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Testi del cardinale Caffarra

Ultimo Aggiornamento: 02/01/2018 20:58
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02/01/2018 14:22
 
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In forza di questo dono il credente viene a godere della perfetta libertà (cfr. Gal. 4, 1-7; 28-31; Rom. 8) in quanto lo Spirito è il principio interiore ed ultimo dell’agire cristiano.

Questo tema neo-testamentario costituisce nella sua unità con il principio della creazione e cristologico l’ultimo momento per la determinazione della libertà.

Innanzi tutto occorre tener presente che per il Nuovo Testamento lo Spirito è lo Spirito di Cristo in quanto esso ci viene donato dal Signore e ci introduce sempre più profondamente nella comprensione della Sua Rivelazione. È del tutto estranea al Nuovo Testamento l’idea di una guida dello Spirito che conduca il credente fuori o contro la Rivelazione di Dio in Cristo ma anzi esso viene sempre presentato come quel principio interiore che, liberandoci dal nostro cuore di pietra, ci aiuta e spinge a vivere secondo e nel Cristo. Ne consegue che la Verità e la Legge di Dio in Cristo non si pone solo all’esterno (su tavole di pietra) ma anche nell’interno dell’uomo (scritta nel cuore): quella stessa Rivelazione che oggettivamente accade in Cristo e viene trasmessa dalla predicazione apostolica fedelmente conservata da S. Scrittura - Tradizione - Magistero (secondo il modo proprio di ciascuna di queste realtà) viene soggettivamente compresa, accolta e vissuta in forza dello Spirito donato al credente. È la distinzione-relazione (non identità, non separazione) classica fra fides quae e fides qua.

Dal punto di vista etico questo dato neo-testamentario è di una importanza decisiva. La liberazione dalla legge, che è uno degli effetti fondamentali dello Spirito, non è da comprendersi come potere di fare arbitrariamente ciò che si vuole, ma di fare ciò che si vuole facendo ciò che si deve: questa chiarificazione è già stata data esplicitamente dal Nuovo Testamento. Con il solito rigore e la solita chiarezza S. Tommaso scrive al riguardo: "…amicitiae proprium est consentire amico in his quae vult. Voluntas autem Dei nobis per praecepta ipsius explicatur. Pertinet igitur ad amore quo Deum diligimus ut eius mandata impleamus secundum illud Ioan. 14, 15: si diligitis me, mandata mea servate. Unde cum per Spiritum Sanctum Dei amatores constituamur, per ipsum etiam quadammodo agimur ut praecepta Dei impleamus… Cum igitur Spiritus Sanctus per amorem voluntatem inclinet in verum bonum, in quod naturaliter ordinatur, tollit et servitutem qua homo servus passionis et peccati effectus, contra ordinem voluntatis agit, et servitutem qua, contra motum suae voluntatis, secundum legem agit, quasi legis servus, non amicus" (C. Gentes, Lib. IV, cap. XXII).

E per questo, come insegna S. Paolo, le opere della legge diventano nel credente frutto dello Spirito. Richiamarsi perciò allo Spirito per proporre un’etica priva di qualsiasi norma oggettiva ed assoluta è semplicemente porsi fuori della fede.

Ed a questo punto possiamo allora tentare la determinazione teologica essenziale della libertà umana e cristiana sia in modo positivo che negativo, perché dentro alla coscienza dell’uomo di oggi si scontrano due opposte, radicalmente opposte, concezioni ed esperienze di libertà.

Radicalmente la libertà è da concepirsi e viversi, sulla base della trascendenza metafisica, come potere di riconoscimento (o di rifiuto) del Bene e delle norme obiettive che ne conseguono e non come potere di costituzione del Bene stesso e delle norme. La scolastica formalistica ha perciò sbagliato quando ha definito la libertà primariamente come libertas indifferentiae: errore da cui poi il pensiero moderno è arrivato alla definizione di libertà come prius ontologico (Urseyn). È l’errore del primato della soggettività ossia della coscienza del singolo sull’oggettività e sull’esigenza e scala metafisica dei valori, l’errore che ha portato all’unificazione (identità dialettica) di verità e libertà. L’oblio del fondamento nella sfera dell’essere comporta inevitabilmente l’oblio del fondamento ultimo dell’agire colla conseguente impossibilità per l’uomo, nonostante le apparenze, di costituirsi veramente come soggetto libero. Le inquietanti esperienze storiche e politiche di questo secolo danno una tragica conferma di questa inevitabile conseguenza.

Per il cristiano questa prima determinazione della libertà è chiamata ad attuarsi storicamente come decisione di accettazione (o di rifiuto) del "paradosso" della trascendenza alla seconda potenza in tutta la sua estensione: Dio nel tempo, Cristo che si presenta come norma assoluta ed ultima, trasmessaci ed annunciata dalla Chiesa adunata attorno alla predicazione apostolica sempre fedelmente conservata ed esposta attraverso il Magistero dei legittimi successori degli Apostoli. La decisione pertanto ha per oggetto Cristo-norma ultima di vita che ci è annunciato dalla autorità apostolica che si continua nella successione e pertanto l’accettazione o meno di questa categoria di "autorità" discrimina l’autentica soggettività da quella falsa in quanto assicura fino in fondo il primato dell’Oggetto Immenso, Dio rivelato in Cristo, nei confronti di qualsiasi altro tentativo di assoggettarLo alle comprensioni e decisioni del soggetto. Già Paolo, nella lettera ai Galati, metteva in guardia i cristiani dal richiamarsi alla libertà dello Spirito contro l’autorità apostolica.

Lo Spirito rende capace l’uomo di questo decidersi e quindi con e nel dono di Esso nasce in senso pieno l’uomo come soggetto cioè come libero di libertà piena. È perciò una libertà cristiana in quanto è una partecipazione alla stessa libertà di Cristo come soprattutto è contemplata dal quarto evangelista, perfetta unità di obbedienza al Padre e soggettività. È una libertà che la Chiesa contempla realizzata in Maria: libera completamente perché infinita disponibilità per l’Infinito. È una libertà ecclesiale: liberazione dalla soggettività ingabbiata dentro al cerchio della immanenza, apertura al con-senso ecclesiale (mariano) e inserimento in esso, interamente plasmabile da Dio, pura passività che è la più alta attività.

Giustamente la Dichiarazione sottolinea al n. 12 come questa libertà sia frutto di una conversione continua.

4. Il male umano e il peccato

La riflessione teologica sul peccato costituisce un altro fondamentale momento della problematica attuale e merita particolare attenzione. Ad essa la Dichiarazione dedica tutto il n. 10.

La difficoltà in cui è entrato questo punto essenziale del discorso cristiano è dovuta soprattutto, ci pare, a quello spostamento di asse della vita spirituale dell’uomo accaduta nella storia moderna in forza del quale la trascendenza non è più elevazione a Dio ma l’apertura dell’uomo al mondo che costituisce la totalità dell’orizzonte umano.

L’espressione più compiuta e decisiva della negazione contemporanea della realtà del peccato è offerta dalla riflessione hegeliana (cfr. soprattutto Vorlesungen ueber die Philosophie der Religion, III, 1: Die absolute Religion, Leipzig 1929, p. 121 ss.) secondo la quale la categoria di peccato e quella contrapposta di bene non è che la "rappresentazione" religiosa di un "concetto" metafisico nel quale essa va superata e tolta, il concetto di dialettica come legge fondamentale del reale. Così il peccato non è più una categoria etica e religiosa appartenente al mondo della libertà, ma è il momento dialetticamente necessario del negativo. Esso perciò è coestensivo all’essere; anzi, esso sta a fondamento della verità e del valore dell’essere che non potrebbe divenire e farsi senza la negazione che gli si contrappone.

Una volta che la speculazione hegeliana sia stata spogliata da ogni vernice (pseudo) teologica, come avverrà nella cosiddetta sinistra hegeliana, il male e il peccato diventano semplicemente il momento negativo, cristallizzato in istituzioni oggettive, attraverso cui la società umana deve passare e che deve superare mediante l’impegno politico di trasformazione del sociale. Così la salvezza e liberazione dal male appare come opera storica dell’uomo che col suo impegno socio-politico deve superare le contraddizioni inerenti e immanenti alla storia. A questo punto ormai qualsiasi valenza etica e religiosa è stata tolta al concetto di male e il concetto stesso di peccato è scomparso. Evidentemente in questa prospettiva, come già nel suo lontano antenato che è lo gnosticismo antico, il racconto biblico della caduta originale e l’interpretazione data di essa dalla Chiesa è un "mito", un adattamento popolare che esprime una verità di carattere metafisico (una storia eterna, la chiamerà Hegel nel citato scritto) e cioè la conquista che l’uomo fa della sua libertà attraverso la negazione della situazione data: bene e male sono poli opposti e necessari della tensione originaria in cui si afferma la libertà.

Questa concezione del male umano, radicalmente contraria alla fede, è spesso alla base di molti movimenti di "cristiani per il socialismo".

Invece si può parlare di peccato solo, innanzi tutto, sulla base della trascendenza metafisica o del principio della creazione: se alla base del discorso sul peccato non si mette al sicuro questa verità di fede il peccato finisce collo svaporare dentro alla necessità del divenire della soggettività umana cioè collo scomparire.

Infatti, come già si è detto, l’uomo non è un momento necessario dello sviluppo di Dio, ma è frutto di un gesto creativo assolutamente libero. E l’uomo in quanto creato liberamente ha ricevuto una legge da Dio inscritta nel suo proprio essere per il conseguimento del suo ultimo fine che è Dio stesso. In quanto natura spirituale, l’uomo gode libertà di scelta anche di fronte a Dio, ed è questa scelta l’atto più decisivo del suo destino ultimo. Nella sua scelta l’uomo qualifica il proprio essere in maniera radicalmente diversa a seconda che scelga Dio come suo ultimo fine oppure il suo essere-nel-tempo come orizzonte definitivo della sua esistenza. È solo in questo contesto che si può parlare di peccato; se ne può parlare cioè in senso autentico soltanto davanti a Dio secondo un rapporto rigorosa di persona spirituale fra Dio e l’uomo. Anche qui si nota la distanza infinita fra una concezione creazionistica e una concezione non creazionistica (monistica, dualistica o atea): questa risolve il peccato nella finitezza dell’essere, nella negatività della coscienza, in un momento dialetticamente necessario del suo divenire mentre quella lo concepisce come la rottura del rapporto con Dio di cui l’uomo è responsabile come singolo davanti a Dio. Anche in questo contesto si vede come effettivamente solo la prima prospettiva sia capace di prendere sul serio fino in fondo la libertà e la storicità dell’uomo ed il suo divenire.

Da questa base si dipartono alcune contestazioni cristiane ad alcune affermazioni oggi comuni e che spesso hanno inquinato anche il discorso teologico. Il male e il peccato è un evento che accade dentro al soggetto perché nasce dalla libertà del singolo davanti a Dio e perciò la sua liberazione non potrà primariamente consistere nel cambiamento delle strutture ma nella conversione del cuore: dimenticare questo è una grave illusione.

Dentro a questo primo contesto che assicura il rapporto uomo-Dio come rapporto di libertà (Dio crea liberamente, l’uomo è chiamato a scegliere liberamente Dio come suo fine ultimo), la trascendenza nella storia, la Rivelazione di Dio in Cristo, rivela pienamente "quanti ponderis sit peccatum" (S. Anselmo, Cur Deus homo 1, 21; ed. Schmitt II, 88Z, 18). In questa luce il peccato assume il volto di un rifiuto dell’Amore di Dio rivelato pienamente nel Cuore trafitto del Crocefisso.

A questo punto sorge un ulteriore problema teologico, il problema del rapporto fra la scelta di libero rifiuto di Dio e l’azione concreta in cui si incarna o, che è lo stesso, il rapporto fra la decisione del singolo davanti a Dio e la disobbedienza alle norme morali oppure, ancora, del modo con cui l’uomo si rifiuta a Dio. È su questo problema che il cit. n. 10 si ferma in modo particolare.

La soluzione a questo problema teologico dipende da alcuni presupposti teologici che è necessario esplicitare.

Primo: unità sostanziale dell’anima e del corpo. È una verità di fede (cfr. DS. 902, 1440) assai importante per l’antropologia cristiana che fra l’anima e il corpo esiste una unità sostanziale perfettiva anche dell’animo. Una conseguenza di questa affermazione è che la genesi dell’umano non è da intendersi idealisticamente come l’emergere della pura coscienza spirituale attraverso le sue rappresentazioni ma come il fine dell’uomo attraverso singoli atti che posseggono una loro specificità propria. In forza di questa unità cioè l’uomo non è solo progetto spirituale, ma è progetto che si disegna ed attua e si distende nel tempo cioè mediante singoli atti. Rifiutarsi di porsi il problema etico del singolo atto secondo il suo oggetto proprio e la sua natura è destoricizzare l’uomo è, non accettare pienamente l’unità sostanziale dell’anima col corpo.

Secondo: l’atto si qualifica eticamente ratione obiecti seu naturae suae innanzi tutto. È questa una tesi che oggi viene messa in discussione anche da teologi cattolici, tuttavia riteniamo che essa non possa essere negata senza temerarietà. Possiamo individuarne il significato inserendola nel principio della creazione. In forza, si diceva, del gesto creativo di Dio l’essere dell’uomo porta inscritto in sé, nei suoi elementi costitutivi, il progetto stesso di Dio: anzi dal punto di vista etico l’uomo è questa partecipazione formale alla legge eterna di Dio così come dal punto di vista metafisico è partecipazione all’Essere stesso di Dio. Ne consegue che, come diceva S. Tommaso, "omnia illa facienda vel vitanda pertineant ad praecepta legis naturae quae ratio practica apprehendit esse bona humana" (I, II, q. 94, a. 2): ragione umana illuminata, corretta e compiuta dalla Rivelazione di Dio in Cristo. Ora la ragione dell’uomo non è una facoltà creatrice ma scopritrice del vero cioè, nel caso, del rapporto esistente fra una azione e le "inclinationes naturales" e quindi i "bona humana" e quindi fra una azione e la legge stessa di Dio. In un testo assai ricco di significato S. Tommaso scrive: "…res naturales, ex quibus intellectus noster scientiam accipit mensurant intellectum nostrum… sed sunt mensuratae ab intellectu divino in quo sunt omnia creata… Sic ergo intellectus divinus est mensurans non mensuratus; res autem naturalis, mensurans et mensurata; sed intellectus noster est mensuratus non mensurans quidem res naturales, sed artificiales tantum" (De Veritate, q. 1, a. 2c).

Solo nel campo dell’artificialità, oggi diremmo della tecnica, l’uomo è in un certo senso creativo (homo faber), ma nel campo dell’agire l’uomo è chiamato a realizzarsi secondo il progetto di Dio (homo sapiens). Ne consegue perciò che ogni azione come tale (ratione sui obiecti) si pone in un rapporto di conformità o difformità colle norme morali che la ragione scopre e non inventa. Ed in forza di questo rapporto oggettivo, prima ancora di considerare circostanze o fine, l’atto viene ad essere eticamente qualificato come onesto o disonesto.

Terzo: rifiuto della riduzione della verità alla libertà, dell’intelletto alla volontà. Il passo tomista testé citato ci indica dove si annida l’errore di chi nega il secondo presupposto. Dire che la qualificazione ex obiecto non ha connotazione etica ma solo per sé fisica, come fanno alcuni teologi cattolici, indicando solo quali sono i "mala physica" per l’uomo mentre la qualificazione proverrebbe dalla intenzione del soggetto o dal rapporto formale ed esplicito con Dio, (opzione fondamentale) è quanto meno assai ambiguo. Se infatti si intende dire che l’azione nella sua oggettività è indifferente come tale dal punto di vista etico e che la qualificazione viene solo dalla decisione profonda della libertà, l’affermazione è falsa da due punti di vista: è falsa perché pensa allo spirito dell’uomo non come ad uno spirito unito sostanzialmente al corpo e quindi non prende sul serio la storicità dell’uomo ed è falsa perché attribuisce alla libertà umana il potere di decidere in ultima analisi quali siano realmente i "bona humana" riducendo così la verità alla libertà. Ricompare sotto altra forma lo stesso errore della confusione del trascendente con il trascendentale kantiano e post-kantiano che porta al primato del soggettivo sull’oggettivo: l’unica norma assoluta è puramente formale e coincide con il dinamismo spontaneo dello spirito mentre i contenuti vengono decisi dalla libertà. Se invece si intende dire che la sola e semplice violazione obiettiva della norma non è come tale sufficiente da sola per parlare di colpa del soggetto, allora la tesi è vera ma genera confusione formulata in questo modo, in quanto si è passati in un altro campo distinto: si parla allora di imputabilità soggettiva.

Dalla accettazione dei primi due presupposti e dal rifiuto della identificazione di cui nel terzo consegue allora che il singolo davanti a Dio pecca mortalmente non solo quando rifiuta formalmente e direttamente Dio ma anche quando pone in essere una azione che si oppone, in materia grave, alle norme morali poiché in questa azione è incluso quel rifiuto. E perciò giustamente la Dichiarazione insegna: "L’uomo pecca, dunque, mortalmente non soltanto quando il suo atto procede dal disprezzo diretto di Dio e del prossimo, ma anche quando coscientemente e liberamente, per un qualsiasi motivo, egli compie una scelta il cui oggetto è gravemente disordinato" (n. 10).

5. La Chiesa e l’ordine morale

Come già dicevamo, la Dichiarazione è una espressione di quel servizio pastorale che la Chiesa rende al mondo attraverso il suo Magistero.

Compito fondamentale di questo Magistero è quello di interpretare autenticamente la Parola di Dio sia nel campo della fede che dei costumi, annunciando autorevolmente non solo la legge divina positiva ma anche quella naturale.

Questo compito nella situazione attuale è particolarmente grave ed urgente, anzi — per certi aspetti — mai è stato tanto grave ed urgente. Infatti la malattia più grave che ha investito l’uomo di oggi è una malattia della intelligenza in quanto essa non si apre più alla Trascendenza ma è andata sempre più rinchiudendosi dentro la finitezza dell’immanenza. In questa prigione l’uomo sembra aver smarrito la strada che lo porta verso la Verità e i valori etici si sono come schiodati.

Quali sono i segni di questa malattia dell’intelligenza dell’uomo di oggi? Innanzi tutto l’elevazione del dubbio a segno ultimo della dignità dell’intelligenza così da considerare il bisogno delle certezze supreme come povertà interiore, segno di uno stadio infantile e finendo con l’identificare la certezza del vero oggettivo come catena della libertà. E così l’intelligenza ha finito col chiudersi al mondo fenomenico senza più una ricerca del fondamento ultimo anzi finendo — tragica contraddizione — coll’identificare l’essere col divenire, affermando l’autonomia e l’originarietà di questo emergere e reimmergersi dell’essere dal nulla e nel nulla. L’unica possibilità che gli resta allora sono le "res artificiales" direbbe Tommaso, è la tecnica, come dominio e manipolazione del reale, col risultato di possedere infiniti mezzi senza più conoscere i fini per cui usarli. L’intelligenza è divenuta solo intelligenza dell’artificialis, nel senso tomista, così che il sapere scientifico è l’unico sapere ritenuto tale.

Sul terreno di una intelligenza così mortalmente ammalata, anche la libertà, esiliata dalla sua patria naturale che è il rapporto col Trascendente, ha finito col ridursi a pura possibilità di tutte le possibilità. E già assai acutamente S. Kierkegaard aveva notato che questa concezione della libertà non può che portare alla disperazione in quanto il creare singoli significati non riceve più valore da un Senso ultimo e definitivo: è quella malattia che tutti i grandi maestri della vita interiore cristiana avevano così finemente diagnosticato quando parlavano di taedium vitae derivante dalla distrazione e dalla curiosità, nel senso forte che essi davano a queste parole. È merito indubbio di Heidegger l’aver definitivamente chiarito che l’unico significato reale dell’essere per l’intelligenza dell’uomo di oggi allora non può darsi che nell’orizzonte del tempo che è sempre ed unicamente tempo umano così che la libertà si chiude completamente dentro la finitezza. Questa non è più il luogo in cui si decide il singolo davanti a Dio ma solo il luogo in cui si decide davanti al mondo, alla storia, alla società.

Il male dell’intelligenza e la conseguente corruzione del concetto di libertà ha finito coerentemente prima nell’immoralismo, nel considerare cioè bene e male come momenti dialetticamente necessari per lo sviluppo autonomo del soggetto, e poi nell’amoralismo, nel considerare cioè bene e male come categorie non aventi più significato nessun proprio. Unica realtà è il farsi dell’uomo dentro alla storia e alla società, guidato solo dal criterio della efficacità: tutta la realtà, sia come natura che come storia, deve essere compresa solo come mondo umano ossia come realizzazione pura che l’uomo fa delle sue aspirazioni, dei suoi progetti. È il mondo come volontà e rappresentazione (Die Welt als Wille und Vorstellung), come lotta di classe (Klas-senkampf) come identità di verità e libertà, come prassi criterio ultimo di verità.

Dentro a questo contesto il primo compito della Chiesa ed in modo particolare del Magistero, è quello di servire l’uomo di oggi, di salvare l’uomo dalla malattia della sua intelligenza. In che modo? e perché soprattutto il Magistero?

Il primo servizio è quello di illuminare l’uomo di oggi, di mostrargli il cammino verso la Trascendenza che egli sembra aver smarrito. Nel campo morale ciò significa la necessità di richiamare con grande chiarezza i fondamenti stessi dell’ordine etico contestando sia la determinazione ultima immanentistica del destino umano sia la concezione corrotta di libertà come possibilità di tutte le possibilità e del contrario di tutte sia la identificazione (dialettica) di bene e male attraverso la chiara riproposizione di Dio come fine ultimo dell’uomo e che si è rivelato in Cristo della libertà come potere di riconoscere il bene e le norme obiettive che ne discendono iscritte nell’essere umano compiutamente rivelato nel Cristo della singolarità umana che si costituisce originariamente nel suo davanti a Dio attraverso le azioni compiute nel tempo. I tre numeri della Dichiarazione esaminati sono la chiara testimonianza della cura della Chiesa per salvare l’uomo richiamandolo alla sua vera vocazione.

Perché soprattutto il Magistero è coinvolto in questo servizio? Innanzi tutto perché ai Vescovi è affidato di pascere il gregge di Cristo ed il primo dovere pastorale è di annunciare la Verità di Cristo difendendola anche dagli errori che sono la più grave insidia alla salvezza dell’uomo. Sono al riguardo di incredibile attualità le parole di S. Ireneo: "Gli apostoli inviati per ritrovare gli erranti, illuminare i ciechi e guarire gli ammalati non hanno certamente parlato loro secondo le opinioni del momento ma secondo le esigenze della Verità che essi annunciavano. Infatti nessuno agirebbe bene se vedendo dei ciechi sul punto di cadere in un precipizio li spingesse a proseguire in quella direzione tanto pericolosa come se questa fosse la retta via che conduce al termine. E quale medico, volendo guarire un ammalato, obbedirebbe più ai capricci dello stesso che alle regole della medicina? Ora che il Signore sia venuto come medico dei malati egli stesso lo dice quando afferma: non sono i sani ad aver bisogno del medico ma gli ammalati. Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a penitenza. Come dunque gli infermi guariranno? e come i peccatori faranno penitenza? Orse continuando nelle medesime disposizioni? o non piuttosto accettando un profondo cambiamento e conversione nel loro antico modo di vivere che ha causato in loro malattie tanto gravi e tanti peccati. Ora l’ignoranza, madre di tutti questi mali, non può essere scacciata che dalla conoscenza. È dunque la conoscenza che il Signore donava ai suoi discepoli ed è mediante essa che Egli guariva gli ammalati e convertiva i peccatori. E perciò Egli non parlava loro conformandosi alle loro opinioni precedenti né rispondeva secondo i pregiudizi di chi lo interrogava, ma secondo la dottrina della Salvezza, senza ipocrisia e senza accezione di persone" (Adv. Haer. III, 5, 2; ed. SC 211, p. 57-61).

E così i pastori, successori degli Apostoli, sono chiamati anche nel campo della morale a dare testimonianza alla Verità che salva indicando il retto cammino, costretti spesso a contestare un mondo che non conosce il Padre. Così la loro predicazione finisce come deve finire, nel "martyrion", nel soffrire cioè la "beata passione" di rendere testimonianza alla Verità non seguendo le mode del tempo e non andando, come Pietro giovane, dove essi vogliono ma sulla Croce per aver reso testimonianza alla Verità.

Solo sulla base di una ritrovata identità indicatagli dal Magistero, il credente potrà continuare il suo dialogo col mondo, anche per ciò che concerne i problemi morali.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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