, una consistenza propria alle realtà terrene. Quanto insegna il Concilio Vaticano II nella Costituzione Pastorale Gaudium et spes [n°36] sulla giusta autonomia delle realtà terrene, trova la sua più forte giustificazione teoretica nel rapporto che Tommaso istituisce tra fede e ragione.

L’ingresso di Aristotile nel mondo cristiano significa l’ingresso di una visione del mondo razionalmente giustificata, teoreticamente unitaria, e tendenzialmente completa, edificata fuori della fede. Tommaso commenta con grande cura tutto il pensiero sociale e politico del grande stagirita, e costruisce un vero pensiero politico suo proprio.

La trattazione poi del tema della giustizia offre a Tommaso la possibilità di riflettere sul sociale umano, in quanto sociale giusto. Egli giunge a dire, ispirandosi ad un pensiero di Cicerone, che la giustizia, in quanto virtù che regola i rapporti sociali, «praecellit inter alias virtutes morales» [2,2, q.59, a.12].

LA SECONDA SVOLTA la si ebbe nei secoli XVI-XVII. È un evento culturale in se stesso assai complesso, e che ha dato origine a processi culturali in cui ancora viviamo. Non posso che limitarmi ad alcuni momenti, più pertinenti al nostro tema.

Nel 1625 esce a Parigi l’opera fondamentale di Ugo Grozio [1583-1645] De jure belli et pacis. Nei Prolegomeni egli elabora la teoria secondo la quale, per costruire una vera pace fra le nazioni, è necessario istituire ed accettare un comune terreno di intesa, valido al di là di ogni divergenza religiosa. L’istituzione di questo codice inter-nazionale è opera della ragione, comune ad ogni persona umana. Egli coerentemente giunge a scrivere che il suddetto codice razionale «sussisterebbe in qualche modo ugualmente anche se ammettessimo, ciò che non può farsi senza empietà gravissima, che Dio non esistesse o che non si occupasse dell’umanità». Viene cioè proposto un sociale umano costruito e governato da una ragione autonoma, e privata di qualsiasi riferimento trascendente. L’influsso di Grozio fu enorme. Almeno indirettamente, le dottrine politiche del XVII e XVIII secolo trovano la loro premessa nel pensiero del giurista olandese [Si veda la voce GROZIO U. (G.Fassò) in ENCICLOPEDIA FILOSOFICA BOMPIANI, vol. 5. La citazione è presa da questo articolo].

In ordine alla presenza cristiana nella società, Grozio per la prima volta configura una forma di presenza che metta fra parentesi la propria fede. Ma nello stesso tempo si ipotizza una presenza, che costruisca una società in cooperazione con tutti, sulla base dell’uso della comune ragione. Insomma: la fede divide; la ragione unisce.

Un altro fatto culturale merita la nostra attenzione, un fatto che reputo di grande importanza, anche se apparentemente appare un fatto solo…clericale. La riflessione teologica sull’agire cristiano, dopo il Concilio di Trento, si stacca dall’unitario pensare teologico, ed assume una sua autonomia. Non solo, ma e soprattutto cambia la prospettiva di fondo. La libertà viene pensata come una grandezza inversamente proporzionale alla legge morale, costituita dai Comandamenti di Dio. Pertanto il loro rapporto viene pensato secondo il seguente paradigma. Legge morale e [decisione della] libertà sono due fattori che si contendono il dominio dell’agire umano. Stanno davanti ad un giudice, che deve decidere chi ha ragione. Concretamente: sono libero di fare la scelta X o essa è proibita? Il giudice è la coscienza personale. Ovviamente la coscienza deve essere formata, non solo attraverso la conoscenza della legge morale, ma anche e soprattutto alla capacità di discernere se il “caso” X è o non è proibito da qualche legge morale. L’educazione della coscienza avviene dunque anche e soprattutto attraverso la c.d. casistica: lo studio accurato di casi ipotetici. Poiché i grandi processi culturali del tempo, economici, sociali, politici, ponevano problemi sempre più numerosi e nuovi, la casistica si amplia sempre più, colla tendenza a dare sempre più ragione alla libertà. È il paradigma seguito soprattutto nella Compagnia di Gesù, vera guida della presenza del cristiano nella società. Contro di esso Blaise Pascal nelle sue Lettere Provinciali [1656-1657] si scaglierà con una grande violenza [Esiste in italiano un’ottima edizione con originale a fronte a cura di C. ARENA, Einaudi, Torino 2008]. Non è per caso che, soprattutto nel sec. XVIII, uno dei temi principali della casistica è il tema della cooperazione al male.

LA TERZA SVOLTA è costituita dall’elaborazione da parte del Magistero Pontificio, della Dottrina sociale della Chiesa. Questa nasce con l’Enciclica Rerum novarum di Leone XIII [1891]. La Dottrina sociale consta di un vero e proprio magistero, in larga misura antropologico, e di orientamenti operativi. Attraverso il primo i Sommi Pontefici interpretano e valutano alla luce dell’antropologia della fede e della retta ragione, i fondamentali vissuti umani: matrimonio-famiglia, sistemi economici, società civile e politica, società internazionale, globalizzazione, ecologia. Ma la Dottrina sociale indica anche ai credenti, e ad iniziare da San Giovanni XXIII anche agli uomini di buona volontà, criteri etici di valutazione ed orientamenti pratici secondo i quali realizzare la presenza dei cristiani nella società. Nel 2004 la Sede Apostolica ha pubblicato un Compendio della Dottrina sociale.

La Dottrina sociale della Chiesa e la Costituzione pastorale Gaudium et spes del Concilio Vaticano II sono da considerarsi la magna Charta della presenza cristiana nella società.



2. RIFLESSIONI PROPOSITIVE

Dal breve schizzo storico risulta con certezza che la presenza cristiana nella società è un’imprescindibile esigenza del battesimo. Chi nega questo, è fuori dalla Tradizione della Chiesa. Oggi come dobbiamo pensare questa presenza? Prima di rispondere penso utile fare due considerazioni sul momento storico che stiamo vivendo.

In un recente articolo un quotidiano italiano riferisce alcune considerazioni di un grande filosofo americano, David Schindler. Egli pensa che siamo “al capolinea della democrazia liberale”. Non nel senso che stiano tramontando le istituzioni democratiche, ma nel senso che la democrazia liberale sta esaurendo la sua logica interna. Questo esaurimento morboso ha cause endogene o esogene? È una malattia endogena, autoimmune: sono gli stessi suoi anticorpi che attaccano l’organismo politico.

Già Platone in una famosa pagina della Repubblica aveva mostrato che le tirannie sono figlie delle democrazie impazzite. «Se lo Stato si occupa solo degli interessi individuali e non del bene comune o bene naturale, non c’è criterio oggettivo con cui risolvere i conflitti della società in modo giusto. Questo è ciò che Giovanni Paolo II ed il Card. Ratzinger intendevano quando parlavano della conversione della democrazia nel totalitarismo, oppure quando si parlava di dittatura del relativismo». [cfr. art. di M. Ferraresi, il Foglio del 15-16 ottobre u.s., pagg.1-2].

La confusione del diritto soggettivo col desiderio sensibile va configurando ogni sociale umano come coesistenza di egoismi opposti, e l’attività pubblica come bilanciamento di opposti desideri. La famosa affermazione di David Hume, «l’uomo è incapace di fare un passo oltre se stesso», sta diventando la colonna portante di ogni edificio sociale.

Seconda considerazione sulla situazione attuale. Stiamo assistendo ad una progressiva delegittimazione della presenza della fede nella pubblica piazza. Non sto parlando di gesti o simboli; sta accadendo anche questo, ma non è di questo che parlo. Delegittimare la fede significa veicolare con tutti i mezzi della comunicazione, l’idea che la fede è pericolosa per la convivenza sociale, quando spinge il cristiano oltre alla pur doverosa testimonianza di una vita cristiana. La fede in piazza genera prima o poi il fondamentalismo. Il passo successivo e logico è che essa può auto-legittimarsi solo mediante una prassi solidaristica.

Se le comunità cristiane fanno propria questa delegittimazione, si suicidano. L’attuale suicidio della proposta cristiana in molte parti dell’Occidente sta rendendo la Chiesa insignificante quanto ai grandi problemi dell’uomo.

In questa situazione – esaurimento della democrazia/delegittimazione della presenza pubblica della fede – quale non deve essere la presenza cristiana nella società?

+ Non dobbiamo non dico accettare, ma neppure venire a compromessi colla delegittimazione di cui parlavo. Richiamo la vostra attenzione su un solo fatto. La poca stima della dottrina della fede alla quale assistiamo, a favore di un’enfatizzazione della prassi; lo sconvolgimento dell’ordine delle virtù teologali, quale si ha quando si pone a fondamento della vita cristiana non la fede, ma la carità, che ne è invece la perfezione: tutto questo può essere un segnale di compromissione.

+ Non dobbiamo mai scegliere di andare nelle catacombe, ma di andarci solo se vi siamo cacciati dalla violenza. In questo contesto, accenno al grande impegno dell’educazione dei giovani alla fede, sia nelle scuole dipendenti dall’autorità ecclesiastica, sia nelle parrocchie, sia nei Movimenti ed Associazioni. Educazione alla fede come capacità di giudizio sulle realtà umane.

+ Non dobbiamo ridurre la presenza cristiana nella società alla vita personale coerente col Vangelo; ridurre la presenza all’esercizio personale delle virtù. Questa riduzione implica un’antropologia astratta, falsa. La persona umana si realizza nella relazione, poiché è precisamente persona e non individuo, cioè soggetto-in-relazione. La persona è anche il costrutto sociale in cui storicamente vive ed agisce. È stato l’errore basilare della modernità di rifugiarsi nell’auto-referenzialità individuale. Esiste «una realtà immateriale (che sta nello spazio-tempo) dell’inter-umano, ossia che sta fra i soggetti agenti» [Pier Paolo DONATI, L’enigma della relazione, Mimesis ed., Udine 2015, pag.70. (Sottolineature dell’autore). Si veda anche pagg. 240-244: Come la relazione sociale da forma al soggetto relazionale. Fra i Padri della Chiesa, sono stati soprattutto i Padri Cappadoci ad elaborare un’antropologia relazionale, meditando sul mistero trinitario]. Per esempio, avere una legge piuttosto che un’altra circa il rapporto di lavoro dipendente, è assai importante per il soggetto che vive in questa relazione.

Vediamo ora brevemente come deve essere positivamente la presenza cristiana nella società.

+ Partiamo dal caso limite della presenza: l’astensione morale. Per astensione morale si intende il rifiuto o per obiezione di coscienza ad una diciamo regola del gioco oppure il rifiuto del gioco stesso. Fu questo ultimo il caso di Tommaso Moro, per esempio. Non si oppose solamente al coniugio adulterino del re Enrico VIII, ma al fatto che l’Atto di Supremazia cambiava il gioco. A mio umile giudizio la legittimazione giuridica del matrimonio omosessuale non cambia solo una regola del gioco, ma il gioco stesso della società umana. Ne cambia il pilastro stesso: la natura del rapporto uomo-donna.

+ Per uscire da ciò che ho chiamato “agonia della democrazia” e “delegittimazione della rilevanza pubblica della fede”, è necessario in primis difendere e promuovere le realtà umane naturali, pensate cioè e costituite da Dio Creatore: matrimonio-famiglia; l’uomo laborem exercens; la società politica.

+ Infine ma non dammeno, oggi ai cristiani è chiesto un grande impegno culturale in senso stretto, di pensiero. Sono da leggersi e meditare i due grandi discorsi: il discorso del 2 giugno 1980 all’Unesco a Parigi, di Giovanni Paolo II, e il discorso del 12 settembre 2008 al Collège des Bernardins a Parigi, di Benedetto XVI.

+ L’argomentazione precedente la deliberazione che produce una legge, oppure che la segue per valutarla in se stessa e nelle sue applicazioni, deve essere di carattere puramente razionale. Essa sarà comunque respinta, qualificandola come imposizione di una fede religiosa. In realtà essa è respinta semplicemente perché è un credente che la propone. Siamo cioè di fronte ad un caso inequivocabile di emarginazione del credente in quanto e perché tale. Cosa inaccettabile.



Ho concluso. Mi rendo pienamente conto che quanto vi ho detto è più uno schizzo che un quadro. Spero che lo schizzo sia almeno tale da fare intravedere la figura del quadro: la figura della presenza del credente nella società occidentale di oggi.

Se inscriviamo un poligono di enne lati in una circonferenza, anche aumentando enne volte i lati, il poligono non coinciderà mai colla circonferenza. Il poligono è la presenza cristiana nella società terrena, la circonferenza è la Gerusalemme celeste. Mi sembra che questa figura dica chiaramente e l’impegno e la riserva escatologica del medesimo: nel mondo ma non del mondo.

Mi piace terminare con un profondo pensiero di Robert Spaemann. «L’uomo ha come alternativa la prigione in se stesso o la Croce. Dalla prigionia in se stesso, dalla curvatio in seipsum, come si dice nella tradizione agostiniana, egli può uscire soltanto inchiodandosi alla croce della realtà». Colla sua presenza nel sociale, il cristiano sta semplicemente affermando ed amando la realtà: sta glorificando Dio creatore. È dentro uno scontro che non può più ammettere compromessi, perché è uno scontro metafisico.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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06/09/2017 14:47
 
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Il cardinale Carlo Caffarra

È morto questa mattina, all'improvviso, il cardinale Carlo Caffarra, arcivescovo emerito di Bologna. Aveva compiuto da poco 79 anni. Succedendo al cardinale Giacomo Biffi aveva guidato la diocesi di Bologna dal 2003 al 2015.

In precedenza era stato arcivescovo di Ferrara-Comacchio per otto anni, dopo aver fondato e presieduto, su richiesta di papa Giovanni Paolo II, l'Istituto di Studi su Matrimonio e Famiglia che da Giovanni Paolo II ha preso il nome.

In questi ultimi anni, oltre che punto di riferimento per tanti fedeli cattolici, lo ricordiamo come grande, paterno, amico de La Nuova Bussola Quotidiana.





  • IN MEMORIA

Carlo Caffarra, un ricordo personale e spirituale

"Ho vissuto la dipartita del card. Carlo Caffarra con dolore e serena fiducia. Ma anche «di ogni cosa perfetta ho visto il limite» (Sal 118,96)" Un ricordo personale dell'arcivescovo di Bologna. Una riflessione sulla teologia, sulla morte, sulla liturgia e su quei dubia rimasti senza risposta.

 

Ho vissuto la dipartita del card. Carlo Caffarra con dolore e serena fiducia. Ma anche «di ogni cosa perfetta ho visto il limite» (Sal 118,96). Così mi è tornato alla mente il ricordo di qualche prete che con lui non si era trovato bene. E ho percepito il sollievo di quanti hanno considerato la sua morte un ostacolo in meno per il nuovo corso. A fronte della morte di grandi personaggi c’è sempre qualcuno che tira un sospiro di sollievo: ricordo un discorso dopo l’attentato a san Giovanni Paolo II (13.5.1981), che lasciava intuire un: “Purtroppo non è morto!”; conosco quanto Giordano di Sassonia († 1237), successore di san Domenico alla guida dell’Ordine Domenicano, scrisse sulla morte di Innocenzo III (16.7.1216), con il quale i rapporti istituzionali erano stati un poco difficili: «Nel frattempo il signor Innocenzo papa fu tolto di mezzo (sublatus est de medio) e gli successe Onorio» (Libellus..., 45): che bel sollievo! Però mi è anche venuto in mente: «Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti» (Lc 6,26). Se Caffarra fosse stato un “falso profeta”, il plauso sarebbe stato più fragoroso, ma a suo danno.

Il mio rapporto con Caffarra è maturato lentamente e soprattutto non si è assestato principalmente sulle grandi tematiche dell’agire morale e della difesa della vita, ma ha toccato altri temi e confronti suscitando altre riflessioni. Con discrezione ne scrivo qualcosa, contribuendo, spero, a mettere ulteriormente a fuoco il ritratto e la ricchezza del personaggio.

Sentii per la prima volta Caffarra, allora Vescovo di Ferrara, in una sessione di formazione per presbiteri nel Seminario di Bologna il 14.2.2002. Il tema era piuttosto complesso: “Educazione e Risurrezione di Cristo”. Come suo solito, partì citando alcune esperienze semplici della vita umana per risalire alla corretta antropologia, al senso e ordine delle cose (metafisica) e passare quindi all’educazione. La domanda di senso di chi si apre alla vita e la relativa guida sono però l’incontro con una persona e qui Caffarra citò con originalità la Visitazione, quando Maria porta il Signore Gesù a Giovanni, ancora nel seno della madre Elisabetta ma desideroso di rapportarsi con qualcuno che lo apra al senso della vita. La Risurrezione di Cristo poi permette di educare rispondendo in positivo alla domanda della morte, che nell’uomo senza fede mette in dubbio il senso della vita. Ricordo che ne fui ammirato ma non entusiasta per il poco peso dato al tema biblico della Risurrezione, che fece la comparsa solo negli ultimi cinque minuti. Capii in seguito che questo era il carisma di Caffarra: fondare i presupposti reali e umani della fede, senza i quali il discorso biblico diventa la copertura di errori che a loro volta lo vanificano (e quanta “lectio divina” corre questo pericolo!).

Poi Caffarra venne a Bologna come Arcivescovo prendendo possesso il 15.2.2004. La maggior parte della stampa lo presentò come “conservatore”, tanto che in una intervista egli si affaticò per mostrare di non esserlo. Tra il clero più avanzato e informato si sussurrava di un colpo di mano di Wojtyla, che aveva piazzato lì un suo uomo, non tenendo conto dei suggerimenti venuti dalle sedi istituzionali. Nello stesso anno Sergio Cofferati diventava sindaco di Bologna e le sue maniere non erano troppo democratiche..., per cui qualcuno lo legò a Caffarra, dicendo che la città era (dittatorialmente) governata da un Coff-Caff.

Non era facile sottrarsi alla spinta di questi continui messaggi negativi,però adagio adagio mi accorsi che Caffarra era «mite e umile di cuore» (Mt 11,29). La controprova fu la sua rinuncia accettata il 27.5.2015 e il tono dimesso della sua uscita.

Come uomo di governo Caffarra, per quanto ne so, non arrivava alle conclusioni pratiche a partire da ragionamenti deduttivi rigorosi e senza scampo per le persone. Certo, si impose quando c’era di mezzo la dottrina e così vietò l’esibizione in chiesa di un coro dichiaratamente omosessuale, ma per il resto aveva un rispetto quasi scrupoloso delle persone, dei collaboratori e del loro lavoro. Ho da raccontare al riguardo due episodi personali.

In preparazione al Congresso Eucaristico Diocesano 2007 bisognava approntare un sussidio. Verso la fine, la sessione dottrinale, della quale facevo parte, ricevette la visita di Caffarra, che propose di inserire una serie di tematiche alternative che avrebbero scompaginato il lavoro. Ci guardammo preoccupati. Allora gli feci notare che si era proceduto così da accordi con la direzione e non si poteva adesso ricominciare daccapo. Immediatamente Caffarra rispose: «Ah no, se gli accordi erano questi, lasciate tutto come è; soltanto se potete aggiungere qualcosa sul digiuno eucaristico circa il quale gli ortodossi sono molto sensibili e i cattolici molto meno...». Naturalmente fu accontentato, ma rimasi edificato dalla sua correttezza.

L’Arcivescovo non era del tutto soddisfatto dei programmi scolastici del suo Seminario. Venne il giorno in cui in un autorevole consesso bisognava riapprovare tali programmi. Ebbene Caffarra, nel rispetto della situazione e delle persone, non tentò alcun colpo di mano. Anzi, quando di fronte a 6 ore di spiritualità si giunse a ridurle a 4 e quando io continuavo a insistere che era un compromesso assurdo perché di spiritualità 2 ore bastavano e avanzavano, il Cardinale mi bloccò con un bonario ma inflessibile: «Padre, non bisogna stravincere!».

Dopo il ritiro dal ministero di Arcivescovo, lasciai passare qualche mesee andai a fargli visita per ringraziarlo del servizio episcopale. Era il 10 marzo 2016. Venne lui stesso alla porta e conversammo per circa un’ora. Parlammo di dottrina e dei pericoli attuali. Non era ancora uscita Amoris laetitia; Caffarra non aveva dubbi sul mantenimento della dottrina, solo paventava il pericolo che soluzioni di compromesso venissero delegate in misura eccessiva al foro interno, alla coscienza, secondo la tipica scuola gesuitica. Parlammo poi della FTER (Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna), che a suo dire si era caratterizzata un po’ troppo negli studi positivi: comprensibile osservazione da uno come lui! Da qui passammo a discettare sul senso delle Scritture nella Chiesa, che non è quello della Riforma protestante. Parlammo anche del commento di san Tommaso al De divinis nominibus di Dionigi l’Areopagita: Caffarra lo stava meditando e a suo dire era una grammatica della conoscenza di Dio.

Casualmente parlammo anche della morte. Il Cardinale mi confidò che nel momento di trasferirsi aveva deciso di lasciare la sua ricchissima biblioteca al Seminario, preferendo lasciarla subito e non post mortem. Tuttavia nel momento di cederla aveva avvertito il distacco che, aggiunse, era un anticipo del grande distacco della morte. Gli citai quasi a memoria un testo di L. Bouyer secondo il quale tutti al momento della morte dovremo rinunciare a tutto quello che il monaco ha rinunciato in vita (cf Introduzione alla vita spirituale, Borla, p. 212) e convenimmo che la morte era una sorta di “monachesimo assoluto”. Nessuno dei due forse pensava che i dotti riferimenti tra qualche mese sarebbero diventati per lui una realtà. Riflettendoci, ho notato che il grande distacco fu dai libri e non - come per molti - dal governo episcopale. E questo è un segno di saggezza e buona salute psicologica. Se chi governa è immerso solo nel governo senza interessi intellettuali o artistici - tifare per una squadra di calcio non basta -, rende infelice se stesso e gli altri. Per fortuna Caffarra non fu così.

Tornai a trovarlo il 20 marzo 2017, proponendomi di non toccare l’argomento dei “dubia” e, quasi per un tacito consenso, anch’egli si astenne da ogni riferimento, anche se rilevò che certe provocazioni morali erano una vera sfida a Dio. Mi confrontai con lui su certe linee di interpretazione delle calamità naturali e dei castighi di Dio e ci trovammo in perfetto accordo. Parlammo poi di liturgia, delle preoccupazioni per la revisione del linguaggio liturgico. Non so come, ad un certo punto citai la nobiltà e la bellezza del canone romano (la prima preghiera eucaristica) e Caffarra mi confidò di averlo usato la mattina stessa per la solennità di san Giuseppe (al 20 perché il 19 era una domenica di Quaresima) con edificazione della sua piccola “famiglia”: «Veramente, come dice il Concilio di Trento, questo canone ispira devozione». Citò Trento a braccio e anch’io lo ricordavo a braccio. Andai dopo a consultare il testo e lo trascrivo per la gioia di chi legge: la Chiesa «ha stabilito da molti secoli il sacro canone, talmente puro da ogni errore, da non contenere niente che non profumi di grande santità e pietà, e non innalzi a Dio la mente di quelli che lo offrono» (D 1745). E qui troviamo Caffarra dotato di un profondo spirito liturgico, visibilmente immerso nel mistero durante le celebrazioni, autore di omelie profondamente bibliche, inserite nella liturgia e quindi molto differenti dalle sue conferenze: ciò che non capita a tutti i Vescovi e Cardinali!

La morte del card. Caffarra è stata senza risposta alle sue domande, ai dubia. Umanamente questo fa tristezza, ma cristianamente è leggibile con una consolante interpretazione di san Giovanni Paolo II al n. 9 di Orientale lumen(2.5.1995): la tradizione conserva nella memoria tutto ciò che lo Spirito ha disseminato nella storia «dando quindi speranza a coloro che, pur non avendo veduto i loro sforzi di bene coronati da successo, sanno che qualcun altro li porterà a compimento».

Ecco: adesso “qualcun altro” siamo noi, nella dolce memoria di Carlo Caffarra, Vescovo della Chiesa di Dio.

PS: Biffi dispensava battute di spirito, Caffarra di meno, ma prima di congedarmi da un’udienza mi raccontò una barzelletta vera. Pochi anni dopo l’Humanae vitae partecipò a un congresso in Francia abbastanza... movimentato. Un Padre Domenicano sostenne che era difficilissimo se non impossibile per gli sposi osservare i richiesti periodi di continenza. Si alzò una professoressa che replicò: «Io sono sposata e lei sostiene che non è possibile osservare un periodo di continenza. Bene. E dopo questo io dovrei credere che lei è in grado di osservare la castità per tutta la vita?». Non ci fu risposta.




  La mia coscienza suddita e sovrana. Caffarra spiega il “brindisi di Newman”


Settembre 21, 2017 Carlo Caffarra


Non è una questione di casuistica né, solo, di retto discernimento. Esiste da sempre nell’uomo un’eco della voce del suo Creatore. Testo inedito di una straordinaria lezione mai pronunciata

 


Il cardinale di Bologna Carlo Caffarra in una foto d'archivio. NUCCI/BENVENUTI - ANSA


 

Il testo che leggete in queste pagine è inedito. Il cardinale Carlo Caffarra avrebbe dovuto pronunciarlo a Londra il 21 ottobre in occasione del convegno “L’educazione della coscienza morale secondo Newman”. Invitato dal John Henry Newman Cultural Centre, il cardinale, sebbene già debilitato dalla malattia, aveva accettato di buon grado, inviando in anticipo il testo della sua relazione affinché potesse essere tradotto in inglese.


Esporre la dottrina di Newman sulla coscienza morale, come su molti altri temi del suo pensiero filosofico e teologico, non è facile. Egli costruisce il suo pensiero dentro il cammino della sua vita interiore, come esigenza della sua esistenza. La sua teologia e filosofia è la risposta ai problemi della sua vita. Egli appartiene, come Pascal, alla famiglia di Agostino: parlando di se stesso, parlava di ogni uomo. Newman è l’Agostino della Chiesa moderna. Nell’esposizione che segue cercherò di essere fedele a questo stile teologico.


1. L’inizio di un cammino
Nella vita dello spirito esiste un momento nel quale la persona diventa interamente un io. Si risveglia come soggetto libero e ragionevole. Consentitemi di esemplificare con l’esperienza vissuta da Agostino a 19 anni, leggendo l’Hortensius, opera oggi perduta di Cicerone. Narra Agostino: «Quel libro mutò il mio modo di sentire, mutò le preghiere stesse che rivolgevo a Te, Signore, suscitò in me nuove aspirazioni e nuovi desideri, svilì d’un tratto ai miei occhi ogni vana speranza e mi fece bramare la sapienza immortale con incredibile ardore di cuore» [Confessioni III, 4.7; NBA I, pag. 63]. È nato un nuovo io. Un evento analogo accadde anche a Newman. Lo narra nel modo seguente: «A quindici anni [autunno 1816] avvenne in me un grande rivolgimento di pensieri. Cominciai a subire l’ascendente di un credo ben definito e accolsi nella mente certe impressioni sul dogma che, per la grazia di Dio, non sono mai più scomparse né sbiadite». [Apologia pro vita sua, cap. I; citazione dall’edizione italiana di Jaca Book-Morcelliana 1982, pag. 21].

Il testo è di fondamentale importanza per capire la dottrina di Newman sulla coscienza morale. Non è solo la scoperta intellettuale di ciò che Newman spiegherà più tardi come il principio dogmatico, ma è stata la scoperta da parte di tutta la sua persona della Luce della Verità, la quale ci raggiunge attraverso il dogma. La coscienza morale per Newman, possiamo già dire, è la testimone della Verità [sul bene]. Che vi possa essere una coscienza morale che si disinteressa della Verità, Newman non lo nega, ma questo disinteresse è la malattia mortale della coscienza morale. Lo scetticismo è un rischio mortale per la coscienza morale.

Sempre nel 1816, accogliendo l’invito del suo maestro, lesse il libro La forza della verità del calvinista Thomas Scott, e ne fu profondamente sconvolto. Ecco come Newman narra l’incontro con questo autore: egli lo condusse «a rafforzare la mia diffidenza verso la realtà dei fenomeni naturali e ancorarmi al pensiero di due, e solo due esseri assoluti, dotati di un’intrinseca e luminosa evidenza: me stesso ed il mio Creatore» [Apologia… cit. pag. 21].

Il testo è famoso. Newman scopre che nelle profondità della sua coscienza morale egli è ancorato a Dio Creatore. Il tema è classico nella teologia cristiana: il Creatore ha impresso nella persona umana la sua immagine. L’originalità di Newman è di porre questo rapporto Creatore-creatura umana all’interno della coscienza morale. Possiamo dire che già nel giovane Newman troviamo i due pilastri che reggono tutto l’arco della sua dottrina sulla coscienza morale: il “principio dogmatico”, e il rapporto naturale della coscienza morale con Dio.

Il principio dogmatico. Così Newman lo presenta [1845]. «Vi è una verità; vi è una sola verità; l’errore religioso è per sua natura immorale; i seguaci dell’errore, a meno che non ne siano consapevoli, sono colpevoli di esserne i sostenitori; si deve temere l’errore… il nostro spirito è sottomesso alla verità, non le è quindi superiore ed è tenuto non tanto a dissertare su di essa, ma a venerarla». [Lo sviluppo della dottrina cristiana, cap. VIII; ed. Jaca Book, 2009, pag. 344-345].

Il contrario del principio dogmatico è ciò che Newman chiama il principio liberale, come vedremo più avanti.

La coscienza morale, alla luce di questi due principi non è la capacità di decidere, sia pure dopo serio discernimento ciò che è bene/male. È la capacità di giudicare e dire al soggetto ciò che è bene/male, alla luce di una Verità che le è superiore. Pertanto il primo assioma della dottrina sulla coscienza non è: «Segui sempre la tua coscienza», ma: «Ricerca la verità circa il bene/male». Ritorneremo più avanti su questo punto.

Il rapporto coscienza morale-Dio. Come Newman pensa il rapporto Dio-coscienza morale, lo esprime molto chiaramente colle seguenti parole: «Quanto alla coscienza morale, esistono due modalità per l’uomo di concepirla. Nella prima, la coscienza è soltanto una forma di intuito verso ciò che è opportuno, una tendenza che ci raccomanda l’una o l’altra cosa. Nella seconda è l’eco della voce di Dio. Ora tutto dipende da questa differenza. La prima via non è quella della fede; la seconda è quella della fede» [Sermons notes; Notre Dame Un. Press, pag. 327]. Potremmo dire: la prima sottomette la verità all’opportunità; la seconda l’opportunità alla verità.

È nata la dottrina di Newman sulla coscienza morale.

2. La costruzione della dottrina
Newman parte sempre da una descrizione della coscienza morale come di un’esperienza che ogni persona umana vive in se stessa, ogni giorno. Oggi diremmo inizia da una fenomenologia della coscienza. Scrive: «Per coscienza morale intendo l’individuazione di atti degni di lode o di biasimo» [Notebook; Proof of theism, in J. H. Newman, Scritti filosofici, Bompiani ed. Milano 2005, pag. 611 (quando non è detto il contrario, le citazioni sono sempre da questo testo bilingue)]. Dunque la coscienza morale è la facoltà mediante la quale distinguo, discrimino fra i vari atti che posso compiere o ho compiuto, gli atti degni di lode e gli atti degni di disprezzo. Ed aggiunge subito: «Ma l’esattezza o la verità della lode o del biasimo nel caso particolare è una questione non di fede ma di giudizio».

È questo un punto fondamentale nella dottrina di Newman. Egli distingue nella coscienza morale due aspetti o due dimensioni, descritti nel modo seguente. «The feeling of conscience […] is twofold: it is a moral sense, and a sense of duty» [An essay in aid of Grammar of Assent, chap. V, §1; pag. 1027]. Faccio un esempio. Posso giungere a pensare che nel mio caso il furto non sia un atto ingiusto; il mio senso morale sì è corrotto. Tuttavia ciò non comporta che io non conosca il settimo comandamento. I ladri infatti difendono ciò che hanno rubato contro eventuali altri ladri. Si tratta di due aspetti della stessa coscienza. Il più importante è il primo, la considerazione cioè della coscienza non come una norma del buon comportamento, ma come una sanzione del proprio atto.

Quando Lady Macbeth cerca di lavarsi le mani dal sangue del regicidio, non sta pensando al comandamento «non uccidere» [sense of duty], ma al fatto che ella, la sua persona si è macchiata di un orrendo delitto [moral sense].

Arrivati a questo punto, possiamo già tentare una prima definizione di coscienza morale, secondo Newman. La coscienza morale è la simultanea coniugazione del moral sense con il sense of duty. È luce circa ciò che è bene/male e, al contempo, guida della nostra vita quotidiana, delle nostre scelte. Newman in generale preferisce parlare del moral sense, attento come è al concreto soggetto che agisce.
Chiediamoci ora: in che modo la coscienza guida le nostre scelte? In che modo cioè la coscienza argomenta, quando in una determinata situazione impone la sua prescrizione? Un testo, molto profondo, del XV Sermone degli Oxford University Sermons, risponde a questa domanda. A dire il vero, il testo ha un contenuto epistemologico generale, ma è vero anche della coscienza morale: «Per quanto lo spirito cristiano faccia derivare con la ragione una serie di proposizioni dogmatiche, l’una dall’altra… non da quelle proposizioni prese in se stesse, come proposizioni logiche, ma in quanto esso stesso (cioè, lo spirito cristiano) è illuminato e come se abitato da quella sacra impressione che è ad esse precedente, che agisce come suo principio regolatore, sempre presente, in base al ragionamento, e senza il quale nessuno possiede alcuna garanzia di ragionare affatto» [n° 26; pag. 601].

Il testo non è facile. Cerco di illustrarlo con un esempio. Quando una persona giunge alla conclusione che la castità ha una sua intrinseca bellezza e preziosità etica, esprime questa sua percezione in una proposizione, per esempio: «La castità è una virtù morale». Ogni persona comprende che questa proposizione non è maneggiabile, non è mutabile secondo lo spirito del tempo. Essa esprime qualcosa di grandioso accaduto nello spirito umano: la luce del bene.

Può essere che il giudizio prescrittivo o sanzionatorio della coscienza appaia alla mente come la conclusione di un’argomentazione che va dall’universale al particolare. Per esempio: rubare è disonesto, ma l’atto che stai compiendo è un furto, dunque non lo devi compiere. Anzi, nel XVII secolo è nata un’arte che insegnava questo modo di argomentare, educava ad esso: la casistica. Ma secondo la dottrina di Newman, l’argomentazione è generata da ciò che egli chiama «sacra impressione che è ad essa precedente». È la luce del bene, impressa nello spirito umano: «Signatum est super nos lumen vultus tui, Domine» dice un Salmo.

Giunti a questo punto, possiamo comprendere la natura più profonda della coscienza morale secondo Newman: essa è il legame dell’uomo con Dio. È la via naturale ed originaria che ci conduce all’incontro con Dio, non appreso semplicemente come una nozione ma come una realtà. [Lo sviluppo di questa idea si trova limpidamente esposto in Grammatica dell’Assenso, cap. V, n° 3, pag. 1023ss].

Il punto di partenza è così enunciato: «We have by nature a conscience» [pag. 1025]. In questo contesto, “coscienza” ha un significato preciso: è un atto mentale mediante il quale di fronte ad un atto da compiere o già compiuto, proviamo in noi approvazione o riprovazione e di conseguenza lo giudichiamo giusto o sbagliato. È sulla base di questa esperienza interiore che è la coscienza, che noi abbiamo un’apprensione reale di un Sovrano e Giudice divino. Il cuore dell’argomentazione è esposto da Newman nel modo seguente: «Se, come è il caso, ci sentiamo responsabili, ci vergogniamo, siamo spaventati, per aver trasgredito la voce della coscienza, ciò suppone che ci sia Qualcuno verso il Quale siamo responsabili, davanti al quale proviamo vergogna, le cui pretese temiamo… In noi questi sentimenti sono tali da esigere come causa loro movente una causa intelligente, un essere intelligente» [pag. 1033].

Dobbiamo analizzare attentamente il testo, assai famoso. Ciò che Newman mette in risalto sono due cose: l’assolutezza dell’imperativo morale che risuona nella coscienza; il carattere personale dell’imperativo etico.

Assolutezza in questo contesto significa due cose. La prima: l’imperativo è categorico non ipotetico. Non dice: se vuoi…; ma: tu devi. La seconda: è un imperativo che non ammette eccezioni, quando assume forma negativa. È nostra esperienza quotidiana che la nostra libertà può infrangere il comando. Ma l’uomo sente in questo caso che ha tradito se stesso: «L’empio fugge anche se nessuno lo insegue» [Prov. 28,1].

Il carattere personale è costituito dal fatto che l’imperativo è rivolto a me, nella mia irripetibile unicità. Pietro non può rispondere alla serva del sommo sacerdote: «Altri hanno seguito Gesù, perché interroghi proprio me e non uno di loro?». È a Pietro che è chiesto un atto di fedeltà. Il carattere personale risulta anche dalla responsabilità: sento che devo rispondere di ciò che ho fatto a Qualcuno.

Newman non vuole semplicemente dimostrare l’esistenza di Dio, ma vuole condurre la persona ad un’apprensione della sua Realtà, come presenza vivente nella coscienza di ogni uomo. La coscienza è il roveto ardente dove Dio si rivolge all’uomo. Newman si trova nella linea di pensiero che da Agostino attraverso Pascal, giunge all’antropologia adeguata di Karol Wojtyla-Giovanni Paolo II.
Possiamo a questo punto tentare una sintesi della dottrina di Newman sulla coscienza morale. La coscienza morale è il luogo dove il Mistero si fa originariamente presente; è l’originaria Rivelazione di Dio, come guida dell’uomo.

3. La coscienza e la Chiesa
In ottobre-novembre 1874, William Gladstone, prima conservatore e poi capo del Partito liberale britannico, attacca duramente i Decreti del Concilio vaticano I, sostenendo che essi non si possono conciliare con l’autonomia intellettuale e la lealtà allo Stato. Nel gennaio 1875 Newman risponde con A letter addressed to His grace the Duke of Norfolk, on occasion of Mr Gladstone’s recent Expostulation. E nel capitolo quinto affronta il tema della coscienza morale; più precisamente: l’affermazione del primato della coscienza in relazione all’autorità magisteriale e governativa del Papa [munus docendi, munus regendi]. A nessuno sfugge la centralità del tema.

La tesi di Gladstone è la seguente. Poiché il Papa gode di infallibilità in doctrina fidei et morum; poiché ha sui fedeli cattolici giurisdizione piena, la coscienza morale del singolo deve semplicemente eseguire ciò che il Papa insegna.

La risposta di Newman è articolata e fine. Egli parte dalla concezione della coscienza morale elaborata in tutta la sua opera precedente. Scrive nella Lettera: «La coscienza è un vicario aborigeno di Cristo, un profeta nelle sue informazioni, un monarca nei suoi ordini, un sacerdote nelle sue benedizioni e nei suoi anatemi; ed anche se l’eterno sacerdozio che si trova incarnato nella Chiesa potesse cessare di esistere, nella coscienza permarrebbe il principio sacerdotale ed avrebbe il predominio».

Donde deriva alla coscienza questa sovrana dignità? Dal fatto che la legge divina, regola suprema delle azioni umane, diventa tale per mezzo della coscienza. Tutta la sovrana grandezza della coscienza deriva dal fatto che essa è l’organo dell’apprensione della Legge divina. «Questa legge in quanto viene appresa e viene a far parte dello spirito dei singoli individui, prende il nome di coscienza». La coscienza è sovrana perché è suddita; o, come scrive Newman: «La coscienza ha dei diritti perché ha dei doveri».

Il vero problema, o la radice di tanti problemi è che questa idea di coscienza è combattuta intellettualmente, e di fatto rifiutata dalla maggioranza delle persone. Scrive Newman nella Lettera: «La coscienza è un ammonitore severo, ma in questo secolo è stata sostituita dalla sua contraffazione… E questa contraffazione si chiama col nome di diritto della caparbietà». Ed ancora: «Allorché gli uomini si ergono a difensori dei diritti della coscienza, con ciò non intendono affatto di ergersi a difensori dei diritti del Creatore, né dei doveri nostri a suo riguardo… per diritti della coscienza essi intendono il diritto di pensare, di parlare, di scrivere, di agire, come loro piace, senza darsi alcun pensiero di Dio». È questa contraffazione della coscienza che rende impossibile ogni vero rapporto della coscienza col ministero di Pietro.

Chi vive veramente con fede il rapporto col Papa, sa che, scrive Newman, «la sua ragione d’essere sta in questo, che esso è il campione della legge morale e della coscienza. Il fatto della sua missione che cosa dice? Non fa altro che dare una risposta, portare un soccorso ai lamenti di coloro i quali sentono profondamente l’insufficienza della luce della natura; l’insufficienza di questa luce è la giustificazione della sua missione».

Il referente della coscienza è la legge divina, ed il Papa esiste per aiutare la coscienza ad essere illuminata dalla divina Verità. Quindi e per il Papa e per la coscienza il referente è lo stesso: la luce della divina Verità. Tutti e due guardano nella stessa direzione. «Se il Papa parlasse contro la coscienza, presa nel vero significato del termine, commetterebbe un vero suicidio. Si scaverebbe la fossa sotto i piedi».
Newman non riduce il Magistero ad una pura e semplice riproduzione della legge morale naturale. «Ma – scrive Newman – non è per questo men vero, che, quantunque la Rivelazione sia profondamente distinta dall’insegnamento della natura, e lo oltrepassi; pure non è affatto indipendente né svincolata da ogni relazione colla stessa».

Vorrei tentare un’esposizione sintetica del pensiero di Newman sul rapporto coscienza morale-Papa.

Newman parte da un’affermazione, esplicitamente detta molte volte: è stato infuso in noi da Dio creatore qualcosa che potremmo definire «originaria memoria del bene e del vero». Cioè: è una convinzione del pensiero cristiano che Dio Creatore ha impresso in noi la sua immagine e somiglianza. Newman interpreta questa tesi antropologica affermando che ogni persona umana ha per natura la coscienza morale, la capacità cioè, prima di agire o dopo aver compiuto l’azione, di sentire un accordo o un disaccordo fra la sua persona e l’azione.

La memoria originaria ha bisogno tuttavia di un aiuto esterno per divenire capace di esercitarsi. Il bambino ha una naturale capacità di parlare, ma è necessario l’intervento esterno di un altro perché la naturale capacità funzioni. La madre non impone nulla dall’esterno, ma porta a compimento una capacità già presente nel bambino.

Analogamente avviene nel rapporto coscienza morale-magistero del Papa. Esso, sul piano morale, non impone nulla dall’esterno. Impedisce che l’uomo cada nella peggiore amnesia, quella del bene e del male; che la naturale capacità si indebolisca; opera perché diventi sempre più capace di funzionare. Alla luce di tutto questo, si capisce la profonda verità del… brindisi di Newman: prima brindo alla coscienza, poi al Papa. «Perché senza coscienza non ci sarebbe nessun papato. Tutto il potere che egli ha è potere della coscienza: servizio al duplice ricordo, su cui si basa la fede, che deve essere continuamente purificata, ampliata e difesa contro le forme di distruzione della memoria, la quale è minacciata tanto da una soggettività dimentica del proprio fondamento, quanto dalle pressioni di un conformismo sociale e culturale» [J. Ratzinger, La coscienza nel tempo, in Chiesa, ecumenismo e politica, Ed. Paoline, Torino 1987, pag. 163].

4. Conclusione
La mattina del 12 maggio 1879 Newman ricevette la comunicazione ufficiale che il Papa Leone XIII lo aveva creato cardinale, accogliendo la proposta di molti laici inglesi, in primis del Duca di Norfolk. Newman esprime la sua gratitudine al Santo Padre con un breve discorso, passato alla storia come il “Biglietto-speech”.

Il testo è di una importanza straordinaria sia in ordine alla comprensione di tutto il cammino spirituale di Newman sia in ordine alla comprensione del suo pensiero. Ho voluto che questo testo mirabile concludesse la mia riflessione.

Facendo un bilancio della sua vita, scrive: «Per trenta, quaranta, cinquanta anni ho cercato di contrastare con tutte le mie forze lo spirito del liberalismo nella religione… Il liberalismo in campo religioso è la dottrina secondo la quale non c’è alcuna verità positiva nella religione, ma un credo vale quanto un altro. È contro qualunque riconoscimento di una religione come vera. Insegna che tutte le devozioni devono essere tollerate, perché per tutte si tratta di una questione di opinioni…Si possono frequentare le chiese protestanti e la Chiesa cattolica, sedere alla mensa di entrambe e non appartenere a nessuna».

È nel principio liberale che Newman individua il fattore principale della riduzione della coscienza a semplice opinione personale, che nessuno ha l’autorità di giudicare.

Di fronte a questa contraffazione della coscienza che cosa dobbiamo fare? La risposta di Newman è la seguente. «Troppe volte ormai il cristianesimo si è trovato in quello che sembrava un pericolo mortale; perché ora dobbiamo spaventarci di fronte a questa nuova prova? Questo è assolutamente certo. Ciò che invece è incerto, ed in queste grandi sfide solitamente lo è, e rappresenta solitamente una grande sorpresa per tutti, è il modo in cui di volta in volta la Provvidenza protegge e salva i suoi Eletti. Normalmente la Chiesa non deve fare altro che continuare a fare ciò che deve fare: “Mansueti hereditabunt terram et delectabuntur in multitudine pacis”». 

Sul nostro sito abbiamo pubblicato un altro testo inedito del cardinale (“Il matrimonio smontato pezzo per pezzo e il compito degli sposi cristiani”). Si tratta di una lezione tenuta il 2 agosto 2016 durante una vacanza di un gruppo di Comunione e liberazione a Corvara (Bz).







[Modificato da Caterina63 22/09/2017 09:41]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Il matrimonio smontato pezzo per pezzo e il compito degli sposi cristiani


Settembre 7, 2017 Carlo Caffarra


Appunti inediti da un incontro tenuto dal cardinale a una vacanza di Cl. La situazione attuale, il sacramento, il cammino. Una grande lezione




 


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Qui di seguito pubblichiamo gli appunti di un incontro che il cardinale Carlo Caffarra, scomparso ieri, tenne durante una vacanza del gruppo di Comunione e liberazione di Carate Brianza a Corvara (Bz) il 2 agosto 2016. Il testo, inedito, di cui si è voluto mantenere il carattere colloquiale, non fu rivisto dall’autore.


Grazie per l’invito che fin dall’inverno scorso siete venuti a Bologna a farmi. Ho accettato perché ero sicuro di passare dei giorni belli in mezzo a giornate che spesso per noi sono cupe, un po’ tristi.
 Entro subito nell’argomento tenendo presente queste grandi domande che sono state fatte.


Il primo punto della mia riflessione riguarda la condizione in cui oggi versa l’istituto matrimoniale, non il sacramento del matrimonio, l’istituto matrimoniale e l’emergenza educativa, o se volete il rapporto educativo intergenerazionale.


La prima questione nell’affrontare questo punto è la condizione generale. Se io voglio disfarmi di un edificio ho due possibilità, la prima: metto una mina e lo distruggo; la seconda possibilità è che lo smonto pezzo per pezzo. Il risultato di questi due processi è molto diverso, perché nel primo caso mi trovo solo con delle macerie, nel secondo caso mi trovo con tutti i pezzi, ma non c’è più l’edificio.


Ciò che è accaduto all’istituto matrimoniale è la seconda cosa. L’istituto matrimoniale è stato smontato pezzo per pezzo. Abbiamo ancora tutti i mattoni che componevano questo edificio, ma non abbiamo più l’edificio.
 È stato un processo plurisecolare, non è cominciato ieri sera.
Un processo plurisecolare composto da vari processi, che hanno costituito questo processo decostruttivo. 
Infatti noi abbiamo tutti i pezzi. Si parla ancora di maternità, ma a questo punto uno si chiede chi è la madre, in cosa consiste la maternità. Domanda a cui i giuristi romani si sarebbero messi a ridere.

La solita espressione che chi studia giurisprudenza conosce bene è “mater semper certa” – la madre è sempre certa –, oggi non è più possibile. 
È madre chi mette gli ovuli? È madre chi affitta l’utero? È madre chi prende poi il bambino?
Vedete questo è un pezzo fondamentale dell’istituto matrimoniale, che esiste ancora ma la sua definizione non è più univoca. 
La categoria della coniugalità è sempre stata una evidenza originaria. 
La coniugalità era una particolare correlazione fra uomo e donna. Oggi non è più così. Si qualifica come coniugale anche la correlazione fra due uomini o due donne e le precisazioni potrebbero continuare.

Arrivati a questo punto, e questa è una cosa gravissima, la più grave, di cui non dobbiamo mai perdere consapevolezza, non per scoraggiarci ma per sapere come stanno le cose,
 a questo punto la definizione dell’istituto matrimoniale è demolita, non si sa più cosa è il matrimonio e quale via può percorrere questo uomo che ha demolito il palazzo. Accade che ci si rivolga al potere perché ci dica cosa è il matrimonio e, almeno nei paesi democratici, il potere agisce attraverso il criterio della maggioranza e quindi è la maggioranza che decide che cosa sia il matrimonio. 
Questa è la situazione, cioè la condizione di un istituto, quello matrimoniale, decostruito.

Decostruito vuol dire che ci sono tutti i pezzi ma il loro significato non è più univoco e la definizione del matrimonio è lasciata agli organismi del potere. Ho avuto la netta impressione di cosa sta accadendo la settimana scorsa. Ero a Novi Ligure, al mare, e in una casa tenuta dalle suore sacramentine di Bergamo dove c’erano nonni con i bambini, famiglie, eccetera. Un bimbo era diventato mio grande amico, mi aspettava, voleva parlare con me. Ha sei anni ed è di Milano ed era lì con i nonni. Un pomeriggio eravamo noi due, i nonni erano ad una certa distanza, mi dice: «Lo sai che il mio amico ha due mamme?». «Ah sì?» ho detto io. «Io però ne ho una sola, e secondo me è meglio averne una sola che due. E tu pensi che sia meglio averne una o due?» ha continuato il bambino. «Assolutamente è meglio averne una» ho detto io. «Ah meno male» dice il bambino come dire meno male che mi dai ragione.

Incredibile, un bimbo di sei anni che già si pone il problema se è possibile o no, se è meglio o no avere due mamme anziché una. 
Questa è la situazione del matrimonio. 
Legata a questa situazione c’è la condizione in cui si trova l’educazione, che posso spiegare in questi termini.

Nella condizione in cui ci troviamo l’atto educativo, l’educare, questa azione dell’educare, non è diventata difficile, è diventata impossibile. 
Perché è diventata impossibile? 
Perché è diventata impensabile, cioè è impensabile l’educare, non l’istruire, anche perché l’istruzione alla fine è una processo anche molto impersonale. È diventato impensabile, perché l’educazione essenzialmente consiste nella trasmissione di un progetto di vita che la generazione dei padri compie nei confronti della generazione dei figli, sulla base di una forte autorevolezza che fa dire alla generazione dei padri: «Questo è il progetto vivendo il quale tu vivi una vita buona, bella, giusta».

Per spiegare bene il mio concetto vi ricordo un rito che avviene nella cena pasquale ebraica. Voi sapete che la Pasqua ebraica, diversamente dalla Pasqua cristiana, è una festa esclusivamente familiare. Cioè la Pasqua la si celebra solamente in famiglia. La cena è il momento più grande della celebrazione familiare della Pasqua, la cena pasquale, come ha fatto Gesù con gli apostoli, è regolata da un rito molto molto preciso, che deve essere rigorosamente seguito dal capotavola. Ad un certo momento il più piccolo che è a tavola deve, secondo il rito, chiedere al più anziano, a capotavola: «Ma cos’è questa cena? Ma perché mangiamo solo verdure amare?». Quello a capotavola doveva rispondere così: «Perché eravamo schiavi sotto il faraone, il Signore ha ascoltato le nostre grida, noi siamo stati liberati». Narrava tutta la storia del popolo di Israele non come una serie di eventi che semplicemente bisognava imparare, ma una serie di eventi che ti aiutavano a vivere ora.
 Se noi riflettiamo un momento su questo rito, qui vediamo proprio in atto quella definizione di azione educativa che vi dicevo prima. Una generazione che, come dice il salmo, narra all’altra le meraviglie del Signore.

Secondo punto: attraverso l’atto educativo il bambino diventa consapevole di appartenere ad una storia, cioè ad un popolo.

Terzo. Questa consapevolezza di una tradizione vivente che il nonno e i genitori gli stanno trasmettendo è ciò che assicura a lui la vera libertà. Prima erano schiavi!

Questa è l’educazione. Evidentemente cosa succede? 
Primo: se io generazione dei padri non ho nessun progetto da comunicare voi capite che l’educazione diventa impossibile. Si dice: «Io non voglio comunicare nulla, perché quando poi sarà arrivata l’età giusta farà le sue scelte». Questo pensiero genera degli schiavi, siatene certi.
Secondo. Non può accadere il rapporto educativo fra le generazioni se colui che trasmette non ha l’autorità di poter dire: «Questo che ti trasmetto è il progetto di una vita buona, cioè di una vita che ti può fare felice, che ti può rendere vero e giusto». Questo è il principio di autorità.
 Tutto questo che vi ho detto non viene messo in crisi, viene semplicemente distrutto se noi accettiamo il dogma del relativismo, perché a quel punto una proposta vale l’altra, un progetto vale l’altro.

Questa è la condizione, ormai una sorta di afasia, cioè non sapere più parlare, da parte della generazione dei padri nei confronti dei figli, e poi l’oscurarsi di appartenere ad una storia, ad una tradizione nel senso alto del termine come condizione, come terreno in cui la mia umanità può fiorire.
Questo era il primo punto della mia riflessione.

In questa condizione gli sposi cristiani che cosa possono dire e trasmettere? La mia domanda presuppone una certezza che, passando gli anni, ho sempre più profonda in me, che purtroppo non posso sviluppare. 
La enuncio e poi ritorno alla domanda.
 In una condizione come la nostra non basta più l’esercizio delle virtù individuali degli sposi, non basta più la semplice testimonianza di una vita retta. Non illudiamoci, questo non basta ma è necessario introdurci, reintrodurci dentro a questa condizione che vi ho detto proponendo e realizzando qualcosa di nuovo, di diverso.
 Questa premessa non vale solo per il matrimonio, in fondo è una visione della vita cristiana.

Ritorno alla domanda. In questa situazione lo sposo e la sposa cristiana cosa dicono e cosa propongono?
 La risposta alla domanda sarà il secondo punto.

Fondamentalmente dicono e propongono due cose. 
La prima – qui per brevità uso l’espressione tecnica – dicono e propongono la sacramentalità del matrimonio, cioè il matrimonio è un sacramento.
 La grande parola, diciamo pure il grande dono che il cristianesimo fa all’uomo e alla donna che si sposano, è il sacramento del matrimonio, la quale sacramentalità non è un francobollo che si attacca ad una busta che è il matrimonio naturale.

Il matrimonio non lo ha inventato Gesù Cristo come per esempio l’Eucarestia, uomini e donne si sposavano anche prima di Gesù Cristo, e la Chiesa ha sempre avuto un grande rispetto del matrimonio naturale e lo ha sempre reso possibile.
La sacramentalità quindi non va intesa come qualcosa che si aggiunge, ma come la trasformazione, la trasfigurazione, il linguaggio neotestamentario direbbe la metamorfosis – la metamorfosi – dell’amore fra l’uomo e la donna.

Cerco di spiegarmi.
 Quando noi diciamo il sacramento del matrimonio la prima cosa a cui pensiamo è la celebrazione in Chiesa e va benissimo, perché dopo il Concilio di Trento si è stabilito che se non c’è questa celebrazione secondo una certa forma essenziale non c’è sacramento del Matrimonio. 
Questa è la cosa che sta alla superficie, vuol dire che io la vedo con i miei occhi. Se in Chiesa in quel momento ci sono un musulmano o un ateo vedono che in Chiesa in quel momento ci sono due che si stanno sposando secondo un certo rito.

Ma – e qui cominciamo ad andare nel mondo dell’invisibile – questa celebrazione essendo una celebrazione sacramentale ha in sé la presenza operante di Cristo, il Signore risorto.
 In che cosa consiste questa opera, questo intervento, questa operazione di Cristo?

Lo si può dire in due modi. 
Consiste nel legare questo uomo a questa donna e questa donna a questo uomo, nel vincolarli, l’uno all’altro, cosicché l’uno ormai sia dell’altro e reciprocamente. Ma c’è qualcosa di più grandioso ancora, cioè Cristo opera, perché fino a qui in fondo ci arriva anche una retta coscienza umana che si sposa, retta coscienza di un uomo e di una donna che si sposano fino a qui ci possono arrivare. La Chiesa ha sempre insegnato che l’indissolubilità del matrimonio è anche una proprietà del matrimonio naturale.

C’è qualcosa di più grandioso! Cristo fa sì che questa reciproca vincolazione, questa reciproca appartenenza dello sposo alla sposa e della sposa allo sposo sia il simbolo reale della sua appartenenza alla Chiesa e dell’appartenenza della Chiesa a Cristo.

Cosa vuol dire simbolo reale? Realmente, veramente dentro a questa reciproca vincolazione e appartenenza c’è l’appartenenza e reciproca vincolazione di Cristo con la Chiesa e viceversa.
 C’è. Questo non perché gli sposi promettono di essere fedeli e i galantuomini mantengono le promesse, non è una questione morale, state bene attenti. È un fatto soprannaturale questo.

Parlando del battesimo Sant’Agostino diceva che non era Pietro che battezzava, ma Cristo. Non è Giovanni che battezza, è Cristo. Non è Paolo che battezza, è Cristo. Nel matrimonio i ministri sono i due sposi. Ma cosa vuol dire i ministri? Vuol dire che agiscono in nome e con la forza di un altro che è Cristo, Signore presente perché risorto, che li unisce e li vincola uno all’altro.

Prima conseguenza che deriva da questa – se ci sarà tempo mi fermerò su questo più avanti – è che non c’è infedeltà, non c’è miseria, non c’è litigata che sia più forte di questo evento sacramentale che è accaduto. Non li può più distruggere.

Una signora bolognese che aveva perso da poco il marito mi diceva che negli ultimi giorni di vita il marito le chiese di lasciargli la fede matrimoniale nella cassa. Lei non capiva perché, nessuno lo aveva mai fatto. La fede matrimoniale dell’uno la porta al dito l’altro che è rimasto vivente. Lui rispose: «Io voglio che anche tutti gli angeli sappiano che io sono stato tuo marito».
 Il commento di questa vedova fu: «Eminenza, mi creda, questo è il più bel complimento che un uomo possa fare a una donna». La potenza di Cristo che opera!

Naturalmente esige che sia trasfigurato anche l’amore coniugale, che sia immesso dentro a questo vincolo che è simbolo reale del rapporto Cristo Chiesa. Infatti il grande dono che il sacramento fa e continua a fare è il dono della carità coniugale.
 La carità coniugale non è semplicemente l’amore fra un uomo e una donna ma è questo stesso amore che viene per così dire trasfigurato, elevato ma non distrutto.
Non è semplicemente l’eros fra l’uomo e la donna, ma è l’eros che non viene distrutto, perché viene trasfigurato, integrato dentro un modo nuovo di amarsi.
 Qui mi fermo, perché ce ne sarebbe da parlare per giornate intere.

Vengo alla seconda domanda di questo secondo punto.
 Cosa la Chiesa fa per risolvere questa immane urgenza educativa, di cui vi ho detto i termini? 
I due sposi sono radicati nel più profondo del mistero della Chiesa, dentro alla tradizione della Chiesa.
 Cos’è la tradizione della Chiesa? È la vita della Chiesa, la sua fede e quindi il suo modo di vedere e interpretare gli avvenimenti della vita. La vita della Chiesa e il suo celebrare il Signore Gesù nella liturgia della Chiesa vengono radicati dentro la tradizione della Chiesa.

Attenzione: i genitori vengono resi capaci di trasmettere ai loro figli questa tradizione della Chiesa e solo loro sono capaci di fare questo. Come c’è un sacramento che abilita alcuni cristiani a celebrare il sacramento dell’Eucarestia, a rendere cioè presente Cristo nella Sua Chiesa, c’è un sacramento che abilita, rende capace l’uomo e la donna di trasmettere la tradizione della Chiesa, la vita della Chiesa. Ricordate l’esempio che ho fatto della cena ebraica.

Una volta mi sono incontrato con il capo dei rabbini inglesi, adesso è già in pensione, una grande personalità, che proprio un mese fa ha preso un premio che la regina dà a chi si è distinto per opera scientifica o per opera culturale, ed è un premio fra i più prestigiosi che Sua Maestà britannica può dare a un cittadino.
Questa persona mi raccontava che sua mamma era una donna molto pia e ogni pio ebreo dice tre volte al giorno quello che viene chiamato lo “Shemà Israel”, cioè «ascolta Israele, il Signore è un solo Dio, è il vero Dio, amerai il Signore tuo Dio». Appena lui ha cominciato a parlare la mamma glielo ha insegnato. Ad un certo momento, lui si è arrabbiato e ha detto a sua mamma che non voleva dirlo più perché non capiva nulla di quello che diceva. La mamma gli ha risposto che non era importante che lui capisse, lei lo capiva e quindi lui doveva dirlo. Lui mi ha detto che una delle cose di cui è più grato quando fa memoria di sua madre è questo fatto, perché lo ha introdotto dentro la preghiera di Israele, alla grande memoria del nostro popolo, al contenuto fondamentale della memoria del nostro popolo.

Non è necessario che i bambini capiscano.
 La Chiesa dice e dona all’uomo e alla donna che si sposano questo: la trasfigurazione sacramentale del loro amore coniugale, la capacità di costruire un vero rapporto educativo intergenerazionale fra la generazione dei padri e la generazione dei figli.

Terzo punto.
 Queste cose che vi ho detto non dovete pensarle come un ideale verso cui tendere. Questo non è un ideale! Il matrimonio ideale non esiste! Non c’è! Esiste il matrimonio reale, può essere un matrimonio vero o un matrimonio per così dire meno vero. 
È profondamente errato il pensare ciò che vi ho detto sul matrimonio come l’ideale verso cui io cammino. Immaginiamo care spose qui presenti che vostro marito vi dica: «Senti cara, per me la fedeltà coniugale è un ideale verso cui cerco di andare, però non è detto che adesso come adesso io ci riesca, che lo realizzi! Va bene cosi?».
 No caro mio, non è un ideale la fedeltà a tua moglie.

Perché è sbagliata questa posizione? Perché alla fine pensa la vita matrimoniale come uno sforzo etico, non come un dono che genera un compito. Detto questo, la prima conseguenza è che la vita matrimoniale è un cammino. Questo è detto molto bene nella Amoris Laetitia al punto 220.
Dice il testo pontificio: «Il cammino implica passare attraverso diverse tappe che chiamano a donarsi con generosità: dall’impatto iniziale caratterizzato da un’attrazione marcatamente sensibile, si passa al bisogno dell’altro sentito come parte della propria vita. Da lì si passa al gusto della reciproca appartenenza poi alla comprensione della vita intera come progetto di entrambi, alla capacità di porre la felicità dell’altro al di sopra delle proprie necessità, e alla gioia di vedere il proprio matrimonio come un bene per la società». Qui il testo pontificio delinea proprio un cammino di crescita notandone anche le tappe fondamentali.

È un cammino e quindi cosa può succedere? 
Questa mattina avete fatto una camminata e ci si può anche stancare al punto tale che uno è tentato di dire: «Voi andate, che io vi aspetto qui al ritorno!». Ma si può anche dire: «Dammi una mano così mi aiuti». Ma può anche succedere che uno cada e si ferisca e cominci a dire che fanno male i piedi e non ce la fa più. Ecco il sacramento che ha anche un potere sanante.

Immaginiamo che due persone stiano passeggiando lungo gli argini del Po. Una sa nuotare e l’altra no. Quella che non sa nuotare scivola e cade in acqua. 
L’altra per salvarla ha tre possibilità. La prima è che dalla riva le insegni come si fa a nuotare, la seconda è che le lanci una fune e le gridi di prenderla e quella ci provi ma non ce la faccia perché ha le mani fredde e la corrente è forte. Oppure, terzo, si butti in acqua, la prenda e se questa non si divincola è salva.

Pelagio e tutti i suoi discepoli, e ce ne sono anche oggi, riteneva che Gesù ci abbia salvato nel primo modo. Perché pensavano che Gesù ci ha salvati? Perché ci ha insegnato come vivere.
 Sant’Agostino diceva: «Questo lo sapevo, il problema è che io non ci riesco!». Sapete, quella preghiera che faceva quando aveva già cominciato i colloqui con Ambrogio e diceva a Dio: «Dammi la castità – perché era questo il problema per lui – ma non darmela subito».
Il secondo modo è dei cosiddetti semipelagiani.

La verità invece è che Dio si è buttato nella vorticosa corrente della nostra miseria e ci trascina e ci ha abbracciati sulla Croce e ci dice solo: «Stai abbracciato a Me, non mollarmi e stai tranquillo sei salvo, Ti porto Io in patria sulla riva». 
È una crescita in cui continua ad operare la forza sanante del sacramento, che è quella che vi ho espresso nell’esempio.
 Il cammino è un cammino che ha delle tappe che qui il Papa descrive bene e come tutti i cammini deve sempre entrare in funzione la potenza e la forza sanante del sacramento del matrimonio.

La Chiesa ha sempre molto raccomandato due cose. La prima, la preghiera fatta insieme. Tertuliano dice che quando due sposi pregano, la Chiesa domestica si riunisce in preghiera.
 Un tempo questo voleva dire marito, moglie, figli, e poi c’erano anche i servi e gli schiavi. 
Diceva che quando la chiesa domestica si riuniva in preghiera gli angeli guardano giù dal cielo pieni di ammirazione di questo fatto che vedono. Preghiera insieme e soprattutto la grande preghiera che è l’Eucarestia. Ovviamente voi seguite le indicazioni dei vostri parroci o vescovi ma durante la celebrazione dell’Eucarestia i bambini si fanno sentire, vero? A me piacciono! 
Dicevo a una mamma che lei o lui – non mi ricordo – in questo modo aveva lodato il Signore, facendo sentire la sua voce. 
Quindi preghiera insieme e i sacramenti.

Il grande punto oggi, e qui riprendiamo l’altro grande filone dell’educazione, è in che modo dicevamo prima, la proposta cristiana può generare una proposta a tutti? 
Me lo sto molto chiedendo in questi giorni. Dico solo che io sono sempre più convinto, e lo ho anche scritto recentemente, che quello che hanno fatto i monasteri benedettini quando è crollato un intero mondo, quella che molti storici dicono la più grande costruzione sociale e giuridica che la storia ha conosciuto, cioè l’impero romano, hanno posto le radici dentro queste rovine. Hanno seminato una nuova cultura.
Io sono convinto che questo adesso tocchi a noi. Come? 
Guardate che i benedettini mica fondavano i monasteri dicendo che loro dovevano seminare per una nuova civiltà. San Benedetto diceva che la loro era una scuola dove si imparava a servire il Signore. Quindi vedete la potenza della presenza di Cristo e delle Sue comunità.

Bene, questo adesso tocca a voi. In che modo? 
Creando, ponendo in essere quelle che vengono chiamate “minoranze creative”. Non contatevi più di quel tanto, non ha importanza.
 Il creare, il porre gruppi di famiglie che fanno vedere la bellezza dell’essere sposi e dell’educare i bambini, i figli. Credetemi l’uomo non può rimanere indifferente a questo e qualcuno chiederà: «Ma perché? Come fate voi? E io che ho tradito mia moglie chissà quante volte, mi chiedo come fate voi? E io che non riesco a educare il mio bambino, come fate?». 
E lì semplicemente dovete dire: «Vieni e vedi».

Certo questo non è che trasformi la condizione da questa sera a domani mattina. Il processo di decostruzione è durato secoli quindi è un processo difficile, lungo.
 La minoranza creativa è tale perché non si accontenta di essere una luce che richiama, ma è capace di entrare dentro a questa cultura antifamiliare, antieducativa nei modi che la sapienza che la guida del sacramento che avete ricevuto, vi può indicare.

Una volta, due sposi che celebravano il 70° di matrimonio mi chiesero di venire a celebrare la Messa giubilare nella mia cappella privata portando tutta la loro tribù, da loro fino all’ultima bambina che era nata qualche settimana prima, una trisnipote. Lei aveva 93 anni e lui 95 e mi hanno detto di stare tranquillo perché dal collo in giù non funzionava più niente, ma dal collo in su funzionava ancora tutto. Io penso che sono stati fortunati perché se fosse stato diverso sarebbe stato molto peggio. Finita la Santa Messa ci siamo fermati un momento, ho offerto loro qualcosa e ho detto per provocarli che io non me ne intendevo molto, ma in 70 anni insieme avranno avuto momenti di noia.
 Non mi ha lasciato finire e mi hanno detto: «Eminenza, ma cosa dice, ma lo sa che noi ci amiamo di più adesso di quando ci siamo sposati!». Ecco il cammino, la crescita. 
Allora io ho detto: «Gridatelo ai vostri figli, nipoti e pronipoti, fino a quella ultima piccola bimba!».
Io ho pensato: questo è l’evento più grande che possa accadere, cioè un amore umano che è durato per 70 anni e alla fine dei 70 anni è ancora più grande di quando avevano cominciato il loro cammino. Solo Cristo può operare questi miracoli.





[Modificato da Caterina63 22/09/2017 09:44]
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  Il libro. Caffarra: no al mercato delle religioni




mercoledì 6 dicembre 2017



Esce il volume «Prediche corte, tagliatelle lunghe», un’antologia di discorsi, omelie, catechesi e relazioni del cardinale Carlo Caffarra scomparso lo scorso settembre

Il cardinale Carlo Caffarra (1938-2017) che ha guidato l’arcidiocesi di Bologna dal 2003 al 2015

Il cardinale Carlo Caffarra (1938-2017) che ha guidato l’arcidiocesi di Bologna dal 2003 al 2015

Più di duecento pagine proposte come un «assaggio che può far venire l’acquolina di andare alla fonte». E la fonte è il magistero del cardinale Carlo Caffarra, arcivescovo emerito di Bologna scomparso lo scorso 6 settembre.

È lui l’autore del volume «Prediche corte, tagliatelle lunghe», un’antologia di discorsi, omelie, catechesi e relazioni che il porporato ha pronunciato dal febbraio 2004 al giugno 2017. Il libro postumo (Edizioni Studio Domenicano; 209 pagine; 13 euro) uscito il 7 dicembre. 

I curatori del volume, il domenicano Giorgio Carbone e il giornalista Lorenzo Bertocchi, definiscono il cardinale «un autentico maestro e padre nella fede» e spiegano che i suoi interventi sono come «una grande tavola imbandita di ogni ben di Dio». Nel libro «c’è un bel piatto di tagliatelle» che sono «buone per tutti i gusti» e rappresentano «spunti per l’anima offerti da uno chef d’eccezione». Bertocchi e Carbone ricordano anche che il porporato era sì «timido e schivo» ma anche dotato «di una punta di amabile ironia» tanto che sul «comodino aveva sempre qualche libro di Giovannino Guareschi».

Dieci i capitoli che hanno i seguenti titoli: «Decifrare il senso»; «Il nostro contemporaneo»; «L’incontro decisivo»; Credere e amare»; «Attira tutti a sé»; «Guardate al principio»; «Guidare a un incontro»; Non c’è pace senza verità»; «Fatti per la libertà e il bene»; e «La morte non ha più alcun potere».

 

Le cinque insidie per la Chiesa di oggi

L'alternativa ad una Chiesa senza dottrina non è una Chiesa pastorale, ma una Chiesa dell’arbitrio e schiava dello spirito del tempo: praxis sine theoria coecus in via, dicevano i medioevali. Questa insidia è grave, e se non vinta causa gravi danni alla Chiesa. Per almeno due ragioni. La prima è che, essendo la Sacra Doctrina niente altro che la divina Rivelazione del progetto divino sull’uomo, se la missione della Chiesa non si radica in essa, che cosa la Chiesa dice all’uomo? La seconda ragione è che quando la Chiesa non si guarda da questa insidia, rischia di respirare il dogma centrale del relativismo: in ordine al culto che dobbiamo a Dio e alla cura che dobbiamo all’uomo, è indifferente ciò che penso di Dio e dell’uomo. La quaestio de veritate diventa una questione secondaria.
La seconda insidia è dimenticare che la chiave interpretativa della realtà tutta ed in particolare della storia umana non è dentro la storia stessa. È la fede. San Massimo il Confessore ritiene che il vero discepolo di Gesù pensa ogni cosa per mezzo di Gesù Cristo e Gesù Cristo per mezzo di ogni cosa. Faccio un esempio molto attuale. La nobilitazione dell’omosessualità, alla quale assistiamo in Occidente, non va interpretata e giudicata prendendo come criterio il mainstream delle nostre società; oppure il valore morale del rispetto che si deve ad ogni persona, il che è metabasis eis allo genos, cioè passaggio a un altro genere, direbbero i logici. Il criterio è la Sacra Doctrina circa la sessualità, il matrimonio, il dimorfismo sessuale. La lettura dei segni dei tempi è un atto teologale e teologico.
La terza insidia è il primato della prassi [insidia di origine marxista]. Intendo il primato fondativo. Il fondamento della salvezza dell’uomo è la fede dell’uomo, non il suo agire. Ciò che deve preoccupare la Chiesa non è in primis la co-operazione col mondo in grandi processi operativi, per raggiungere obiettivi comuni. L’insonne preoccupazione della Chiesa è che il mondo creda in Colui che il Padre ha mandato per salvare il mondo.

Il primato della prassi conduce a quella che un grande pensatore del secolo scorso chiamava la dislocazione delle Divine Persone: la seconda Persona non è il Verbo ma lo Spirito Santo.

La quarta insidia, molto legata alla precedente, è la riduzione della proposta cristiana ad esortazione morale È l’insidia pelagiana, che Agostino chiamava l’orrendo veleno del cristianesimo. Questa riduzione ha l’effetto di rendere la proposta cristiana molto noiosa, e ripetitiva. È solo Dio che nel suo agire è sempre imprevedibile. E infatti al centro del cristianesimo non sta l’agire dell’uomo, ma l’Azione di Dio.
La quinta insidia è il silenzio circa il giudizio di Dio, mediante una predicazione della misericordia divina fatta in modo tale che rischia di far scomparire dalla coscienza dell’uomo che ascolta la verità che Dio giudica l’uomo.

Il presepio? E' già annuncio

 

Il presepio è rappresentazione della nascita del Salvatore, e anche di come fu accolto, o rifiutato. È quindi rappresentazione del primo incontro degli uomini con Cristo, e in quel primo incontro nella storia subito si vide chi Lo accoglieva e lo riconosceva come senso della vita, e Lo adorava orientando a Lui la sua vita, e chi Lo rifiutava e anche Lo combatteva. Le semplici figure dei presepi da sempre annunciano la presenza di Cristo e mettono in guardia contro il sempre ricorrente rischio di non accoglierLo. Ma fare il presepio è già una dichiarazione e un annuncio: far posto a Gesù Bambino nei luoghi dove quotidianamente si vive vuol dire che si intende far posto a Lui nella vita, e che si intende portargLi i doni delle nostre opere. 

Immaginiamo che in una scuola si voglia celebrare il Natale. Può essere che ci sia qualche insegnante nelle scuole che… per rispetto a qualche bambino musulmano presente in aula parli e presenti il Natale come la festa del solstizio, con l’inevitabile presenza di Babbo Natale, e gli immancabili sermoni sulla pace e la solidarietà. Si trasforma cioè una narrazione storica in un “mito” che offre lo spunto per esortazioni moralistiche.
Si compie in realtà un’operazione ideologica, che viene imposta al bambino, sradicandolo dalla tradizione in cui vive. […] L’oblio della tradizione o la sua trascuratezza ci fa ripartire dal niente, costringendoci a costruzioni ideologiche dettate dal momento.

 

 

 

No al supermercato delle religioni

 

Gesù Cristo è la stessa verità. Mosè non ha fatto che trasmettere la Legge; altri hanno trasmesso una dottrina religiosa o morale: Gesù Cristo invece non ci procura solo il dono della Verità, ma Egli stesso è questo dono, perché è il Verbo fatto carne. È questa singolarità ed unicità di Cristo che conferisce all’avvenimento che oggi celebriamo [il Natale] un significato assoluto ed universale, per cui, pur essendo un avvenimento accaduto dentro alla storia, ne è il centro e il fine. A causa di ciò che oggi è accaduto, la storia umana è rimasta per sempre divisa in due tempi: prima di Cristo-dopo Cristo. Questa posizione di Cristo fa sì che Egli non possa essere collocato nel “super-mercato delle religioni” dove l’uomo entrando “compra” ciò che meglio risponde alle sue esigenze. La posizione di Cristo nella storia dell’umanità non consente che Egli sia relativizzato; che il cristianesimo sia computato come una fra le altre religioni. Chi relativizza il Cristo, anche se poi ne esalta la persona, in realtà lo ha già abbandonato.

Il principale nemico della nostra fede è l’indifferentismo o relativismo religioso. Esso consiste nel ritenere che tutte le religioni si equivalgono; che in ordine al culto che noi dobbiamo a Dio è indifferente ciò che noi pensiamo di Lui; che in ordine alla nostra appartenenza alla Chiesa non hanno rilevanza le nostre idee in fatto di religione, ma riteniamo forse più rilevanti le nostre idee politiche. Quale è stata la vera guarigione del cieco? La sua fede. Egli ha riconosciuto in Gesù il suo Signore e gli si è prostrato davanti.





[Modificato da Caterina63 10/12/2017 14:51]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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L’ALFABETO CRISTIANO 
Trasmesso a Telestense durante la Quaresima 1997 


La rubrica ALFABETO CRISTIANO, che ho chiesto a Telestense di poter trasmettere, è molto semplicemente la spiegazione di alcuni termini-chiave del vocabolario cristiano, fatta seguendo le lettere dell’alfabeto. La prima puntata va da A ad I. Le parole spiegate saranno: amore, bene, coscienza morale, Dio, elemosina, fede, Gesù, indifferenza. 
Dopo le celebrazioni pasquali, riprenderemo dalla lettera L. 
Le ragioni di questa decisione sono molte. Mi limito a due. Il linguaggio cristiano sta diventando un linguaggio sempre più incomprensibile alla maggior parte della gente. L’incomprensibilità trova la sua spiegazione ultima nel fatto che molti non vivono più l’esperienza cristiana. La parola infatti è comprensibile quando esprime ciò che si vive. Era necessario quindi ripartire precisamente dall’abc del discorso cristiano, nel modo più semplice e nello stesso tempo il più vicino possibile alla quotidiana esperienza del nostro popolo. Inoltre mi sembra che una delle disgrazie principali del nostro tempo sia che non chiamiamo più le cose col loro nome. Il cominciare a farlo con le “cose cristiane” mi sembrava il primo e fondamentale passo verso una comprensione reciproca più intensa. 


A come  amore

Uno dei più grandi scrittori di questo secolo, Franz Kafka, ha scritto: “Viviamo in un’epoca malvagia: lo si vede prima di tutto dal fatto che niente viene più chiamato con il suo nome preciso”. 
 Allora ho pensato di fare cosa utile presentandovi un piccolo alfabeto cristiano. Mi spiego. Procederemo secondo l’ordine alfabetico, e per ogni lettera dell’alfabeto spiegherò una parola chiave della lingua cristiana. Spero così di rendervi più comprensibile il discorso cristiano. Lo spazio ed il tempo ci costringeranno però a omettere alcune lettere. 
 La prima lettera A ci porta a spiegare il senso di una parola chiave nel discorso cristiano: AMORE. Se facciamo un po’ di attenzione alla nostra esperienza quotidiana, vediamo che ci sono tre modi possibili di volere qualcosa. 
 Voglio qualcosa perché mi piace: il fumatore fuma a causa del piacere che gli procura la sigaretta. In questo senso diciamo: ama fumare. Sarebbe giusto dire: gli piace fumare. Voglio qualcosa perché mi è utile: siamo disposti a subire un intervento chirurgico, perché ci è utile anche se è spiacevole. Pensiamo ora al momento sublime in cui alla donna viene mostrato per la prima volta il suo bambino. Ella non pensa, non dice: “come mi piace che tu esista!”, né dice: “come mi è utile che tu esista!” Pensa e dice: “come è bello, come è bene che tu ci sia!” Ecco che cosa è l’amore. E’ volere che l’altro esista non per il mio piacere, non per la mia utilità: semplicemente perché giudico che è bello, che è bene che lui ci sia. L’amore è volere semplicemente il bene dell’altro senza alcun mio interesse. E’ possibile amare; qualcuno allora potrebbe chiedere, se amare significa questo? 
Prova a pensarci bene. Vedrai che è possibile: la persona che dona la sua vita per i più poveri; i momenti di profonda comunione che vivi col tuo sposo/sposa. Sono lo stupendo avvenimento dell’amore. Se l’amore non fosse possibile, non varrebbe semplicemente la pena di vivere.

 B come  bene

La parola bene è strettamente legata colla parola già spiegata: amore. Sono state date tre spiegazioni di questa parola. 
Il bene è ciò che ti piace. Poiché ciascuno ha i propri gusti, esistono tante concezioni di bene quante sono semplicemente le persone. Non si può dire che cosa sia vero o falso bene. 
Il bene è ciò che ti è utile. I criteri per discernere ciò che è bene da ciò che è male, se accettiamo questa spiegazione, sono più chiari. Ci sono comportamenti che sono certamente dannosi, anche se piacevoli, come per esempio bere smoderatamente alcol. Dunque, il bene è solo una questione di piacere e/o di utilità? 
Proviamo a fare una riflessine molto semplice. Quando S. Massimiliano Kolbe chiede ed ottiene di essere bruciato in una camera a gas al posto di un padre di famiglia, chiede qualcosa di piacevole? Non è piacevole essere bruciati vivi. Chiede qualcosa di utile? Chiedere di essere uccisi è chiedere la cosa a noi più dannosa. Non chiede nulla di piacevole, nulla di utile e quindi non chiede una cosa buona! Sono sicuro che tutti vi ribellereste a questa conclusione. Perché vi ribellate dentro di voi? Precisamente perché “sentite” che esiste un bene che non è semplicemente ciò che piace o ciò che è utile. 
 Che cosa è questo bene? È ciò che è degno di essere voluto in se stesso e per se stesso: sono le azioni che manifestano una bellezza, una nobiltà della persona. E’ degno di una persona umana dare la propria vita per salvare un altro, dare a ciascuno il suo, beneficare chi è nell’indigenza. E quindi è bene dare la propria vita per salvare un altro, dare a ciascuno il suo, beneficare chi è nell’indigenza. In una parola: il bene è ciò che corrisponde alle esigenze della persona umana. 
Ciascuna di queste tre spiegazioni della parola bene genera un modo di vivere personale e sociale molto diverso l’uno dall’altro. Se il bene è ciò che ti piace, vivrai dominato dall’edonismo; se il bene è ciò che è utile, vivrai dominato dall’utilitarismo: il tuo interesse sopra tutti e tutto. Se il bene è ciò che corrisponde alle esigenze della persona umana, vivrai ispirato dal senso di rispetto della dignità della tua persona e dell’altro.

C come  coscienza morale

Spiegando la parola bene, abbiamo detto: il bene è ciò che corrisponde alle esigenze della persona umana. Voi capite subito allora quanto sia importante sapere che cosa è bene - che cosa è male. Certamente è assai importante per noi sapere che cosa ci è utile - che cosa ci è dannoso: un cibo, un ambiente e così via. Ma sapere che cosa veramente è degno della persona umana e che cosa è contrario alla sua dignità, è la conoscenza che sta alla base di ogni vera vita umana, di ogni vera civiltà degna di questo nome. Abbiamo un occhio del corpo che ci fa discernere distintamente, se è sano, gli oggetti in modo da poterci muovere senza subire danni. Abbiamo anche un occhio dell’anima che mi fa discernere se l’azione che sto compiendo è degna o indegna di una persona umana, in modo da poter agire senza deturpare la mia dignità di persona. 
Quest’occhio si chiama coscienza morale. Essa allora è quel giudizio della nostra ragine mediante il quale, prima di agire, io conosco la qualità dell’azione che sto compiendo. Quale qualità? Non se essa mi farà guadagnare o perdere; non se essa mi procurerà piacere, onore o potere. Ma se essa è degna o indegna della persona umana che io sono. Dunque: è la coscienza che ci preavverte se sto comportandomi da vero uomo o se sto tradendo, deturpando la mia dignità. Essa è la sentinella che veglia per avvertirmi se sta avvicinandosi il principale nemico dell’uomo: la rinuncia alla propria dignità. A chi è inviato questo messaggio? Alla libertà che potrà ascoltare (seguire) o non ascoltare (non seguire) la coscienza. 
L’occhio del corpo ha bisogno della luce per vedere: anche la coscienza ha bisogno di luce. Quale è la luce della coscienza? E’ assurdo rispondere: è la coscienza stessa. Sarebbe come dire che l’occhio si fa luce da solo. La luce della coscienza è quella legge che ciascuno di noi scopre in se stesso e che non è lui a darsi, ma alla quale egli si sente profondamente vincolato. Questa voce, che lo chiama sempre a fare ciò che è bene ed a evitare ciò che è male, illumina la coscienza così che questa può discernere ciò che conviene e ciò che disdice all’uomo. 
  
D come  Dio

Ci sono delle domande che non possiamo eludere: si impongono con una tale forza che ci costringono a rispondere. Fra queste ce ne sono due formidabili. Esse nascono dalla constatazione di un fatto talmente ovvio da risultare quasi banale: noi siamo al mondo senza aver mai deciso di esserci. Cioè: nessuno ci ha chiesto il permesso di venire al mondo. Una tale ovvietà nasconde in sé due formidabili interrogativi. Il primo: chi ha deciso che io ci sia? Non rispondete: i miei genitori. E’ una risposta falsa. I tuoi genitori hanno deciso di avere un bambino/una bambina. Ma che il bambino o la bambina da loro voluto fossi tu, proprio tu, non lo hanno deciso loro. Chi allora? un caso? Esisti per caso? Penso che nessuno è disposto ad accettare una tale risposta: se esisti per caso, tutta la tua vita  è priva di significato. Quando il vocabolario cristiano usa la parola Dio, intende precisamente rispondere a questa domanda. Tu sei stato voluto, tu esisti perché una Potenza infinita di Amore ti ha pensato ed amato: Dio. 
Ma ci portiamo dentro una seconda domanda: e in vista di che cosa esisto? Come finirà la mia vita? In un nulla eterno? Ciascuno di noi, nel suo cuore, ancora una volta si ribella a questa soluzione. Se tutto finisce, che senso ha alla fine scegliere di essere onesto piuttosto che ladro? Ma noi sentiamo che questa distinzione ha un senso indistruttibile. Quando il vocabolario cristiano usa la parola Dio, intende precisamente rispondere a questa seconda domanda: Dio è il fine ultimo della tua vita. Chiamato da Lui all’esistenza, Egli sarà la tua beatitudine infinita. A dire il vero però questo significato della parola Dio, il vocabolario cristiano lo condivide col vocabolario ebraico e col vocabolario mussulmano. Esiste un significato propriamente  cristiano, che ci è stato rivelato da Gesù. Dio significa  la divina persona del Padre: Dio è il Padre di misericordia, che ci ha creati per puro amore predestinandoci a vivere con Lui nella sua felicità eterna e che, sentendo compassione per la nostra miseria, ha inviato Gesù che ci redime dalla nostra miseria. Nel vocabolario cristiano, Dio significa questo.

 E come  elemosina

Non vi meravigliate se fra le parole-chiavi del vocabolario cristiano ho scelto anche la parola “elemosina”. Perché è una parola chiave? Perché essa significa in modo perfetto il modo con cui il cristiano possiede le ricchezze, amministra le sue proprietà, gestisce i suoi denari. In una parola: la sua attitudine profonda verso le ricchezze. 
Nel linguaggio cristiano, elemosina significa “far parte delle proprie ricchezze a chi si trova nel bisogno”. Non pensate solo, anche se spesso la parola è stata presa in questo significato, al gesto di prendere un po’ di denaro dalle vostre tasche e darlo al povero che incontrate per strada. Elemosina non significa solo questo. Significa, ripeto “far parte delle proprie ricchezze a chi si trova nel bisogno”. Perché nel costume cristiano, questo è ritenuto così importante? Per ragioni varie che ora cercherò di esporvi brevemente. 
In primo luogo, i beni di questo mondo, tutta la ricchezza che il Signore nostro Creatore ha messo a nostra disposizione, è destinata a tutti gli uomini. Questa destinazione universale dei beni non deve essere praticamente distrutta dal pur legittimo diritto di proprietà privata. Possedere in proprio i beni di questo mondo (case, terreni, denaro) è legittimo, ma quando - per qualsiasi ragione - questo diritto viene esercitato in modo tale che di fatto vengono escluse persone dal necessario per vivere, tu devi far parte dei tuoi beni ad esse. Altrimenti tu rubi, nel senso che trattieni per te dei beni - sia pure guadagnati onestamente - che appartengono ai poveri. Tenere per sé quei beni sarebbe come se tu andando allo stadio volessi da solo occupare più di un posto, costringendo altri a stare in piedi. Non sarebbe stolto? Non ti basta un posto? 
E qui scopriamo la seconda ragione per cui “elemosina” è una parola-chiave del vocabolario cristiano. Essa è il nemico numero uno del nostro egoismo. Egoismo significa affermare se stessi, i propri interessi a spese degli altri o perfino contro gli altri. L’egoismo quindi si nutre sempre di orgoglio. Il segno di quest’auto-affermazione è il possesso di molto denaro. L’elemosina distrugge tutto questo. Non si tratta di impoverire noi per arricchire gli altri: ma di fare uguaglianza.

F come  fede

E’ talmente importante questa parola nel vocabolario cristiano che spesso nel linguaggio comune viene usata per indicare semplicemente tutto il cristianesimo: non si dice infatti “fede cristiana”? e spesso per dire che una persona è un vero cristiano, si dice “è un uomo di grande fede”. 
 Fede o credere significa, in generale, “ritenere per vero qualcosa sulla base della testimonianza di un altro”. In questo senso, la fede accompagna un po’ tutti i nostri rapporti sociali. Probabilmente molti di voi, cari ascoltatori, non sono mai stati in Australia. Tuttavia nessuno di noi dubita che esista il continente australiano, sulla base della testimonianza di chi c’è stato. Ma ci sono rapporti fra le persone che sono molto più seri ... della esistenza dell’Australia. Voi un giorno non vi siete sentiti bene. Siete andati dal vostro medico: avete parlato, vi ha visitato ed infine vi ha fatto la diagnosi e vi ha prescritto la cura. E voi avete accettato. Forse perché voi ne sapete come il medico? No, certamente. Ma avete fiducia in lui e quindi avete pensato che la sua diagnosi era vera e la cura giusta. In una parola: avete creduto in lui. Allora, credere significa: “ritenere per vero ciò che una persona mi dice semplicemente a causa della fiducia che nutro nei suoi confronti”. Fiducia è una parola-chiave per capire che cosa è la fede. Fiducia significa che voi ritenete quella persona competente, e quindi pensate che non si sbaglia, chi vi dice la verità e quindi che non vuole ingannarvi. 
Guardate ora che cosa meravigliosa è il cristianesimo. Esso ti dice: Dio ti ha parlato (spiegando la parola successiva vedremo che cosa ha detto) e ti ha svelato uno stupendo progetto riguardante la tua esistenza. Di fronte a questa Parola che Dio ti dice tu puoi dire: non mi interessa, cioè rimanere indifferente; oppure puoi dire: non può essere vero tutto questo discorso, cioè rifiutare di accettarlo; oppure puoi dire: “tutto quanto mi dici, o Signore, lo ritengo vero anche se è talmente grande che non riesco a comprenderlo, ma sono sicuro che tu non mi inganni e quindi mi fido di te”. Ecco questa è la fede! Credere significa: affidarsi personalmente al Signore che si rivela e quindi ritenere vero ciò che mi dice. E’ adesione alla persona e alla verità: alla verità per la fiducia che si accorda alla persona che l’afferma.

G come  Gesù

Nella nostra spiegazione del vocabolario cristiano siamo arrivati al termine-chiave di tutto il cristianesimo, al Nome che è al di sopra di ogni altro nome, Gesù. Il cristianesimo, a differenza di tutte le religioni, non è una dottrina da imparare e da mettere poi in pratica né i cristiani sono coloro che appresa quella dottrina, cercano di vivere in conformità ad essa. Il cristianesimo in realtà è una persona, Gesù Cristo, e i cristiani sono coloro che decidono di credere a Lui e di vivere con Lui. Voi allora capite bene che sapere chi è la persona a cui è stato dato il nome di Gesù, equivale semplicemente a sapere che cosa è l’intero cristianesimo. Gesù è un nome ebraico e significa “Dio salva”. Attraverso il nome sappiamo chi è Gesù e quale è la sua missione. 
Chi è? È Dio stesso che si è fatto uomo. Non cessando di essere Dio, ovviamente: questo è impensabile. Non si è fatto uomo solo in apparenza: veramente uomo. Dio ha vissuto veramente la nostra vita umana: è stato concepito nel corpo di una donna come ciascuno di noi e vi è rimasto nove mesi; è nato ed ha vissuto lavorando, soffrendo e godendo come noi. Ecco chi è Gesù: Dio fatto uomo. In queste tre parole Dio - fatto - uomo, è racchiuso tutto il cristianesimo. 
Ma la parola “Gesù” non significa solo “Dio”. Significa: Dio salva. Perché Dio si è fatto uomo? Per salvarci. Quando noi parliamo di salvezza, pensiamo subito a pericoli dai quali siamo liberati, a situazioni così disperate dalle quali non c’erano vie d’uscita. Ed allora diciamo: “mi hai proprio salvato” cioè tolto da quel pericolo, fatto uscire da una situazione disperata. Ebbene questa è la nostra condizione. Non penso a pericoli del tipo, fallire economicamente o perdere il lavoro, o a situazioni disperate del tipo malattie senza rimedio o debiti cui non si riesce più far fronte. Penso al rischio di vivere senza più sapere per quale ragione vale la pena di vivere: è il rischio di vivere invano. Dio salva: Egli si è fatto uomo per impedirti di vivere invano, di perdere non ciò che hai, ma ciò che sei. 
Quando tu dici “Gesù”, tu dici: Dio mi salva.

 I come  indifferenza

Un grande genio del cristianesimo immagina uno strano dialogo fra due persone che stanno facendo una singolare scommessa. Sentite: “ - O Dio esiste o Dio non esiste. Per quale di queste due ipotesi volete scommettere? - Per nessuna delle due. La risposta giusta è non scommettere affatto. - Vi sbagliate. Scommettere è necessario, non è affatto facoltativo. Anche tu sei incastrato”. Dunque, di fronte alla domanda: Dio esiste o Dio non esiste? Si può rispondere: Dio esiste; oppure: Dio non esiste; oppure: “non mi interessa affatto, perché tanto che Dio esista o Dio non esista la mia vita non cambia”. Quest’ultima risposta è ciò che chiamiamo l’indifferenza. Essa consiste nel non prendere neppure in esame la questione, pensando che essa non ha nessuna importanza per la vita. Ora non esiste un atteggiamento più sbagliato di questo. Per la seguente ragione: se tu rifiuti di rispondere, ti sei già di fatto impegnato in una risposta, senza saperlo. Avviene come per la morte: forse perché non ci pensi, non muori? La morte è una necessità che ci portiamo dentro. La questione religiosa è così radicata nella nostra condizione umana che non puoi non risolverla, ed allora tanto vale risolverla consapevolmente, affrontandola da persone ragionevoli. 
Ma chi è indifferente contesta precisamente questa ineludibilità della questione religiosa e ti dice: è una questione inutile. E questo è il più pericoloso errore in cui una persona possa cadere. 
Che cosa significa questione religiosa? Non significa chiedersi se alla domenica devo o non devo andare a Messa o cose simili. Significa sapere se è vero che ciascuno di noi è “un pacco, un campione senza valore, spedito dall’ostetrico al becchino”; prima dell’ostetrico, il niente assoluto; dopo il becchino, il nulla eterno. Nulla prima, nulla dopo e noi come un ombra che si agita molto per qualche istante. E’ vero tutto questo? Tu puoi rispondere: “no, non è vero” e così dicendo tu affermi che Dio esiste. Tu puoi rispondere: “si, è vero” e così dicendo tu neghi che Dio esiste. Ma non puoi rispondere: “non mi interessa”, perché si tratta precisamente di te, non di altri. Vedi come la questione di Dio è precisamente la questione sulla tua vita. Tu puoi dire che non ti interessa solo se decidi semplicemente di vivere, senza voler sapere niente sulla vita. Cioè: di vivere come vivono le piante e gli animali. Certo puoi decidere di farlo: ma che cosa perdi! 







 

[Modificato da Caterina63 02/01/2018 13:27]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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02/01/2018 14:10
 
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GRANDEZZA E FRAGILITÀ DELL'AMORE CONIUGALE
Radio Maria - maggio 1994

Durante questa conversazione cercherò di balbettare qualcosa sulla grandezza (e sulla fragilità) dell'amore coniugale. Ho detto "balbettare". L'amore, infatti, in particolare l'amore coniugale è un cosi grande evento e mistero che di esso si può solo balbettare. Ci faremo guidare dalla lettera del S.Padre.

Prima, tuttavia e purtroppo, dobbiamo fare quello che fece Mosé, prima di avvicinarsi al roveto ardente dove era presente il fuoco della Gloria di Dio. Egli, su ordine del Signore, si levò i calzari, perché stava per entrare in un luogo santo. Anche noi stiamo per entrare in un luogo santo, l'amore coniugale. Anche noi dobbiamo prima toglierci i calzari, cioè liberarci da tutte le idee sbagliate, i pregiudizi che oggi circolano sull'amore coniugale e che più o meno tutti respiriamo.

1. Il primo pregiudizio, il più tremendo, da cui dobbiamo liberarci se vogliamo penetrare nel grande mistero dell'amore coniugale, è quello di pensare che la libertà consista nel non prendere mai impegni definitivi. È di pensare che essere liberi significa non essere legati a nessuno. È di pensare che la forza più grande della nostra libertà consista nel dire "no", piuttosto che nel dire "sì". Ho detto che questo pregiudizio è tremendo. Non è una esagerazione. Chi, infatti, si lascia dominare da questo pregiudizio, può veramente giungere fino alla distruzione spirituale di se stesso e dell'altra persona. Mi spiego con un esempio.

Quando noi comperiamo una cosa, normalmente ci viene data con un certo periodo di garanzia. Che cosa significa "periodo di garanzia"? significa che tu da subito entri in possesso della cosa, tuttavia non intendi dare un consenso a tenerla per sempre, se non a condizione che tutto funzioni bene. Se l'esperimento non ha un buon risultato, ciascuno si riprende ciò che è suo.

Proviamo ora a trasferire questo "contratto con garanzia" al rapporto uomo-donna nel matrimonio. I due non si uniscono se non "a condizione che" tutto funzioni bene; se il risultato non è soddisfacente, ciascuno si riprende il suo. Ecco, vedete: si ha qui una sorta di contratto di uso reciproco, nel quale ciascuno non intende impegnarsi per sempre. Ciascuno prova ad usare altro. C'è qualcosa di tremendo in tutto questo, perché si riduce la persona propria e dell'altro ad una cosa di cui fare uso. "Usa e getta", dice chi si lascia dominare dal pregiudizio che essere liberi significhi non assumersi mai impegni definitivi.

Chi si lascia prendere da questo pregiudizio, solitamente apre il suo cuore ad un secondo pregiudizio, ugualmente molto pericoloso. Vorrei spiegarvelo partendo da alcuni esempi molto semplici.

Se noi in una giornata molto calda passiamo davanti ad un banco di gelati ed abbiamo molta sete, subito sentiamo un grande desiderio di comperarne uno e mangiarlo. Se, al contrario, non abbiamo sete, il gelato non esercita su di noi nessuna attrattiva. Proviamo a riflettere un poco su questa esperienza. Notiamo subito che l'oggetto che attira la nostra attenzione, non ha in se stesso un suo proprio valore: interessa in quanto è capace di spegnere la nostra sete. Se non ho sete, esso non esercita più nessun interesse. È la mia sete che rende così interessante il gelato. Vale, insomma, perché ne ho bisogno.

Ecco, tenete ben presente nella mente questo esempio. Il secondo pregiudizio sull'amore coniugale consiste nel confondere l'amore coll'attrazione, col bisogno che sento di un'altra persona per la mia felicità. L'altra persona vale perché mi soddisfa, perché ne ho bisogno. Perché si tratta di una tremenda confusione?

Facciamo un altro esempio. Sulle case deve essere costruito un tetto: ovviamente perché non vi piova dentro. Lo stesso problema valeva anche per la basilica di S.Pietro: quando fu costruita doveva essere completata col tetto. Era necessario, a questo scopo, perché non piovesse dentro la basilica, costruire la cupola? Non solo non era necessario ma era molto più difficile e molto più costoso. Allora perché Michelangelo volle e costruì la cupola e non un semplice tetto? Perché la cupola è bella. Essa cioè meritava di essere voluta (=costruita) a causa della sua intrinseca bellezza. Ecco, vedete: si può volere una cosa, ed anche una persona, in due modi profondamente diversi. Puoi volere qualcuno o qualcosa perché ne senti il bisogno; puoi volere... perché semplicemente merita di essere voluto, amato. Nel primo caso, è il tuo desiderio che conferisce valore all'oggetto voluto; nel secondo caso, è l'oggetto che, a causa del suo valore, suscita in te il desiderio.

Finalmente, possiamo ora dire brevemente in che cosa consiste il secondo pregiudizio sull'amore coniugale: confondere l'amore coniugale coll'attrazione, col bisogno che sento di possedere l'altra persona per la mia felicità.

Potete anche vedere facilmente come questi due pregiudizi sono legati fra loro. Se vuoi una persona per il bisogno che ne senti, la vuoi solo se e solo fino a quando ella è in grado di soddisfare il tuo desiderio di essa. L'amore coniugale diventa un contratto a rischio.

Esiste, infine, un terzo pregiudizio sul quale vorrei attirare la vostra attenzione. È il pregiudizio che sia possibile un amore vero senza una profonda unità spirituale, che cioè l'amore si possa ridurre ad un'unione fisica-sessuale. Come vedremo, l'amore coniugale è anche profonda intimità sessuale. Il pregiudizio oggi molto diffuso è che sia possibile separare la sessualità dall'amore; che "amare" significhi semplicemente "avere rapporti sessuali". In una parola: ridurre il rapporto uomo-donna alla sessualità, separandola dall'unione spirituale e chiamare questo "amore".

Sono tre pregiudizi. Di essi dobbiamo completamente liberarci, se vogliamo comprendere il mistero dell'amore coniugale. Essi infatti, riducono ed impoveriscono la nostra libertà, e l'amore coniugale è la suprema manifestazione della libertà. Riducono ed impoveriscono la nostra capacità di desiderare, e l'amore coniugale è la suprema manifestazione della capacità del dono. Riducono ed impoveriscono la sessualità umana, e l'amore coniugale è la rivelazione della ricchezza integrale della sessualità umana.

2. Se ci siamo liberati da questi pregiudizi, se ci siamo levati come Mosé i calzari, possiamo ora entrare nel mistero dell'amore coniugale.

La caratteristica con cui immediatamente ci si presenta l'amore coniugale è che esso esiste solamente fra un uomo e una donna e non può esistere fra persone dello stesso sesso (come altre forme di amore). Se consideriamo la differenza fra l'uomo e la donna, una differenza puramente biologica, siamo dei superficiali. Partiamo, dunque, dalla riflessione su questo punto: è la porta d'ingresso nel mistero dell'amore coniugale. Vi ricordate come la S. Scrittura racconta la creazione dell'uomo e della donna?

L'uomo (maschio) si sente solo ed in questa solitudine soffre. Mentre dopo che il Signore, creato ogni cosa, vedeva che tutto era ben fatto, ora vedendo l'uomo in questa condizione, dice: "Non è bene che l'uomo sia solo". Non è bene: l'uomo in questa condizione di solitudine, non ha raggiunto la pienezza del suo essere umano. In realtà, sembrava che l'uomo non fosse solo: c'erano gli animali e le piante. Ma essi non erano persone: erano qualcosa, non qualcuno. Ora, che cosa fa il Signore? crea un altro uomo? crea la donna. Nella comunione reciproca fra l'uomo e la donna, la persona raggiunge la sua pienezza. Ed Adamo canta la sua prima canzone di amore: "questa sì che è carne della mia carne...". 

Le ricchezze delle differenze.

Ecco abbiamo pronunciato la parola "chiave" che ci apre il mistero dell'amore coniugale: comunione inter-personale. Che cosa è? Quando noi siamo di fronte ad una persona possiamo avere tre attitudini fondamentali. Possiamo pensare (e dire): "come è utile che tu esista!". È l'attitudine di chi guarda l'altra persona, pensando quali vantaggi eventualmente possono derivargli dalla sua conoscenza, dalla sua amicizia. È l'attitudine utilitarista. Possiamo pensare (e dire): "come mi piace che tu esista!". È l'attitudine di chi guarda l'altra persona come fonte possibile di piacere, come qualcosa che può procurargli piacere. È l'attitudine edonista. Possiamo pensare (e dire): "come è bello che tu esista". È l'attitudine di chi guarda l'altra persona vedendone la sua dignità, la sua preziosità che la rende degna di esistere, il suo valore in se stessa e per se stessa. È l'attitudine amorosa: è l'amore.

Facciamo ora un passo avanti, nella scoperta dell'amore coniugale. Questa terza attitudine è propria dell'amore come tale, non solo dell'amore coniugale. Come è presente nell'amore coniugale? Approfondiamo quell'attitudine amorosa.

L'amore che vede la dignità, la preziosità infinita della persona suscita un sentimento di venerazione per essa che prende corpo nel desiderio di dono all'altro. Ora possiamo donare all'altro ciò che possediamo, ciò che abbiamo: il nostro tempo, per esempio, il nostro denaro, l'esercizio della propria professione. Oppure possiamo donare se stessi, la propria persona: semplicemente non il nostro avere, ma il nostro essere. C'è una diversità fra i due doni? Una diversità abissale.

Il dono di ciò che hai, può essere misurato: ...; il dono di te stesso non può essere misurato; o è totale o non esiste per niente. Il dono di ciò che hai può essere misurato nel tempo: ...; il dono di se stesso, proprio perché totale, non può essere limitato nel tempo: è definitivo, è eternamente fedele. L'amore coniugale è dono totale, definitivo di se stesso all'altra persona, perché si è vista in essa una tale preziosità da non meritare niente di meno che non la propria persona. Fra le migliaia di persone che ha visto, questa è stata vista in una luce assolutamente singolare. "Questa è unica e merita il dono totale e definitivo non di tutto ciò che ho, ma di ciò che sono: di me stesso": dice l'amore coniugale. Ecco perché, quando questo dono è accaduto, la persona non appartiene più a se stessa: si è donata per sempre.

Ma questo non è tutto il mistero dell'amore coniugale. Dobbiamo ora chiederci: come accade questo dono?

Esso avviene, nella sua forma più alta, attraverso l'atto con cui i due sposi diventano fisicamente e spiritualmente una sola persona. La sessualità coniugale è il linguaggio dell'amore coniugale: è la sua realizzazione più alta.

Vi ricordate che avevamo detto: la comunione inter-personale è l'essenza stessa dell'amore coniugale. E ci siamo chiesti: ma in che cosa consiste? È la comunione che consiste nel dono di se stessi che reciprocamente gli sposi si fanno, un dono totale e definitivo, che si realizza e si esprime nella sua forma più alta nel divenire una sola carne nell'unione sessuale.

In conseguenza di questo dono, essi si appartengono reciprocamente per sempre. 

3. Abbiamo parlato della grandezza dell'amore coniugale. Ma come ogni realtà grande, esso è anche molto fragile. Esso può essere rovinato, anche dagli sposi stessi. Dunque, ci sono pericoli. Quali sono, oggi, i più gravi, da cui guardarsi?

Il primo, il più grave di tutti è l'egoismo: è l'antitesi del dono di sé, e quindi dell'amore... la persona è se stessa solo nella misura in cui si dona.

E qui entriamo nella considerazione di un altro pericolo: concepire la propria libertà come autonomia, come affermazione di se stessi contro l'altro. La libertà non può essere intesa come facoltà di fare qualsiasi cosa: essa significa dono di sé. Quando lo sposo ha detto: "io prendo te come mia legittima...", ha detto: da ora in poi tutta la mia libertà consisterà nel dimenticare me stesso per essere un puro dono fatto alla tua persona.

Egoismo e libertà male intesa generano nel cuore degli sposi un'altra malattia del loro amore coniugale: l'individualismo (cfr. Lettera alle famiglie, pag.47). (pag.49). 

CONCLUSIONE

Permettetemi di concludere con un piccolo racconto. C'era una volta una persona che era talmente stolta che, quando si alzava alla mattina, non riusciva mai a ritrovare i suoi vestiti. Alla sera, non si decideva mai ad andare a dormire sapendo che poi al mattino avrebbe fatto fatica a ritrovare i suoi vestiti. Finalmente una sera trovò la soluzione: prese penna e carta e annotò il luogo dove deponeva il vestito. La mattina tirò fuori allegramente il suo taccuino e lesse: "la camicia", eccola e se la infilò e così via, fino a che ebbe indossato tutto. "Si, ma io dove sono?" si chiese allora ansiosamente. Invano cercò, cercò e non riuscì a trovarsi.

Il Concilio Vaticano II ha detto una grande cosa: l'uomo ritrova se stesso solo attraverso il dono di sé.

L'uomo oggi sa tutto sui suoi vestiti, cioè su ciò che è più esterno al suo mistero. E su se stesso?




I FIGLI, PREZIOSISSIMO DONO DEL MATRIMONIO
Radio Maria - giugno 1994


Iniziamo oggi la nostra Catechesi con una bella affermazione fatta dal Concilio Vaticano II: "Il Matrimonio e l'amore coniugale sono ordinati per loro natura alla procreazione ed educazione della prole. I figli, infatti, sono il preziosissimo dono del Matrimonio". Parleremo dunque, oggi dell'amore coniugale in quanto luogo in cui viene concepita ed educata la nuova persona umana.

1. Cominciamo subito col notare quella parola, piena di bellezza e di mistero, che il Concilio, la Chiesa usa parlando della nuova persona: è un "dono", anzi un dono "preziosissimo". Un dono fatto da chi? un dono fatto a chi? che cosa significa che una persona è "in se stessa un dono"?
Il figlio è un dono fatto dal Signore. È questo uno dei misteri più profondi della nostra esistenza. Nessuno di noi è venuto all'esistenza per caso o per necessità. Ciascuno di noi è venuto all'esistenza perché è stato singolarmente voluto dal Signore: ciascuno di noi, prima di essere concepito sotto il cuore di una donna, è stato concepito nel cuore di Dio. Dio ha pensato a ciascuno di noi e ci ha voluti. Tuttavia, qui noi ci imbattiamo in un grande evento. Il Signore Iddio non ha voluto collaboratori quando ha creato l'universo materiale, ma quando decide di creare la sua creatura più preziosa, la persona umana, vuole avere cooperatori in questa sua opera, cioè gli sposi. Possiamo tentare di capire un po' questo grande mistero. Se ci sono madri che mi ascoltano sono sicuro che saranno d'accordo su quanto dirò.
Quando la prima donna della storia, Eva, si rese conto per la prima volta di essere diventata madre, disse: "Ho acquistato un uomo dal Signore" (Gen. 4, 1). Perché non disse: "Ho generato un figlio"? Possiamo avere una qualche esperienza che nel suo corpo è accaduto un atto creativo di Dio? Sì, con la seguente semplice riflessione. Quando due sposi vogliono diventare genitori e vogliono un bambino, non possono decidere che sia questi piuttosto che un altro. Chi sia in realtà il bambino/a da loro generato, lo vedono e lo sanno solo al momento della nascita e durante poi tutto il suo sviluppo.
Chi ha deciso che sia questi? Chi ha fatto essere questa persona piuttosto che un'altra? "Ho acquistato un uomo dal Signore" dice Eva. Cioé: il Signore mi ha donato questa persona. Dunque: all'origine di ogni persona sta un atto creativo di Dio. Ecco perché la persona umana non ha altro Signore all'infuori di Dio; ecco perché nessuno può disporre di se stesso e degli altri, come fossero nostra proprietà: ecco perché distruggere fisicamente o moralmente una persona umana, anche la più piccola, è un abominevole delitto contro Dio Creatore: un peccato che grida vendetta al suo cospetto. Ma ritorniamo al nostro tema.
Dunque, quando una nuova persona viene all'esistenza, Dio compie un atto di creazione: fa essere questa persona. Tuttavia, perché questo atto creativo possa accadere, è necessario che gli sposi, divenendo una sola carne, pongano le condizioni dell'atto creativo divino. Qui noi scopriamo la suprema grandezza dell'amore coniugale. Ascoltiamo quanto dice il Concilio Vaticano II: "Nel compito di trasmettere la vita umana e di educarla [...] i coniugi sanno di essere cooperatori dell'amore di Dio Creatore come suoi interpreti". Cooperatori dell'amore di Dio Creatore! Coll'atto del loro amore coniugale, gli sposi aprono lo spazio a Dio perché, se lo vuole, crei una nuova persona umana. Anzi, l'atto dell'amore coniugale, mediante cui gli sposi diventano una sola carne, è il tempio santo in cui Dio celebra la liturgia del Suo amore creatore. Se la Chiesa prende tanta cura perché il tempio in cui celebriamo la liturgia eucaristica dell'amore redentore, come non deve prendersi cura del tempio in cui si celebra la liturgia dell'amore creatore, l'amore coniugale, perché sia bello? Ascoltiamo quanto dice il S. Padre (Lettera alle Famiglie 20, pag.84-85). Fatto a chi? (cfr. pag. 29-30).

2. Vorrei ora precisamente riflettere con voi su due insegnamenti che la Chiesa ha dato proprio perché l'amore coniugale non cessi di essere il bell'amore, nello splendore della sua verità più profonda: cooperazione con Dio Creatore. Si tratta di due insegnamenti molto contestati, ma molto veri. Il primo dice che il ricorso alla contraccezione è sempre un atto ingiusto.
Ascoltiamo ancora una volta volta quanto dice il S.Padre nella già citata lettera (n.12, pag. 38-39). Qui noi troviamo la prima, profonda ragione di questo inasegnamento della Chiesa.
Noi possiamo comprenderlo pienamente e spiegarlo, solo ricorrendo ai valori di persona e di dono. Ogni uomo e ogni donna si realizzano pienamente solo quando fanno della loro vita un dono.
Questo è vero di ogni persona, sposata o non. Ma per gli sposi, il momento dell'unione coniugale costituisce un'esperienza singolarissima di quella verità, della verità del dono. È allora che l'uomo e la donna, nella verità della loro mascolinità e femminilità, diventano reciproco dono. Certo, tutta la vita nel matrimonio e dono; ma ciò si rende singolarmente evidente quando i coniugi, offrendosi reciprocamente nell'amore, realizzano quella reciproca comunione che fa dei due "una sola carne". Ora, in alcuni periodi entra a far parte della reciproca donazione anche la capacità di donare la vita. Notiamolo bene. La fertilità umana non è un fatto puramente biologico: è una dimensione della persona. Essa può essere capita nella logica del dono. La fertilità della sposa è la capacità che ella ha di donare la paternità al suo sposo; la fertilità dello sposo è la capacità che egli ha di donare la maternità alla sua sposa.
Quando gli sposi, ricorrendo alla contraccezione, escludono positivamente questa dimensione della loro persona, essi alterano il valore di donazione insito nell'atto dell'unione coniugale. In questo modo, al linguaggio naturale che esprime la reciproca donazione degli sposi, la contraccezione impone un linguaggio obiettivamente contradittorio, cioè il non donarsi totalmente all'altro. Si produce una falsità nel linguaggio dell'amore. Da una parte, questo è un linguaggio che in se stesso e per se stesso dice totalità di dono reciproco; dall'altra, in questo linguaggio si introduce una limitazione. Non si rispetta più l' intima verità del dono, perché e nel senso che la contraccezione non è coerente con la verità oggettiva di colui e di colei che si donano.
È questa una delle ragioni più profonde per cui la Chiesa insegna che la contraccezione è sempre ingiusta. Mi rendo conto bene che si tratta di una visione molto grande dell'amore coniugale e della fecondità umana. Non è un "no" che la Chiesa dice, è un grande "sì" alla bellezza, alla grandezza, alla dignità dell'amore coniugale e degli sposi. Sempre per aiutarvi a capire questo stupendo "sì", vorrei concludere con alcune riflessioni che, spero, renderanno più chiara la nostra catechesi su questo punto.
La prima. Il concepimento di una persona è il più grande evento che può accadere nella storia dell'universo. È quindi un atto che impegna al massimo le responsabilità dei coniugi. La procreazione deve essere responsabile. Questa responsabilità può anche esigere di non concepire per un certo periodo o di non procreare più. Può essere questo anche un obbligo grave davanti al Signore. In queste situazioni è lecito, allora, ricorrere alla contraccezione? Il Signore è mirabile nella Sua Sapienza: Egli ha disposto dei periodi di non fertilità nella sposa. Quando ci sono gravi ragioni per non procreare, quando esiste il dovere di non procreare, gli sposi devono astenersi nel periodo in cui la sposa è fertile, dall'avere rapporti coniugali. Non si comprenda tutto questo come una sorta... di tecnica. È qualcosa di molto profondo, un'attitudine dettata dall'amore. La scelta dei ritmi naturali comporta l'accettazione dei tempi della persona della sposa, e quindi del dialogo, del rispetto reciproco, della responsabilità comune del dominio di se stesso. Si approfondisce l'affezione coniugale, perché la sessualità è rispettata ed arricchita nella sua vera dimensione e non usata.
La seconda riflessione non è meno importante. Alcuni accusano la Chiesa di essere troppo dura, di non capire gli sposi, di allontanarli colla sua severità. Vorrei che gli sposi che mi stanno ascoltando, fossero particolarmente attenti ora a ciò che sto dicendo. La Chiesa dice la verità sull'amore coniugale, una verità che essa non inventa, non scopre: riceve dal Signore. Questa verità suona come rimprovero solo a chi ha già deciso di vivere contro essa. Per queste persone essa è dura, rigorosa severa. Ma alle persone che non hanno deciso di vivere contro essa, ma che semplicemente sentono come essa sia difficile da vivere, la Chiesa dice: "non ti preoccupare, non avere paura! Il Signore ti dà la forza di vivere in pienezza la gioia della verità del tuo amore; ti perdona sempre, settanta volte sette, se tu ogni giorno cadessi settanta volte sette". Brevemente altro è dire: "questo non è vero"; altro è dire: "è vero, ma è difficile".

3. Esiste anche un altro insegnamento della Chiesa, che si inscrive in una visione molto profonda e in una stima molto grande dell'amore coniugale e che, tuttavia, oggi è molto contestata. Si tratta del problema di ciò che oggi è chiamata "procreazione artificiale". Ogni giorno, quasi, leggiamo sui giornali notizie di interventi sempre più invasivi nel processo del concepimento della persona: il concepimento in provetta, la maternità in età ormai avanzata e così via. Riflettiamo con serenità, con profondità su tutto questo.
E ripartiamo precisamente dall'insegnamento del Concilio Vaticano II che ha dato inizio alla nostra Catechesi di oggi: "i figli sono il preziosissimo dono del matrimonio" cosa significa? significa che non solo non si deve separare, mediante la contraccezione, l'amore coniugale dalla procreazione, ma anche che non si deve separare la procreazione dall'amore coniugale. Esiste una sola culla degna di concepire una nuova persona umana: l'atto dell'amore coniugale. Perché? Sono molte le ragioni. Riflettiamo su alcune.
Sostituire l'espressione dell'amore coniugale, come atto che sta all'origine del concepimento di una persona, con un'attività di carattere tecnico, un'attività di laboratorio equivale ad una sorta di "produzione" della persona. Ora si producono le cose, non le persone. Si possono fare le protesi di tutto: dei denti, dei reni, del cuore. Non si può fare la protesi dell'amore coniugale. Che cosa significhi introdurre la logica della produzione tecnica in un evento che deve essere dominato solo dalla logica dell'amore, possiamo vederlo da molti punti di vista.
Solitamente chi produce, si sente poi in diritto di dare un giudizio sulla riuscita del prodotto. Ed infatti, se l'embrione ottenuto in laboratorio non è giudicato sano, viene buttato. Ecco, vedete? è la logica della produzione che è entrata nei rapporti delle persone, prendendo il posto della logica dell'amore.
Spesso nella "produzione della persona", poiché è di questo che si tratta, intervengono varie sostituzioni. Non è sempre la stessa donna che biologicamente ha concepito, ha portato in grembo la nuova creatura, è divenuta madre legale: ciascuna può prendere il posto dell'altra. Come è possibile pensare tutto questo? Solo se si pensa che concepire, portare in grembo, sia una funzione puramente biologica, senza che necessariamente vi sia profondamente coinvolta la persona della donna, nella sua irripetibile unicità.
La logica della "produzione della persona" è una distruzione della dignità della persona, perché implica la negazione che ogni e singola persona sia di una irripetibile preziosità. La conferma di ciò che sto dicendo è data da un fatto di cui a volte hanno parlato i giornali. Donne che hanno accettato di portare in grembo una creatura, per conto di un'altra donna, al momento della nascita non hanno più voluto darla. Ecco, vedete? l'intima verità della persona della donna si ribella.
Ma qualcuno potrebbe dire: "ma avere un bambino è un diritto degli sposi" oppure "ma avere un bambino è per me necessario, per la mia felicità". Dobbiamo fare al riguardo due osservazioni.
La prima. Non si ha mai diritto ad una persona; si può avere diritto ad una cosa. Essere qualcuno è infinitamente più che essere qualcosa: i miei diritti sono sempre diritti a qualcosa, non a qualcuno. Il figlio è affidato ai genitori come qualcuno, non come qualcosa.
La seconda. Non si può impostare il rapporto alla maternità e paternità nei termini di ciò di cui ho bisogno per la propria felicità o realizzazione. Nessuna persona è al servizio della felicità di un'altra; ciascuna persona ha una dignità infinita in se stessa e per se stessa. La persona non può mai essere considerata un mezzo per raggiungere uno scopo: mai, sopratutto, un mezzo per la propria realizzazione. Essa è e dev'essere solo il fine di ogni atto. Soltanto allora l'azione corrisponde alla verità della persona.
Come vedete, anche in questo insegnamento della Chiesa si manifesta semplicemente la grandezza e la bellezza dell'amore coniugale, del dono della vita. In una parola: della persona umana.
Non posso però terminare questa riflessione senza rivolgermi in modo particolare agli sposi che vivono la sofferenza della sterilità.
Il dono reciproco degli sposi non ha come fine solo il concepimento di una persona, ma è in se stesso mutua comunione di vita e di amore. L'amore non ha bisogno di essere giustificato: vale in sé e per sé. È a se stesso ragione di essere e premio. Dunque questi sposi non devono credere che il loro amore coniugale sia meno amore e meno coniugale a causa della sterilità.
Resta, però, una sofferenza nel loro cuore, spesso anche molto profonda. Che fare, allora?
In primo luogo, pregare perché il Signore stesso intervenga. Non dimentichiamo che molte figure, che sono centrali nella storia della salvezza, come Isacco, Samuele e Giovanni Battista, sono figli di donne sterili. Il Signore non ha perduto né la potenza di fare miracoli, né il desiderio di farli per la felicità dei suoi figli. Personalmente conosco due coppie di sposi divenuti genitori in modo che a tutt'oggi la scienza non può spiegare. I miracoli accadono anche oggi, se abbiamo fede.
Ma può essere che il Signore, nella sua misteriosa bontà, non intenda intervenire in questo modo. In questo caso, i due sposi devono chiedersi, e pregare, se il Signore non chieda loro di diventare papà e mamma di bambini abbandonati, sofferenti e privi di ogni affetto paterno e materno. Se non chieda loro, cioè, di ricorrere all'adozione.

CONCLUSIONE

Non c'è conclusione migliore alla nostra catechesi di quanto scrive il S.Padre (n.11, pag. 32).
Come è stato annunciato all'uomo che la salvezza era accaduta? "... troverete un bambino". È il grande evento che ci riempie di stupore: Dio non ha chiuso le sue viscere di misericordia, perché continua la celebrazione del suo amore creatore.

[Modificato da Caterina63 02/01/2018 14:13]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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02/01/2018 14:18
 
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La Chiesa e l’ordine morale

Saggio pubblicato nel 1976 su "L'Osservatore Romano"a presentazione della Dichiarazione della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede su alcune questioni di etica sessuale "Persona Humana"



Sac. Carlo Caffarra
Membro della Commissione Teologica Internazionale

Benché dedicata ad "alcune questioni di etica sessuale" la Dichiarazione della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede affronta, né poteva essere diversamente, problemi fondamentali della riflessione etica, soprattutto nei nn. 1-4 e 10. Lo scopo del presente studio è di offrire una riflessione teologica su questi problemi di fondo partendo dai succitati numeri della Dichiarazione.

A nostro parere, la problematica etica che inquieta la coscienza dell’uomo contemporaneo è ormai discesa fino alla radice ed alla fonte primigenia di ogni questione morale. È necessario perciò, a modo di introduzione, individuare con rigorosa precisione questo nodo problematico fondamentale che il Magistero della Chiesa ha inteso sciogliere.

È nella determinazione ultima dell’essere rispetto ad una coscienza non creatrice come quella umana che si può agevolmente inscrivere il nucleo essenziale della problematica: o l’essere procede dalla coscienza così che esso coincide con la "presenza" alla (nella) coscienza oppure la coscienza procede dall’essere. L’alternativa è tanto radicale da non ammettere nessun tertium quid ed ogni riflessione che voglia mettersi alla sua ricerca non può che essere e creare confusione. Sullo sfondo e sopra la base di questa determinazione fondamentale ed alternativa radicale del significato dell’essere si iscrive la determinazione fondamentale e l’alternativa radicale del significato bene e quindi della natura della moralità. La differenza essenziale è quella fra la tesi della sua semplice idealità: o la coscienza procede dal bene ed è coscienza del bene oppure il bene procede dalla coscienza ed è bene della coscienza. Mai l’uomo, nella sua vicenda secolare, si era trovato così chiaramente di fronte all’alternativa essenziale entro cui deve decidersi il suo destino eterno.

Da questo nodo centrale si dipartono e si dipanano tutte le fila che danno origine alla trama del dibattito etico contemporaneo.

Innanzi tutto, come già accennato, il primo problema è quello della determinazione ultima del destino dell’uomo: l’asse portante della sua vicenda temporale è il suo rapporto con la Trascendenza cioè con Dio oppure esso deve essere rovesciato nel rapporto al mondo della natura e della storia in una specie di trascendenza immanente? In secondo luogo e di conseguenza si pone il problema della determinazione ultima della libertà umana: la libertà è da concepirsi come potere di riconoscimento (o di rifiuto) del Bene e delle norme obbiettive che ne conseguono oppure come potere di costituzione del bene stesso e quindi come farsi autonomo (individualisticamente o socialisticamente inteso è qui secondario) del soggetto che esclude ogni tipo di dipendenza a legge, autorità o princìpi che non coincidano con l’assolutezza del soggetto stesso? In terzo luogo si pone allora il problema della determinazione ultima del male dell’uomo: il male è da concepirsi come rifiuto di Dio o diretto e formale oppure in scelte che infrangono la norme obbiettive che ne derivano o come un momento dialetticamente necessario nello (dello) sviluppo autonomo del soggetto?

La Chiesa in una situazione del genere non poteva tacere; essa a cui Cristo ha affidato la cura della salvezza ultima dell’uomo, soprattutto nei più poveri e deboli, frastornati da tanta confusione. Infatti "Ne è risultato che, anche tra i cristiani, insegnamenti, criteri morali e maniere di vivere, finora fedelmente conservati, sono stati nel giro di pochi anni fortemente scossi, e sono numerosi quelli che oggi, dinnanzi a tante opinioni largamente diffuse e contrarie alla dottrina che hanno ricevuto dalla Chiesa, finiscono col domandarsi quel che devono ancora ritenere per vero" (n. 1).

La Dichiarazione è una espressione di questa cura pastorale della Chiesa il cui Magistero, in forza della missione ricevuta da Cristo, intende illuminare in questo modo autorevolmente le coscienze in continuità con tutto il Magistero precedente.

Vediamo allora come si articola il suo discorso circa quei tre nodi essenziali della problematica etica contemporanea.

1. Il principio della creazione: la trascendenza metafisica

Il punto di partenza fondamentale cui fanno riferimento continuamente i nn. 3-4 è la verità cristiana della creazione che fonda la trascendenza ad un primo livello o piano, quello di ordine metafisico: Dio è Dio e l’uomo è creatura! Vediamo come in forza di questa verità di fede si determini ultimamente il destino dell’uomo ed il concetto della sua libertà come potere di riconoscimento (o rifiuto) del Bene Assoluto e delle norme obbiettive che ne conseguono, seguendo le indicazioni della Dichiarazione.

Dio, secondo la fede cristiana, ha creato il mondo e l’uomo in esso consapevolmente e liberamente (cfr. DS. 1333, 3002, 3025) ed in forza di questo gesto creativo l’uomo possiede un significato ed una vocazione. Anzi dire "possiede" è dire poco in quanto il significato in questione non si aggiunge all’essere umano già costituito ma è questo stesso essere in quanto essere partecipato cioè liberamente creato. Questo principio della creazione è di importanza decisiva per il discorso etico cristiano in quanto si ha qui la determinazione ultima del concetto di bene. Bene infatti, ancora in senso formale, è cioè a cui l’uomo tende come alla sua realizzazione piena, come a ciò dal cui possesso deriva la pienezza del suo essere. Ora se l’uomo fosse privo come tale di una finalizzazione inscritta nel suo essere stesso ma questa dovesse essere radicalmente inventata e decisa dalla sua libertà allora qualsiasi scelta sarebbe buona o cattiva a seconda dell’arbitrio umano. Se al contrario, l’uomo in forza del libero gesto creativo di Dio possiede inscritta nel suo essere stesso una finalizzazione in quanto Dio non può che agire in vista di un fine che non può essere che Egli stesso e quindi l’essere dell’uomo è un essere essenzialmente-significato, allora il Bene ultimo dell’uomo è Dio stesso è ciò a cui naturalmente tende l’uomo come a valori umani costituisce la norma obbiettiva per il raggiungimento del suo Fine. La libertà perciò non dovrà concepirsi primariamente come libertas indifferentiae o possibilità di tutte le possibilità, ma come chiamata a realizzare un senso che non è essa stessa a darsi ma che essa riceve nella obbedienza. In un passo assai denso S. Tommaso scrive: "cum omnia naturalia naturali quadam inclinatione sint inclinata in fines suos a primo motore qui est Deus oportet quod illud in quod unumquodque naturaliter inclinatur sit id quod est volitum vel intentum a Deo. Deus autem cum non habeat alium suae voluntatis finem nisi seipsum et ipse est ipsa essentia bonitatis, oportet quod omnia alia sint inclinata naturaliter in bonum" (De Veritate q. 22, a 1c).

Naturalmente, sottolinea S. Tommaso, perché la libera volontà creatrice di Dio non sopraggiunge a qualcosa che già esiste ed è già determinato come la volontà dell’arciere sopraggiunge alla freccia che già esiste e la scaglia, ma è alla radice dell’essere dell’uomo e perciò i S. Dottore aggiunge: "ratione inditi principii dicuntur omnia appetere bonum".

Poiché l’uomo è creato ad immagine di Dio in quanto è libero, (cfr. S. Th. I, II, prol.) ne consegue che alla libertà è affidata la realizzazione di questo radicale significato. La congiunzione di questa due verità, finalizzazione intrinseca dell’uomo a Dio in forza del Suo gesto creativo e libertà dell’uomo, costituisce e definisce il concetto di obbligazione etica propria dell’uomo. Ancora S. Tommaso esprime tutto questo con il massimo rigore concettuale: "Ex hoc autem apparet quod necessarium fuit homini divinitus leges dari. Sicut enim actus irrationalium creaturarum diriguntur a Deo ea ratione qua ad speciem pertinet, ita actus hominum diriguntur a Deo secundum quod ad individuum pertinent, ut ostensum est (cap. pr.). Sed actus creaturarum irrationalium, prout ad speciem pertinent diriguntur a Deo quadam naturali inclinatione quae naturam specie consequitur. Ergo supra hoc dandum est aliquid hominibus quo in suis personalibus actibus dirigantur. Et hoc dicimus legem.

Adhuc. Rationalis creatura, ut dictum est (ibid.), sic divinae providentiae subditur quod etiam similitudinem quamdam divinae providentiae participat, inquantum se in suis actibus et alia gubernare potest. Id autem quo aliquorum actus gubernantur dicitur lex. Conveniens igitur fuit hominibus a Deo legem dari…

Amplius. Cum lex nihil aliud sit quam ratio operis, cuiuslibet autem operis ratio a fine sumitur, ab eo unusquisque legis capax suscipit legem a quo ad finem perducitur… Sed creatura rationalis finem suum ultimum in Deo et a Deo consequitur… Fuit igitur conveniens a Deo legem hominibus dari. Hinc est quod dicitur. Ier. 31, 33: Dabo legem meam in visceribus eorum et Oseae 8, 12: Scibam eis multiplices leges meas" (C. Gentes Lib. III, cap. CXIV).

E perciò assai giustamente la Dichiarazione inizia proprio così il suo discorso: "Gli uomini del nostro tempo sono sempre più persuasi che la dignità e la vocazione della persona umana richiedono che, alla luce della loro ragione, essi scoprano i valori inscritti nella loro natura, che li sviluppino incessantemente e li realizzino nella loro vita, in vista di un sempre maggiore progresso.

Ma, in materia morale, l’uomo non può emettere giudizi di valore secondo il suo personale arbitrio: nell’intimo del propria coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi e alla quale deve obbedire. Egli ha una legge scritta da Dio dentro il suo cuore, obbedire alla quale è la dignità stessa dell’uomo e secondo la quale egli sarà giudicato" (n. 3).

Su questa base la nostra riflessione esige allora di coerentemente continuarsi e completarsi. Poiché dunque l’uomo è realtà ontologicamente finalizzata in quanto liberamente creato da Dio e porta in sé inscritta una vocazione, gli elementi costitutivi e le relazioni essenziali di ogni persona umana diventano per la libertà umana valori che si impongono alla libertà stessa come valori da realizzare e sviluppare (facienda). Valori al plurale in quanto l’uomo è una realtà complessa. Si ha qui ancora una volta un esempio del mirabile equilibrio del discorso cristiano che respinge sia una visione fisicistica o cosmicistica della legge naturale sia una concezione della libertà umana come pura possibilità di tutte le possibilità. Non la natura umana come tale infatti si impone all’uomo (la concezione di una morale naturale "etsi Deus non daretur" è miseramente fallita) ma in quanto è espressione del progetto creativo di Dio (ed il concetto classico di legge naturale è questo, partecipazione formale cioè consapevole alla legge eterna di Dio) e dall’altra parte la libertà umana non è come tale il prius ontologico (Urseyn, Schelling in Philosophisce Untersuchungen ueber das Wesen der menschlichen Freheit, Werk Abt. I, Bd. 7, p. 370) ma le sue decisioni avvengono davanti ad una distinzione assoluta che le precede e le giudica, di vero e di falso, di bene e di male. E pertanto coerentemente la Dichiarazione continua: "Non può, dunque, esserci vera promozione della dignità dell’uomo se non nel rispetto dell’ordine essenziale della sua natura. Certo, nella storia della civiltà, molte condizioni concrete ed esigenze della vita umana sono mutate e muteranno ancora; ma ogni evoluzione dei costumi e ogni genere di vita devono essere contenuti nei limiti imposti dai principi immutabili, fondati sugli elementi costitutivi e le relazioni essenziali di ogni persona umana: elementi e relazioni che trascendono le contingenze storiche" (ibid.).

Quando va in crisi il principio della creazione e con esso la trascendenza metafisica, inevitabilmente anche il concetto vero di obbligazione etica si oscura così come il conseguente concetto di norme morali oggettive, immutabili ed universali diventa incomprensibile. Infatti nella misura in cui l’uomo nega il suo essere creato da Dio (e la crisi comincia col nominalismo per compiersi nella speculazione hegeliana) avviene un cambiamento radicale nella rotta dell’esistenza in quanto questa non si concepisce più come "chiamata da e a Dio" cioè come obbedienza ma come autonomia assoluta. E in questo contesto non possono più esistere valori che si impongono alla libertà ma è bene ciò che è costituito tale dalla stessa. Parlare di "legge naturale" e "norme obbiettive, assolute ed immutabili", è, fuori dalla prospettiva creazionistica, incomprensibile in quanto non può che suonare riduzione dell’uomo a pura "physis"; parlare di "oggettività" diventa impossibile dal momento che la negazione della trascendenza metafisica è finita logicamente col far coincidere l’essere con la (nella) presenza di (alla) coscienza così come di "assolutezza" in quanto, come Hegel ha magistralmente esposto nella breve Einleitung alla Fenomenologia dello Spirito, la coscienza è per se stessa il suo concetto, dà a se stessa la sua misura ed il suo stesso muoversi ed attuarsi è la sua prova di verità. Nel già citato scritto Schelling esprime molto bene questo radicale spostamento di asse della vita spirituale dell’uomo (Wendepunkt): "Es gibt in der letzten und hoechsten Instanz gar kein anderes Seyn als Wollen. Wollen ist Urseyn, un auf dieses passen alle Praedikate desselben: Grundlosigkeit, Ewigkeit, Unabhaegikeit von der Zeit, Selbstbejahung".

E già S. Kierkegaard aveva notato che in questo contesto continuare ancora a parlare di cose come obbligo morale e simili non era più serio dei colpi che si dava da solo Sancho Panza! (cfr. Diario, 1850, X2 A 396).

A questo punto il discorso fra teologi si fa estremamente serio. Infatti l’intelligenza umana e teologica ha i suoi diritti di coerenza: come è possibile accettare dal pensiero moderno la negazione di una legge naturale dalle norme obbiettive, assolute ed immutabili per salvare, si dice, la storicità dell’uomo senza rendersi sufficientemente conto che la affermazione di esse è conseguenza del principio della creazione così come la loro negazione è frutto della negazione della trascendenza metafisica? Voler elaborare un tertium quid nel tentativo di far coesistere in unità le due prospettive contrastanti non può essere che un tertium confusionis.

Nonostante le apparenze, solo il principio della creazione e la trascendenza metafisica salva appieno la storicità dell’uomo senza cadere nella contraddizione e nell’eresia (negazione della creazione) di identificare l’essere con il puro divenire. Infatti compito della libertà umana è di realizzare un compito senza fine chiamata come è, in forza del gesto creativo, a partecipare (amare e, se si vuole, imitare) l’infinita Realtà divina di cui l’uomo è chiamato ad essere immagine. Il "reditus in Deum" si realizza come movimento ascensionale e non come ripetizione mimetica. Pensare perciò che il principio della creazione e la conseguente affermazione di norme morali obbiettive, assolute ed immutabili sia negatrice della storia è non pensare affatto ma stare alle immagini perché il pensiero dice esattamente il contrario. La negazione della storia avviene invece in una prospettiva non creazionista in quanto in questo caso la storia non potrà che essere pensata o come puro sperimentare o come svolgimento necessario. Il tentativo hegeliano e poi marxista di pensare la storia fuori del principio della creazione è finito nella negazione della stessa e della libertà dell’uomo.

2. Il principio cristologico: la trascendenza storica

È una verità affermata esplicitamente dal Nuovo Testamento che la creazione è avvenuta nel e per il Cristo (cfr. Giov. 1, 5; Col. 1, 16-17; Ebr. 1, 2-3) così che la Dichiarazione nel già citato e fondamentale n. 3 afferma: "Inoltre, a noi cristiani, Dio mediante la sua rivelazione ha fatto conoscere il suo disegno di salvezza e ha proposto il Cristo, Salvatore e Santificatore, nella sua dottrina e nel suo esempio, come la norma suprema e immutabile della vita, Lui, il quale ha detto: Io sono la luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita".

Si ha qui la trascendenza teologica, la trascendenza alla seconda potenza potremmo dire, Dio nel tempo, ed il secondo momento essenziale del discorso etico cristiano.

Dal punto di vista etico, come afferma la Dichiarazione, il Cristo è l’oggettiva, immutabile e definitiva rivelazione del progetto di Dio, è la Legge del cristiano. È il grande tema neo-testamentario della "sequela Christi".

Anche nel dibattito teologico contemporaneo, come l’assunzione non sufficientemente critica della categoria di storicità ha messo spesso in crisi la trascendenza metafisica così la stessa assunzione ha finito spesso e coerentemente col mettere in crisi anche la trascendenza storica riducendo abusivamente l’oggettività e definitività dell’Evento Cristo. La Dichiarazione infatti continua: "A torto, quindi, molti oggi pretendono che, per servire di regola alle azioni particolari, non si possa trovare né nella natura umana né nella legge rivelata altra norma assoluta e immutabile, se non quella che si esprime nella legge generale della carità e del rispetto della dignità umana. A prova di questa asserzione essi sostengono che nelle cosiddette norme della legge naturale o precetti della S. Scrittura, non si deve vedere altro che determinate espressioni di una forma di cultura particolare in un certo momento della storia" (n. 4).

Il problema è oggi fra i più gravi e merita una attenta considerazione. Al riguardo più che scendere alla discussione di singoli problemi, ci pare più importante e più conforme all’intento di questo studio ripensare la Struttura teologica di questa trascendenza alla seconda potenza, come l’abbiamo chiamata.

L’aggancio fondamentale e l’inserzione nella storia umana della Rivelazione di Dio in Cristo è stato operato dalla predicazione apostolica in quanto gli apostoli sono stati in contatto con il Padre divenuto visibile in Cristo. Per questo la loro predicazione resta la testimonianza assolutamente insuperabile della Verità e della Legge di Cristo e nessuno può sostituirsi ad essi senza distruggere la Rivelazione (cfr. S. Ireneo, Ad. Haer. III, 15, 2). Essi adempirono la loro missione quando " nella predicazione orale, con gli esempi e le istituzioni, trasmisero sia ciò che avevano ricevuto dalle labbra, dalle opere e dal loro vivere insieme con Lui sia ciò che avevano imparato per suggerimento dello Spirito Santo" e quando essi o uomini della loro cerchia "per ispirazione dello Spirito Santo misero in iscritto l’annuncio della salvezza" (Con. Vat. II, Cost. dogm. Dei Verbum n. 7). È questa predicazione apostolica, "che è espressa in modo speciale nei libri ispirati" (ibid. n. 8), la norma di fede e di vita per il cristiano. Essa pertanto viene come depositata nella Chiesa che, guidata dallo Spirito Santo, l’accoglie, la fa propria meditandola, comprendendola e vivendola, esplicitandone così tutte le ricchezze infinite. E si continua così, anche in questo modo, il "tradidit semetipsum" del Cristo il quale è il "traditum" della "traditio apostolica". La Chiesa, nella sua accoglienza di questo, trova in Maria il suo "typus" (cfr. Conc. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium n. 63) in quanto non elabora autonomamente progetti di vita, ma tutta la sua esistenza è con-senso alla parola di Dio che le viene trasmessa dalla predicazione apostolica.

La trascendenza alla seconda potenza si mostra ormai nella sua struttura. Essa consiste fondamentalmente nello stesso Mistero del Verbo Incarnato il quale "invisibilis in suis, visibilis factus est in nostris; incomprehensibilis voluit comprehendi; ante tempora manens, esse coepit ex tempore; universitatis Dominus servilem formam, obumbrata maiestatis suae dignitate, suscepit; impassibilis Deus non dedignatus est homo esse passibilis et immortalis mortis legi subiacere" (S. Leone Magno, in Nativitate Domini sermo II, 2; ed. SC 22, p. 78).

Essa si continua perciò nel fatto che dentro al tempo è de-posta (depositum fidei) per sempre la Verità e la Legge stessa di Dio; viene negata quando si riduce la predicazione apostolica e la sua continuazione nel Magistero a puro evento storico.

La permanenza del de-positum apostolico nella Chiesa che ne vive è assicurata dalla successione apostolica cui è stato affidato il compito di interpretare autenticamente la parola di Dio scritta o trasmessa.

E così questo ultimo elemento della trascendenza nella storia ne compie la struttura così che la Verità e la Legge di Cristo vengono donate all’uomo mediante una "costellazione" di tre grandezze inseparabilmente unite fra loro: S. Scrittura - Tradizione - Magistero. Pensare di raggiungere la Rivelazione di Dio in Cristo trasmessaci dagli Apostoli per altra strada fuori da quella indicata da quella costellazione è mettersi su una strada sbagliata (cfr. S. Ireneo, Adv. Haer. IV, 26, 2).

Quale è la rilevanza di questa struttura nei confronti del discorso etico cristiano? Essa può essere pensata sia in forma negativa che in forma positiva.

Positivamente, la coscienza e la libertà del credente trova nel Cristo così come gli è annunciato dalla predicazione apostolica trasmessagli da S. Scrittura - Tradizione - Magistero la sua norma di vita. La trascendenza metafisica trova una soprannaturale attuazione nella trascendenza storica e la libertà che deve essere pensata come potere di riconoscimento e non di costituzione del Bene e delle norme obbiettive che ne conseguono si realizza soprannaturalmente come riconoscimento e consenso della e alla Legge di Cristo indicatagli dalla costellazione S. Scrittura - Tradizione - Magistero. In quanto poi il Cristo compie tutto l’ordine della creazione ed il credente è chiamato a vivere nel Cristo dentro ad esso aspettando la beata speranza e l’avvento del Signore, coloro a cui è affidato il compito di interpretare autenticamente la parola di Dio scritta o trasmessa hanno per ciò stesso il compito di interpretare autenticamente anche i princìpi dell’ordine morale che scaturiscono, come si diceva, dalla stessa natura umana in quanto creata. Da un punto di vista teologico perciò il problema della esistenza o meno di norme naturali o rivelate non puramente formali ed aventi valore assoluto ed immutabile si identifica col problema della presenza o meno della loro affermazione dentro al de-positum apostolico trasmesso da S. Scrittura - Tradizione - Magistero. Assai propriamente perciò la Dichiarazione termina il n. 4 dicendo: "Inoltre, Cristo ha istituito la sua Chiesa come colonna e sostegno della verità. Con l’assistenza dello Spirito Santo, essa conserva incessantemente e trasmette senza errore le verità dell’ordine morale, e interpreta autenticamente non soltanto la legge positiva rivelata, ma anche i principi dell’ordine morale che scaturiscono dalla stessa natura umana e che concernono il pieno sviluppo e la santificazione dell’uomo. Ora di fatto, la Chiesa, nel corso della sua storia, ha costantemente considerato un certo numero di precetti della legge naturale come aventi valore assoluto e immutabile, e ha visto nella loro trasgressione una contraddizione con la dottrina e lo spirito del Vangelo".

Negativamente la trascendenza storica cessa di esercitare la sua rilevanza quando la libertà e la decisione del cristiano vengono pensate all’infuori della sua struttura completa. E ciò avviene sia quando viene negata o si oscura la trascendenza metafisica sia quando si introduce nel pensiero cristiano il fenomeno della "etero-interpretazione" del Dato Rivelato. Questo consiste nell’assunzione di un criterio ermeneutico normativo diverso da quello posto dal Cristo, cioè il Magistero, al quale solo compete la interpretazione autentica e perciò normativa, o richiamandosi di volta in volta a rivelazioni avute per altra via che per la predicazione degli apostoli, continuata dai loro legittimi successori oppure richiamandosi a comprensioni umane (quali per es.: in morlae al marxismo o al freudianesimo) ritenendole criterio ultimo di verità. Il fenomeno della etero-interpretazione ha due conseguenze: da una parte rifiuta la predicazione apostolica come norma insuperabile della fede e dall’altra rifiuta la successione apostolica ed il ministero episcopale e primaziale come luogo in cui risuona sempre la testimonianza e la predicazione apostolica vedendo sempre e comunque la loro predicazione una espressione di una cultura particolare in un certo momento storico non avente perciò alcun valore normativo. Questo fenomeno ha alla base un errore formidabile perché costituisce la totale negazione del cristianesimo: la negazione della esistenza della Trascendenza dentro alla storia (mistero della Incarnazione) in quanto l’unica trascendenza è fatta consistere, dal punto di vista morale, in norme puramente formali che, anche se pure presenti nella Rivelazione, vengono ricondotte pienamente alla spontaneità del soggetto e quindi immanenti. La sferzante osservazione di Kierkegaard torna ancora in mente: si può anche allora continuare a parlare di Trascendenza nella storia, di Legge di Dio rivelata in Cristo, ma la cosa ha perso ogni serietà.

Tenendo presente quanto si diceva nel primo punto di questo studio allora ci permettiamo di esprimere una nostra convinzione: tutta l’attuale confusione in teologia morale dipende dal fatto forse di aver confuso o identificato il concetto classico di trascendenza con il trascendentale kantiano e post-kantiano che finisce inevitabilmente coll’affermare il primato della soggettività sull’oggettività e sulla trascendenza sia alla prima che alla seconda potenza.

3. Il principio pneumatologico: la libertà cristiana

La caratteristica fondamentale della Nuova Alleanza, come era già stato preannunciato dai profeti (cfr. Ger. 32, 38-40; Ez. 11, 19-20; 36, 26-29), consiste nel dono dello Spirito fatto ad ogni credente (cfr. At. 2, 14-21): questa affermazione è il terzo momento fondamentale del discorso etico cristiano.

   continua..........

[Modificato da Caterina63 02/01/2018 14:20]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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02/01/2018 14:22
 
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In forza di questo dono il credente viene a godere della perfetta libertà (cfr. Gal. 4, 1-7; 28-31; Rom. 8) in quanto lo Spirito è il principio interiore ed ultimo dell’agire cristiano.

Questo tema neo-testamentario costituisce nella sua unità con il principio della creazione e cristologico l’ultimo momento per la determinazione della libertà.

Innanzi tutto occorre tener presente che per il Nuovo Testamento lo Spirito è lo Spirito di Cristo in quanto esso ci viene donato dal Signore e ci introduce sempre più profondamente nella comprensione della Sua Rivelazione. È del tutto estranea al Nuovo Testamento l’idea di una guida dello Spirito che conduca il credente fuori o contro la Rivelazione di Dio in Cristo ma anzi esso viene sempre presentato come quel principio interiore che, liberandoci dal nostro cuore di pietra, ci aiuta e spinge a vivere secondo e nel Cristo. Ne consegue che la Verità e la Legge di Dio in Cristo non si pone solo all’esterno (su tavole di pietra) ma anche nell’interno dell’uomo (scritta nel cuore): quella stessa Rivelazione che oggettivamente accade in Cristo e viene trasmessa dalla predicazione apostolica fedelmente conservata da S. Scrittura - Tradizione - Magistero (secondo il modo proprio di ciascuna di queste realtà) viene soggettivamente compresa, accolta e vissuta in forza dello Spirito donato al credente. È la distinzione-relazione (non identità, non separazione) classica fra fides quae e fides qua.

Dal punto di vista etico questo dato neo-testamentario è di una importanza decisiva. La liberazione dalla legge, che è uno degli effetti fondamentali dello Spirito, non è da comprendersi come potere di fare arbitrariamente ciò che si vuole, ma di fare ciò che si vuole facendo ciò che si deve: questa chiarificazione è già stata data esplicitamente dal Nuovo Testamento. Con il solito rigore e la solita chiarezza S. Tommaso scrive al riguardo: "…amicitiae proprium est consentire amico in his quae vult. Voluntas autem Dei nobis per praecepta ipsius explicatur. Pertinet igitur ad amore quo Deum diligimus ut eius mandata impleamus secundum illud Ioan. 14, 15: si diligitis me, mandata mea servate. Unde cum per Spiritum Sanctum Dei amatores constituamur, per ipsum etiam quadammodo agimur ut praecepta Dei impleamus… Cum igitur Spiritus Sanctus per amorem voluntatem inclinet in verum bonum, in quod naturaliter ordinatur, tollit et servitutem qua homo servus passionis et peccati effectus, contra ordinem voluntatis agit, et servitutem qua, contra motum suae voluntatis, secundum legem agit, quasi legis servus, non amicus" (C. Gentes, Lib. IV, cap. XXII).

E per questo, come insegna S. Paolo, le opere della legge diventano nel credente frutto dello Spirito. Richiamarsi perciò allo Spirito per proporre un’etica priva di qualsiasi norma oggettiva ed assoluta è semplicemente porsi fuori della fede.

Ed a questo punto possiamo allora tentare la determinazione teologica essenziale della libertà umana e cristiana sia in modo positivo che negativo, perché dentro alla coscienza dell’uomo di oggi si scontrano due opposte, radicalmente opposte, concezioni ed esperienze di libertà.

Radicalmente la libertà è da concepirsi e viversi, sulla base della trascendenza metafisica, come potere di riconoscimento (o di rifiuto) del Bene e delle norme obiettive che ne conseguono e non come potere di costituzione del Bene stesso e delle norme. La scolastica formalistica ha perciò sbagliato quando ha definito la libertà primariamente come libertas indifferentiae: errore da cui poi il pensiero moderno è arrivato alla definizione di libertà come prius ontologico (Urseyn). È l’errore del primato della soggettività ossia della coscienza del singolo sull’oggettività e sull’esigenza e scala metafisica dei valori, l’errore che ha portato all’unificazione (identità dialettica) di verità e libertà. L’oblio del fondamento nella sfera dell’essere comporta inevitabilmente l’oblio del fondamento ultimo dell’agire colla conseguente impossibilità per l’uomo, nonostante le apparenze, di costituirsi veramente come soggetto libero. Le inquietanti esperienze storiche e politiche di questo secolo danno una tragica conferma di questa inevitabile conseguenza.

Per il cristiano questa prima determinazione della libertà è chiamata ad attuarsi storicamente come decisione di accettazione (o di rifiuto) del "paradosso" della trascendenza alla seconda potenza in tutta la sua estensione: Dio nel tempo, Cristo che si presenta come norma assoluta ed ultima, trasmessaci ed annunciata dalla Chiesa adunata attorno alla predicazione apostolica sempre fedelmente conservata ed esposta attraverso il Magistero dei legittimi successori degli Apostoli. La decisione pertanto ha per oggetto Cristo-norma ultima di vita che ci è annunciato dalla autorità apostolica che si continua nella successione e pertanto l’accettazione o meno di questa categoria di "autorità" discrimina l’autentica soggettività da quella falsa in quanto assicura fino in fondo il primato dell’Oggetto Immenso, Dio rivelato in Cristo, nei confronti di qualsiasi altro tentativo di assoggettarLo alle comprensioni e decisioni del soggetto. Già Paolo, nella lettera ai Galati, metteva in guardia i cristiani dal richiamarsi alla libertà dello Spirito contro l’autorità apostolica.

Lo Spirito rende capace l’uomo di questo decidersi e quindi con e nel dono di Esso nasce in senso pieno l’uomo come soggetto cioè come libero di libertà piena. È perciò una libertà cristiana in quanto è una partecipazione alla stessa libertà di Cristo come soprattutto è contemplata dal quarto evangelista, perfetta unità di obbedienza al Padre e soggettività. È una libertà che la Chiesa contempla realizzata in Maria: libera completamente perché infinita disponibilità per l’Infinito. È una libertà ecclesiale: liberazione dalla soggettività ingabbiata dentro al cerchio della immanenza, apertura al con-senso ecclesiale (mariano) e inserimento in esso, interamente plasmabile da Dio, pura passività che è la più alta attività.

Giustamente la Dichiarazione sottolinea al n. 12 come questa libertà sia frutto di una conversione continua.

4. Il male umano e il peccato

La riflessione teologica sul peccato costituisce un altro fondamentale momento della problematica attuale e merita particolare attenzione. Ad essa la Dichiarazione dedica tutto il n. 10.

La difficoltà in cui è entrato questo punto essenziale del discorso cristiano è dovuta soprattutto, ci pare, a quello spostamento di asse della vita spirituale dell’uomo accaduta nella storia moderna in forza del quale la trascendenza non è più elevazione a Dio ma l’apertura dell’uomo al mondo che costituisce la totalità dell’orizzonte umano.

L’espressione più compiuta e decisiva della negazione contemporanea della realtà del peccato è offerta dalla riflessione hegeliana (cfr. soprattutto Vorlesungen ueber die Philosophie der Religion, III, 1: Die absolute Religion, Leipzig 1929, p. 121 ss.) secondo la quale la categoria di peccato e quella contrapposta di bene non è che la "rappresentazione" religiosa di un "concetto" metafisico nel quale essa va superata e tolta, il concetto di dialettica come legge fondamentale del reale. Così il peccato non è più una categoria etica e religiosa appartenente al mondo della libertà, ma è il momento dialetticamente necessario del negativo. Esso perciò è coestensivo all’essere; anzi, esso sta a fondamento della verità e del valore dell’essere che non potrebbe divenire e farsi senza la negazione che gli si contrappone.

Una volta che la speculazione hegeliana sia stata spogliata da ogni vernice (pseudo) teologica, come avverrà nella cosiddetta sinistra hegeliana, il male e il peccato diventano semplicemente il momento negativo, cristallizzato in istituzioni oggettive, attraverso cui la società umana deve passare e che deve superare mediante l’impegno politico di trasformazione del sociale. Così la salvezza e liberazione dal male appare come opera storica dell’uomo che col suo impegno socio-politico deve superare le contraddizioni inerenti e immanenti alla storia. A questo punto ormai qualsiasi valenza etica e religiosa è stata tolta al concetto di male e il concetto stesso di peccato è scomparso. Evidentemente in questa prospettiva, come già nel suo lontano antenato che è lo gnosticismo antico, il racconto biblico della caduta originale e l’interpretazione data di essa dalla Chiesa è un "mito", un adattamento popolare che esprime una verità di carattere metafisico (una storia eterna, la chiamerà Hegel nel citato scritto) e cioè la conquista che l’uomo fa della sua libertà attraverso la negazione della situazione data: bene e male sono poli opposti e necessari della tensione originaria in cui si afferma la libertà.

Questa concezione del male umano, radicalmente contraria alla fede, è spesso alla base di molti movimenti di "cristiani per il socialismo".

Invece si può parlare di peccato solo, innanzi tutto, sulla base della trascendenza metafisica o del principio della creazione: se alla base del discorso sul peccato non si mette al sicuro questa verità di fede il peccato finisce collo svaporare dentro alla necessità del divenire della soggettività umana cioè collo scomparire.

Infatti, come già si è detto, l’uomo non è un momento necessario dello sviluppo di Dio, ma è frutto di un gesto creativo assolutamente libero. E l’uomo in quanto creato liberamente ha ricevuto una legge da Dio inscritta nel suo proprio essere per il conseguimento del suo ultimo fine che è Dio stesso. In quanto natura spirituale, l’uomo gode libertà di scelta anche di fronte a Dio, ed è questa scelta l’atto più decisivo del suo destino ultimo. Nella sua scelta l’uomo qualifica il proprio essere in maniera radicalmente diversa a seconda che scelga Dio come suo ultimo fine oppure il suo essere-nel-tempo come orizzonte definitivo della sua esistenza. È solo in questo contesto che si può parlare di peccato; se ne può parlare cioè in senso autentico soltanto davanti a Dio secondo un rapporto rigorosa di persona spirituale fra Dio e l’uomo. Anche qui si nota la distanza infinita fra una concezione creazionistica e una concezione non creazionistica (monistica, dualistica o atea): questa risolve il peccato nella finitezza dell’essere, nella negatività della coscienza, in un momento dialetticamente necessario del suo divenire mentre quella lo concepisce come la rottura del rapporto con Dio di cui l’uomo è responsabile come singolo davanti a Dio. Anche in questo contesto si vede come effettivamente solo la prima prospettiva sia capace di prendere sul serio fino in fondo la libertà e la storicità dell’uomo ed il suo divenire.

Da questa base si dipartono alcune contestazioni cristiane ad alcune affermazioni oggi comuni e che spesso hanno inquinato anche il discorso teologico. Il male e il peccato è un evento che accade dentro al soggetto perché nasce dalla libertà del singolo davanti a Dio e perciò la sua liberazione non potrà primariamente consistere nel cambiamento delle strutture ma nella conversione del cuore: dimenticare questo è una grave illusione.

Dentro a questo primo contesto che assicura il rapporto uomo-Dio come rapporto di libertà (Dio crea liberamente, l’uomo è chiamato a scegliere liberamente Dio come suo fine ultimo), la trascendenza nella storia, la Rivelazione di Dio in Cristo, rivela pienamente "quanti ponderis sit peccatum" (S. Anselmo, Cur Deus homo 1, 21; ed. Schmitt II, 88Z, 18). In questa luce il peccato assume il volto di un rifiuto dell’Amore di Dio rivelato pienamente nel Cuore trafitto del Crocefisso.

A questo punto sorge un ulteriore problema teologico, il problema del rapporto fra la scelta di libero rifiuto di Dio e l’azione concreta in cui si incarna o, che è lo stesso, il rapporto fra la decisione del singolo davanti a Dio e la disobbedienza alle norme morali oppure, ancora, del modo con cui l’uomo si rifiuta a Dio. È su questo problema che il cit. n. 10 si ferma in modo particolare.

La soluzione a questo problema teologico dipende da alcuni presupposti teologici che è necessario esplicitare.

Primo: unità sostanziale dell’anima e del corpo. È una verità di fede (cfr. DS. 902, 1440) assai importante per l’antropologia cristiana che fra l’anima e il corpo esiste una unità sostanziale perfettiva anche dell’animo. Una conseguenza di questa affermazione è che la genesi dell’umano non è da intendersi idealisticamente come l’emergere della pura coscienza spirituale attraverso le sue rappresentazioni ma come il fine dell’uomo attraverso singoli atti che posseggono una loro specificità propria. In forza di questa unità cioè l’uomo non è solo progetto spirituale, ma è progetto che si disegna ed attua e si distende nel tempo cioè mediante singoli atti. Rifiutarsi di porsi il problema etico del singolo atto secondo il suo oggetto proprio e la sua natura è destoricizzare l’uomo è, non accettare pienamente l’unità sostanziale dell’anima col corpo.

Secondo: l’atto si qualifica eticamente ratione obiecti seu naturae suae innanzi tutto. È questa una tesi che oggi viene messa in discussione anche da teologi cattolici, tuttavia riteniamo che essa non possa essere negata senza temerarietà. Possiamo individuarne il significato inserendola nel principio della creazione. In forza, si diceva, del gesto creativo di Dio l’essere dell’uomo porta inscritto in sé, nei suoi elementi costitutivi, il progetto stesso di Dio: anzi dal punto di vista etico l’uomo è questa partecipazione formale alla legge eterna di Dio così come dal punto di vista metafisico è partecipazione all’Essere stesso di Dio. Ne consegue che, come diceva S. Tommaso, "omnia illa facienda vel vitanda pertineant ad praecepta legis naturae quae ratio practica apprehendit esse bona humana" (I, II, q. 94, a. 2): ragione umana illuminata, corretta e compiuta dalla Rivelazione di Dio in Cristo. Ora la ragione dell’uomo non è una facoltà creatrice ma scopritrice del vero cioè, nel caso, del rapporto esistente fra una azione e le "inclinationes naturales" e quindi i "bona humana" e quindi fra una azione e la legge stessa di Dio. In un testo assai ricco di significato S. Tommaso scrive: "…res naturales, ex quibus intellectus noster scientiam accipit mensurant intellectum nostrum… sed sunt mensuratae ab intellectu divino in quo sunt omnia creata… Sic ergo intellectus divinus est mensurans non mensuratus; res autem naturalis, mensurans et mensurata; sed intellectus noster est mensuratus non mensurans quidem res naturales, sed artificiales tantum" (De Veritate, q. 1, a. 2c).

Solo nel campo dell’artificialità, oggi diremmo della tecnica, l’uomo è in un certo senso creativo (homo faber), ma nel campo dell’agire l’uomo è chiamato a realizzarsi secondo il progetto di Dio (homo sapiens). Ne consegue perciò che ogni azione come tale (ratione sui obiecti) si pone in un rapporto di conformità o difformità colle norme morali che la ragione scopre e non inventa. Ed in forza di questo rapporto oggettivo, prima ancora di considerare circostanze o fine, l’atto viene ad essere eticamente qualificato come onesto o disonesto.

Terzo: rifiuto della riduzione della verità alla libertà, dell’intelletto alla volontà. Il passo tomista testé citato ci indica dove si annida l’errore di chi nega il secondo presupposto. Dire che la qualificazione ex obiecto non ha connotazione etica ma solo per sé fisica, come fanno alcuni teologi cattolici, indicando solo quali sono i "mala physica" per l’uomo mentre la qualificazione proverrebbe dalla intenzione del soggetto o dal rapporto formale ed esplicito con Dio, (opzione fondamentale) è quanto meno assai ambiguo. Se infatti si intende dire che l’azione nella sua oggettività è indifferente come tale dal punto di vista etico e che la qualificazione viene solo dalla decisione profonda della libertà, l’affermazione è falsa da due punti di vista: è falsa perché pensa allo spirito dell’uomo non come ad uno spirito unito sostanzialmente al corpo e quindi non prende sul serio la storicità dell’uomo ed è falsa perché attribuisce alla libertà umana il potere di decidere in ultima analisi quali siano realmente i "bona humana" riducendo così la verità alla libertà. Ricompare sotto altra forma lo stesso errore della confusione del trascendente con il trascendentale kantiano e post-kantiano che porta al primato del soggettivo sull’oggettivo: l’unica norma assoluta è puramente formale e coincide con il dinamismo spontaneo dello spirito mentre i contenuti vengono decisi dalla libertà. Se invece si intende dire che la sola e semplice violazione obiettiva della norma non è come tale sufficiente da sola per parlare di colpa del soggetto, allora la tesi è vera ma genera confusione formulata in questo modo, in quanto si è passati in un altro campo distinto: si parla allora di imputabilità soggettiva.

Dalla accettazione dei primi due presupposti e dal rifiuto della identificazione di cui nel terzo consegue allora che il singolo davanti a Dio pecca mortalmente non solo quando rifiuta formalmente e direttamente Dio ma anche quando pone in essere una azione che si oppone, in materia grave, alle norme morali poiché in questa azione è incluso quel rifiuto. E perciò giustamente la Dichiarazione insegna: "L’uomo pecca, dunque, mortalmente non soltanto quando il suo atto procede dal disprezzo diretto di Dio e del prossimo, ma anche quando coscientemente e liberamente, per un qualsiasi motivo, egli compie una scelta il cui oggetto è gravemente disordinato" (n. 10).

5. La Chiesa e l’ordine morale

Come già dicevamo, la Dichiarazione è una espressione di quel servizio pastorale che la Chiesa rende al mondo attraverso il suo Magistero.

Compito fondamentale di questo Magistero è quello di interpretare autenticamente la Parola di Dio sia nel campo della fede che dei costumi, annunciando autorevolmente non solo la legge divina positiva ma anche quella naturale.

Questo compito nella situazione attuale è particolarmente grave ed urgente, anzi — per certi aspetti — mai è stato tanto grave ed urgente. Infatti la malattia più grave che ha investito l’uomo di oggi è una malattia della intelligenza in quanto essa non si apre più alla Trascendenza ma è andata sempre più rinchiudendosi dentro la finitezza dell’immanenza. In questa prigione l’uomo sembra aver smarrito la strada che lo porta verso la Verità e i valori etici si sono come schiodati.

Quali sono i segni di questa malattia dell’intelligenza dell’uomo di oggi? Innanzi tutto l’elevazione del dubbio a segno ultimo della dignità dell’intelligenza così da considerare il bisogno delle certezze supreme come povertà interiore, segno di uno stadio infantile e finendo con l’identificare la certezza del vero oggettivo come catena della libertà. E così l’intelligenza ha finito col chiudersi al mondo fenomenico senza più una ricerca del fondamento ultimo anzi finendo — tragica contraddizione — coll’identificare l’essere col divenire, affermando l’autonomia e l’originarietà di questo emergere e reimmergersi dell’essere dal nulla e nel nulla. L’unica possibilità che gli resta allora sono le "res artificiales" direbbe Tommaso, è la tecnica, come dominio e manipolazione del reale, col risultato di possedere infiniti mezzi senza più conoscere i fini per cui usarli. L’intelligenza è divenuta solo intelligenza dell’artificialis, nel senso tomista, così che il sapere scientifico è l’unico sapere ritenuto tale.

Sul terreno di una intelligenza così mortalmente ammalata, anche la libertà, esiliata dalla sua patria naturale che è il rapporto col Trascendente, ha finito col ridursi a pura possibilità di tutte le possibilità. E già assai acutamente S. Kierkegaard aveva notato che questa concezione della libertà non può che portare alla disperazione in quanto il creare singoli significati non riceve più valore da un Senso ultimo e definitivo: è quella malattia che tutti i grandi maestri della vita interiore cristiana avevano così finemente diagnosticato quando parlavano di taedium vitae derivante dalla distrazione e dalla curiosità, nel senso forte che essi davano a queste parole. È merito indubbio di Heidegger l’aver definitivamente chiarito che l’unico significato reale dell’essere per l’intelligenza dell’uomo di oggi allora non può darsi che nell’orizzonte del tempo che è sempre ed unicamente tempo umano così che la libertà si chiude completamente dentro la finitezza. Questa non è più il luogo in cui si decide il singolo davanti a Dio ma solo il luogo in cui si decide davanti al mondo, alla storia, alla società.

Il male dell’intelligenza e la conseguente corruzione del concetto di libertà ha finito coerentemente prima nell’immoralismo, nel considerare cioè bene e male come momenti dialetticamente necessari per lo sviluppo autonomo del soggetto, e poi nell’amoralismo, nel considerare cioè bene e male come categorie non aventi più significato nessun proprio. Unica realtà è il farsi dell’uomo dentro alla storia e alla società, guidato solo dal criterio della efficacità: tutta la realtà, sia come natura che come storia, deve essere compresa solo come mondo umano ossia come realizzazione pura che l’uomo fa delle sue aspirazioni, dei suoi progetti. È il mondo come volontà e rappresentazione (Die Welt als Wille und Vorstellung), come lotta di classe (Klas-senkampf) come identità di verità e libertà, come prassi criterio ultimo di verità.

Dentro a questo contesto il primo compito della Chiesa ed in modo particolare del Magistero, è quello di servire l’uomo di oggi, di salvare l’uomo dalla malattia della sua intelligenza. In che modo? e perché soprattutto il Magistero?

Il primo servizio è quello di illuminare l’uomo di oggi, di mostrargli il cammino verso la Trascendenza che egli sembra aver smarrito. Nel campo morale ciò significa la necessità di richiamare con grande chiarezza i fondamenti stessi dell’ordine etico contestando sia la determinazione ultima immanentistica del destino umano sia la concezione corrotta di libertà come possibilità di tutte le possibilità e del contrario di tutte sia la identificazione (dialettica) di bene e male attraverso la chiara riproposizione di Dio come fine ultimo dell’uomo e che si è rivelato in Cristo della libertà come potere di riconoscere il bene e le norme obiettive che ne discendono iscritte nell’essere umano compiutamente rivelato nel Cristo della singolarità umana che si costituisce originariamente nel suo davanti a Dio attraverso le azioni compiute nel tempo. I tre numeri della Dichiarazione esaminati sono la chiara testimonianza della cura della Chiesa per salvare l’uomo richiamandolo alla sua vera vocazione.

Perché soprattutto il Magistero è coinvolto in questo servizio? Innanzi tutto perché ai Vescovi è affidato di pascere il gregge di Cristo ed il primo dovere pastorale è di annunciare la Verità di Cristo difendendola anche dagli errori che sono la più grave insidia alla salvezza dell’uomo. Sono al riguardo di incredibile attualità le parole di S. Ireneo: "Gli apostoli inviati per ritrovare gli erranti, illuminare i ciechi e guarire gli ammalati non hanno certamente parlato loro secondo le opinioni del momento ma secondo le esigenze della Verità che essi annunciavano. Infatti nessuno agirebbe bene se vedendo dei ciechi sul punto di cadere in un precipizio li spingesse a proseguire in quella direzione tanto pericolosa come se questa fosse la retta via che conduce al termine. E quale medico, volendo guarire un ammalato, obbedirebbe più ai capricci dello stesso che alle regole della medicina? Ora che il Signore sia venuto come medico dei malati egli stesso lo dice quando afferma: non sono i sani ad aver bisogno del medico ma gli ammalati. Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a penitenza. Come dunque gli infermi guariranno? e come i peccatori faranno penitenza? Orse continuando nelle medesime disposizioni? o non piuttosto accettando un profondo cambiamento e conversione nel loro antico modo di vivere che ha causato in loro malattie tanto gravi e tanti peccati. Ora l’ignoranza, madre di tutti questi mali, non può essere scacciata che dalla conoscenza. È dunque la conoscenza che il Signore donava ai suoi discepoli ed è mediante essa che Egli guariva gli ammalati e convertiva i peccatori. E perciò Egli non parlava loro conformandosi alle loro opinioni precedenti né rispondeva secondo i pregiudizi di chi lo interrogava, ma secondo la dottrina della Salvezza, senza ipocrisia e senza accezione di persone" (Adv. Haer. III, 5, 2; ed. SC 211, p. 57-61).

E così i pastori, successori degli Apostoli, sono chiamati anche nel campo della morale a dare testimonianza alla Verità che salva indicando il retto cammino, costretti spesso a contestare un mondo che non conosce il Padre. Così la loro predicazione finisce come deve finire, nel "martyrion", nel soffrire cioè la "beata passione" di rendere testimonianza alla Verità non seguendo le mode del tempo e non andando, come Pietro giovane, dove essi vogliono ma sulla Croce per aver reso testimonianza alla Verità.

Solo sulla base di una ritrovata identità indicatagli dal Magistero, il credente potrà continuare il suo dialogo col mondo, anche per ciò che concerne i problemi morali.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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02/01/2018 20:58
 
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Perché tanto interesse della Chiesa per la famiglia?
Correggio (RE), 12 febbraio 2017


Non c’è dubbio che, almeno dal Papa Leone XIII in poi, l’interesse della Chiesa per il matrimonio e la famiglia è andato sempre più crescendo. Indico solo qualche fatto significativo.

Ad iniziare da Leone XIII quasi tutti i Papi promulgano un’enciclica su questo tema. Un Concilio ecumenico, il Vaticano II, ne ha spesso e lungamente parlato. San Giovanni Paolo II ha fatto del matrimonio e della famiglia la cifra del suo pontificato. Il Santo Padre Francesco ha perfino convocato due Sinodi dei Vescovi su questo tema, pubblicando come conclusione dei medesimi un’Esortazione Apostolica, che fino ad ora è il più lungo documento dedicato al tema matrimonio e famiglia dal Magistero dei Papi.

Quanto detto accenna all’attenzione dei Papi. Ma ad iniziare dal secondo dopoguerra del secolo scorso, iniziano Movimenti ecclesiali specifici; la ricerca teologica approfondisce sempre più la tematica; crescono le beatificazioni e le canonizzazioni di beati e santi sposati, ed anche di coppie coniugali. Ultima i genitori di santa Teresa del Bambin Gesù. È dunque legittima, ed in un certo senso inevitabile la domanda: perché tanto interesse? Nel primo punto della mia riflessione cercherò di rispondere a questa domanda. Nel secondo mostrerò il contemporaneo disinteresse del mondo e della cultura occidentale per il matrimonio e la famiglia. Infine nel terzo farò uno schizzo del modo con cui la Chiesa si interessa del matrimonio e della famiglia.

 

1. Perché tanto interesse? La via dell’uomo

 

In occasione della decisione dell’ONU di indire per l’Anno 1994 l’Anno della famiglia, Giovanni Paolo II scrive una Lettera alle Famiglie [2 febbraio 1994]. E all’inizio di questo importante documento quel grande Pontefice dona la prima, originaria risposta alla domanda. Sintetizzo.

+ “L’uomo è la via della Chiesa” [Lettera Enciclica Redemptor hominis (14-3-1979), 14]. Cioè: “La Chiesa prende parte alle gioie e alle speranze, alle tristezze e alle angosce del cammino quotidiano degli uomini” [Lettera alle famiglie, 1]. Viene in questo testo accennato il tema dell’accompagnamento, della condivisione della condizione umana, che sono la grande cifra del pontificato di Giovanni Paolo II.

+ Il percorso che la Chiesa deve percorrere, l’uomo cioè nella sua concreta esistenza, le è stato indicato e come imposto dal suo Divino Fondatore. È Lui che ha affidato l’uomo alla Chiesa, come sua missione.                                              

+ Fra le numerose “strade” che l’uomo percorre nella sua insonne ricerca di senso, vi è il matrimonio e la famiglia. Anzi questa [assieme al lavoro] è la prima e la più importante.

Dunque la ragione principale per cui la Chiesa ha tanto interesse per il matrimonio e la famiglia è il suo interesse per l’uomo, per l’umanità di ogni uomo. Dobbiamo ora, di conseguenza, comprendere perché l’interesse per l’uomo esiga l’interesse per il matrimonio e la famiglia.

1,1. Partiamo da una pagina evangelica molto nota: il dialogo fra Gesù ed i Farisei sull’indissolubilità del matrimonio [Mt 19,3-9 e par.].

La domanda dei Farisei a Gesù non era sulla legittimità del divorzio. Essa era assolutamente certa per gli interlocutori: si fondava su un testo della Sacra Scrittura, su una disposizione-concessione fatta da Mosè. La domanda verteva sulle cause che potevano legittimare il ricorso a questa concessione. Fra i giurisperiti del tempo, infatti, si discuteva se la causa fosse una sola, l’adulterio della donna, oppure fossero diverse. A Gesù è chiesto di prendere posizione su questa lite giurisprudenziale. In realtà il testo mosaico non era né chiaro né preciso.

Ed ora vi prego di prestare molta attenzione alla risposta di Gesù. Essa prima di tutto invita gli ascoltatori ad una operazione di “ortottica” indicando in quale direzione bisognava cercare la soluzione. Gesù la indica nel modo seguente: “(guardate al, considerate il) PRINCIPIO”. Che cosa significa?

Non guardare il matrimonio come lo hanno ridotto gli uomini, ma come l’ha pensato il progetto creativo di Dio. La parola “Principio” dunque non indica il momento, l’attimo cronologicamente primo che dà inizio allo scorrere della storia umana. Quando uno scultore decide di scolpire nel marmo una statua, ha prima, al principio appunto, l’idea, l’ispirazione che vuole esprimere. Idea, ispirazione che diventa la scultura marmorea. Dio ha un idea di matrimonio. Essa è stata impressa dalla mano creatrice di Dio nella stessa costituzione, struttura della persona umana. La persona dell’uomo e la persona della donna sono come sono – nel loro spirito, nella loro psiche, nel loro corpo – perché sono creati in vista dell’unità coniugale. Pensate, già Aristotile aveva forse avuto l’intuizione di questo fatto, quando definisce l’uomo “animale coniugale”.

Dunque l’idea che il Creatore ha del matrimonio non deve essere pensata come una legge alla quale l’uomo deve adeguarsi; o come un ideale verso cui tendere. Non una legge morale; non un ideale. Ma l’intima verità stessa della persona umana. Gesù dice di guardare in questa direzione. “IL PRINCIPIO” dunque non è qualcosa di passato. È la continua presenza della divina progettazione nella persona dell’uomo e della donna. Un poco come la sorgente di un torrente. Essa si trova certamente all’inizio del torrente, ma nello stesso tempo è ciò che fa scorrere il torrente.

I Farisei comprendono bene ciò che Gesù voleva dire, e che orientando lo sguardo nella direzione indicata dalle sue parole, la loro discussione non aveva più senso. Ma «perché allora» obiettano «Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e mandarla via?». Come a dire: «se è vero ciò che dici tu, allora Dio si contraddice. Da una parte, come dici tu, l’idea che Dio al principio ha del matrimonio implica l’indissolubilità. Dall’altra tuttavia, Mosè, che pure agiva in nome di Dio, concede il divorzio».

A questo punto Gesù introduce nella discussione la considerazione di una realtà nuova e tragica: la DUREZZA DEL CUORE. Che cosa significa? L’ostinata volontà della persona umana, del suo io più profondo di rifiutarsi al PRINCIPIO, al progetto di Dio. La condizione attuale della persona umana non è più come al PRINCIPIO. È come se mettessimo terra o un sasso sulla sorgente. L’acqua continuerebbe a sgorgare, ma il torrente scomparirebbe. Uomini e donne continuano a sposarsi, nello splendore del PRINCIPIO che continua a sgorgare nella loro coscienza morale, ma nella miseria di una volontà incapace del “per sempre”. Miseria di un re decaduto! Direbbe Pascal.

E a questo punto Gesù lascia intravedere la ragione della sua missione: liberare nel cuore dell’uomo e della donna la forza del PRINCIPIO. Ridonare loro la perduta capacità di amarsi per sempre.

Mi fermo un poco su questo punto, alla luce di un’altra pagina evangelica, le nozze di Cana [cfr. Gv.2,1-11].

Alla vita del matrimonio, all’Amoris laetitia direbbe il Santo Padre, prima o poi viene a mancare il vino; viene a mancare la forza che rende fedeli al patto coniugale. E resta solo l’acqua. Gesù compie il miracolo: ridona all’uomo e alla donna la capacità del dono reciproco. Ridona il vino perché il banchetto possa continuare nel gaudio dell’amore indissolubile. Col suo primo miracolo Gesù diventa al contempo il testimone della divina verità del matrimonio e colui che rende la libertà capace di realizzarla.

Ritorniamo ora alle domande da cui siamo partiti: perché la Chiesa si interessa tanto del matrimonio? Perché si interessa dell’uomo. Perché interessarsi dell’uomo comporta interessarsi del matrimonio? Perché il matrimonio realizza la verità originaria dell’uomo, la sua vocazione al dono di sé. E, come anche insegna il Concilio, la persona umana trova se stessa nel dono sincero di se stessa.  La Chiesa esiste perché l’uomo non perda se stesso.

1,2. Se mi avete seguito, avrete notato che fino ad ora ho parlato esclusivamente del matrimonio, non della famiglia. Perché la Chiesa si interessa colla stessa passione della famiglia? Perché si interessa fortemente alla genealogia della persona. Mi spiego.

Il concepimento di una persona è un evento grandioso. Essa è il risultato di un atto creativo di Dio e dell’atto dell’unione coniugale.

Dio ha voluto l’uomo fin dal principio; e lo vuole in ogni concepimento. Nessuno di noi viene al mondo per caso o per necessità. Il suo esserci è dovuto ad un atto creativo di Dio. Ciascuno di noi può dire: io ci sono perché Dio mi ha voluto. Non perché ne avesse bisogno, per sua utilità. Dio vuole ciascuna persona per se stessa. “Per se stessa” significa che ciascuno di noi non esiste in vista di qualcosa d’altro  diverso da se stesso. I filosofi direbbero: ogni persona è un fine, mai un mezzo. Nessuna persona può essere solo usata, strumentalizzata. 

Ma l’origine della persona è inscritta anche nella biologia della generazione. Se teniamo presente quanto ho appena detto, non sarà difficile comprendere quale modo umano di porre le condizioni del concepimento, è degnamente corrispondente all’atto creativo di Dio. Quando gli sposi prendono coscienza che hanno concepito una nuova persona umana, dovrebbero avere piena coscienza che Dio ha voluto quella persona, e che l’ha voluta per se stessa non per i genitori. È questa la ragione profonda per la quale l’unico atto degno di porre le condizioni del concepimento di una nuova persona umana, è l’atto dell’amore coniugale mediante il quale i due sposi diventano una sola carne. All’atto dell’amore creativo di Dio corrisponde l’atto dell’amore generativo degli sposi. Dio celebra la liturgia del suo amore creativo nel tempio santo dell’amore pro-creativo degli sposi. Produrre una persona umana in laboratorio è grave mancanza di rispetto alla sua dignità: i bambini si concepiscono, non si producono.

La genealogia della persona poi si realizza compiutamente nell’educazione della stessa. L’educazione è come una continua generazione. Ed è l’educazione che istituisce il vero rapporto fra le generazioni. L’atto educativo introduce la nuova persona nella vita, nella cultura che ha preso corpo nella persona dei genitori. “Una generazione” dice un Salmo “narra all’altra le tue meraviglie, o Signore”. Si produce in questo modo uno dei beni umani fondamentali, il rapporto fra generazioni. La biologia della generazione diventa genealogia della persona: nasce un popolo.

Perché la Chiesa si interessa tanto alla famiglia? Perché è il luogo dove è assicurata una vera buona genealogia della persona; una crescita della persona verso la pienezza, la fioritura della sua umanità.

 

2. La de-costruzione: il disinteresse per la famiglia

 

L’interesse della Chiesa si svolge dentro alla storia, all’interno delle varie culture. Ora in Occidente sta accadendo, ed in parte è già accaduto, che non è cambiata solo la morfogenesi del matrimonio e della famiglia, ma il loro genoma. Mi spiego con la formulazione di un dilemma elaborato da un grande sociologo italiano: «La famiglia [ed il matrimonio, aggiungo io] è una istituzione del passato che possiamo modificare secondo i nostri sentimenti, affetti e desideri soggettivi, oppure è una realtà che ha una forma propria [un genoma proprio, aggiunta mia], una struttura sui generis, rispetto alla quale si misura il carattere più o meno umanizzante della società?» [Pier Paolo Donati, La famiglia. Il genoma che fa vivere la società. Rubbettino ed., Soveria Mannelli 2013, pag.7; cfr. anche pag.213]. Più brevemente: esiste la famiglia o è più corretto parlare di “le famiglie”, senza fare distinzioni?

La cultura occidentale, oggi, ha optato per il secondo corno del dilemma. Due segnali di questa opzione: l’ingresso negli ordinamenti giuridici del c.d. matrimonio omosessuale; la trasformazione della generazione in procedimento produttivo. Mai la Chiesa in duemila anni di vita si era trovata di fronte ad una tale sfida. Questo evento culturale e linguistico – non LA famiglia ma LE   famiglie – è il risultato di processi culturali secolari. Ne accenno solo a due.

2,1. La privatizzazione del matrimonio. Da sempre il matrimonio era considerato una realtà che aveva attinenza al bene comune della società. Non era solo un’istituzione di diritto privato, ma anche di diritto pubblico. Anzi una istituzione che godeva del c. d. privilegium juris.   

Che cosa è accaduto e sta accadendo? Si va imponendo la tendenza ad equiparare matrimonio e famiglia ad un qualunque aggregato di individui, legati fra loro da gusti ed affetti privati. Matrimonio e famiglia vengono relegati alla pura affettività, senza considerare la sua rilevanza sulla società. La conseguenza è che si va configurando una società pensata e vissuta come aggregazione di individui e non comunità di famiglie. [Su tutto questo l’opera citata di Donati va letta e meditata.]

La logica interna della privatizzazione del matrimonio porta inevitabilmente a porsi la domanda: vale ancora la pena sposarsi? Non è meglio convivere? Se consapevolmente o inconsapevolmente ci si lascia trasportare dal processo culturale che stiamo descrivendo, la risposta non potrà essere che la seguente: no, non vale la pena sposarsi! Il progressivo passaggio negli ordinamenti giuridici dal divorzio per colpa al divorzio per consenso, ha ulteriormente rafforzato la risposta.

Si comprende dunque che la questione dell’ammissione o non dei divorziati-risposati all’Eucaristia non è né solo né principalmente una questione di peccato-colpa personale, soggettiva. L’assetto sacramentale è una struttura della Chiesa come tale.

Il prezzo che stiamo pagando a causa della privatizzazione del matrimonio è molto alto. Esso comporta nel vissuto sociale la progressiva perdita di due beni relazionali fondamentali: il bene del giusto rapporto uomo-donna; il bene relazionale insito nel rapporto fra le generazioni. Pertanto le nostre società diventano sempre più anonime, più rischiose, più infelici. Il fatto delittuoso di Pontelangorino [FE] è solo la punta sconvolgente di un iceberg.

2,2. La de-biologizzazione dei due beni relazionali [rapporto uomo-donna; rapporto fra generazioni]. Si definisce il matrimonio prescindendo dal dimorfismo sessuale. La genealogia della persona è stata sradicata dalla biologia della generazione.

Anche questo evento è il frutto di secolari processi secolari. Ne accenno solo a tre.

+ La separazione del corpo dalla persona. Essa ha avuto come conseguenza un reificazione del corpo umano. Ha cessato di essere pensato e vissuto come epifania della persona e suo linguaggio. Se poi collochiamo questo processo dentro all’ideologia tecnologica, constatiamo che anche il corpo è “a disposizione del fare tecnico”. Il corpo femminile o maschile, se paghi, diventa cava da cui trarre ovuli o spermatozoi. L’utero, se paghi, può anche essere affittato.

+ La separazione della sessualità dalla procreazione. Si faccia bene attenzione: non sto parlando del problema morale della contraccezione. Sto prendendo in esame un modo sempre più comune di pensare secondo il quale la genealogia della persona non è più de jure inscritta nella biologia della generazione. Questa radicazione – si pensa – era solo un dato di fatto, oggi superato dalle possibilità tecniche di poter avere bambini senza il sesso.

+ La progressiva marginalizzazione della considerazione della causalità finale nello studio della natura ha concorso all’incomprensione del finalismo intrinseco della sessualità umana alla procreazione.

Il risultato finale è stato la de-costruzione dell’edificio matrimoniale e famigliare. Abbiamo ancora tutti i pezzi – paternità/maternità; figliazione… – ma non abbiamo più l’edificio. Famiglia e matrimonio: una delle tante aggregazioni costituite da affetti privati.

 

3. Madre e Maestra: come la Chiesa si interessa al matrimonio e alla famiglia

 

Prima di rispondere a questa domanda, devo fare due premesse.

La prima. La Chiesa ritiene che la condizione in cui oggi in Occidente versano matrimonio e famiglia debba essere riportata, per usare una parola evangelica, AL PRINCIPIO. I due beni relazionali messi in questione sono troppo importanti per la vera felicità dell’uomo per essere dilapidati.

La seconda. La Chiesa si interessa della salvezza dell’uomo mediante tre attività: il Magistero, la Santificazione, la Guida. Ora dirò qualcosa su ciascuna di queste tre attività.

3,1. Mediante la Divina Rivelazione Dio ci ha donato la luce della Verità; ci ha indicato la via della vita vera e buona. Sant’Agostino ha scritto: «nessuno può essere amico dell’uomo se non è innanzi tutto amico della verità» [Lett. 155,1].

L’amicizia dell’uomo che alberga nel cuore della Chiesa, implica in primo luogo il suo desiderio, la sua volontà di dire all’uomo la Verità. Non una qualsiasi verità, ma solo la Verità che è via di salvezza, la verità rivelata da Dio stesso in Gesù. La Chiesa compie questo basilare atto di amore, la carità della Verità, mediante il Magistero dei Papi, dei Concili, dei Vescovi. La Chiesa anche oggi si interessa del matrimonio e della famiglia dicendo la Verità su matrimonio e la famiglia.

3,2. Parto da testo mirabile del b. J. H. Newman. «La Chiesa però sa e insegna anche che la reintegrazione della natura umana cui essa mira deve essere attuata non soltanto per mezzo di iniziative esterne quali la predicazione e l’insegnamento, anche se questi sono suoi campi specifici, ma attraverso l’intima forza spirituale della grazia che scende direttamente dall’alto, e della quale essa è il canale. Essa si incarica di salvare la natura umana dalla sua miseria, ma a questo scopo non s’accontenta di riportarla al grado che le spetta: la innalza ad un grado molto superiore» [Apologia pro vita sua, cap. V; in Opere, Utet, Torino 1988, pag.368].

Quanto il grande cardinale inglese dice in generale, vale anche in particolare per il matrimonio. È mediante il sacramento del matrimonio che il medesimo matrimonio è salvato e guarito dalla miseria in cui è caduto, a causa della durezza del cuore dell’uomo e della donna. Ma il sacramento non è solo una medicina che guarisce. È un atto di Cristo che unisce i due sposi, elevando il loro amore coniugale a simbolo realedell’amore che lega Cristo alla Chiesa. Reale: l’amore coniugale non è una metafora più o meno pallida, è la partecipazione reale al vincolo che stringe Cristo alla Chiesa. Il dono che Cristo fa di se stesso alla Chiesa sulla Croce, eucaristicamente sempre presente, dimora nell’amore coniugale; e l’amore coniugale è innestato, come tralcio nella vite, nel rapporto Cristo-Chiesa.

3,3. La terza modalità in cui si esprime e realizza l’interesse che la Chiesa ha per il matrimonio e la famiglia, è la guida pastorale sia di chi intende sposarsi sia di chi è già sposato sia di chi vive un “fallimento matrimoniale”. Il tempo che ho a disposizione mi obbliga a brevi e schematiche riflessioni. Faccio due premesse.

La prima. È uno dei carismi fondamentali del servizio pastorale del Santo Padre Francesco aver richiamato la Chiesa, e con gesti luminosamente evangelici e con le parole, a porsi accanto alle persone. La guida pastorale deve assumere la cifra dell’accompagnamento. Se non assumessimo questa attitudine spirituale, dilapideremmo la grazia di questo pontificato.

La seconda. Come ho mostrato nel secondo punto, il mainstream del nostro tempo non solo non vede più l’intrinseca bontà dello sposarsi e del dono della vita. Ha anche equiparato matrimonio e famiglia ad ogni aggregazione sociale, costituita solamente da legami emotivi-affettivi. L’accompagnamento della Chiesa deve acquisire anche la dimensione medicinale; deve saper curare. È la famosa metafora dell’ospedale da campo.

Fatte queste due premesse, mi sembra che il problema centrale che la Chiesa nel suo accompagnamento deve affrontare, sia la ricostruzione del soggetto umano. Che cosa intendo dire?

L’Esortazione Apostolica Amoris laetitia dice: “credere che siamo buoni solo perché proviamo dei sentimenti è un tremendo inganno” [145]. La soggettività umana – la capacità di capire, di volere, di compiere scelte, l’esperienza del dovere morale nella sua regale maestà, l‘integrazione delle varie dimensioni di cui siamo fatti – è stata ridotta all’emotività. “mi sento; non mi sento di…”. Si rompe il matrimonio perché non si sente più amore.

Ben a ragione, il Santo Padre Francesco dice che a queste persone ripetere semplicemente la dottrina e/o leggi morali, è inefficace. È necessario, come dice Gesù a Nicodemo, rinascere. La Chiesa ha già affrontato questo problema: far rinascere una persona umana. Fu quando il Vangelo si scontrò col paganesimo greco-romano. Ha risolto il problema inventando il catecumenato. Oggi, come ha detto Francesco recentemente, inaugurando l’anno giudiziale della Rota, è necessario un “catecumenato al matrimonio”. [Il miglior testo finora pubblicato sulla tematica di questo § 3,3 è J. Granados, St. Kampowski, J. J. Pérez-Soba, Amoris laetitiaAccompagnare, discernere, integrare, Cantagalli ed., Siena 2016]

 

4. Conclusione

 

Esistono ancora sposi che vivono il loro matrimonio radicati e fondati NEL PRINCIPIO, ricchi del dono del vino nuovo che Cristo mediante il sacramento continua a donare loro, vigilati da Maria che avverte subito il suo divino Figlio se comincia a scarseggiare. Sposi che non vivono il matrimonio ideale: il matrimonio ideale non esiste; è una invenzione ottocentesca. Ma che vivono la verità del matrimonio in modo attraente e bello. Sono essi il seme spesso nascosto, che, dopo questi giorni tristi, faranno rifiorire quella che San Giovanni Paolo II chiamava la civiltà della verità e dell’amore. Nello splendore del loro non raramente faticoso quotidiano risplende la potenza dell’amore eterno di Dio. L’aurora di un nuovo assetto sociale fu, un tempo, il monastero benedettino. Ora sono gli sposi che vivono il dono sacramentale del loro matrimonio.



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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