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NUOVO Documento rapporti ebraismo a 50 anni da Nostra aetate

Ultimo Aggiornamento: 23/01/2016 18:47
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11/12/2015 18:55
 
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3. La rivelazione nella storia come "Parola di Dio" nell’ebraismo e nel cristianesimo

21. Nell’Antico Testamento ci viene presentato il piano salvifico di Dio per il suo popolo (cfr. "Dei verbum", n. 14). Questo piano salvifico è espresso chiaramente all’inizio della storia biblica, nella chiamata di Abramo (cfr. Gen 12 ss). Per rivelare se stesso e per parlare all’umanità, redimendola dal peccato e radunandola come un unico popolo, Dio ha iniziato con lo scegliere il popolo di Israele attraverso Abramo, separandolo dagli altri popoli. A questo popolo Dio si è rivelato poco a poco per mezzo dei suoi inviati, dei suoi profeti, come il vero Dio, l’unico Dio, il Dio vivente, il Dio redentore. L’elezione divina è un aspetto costitutivo del popolo di Israele. Soltanto dopo il primo grande intervento del Dio redentore, la liberazione dalla schiavitù d’Egitto (cfr. Es 13,17 ss) e la stipula dell’Alleanza sul Sinai (cfr. Es 19 ss), le dodici tribù sono diventate una vera e propria nazione ed hanno acquisito la consapevolezza di essere il popolo di Dio, coloro ai quali erano stati trasmessi il messaggio di Dio e le sue promesse, i testimoni della benevolenza misericordiosa di Dio nel mezzo delle nazioni ed anche per il bene delle nazioni (cfr. Is 26,1-9; 54; 60; 62). Per istruire il suo popolo su come adempiere la sua missione e su come trasmettere la rivelazione affidatagli, Dio ha dato ad Israele la legge che definisce come deve vivere (cfr. Es 20; Dt 5) e che lo distingue dagli altri popoli.

22. Come la Chiesa stessa anche ai giorni nostri, Israele trasporta il tesoro della sua elezione in fragili vasi. La relazione di Israele con il suo Signore è la storia della sua fedeltà e della sua infedeltà. Per compiere la sua opera redentrice, nonostante la piccolezza e la fragilità degli strumenti da lui scelti, Dio ha manifestato la sua misericordia e la grazia dei suoi doni, così come la fedeltà alle sue promesse che nessuna infedeltà umana può annullare (cfr. Rm 3,3; 2 Tm 2,13). In ogni tappa del cammino del suo popolo, Dio si è scelto almeno un "piccolo numero" (cfr. Dt 4,27), un "resto" (cfr. Is 1,9; Sof 3,12; cfr. anche Is 6,13; 17,5-6), un’esigua comunità di fedeli che "non hanno piegato le ginocchia a Baal" (cfr. 1 Re 19,18). Attraverso questo resto, Dio ha realizzato il suo piano salvifico. Oggetto costante della sua elezione e del suo amore è sempre rimasto il suo popolo, perché attraverso di esso –come obiettivo finale- tutta l’umanità viene riunita e condotta a Dio.

23. La Chiesa è chiamata il nuovo popolo di Dio (cfr. "Nostra aetate", n. 4), ma non nel senso che Israele, il popolo di Dio, ha cessato di esistere. La Chiesa è stata "mirabilmente preparata nella storia del popolo d’Israele e nell’antica Alleanza" ("Lumen gentium", n. 2). La Chiesa non sostituisce Israele, popolo di Dio, poiché, in quanto comunità fondata in Cristo, rappresenta in Cristo il compimento delle promesse fatte a Israele. Ciò non significa che Israele, non essendo pervenuto a tale compimento, non debba più essere considerato come il popolo di Dio: "E se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio, gli ebrei tuttavia non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla sacra Scrittura" ("Nostra aetate", n. 4).

24. Dio si è rivelato nella sua Parola, così che può essere compreso dall’umanità in situazioni storiche concrete. Questa Parola invita tutti gli uomini a rispondere. Se la loro risposta è in accordo con la Parola di Dio, il loro rapporto con Dio è giusto. Per gli ebrei, questa Parola può essere imparata attraverso la Torah e la tradizione basata su di essa. La Torah è l’insegnamento per condurre una vita riuscita nella giusta relazione con Dio. Chi osserva la Torah ha la vita nella sua pienezza (cfr. Pirqe Avot II, 7). Osservando la Torah, l’ebreo prende parte alla comunione con Dio. Al riguardo, Papa Francesco ha affermato: "Le confessioni cristiane trovano la loro unità in Cristo; l’ebraismo trova la sua unità nella Torah. I cristiani credono che Gesù Cristo è la Parola di Dio fattasi carne nel mondo; per gli ebrei la Parola di Dio è presente soprattutto nella Torah. Entrambe le tradizioni di fede hanno per fondamento il Dio Unico, il Dio dell’Alleanza, che si rivela agli uomini attraverso la sua Parola. Nella ricerca di un giusto atteggiamento verso Dio, i cristiani si rivolgono a Cristo quale fonte di vita nuova, gli ebrei all’insegnamento della Torah." (Discorso ai membri dell’ International Council of Christians and Jews, 30 giugno 2015).

25. L’ebraismo e la fede cristiana, così come sono presentati nel Nuovo Testamento, sono due modi in cui il popolo di Dio può far proprie le Sacre Scritture di Israele. Le Scritture che i cristiani chiamano Antico Testamento sono dunque aperte ad entrambi i modi. Una risposta alla Parola salvifica di Dio che sia conforme all’una o all’altra tradizione può dunque dischiudere l’accesso a Dio, sebbene spetti all’intervento divino determinare in che modo egli intenda salvare gli uomini in ciascuna circostanza. Il fatto che la volontà salvifica di Dio sia rivolta a tutta l’umanità è testimoniato dalle Scritture (cfr. Gen 12,1-3; Is 2,2-5; 1 Tm 2,4). Pertanto, non esistono due strade diverse che conducono alla salvezza, secondo il motto "Gli ebrei sono fedeli alla Torah, i cristiani a Cristo". La fede cristiana professa che l’opera salvifica di Cristo è universale e si rivolge a tutti gli uomini. La Parola di Dio è una realtà unica e indivisa che assume una forma concreta nel contesto storico di ciascuno.

26. In questo senso, i cristiani affermano che Gesù Cristo può essere considerato come la "Torah vivente di Dio". Torah e Cristo sono Parola di Dio, rivelazione di Dio per noi uomini quale testimonianza del suo amore sconfinato. Per i cristiani, la preesistenza di Cristo come Parola e come Figlio del Padre è un’affermazione dottrinale fondamentale; secondo la tradizione rabbinica, la Torah ed il nome del Messia esistono già prima della creazione (cfr. Genesi Rabbah 1,1). Inoltre, nella visione ebraica, Dio stesso interpreta la Torah nell’Eschaton, mentre, secondo il pensiero cristiano, tutto è ricapitolato in Cristo alla fine dei tempi (cfr. Ef 1,10; Col 1,20). Nel Vangelo di Matteo, Cristo è presentato come il "nuovo Mosè". Matteo 5,17-19 mostra Gesù come l’interprete autorevole ed autentico della Torah (cfr. Lc 24,27. 45-47). Nella letteratura rabbinica troviamo invece l’identificazione della Torah con Mosè. In questo contesto, Cristo quale "nuovo Mosè" può essere collegato alla Torah. La Torah e Cristo sono il luogo della presenza di Dio nel mondo, nel modo in cui tale presenza è sperimentata nelle rispettive comunità di culto. Il termine ebraico dabar significa sia parola che evento – e ciò potrebbe suggerire che la parola della Torah può aprirsi all’evento di Cristo.


4. La relazione tra Antico e Nuovo Testamento e tra Antica e Nuova Alleanza

27. L’Alleanza offerta da Dio a Israele è irrevocabile. "Dio non è un uomo da potersi smentire" (Nm 23,19; cfr. 2 Tm 2,13). La permanente fedeltà elettiva di Dio espressa nelle alleanze precedenti non è mai stata ripudiata (cfr. Rm 9,4; 11,1-2). La Nuova Alleanza non revoca le precedenti alleanze, ma le porta a compimento. Attraverso l’evento di Cristo, i cristiani hanno compreso che tutto ciò che era avvenuto nel passato doveva essere interpretato in maniera nuova. Per i cristiani, la Nuova Alleanza ha una qualità tutta sua, anche se la caratteristica di ciascuna alleanza è quella di vivere una relazione specifica con Dio (cfr. la formula dell’alleanza in Lv 26,12, "sarò vostro Dio e voi sarete il mio popolo"). Per i cristiani, la Nuova Alleanza in Cristo è il punto culminante delle promesse di salvezza dell’Antica Alleanza ed, in tale misura, non è mai indipendente da essa. La Nuova Alleanza ha per base e fondamento l’Antica, poiché è il Dio di Israele che stringe l’Antica Alleanza con il popolo di Israele e rende possibile la Nuova Alleanza in Gesù Cristo. Gesù vive al tempo dell’Antica Alleanza, ma con la sua opera salvifica nella Nuova Alleanza conferma e perfeziona le dimensioni dell’Antica. Il termine Alleanza indica una relazione con Dio che si realizza in modo diverso per ebrei e cristiani. La Nuova Alleanza non può mai sostituire l’Antica, ma la presuppone e le conferisce una nuova dimensione di senso, rafforzando quella natura personale di Dio che è stata rivelata nell’Antica Alleanza e definendo tale natura come apertura a tutti coloro che risponderanno fedelmente tra tutte le nazioni (cfr. Zc 8,20-23; Sal 87).

28. Unità e differenze tra ebraismo e cristianesimo sono apparse in primo piano innanzitutto con la testimonianza della rivelazione divina. Per il fatto che l’Antico Testamento è parte integrante dell’unica Bibbia cristiana, vi è un senso di appartenenza profondamente radicato ed un intrinseco legame tra ebraismo e cristianesimo. Il cristianesimo affonda le sue radici nell’Antico Testamento e da tali radici trae continuamente nutrimento. Ma il cristianesimo si fonda sulla persona di Gesù di Nazareth, che è riconosciuto come il Messia promesso al popolo ebraico e come l’unigenito Figlio di Dio e che, dopo la sua morte in croce e la sua risurrezione, ha comunicato se stesso per mezzo dello Spirito Santo. Con l’esistenza del Nuovo Testamento, molto presto si è posta la domanda di capire come i due Testamenti si rapportano l’uno all’altro e se ad esempio gli scritti neotestamentari non abbiano superato tutti gli scritti più antichi, annullandone la validità. Questa era la posizione sostenuta nel secondo secolo da Marcione, il quale affermò che il Nuovo Testamento aveva reso obsoleto il libro di promesse dell’Antico Testamento, destinato a svanire nello splendore del Nuovo, proprio come la luce della luna è resa superflua dal sorgere del sole. Questa marcata antitesi tra Bibbia ebraica e Bibbia cristiana non è mai diventata dottrina ufficiale della Chiesa cristiana. Escludendo Marcione dalla comunità cristiana nel 144, la Chiesa ha respinto il suo concetto di una Bibbia unicamente "cristiana" depurata da tutti gli elementi veterotestamentari, ha testimoniato la propria fede nell’unico Dio, autore di entrambi i Testamenti, e, così facendo, è rimasta fedele all’unità dei due Testamenti, alla "concordia testamentorum".

29. Questa, naturalmente, è soltanto una faccia del rapporto tra i due Testamenti. Il patrimonio comune dell’Antico Testamento non ha solo costituito la base fondamentale del legame spirituale tra ebrei e cristiani, ma ha anche comportato una tensione di fondo nelle relazioni tra le due tradizioni di fede. Questo traspare dal fatto che i cristiani leggono l’Antico Testamento alla luce del Nuovo, nella convinzione dichiarata da Agostino nella sua pregnante formula: "L’Antico Testamento si mostra nel Nuovo, mentre il Nuovo è nascosto nell’Antico" (Quaestiones in Heptateuchum 2,73). Papa Gregorio Magno si espresse in maniera analoga quando definì l’Antico Testamento "profezia del Nuovo" ed il Nuovo "il migliore commento all’Antico" (Homiliae in Ezechielem I, VI, 15; cfr. "Dei verbum", n. 16).

30. Questa esegesi cristologica può facilmente dare l’impressione che i cristiani considerino il Nuovo Testamento non solo come compimento dell’Antico, ma anche come sua sostituzione. Per capire l’infondatezza di tale impressione basti pensare al fatto che anche l’ebraismo, dopo la catastrofe della distruzione del secondo Tempio nell’anno 70, si vide costretto ad adottare una nuova lettura delle Scritture. Poiché i sadducei, che erano legati al Tempio, non sopravvissero a tale catastrofe, i rabbini, sulla scia dei farisei che avevano già sviluppato il loro modo particolare di leggere ed interpretare le Scritture, portarono avanti questa attività esegetica, senza più il Tempio quale centro del culto ebraico.

31. Di conseguenza, si profilarono due risposte a questa situazione o, per meglio dire, due nuovi modi di leggere le Scritture, ovvero l’esegesi cristologica dei cristiani e l’esegesi rabbinica di quella forma di ebraismo che ebbe uno sviluppo storico. Poiché ciascuna modalità comportava una nuova interpretazione delle Scritture, la questione cruciale consiste ora nel comprendere precisamente come queste due modalità si rapportano l’una all’altra. Tuttavia, dato che la Chiesa cristiana e l’ebraismo rabbinico post-biblico si svilupparono in parallelo, ma anche in una reciproca opposizione ed ignoranza, non è possibile trovare una risposta a questa domanda basandosi soltanto sul Nuovo Testamento. Dopo secoli di contrapposizioni, il dovere del dialogo ebraico-cattolico è ora quello di far interloquire tra loro questi due nuovi modi di leggere le Scritture bibliche, per individuare la "ricca complementarietà" laddove esiste ed "aiutarci vicendevolmente a sviscerare le ricchezze della Parola" ("Evangelii gaudium", n. 249). Pertanto, il documento della Pontificia Commissione Biblica del 2001, "Il popolo ebraico e le sue sacre Scritture nella Bibbia cristiana", afferma che i cristiani possono e devono ammettere che "la lettura ebraica della Bibbia è una lettura possibile, che si trova in continuità con le sacre Scritture ebraiche dall’epoca del secondo Tempio ed è analoga alla lettura cristiana, che si è sviluppata parallelamente ad essa. Ciascuna delle due letture è correlata con la rispettiva visione di fede di cui essa è un prodotto e un’espressione, risultando di conseguenza irriducibili l’una all’altra" (n. 22).

32. Poiché entrambe le letture sono al servizio di una giusta comprensione della volontà e della Parola di Dio, è evidente quanto sia importante essere consapevoli che la fede cristiana è radicata nella fede di Abramo. Ciò solleva l’ulteriore questione di capire come si rapportano tra loro Antica e Nuova Alleanza. Per la fede cristiana è inconfutabile che possa esserci soltanto un’unica storia dell’alleanza tra Dio e l’umanità. L’alleanza con Abramo, il cui segno è la circoncisione (cfr. Gen 17), e la seconda alleanza con Mosè ristretta ad Israele, che vincola all’obbedienza di fronte alla Legge (cfr. Es 19,5; 24,7-8) ed in particolare all’osservanza dello Shabbat (cfr. Es 31,16-17), sono state estese all’intera creazione (cfr. Gen 9,9 ss) nell’alleanza con Noè, il cui segno è l’arcobaleno (cfr. "Verbum Domini", n. 117). Attraverso i profeti poi, Dio propone una nuova ed eterna alleanza (cfr. Is 55,3; 61,8; Ger 31,31-34; Ez 36,22-28). Ciascuna di queste alleanze incorpora la precedente e la interpreta in maniera nuova. Questo vale anche per la Nuova Alleanza, che per i cristiani è l’alleanza eterna conclusiva e dunque l’interpretazione definitiva di ciò che era stato promesso ai profeti dell’Antico Testamento o, come dice Paolo, il "sì" e l’ "Amen" a "tutte le promesse di Dio" (2 Cor 1,20). La Chiesa, quale rinnovato popolo di Dio, è stata eletta da Dio incondizionatamente. La Chiesa è il luogo definitivo e insuperabile dell’azione salvifica di Dio. Ciò non significa che Israele, quale popolo di Dio, sia stato ripudiato o abbia perso la sua missione (cfr. "Nostra aetate", n. 4). La Nuova Alleanza, per i cristiani, non è né l’annullamento né la sostituzione, ma il compimento delle promesse dell’Antica Alleanza.

33. Per il dialogo ebraico-cristiano, si rivela costitutiva soprattutto l’alleanza di Dio con Abramo, poiché egli non è solo il padre di Israele, ma è anche il padre della fede dei cristiani. In questa comunione di alleanza, deve essere chiaro per i cristiani che l’alleanza stretta da Dio con Israele, in virtù dell’incrollabile fedeltà di Dio al suo popolo, non è mai stata revocata e rimane valida; di conseguenza, la Nuova Alleanza in cui credono i cristiani può essere intesa solo come conferma e compimento dell’Antica. I cristiani sono anche convinti che, attraverso la Nuova Alleanza, l’alleanza abramitica abbia acquisito quell’universalità rivolta a tutti i popoli, che era originariamente sottesa nella chiamata di Abramo (cfr. Gen 12,1-3). Per la fede cristiana, questo riferimento all’alleanza abramitica è un aspetto talmente costitutivo che, senza Israele, la Chiesa rischierebbe di perdere la sua collocazione nella storia della salvezza. Dal canto loro, sempre per quanto riguarda l’alleanza abramitica, gli ebrei potrebbero arrivare alla conclusione che, senza la Chiesa, Israele correrebbe il rischio di rimanere troppo particolarista e di non comprendere a sufficienza l’universalità della sua esperienza di Dio. In questo senso fondamentale, Israele e la Chiesa, conformemente all’alleanza, restano strettamente legati ed interdipendenti.

34. Che possa esserci soltanto un’unica storia dell’alleanza di Dio con l’umanità e che, di conseguenza, Israele sia il popolo eletto e amato da Dio, il popolo dell’alleanza, che non è mai stata sostituita o revocata (cfr. Rm 9,4; 11,29), è la convinzione alla base dell’appassionato sforzo dell’Apostolo Paolo di conciliare, da un lato, il fatto che l’Antica Alleanza di Dio continua ad essere valida e, dall’altro, il fatto che Israele non ha accolto la Nuova Alleanza. Per rendere giustizia a entrambi, Paolo ha ideato l’immagine eloquente della radice di Israele nella quale sono stati innestati i rami selvatici dei gentili (cfr. Rm 11,16-21). Si potrebbe dire che Gesù Cristo porta in sé la radice vivente dell’ "oleastro" e che, in un senso ancora più profondo, l’intera promessa è in lui radicata (cfr. Gv 8,58). Questa immagine è per Paolo la chiave decisiva per interpretare la relazione tra Israele e la Chiesa alla luce della fede. Con questa immagine, Paolo esprime la duplice realtà dell’unità e della differenza tra Israele e la Chiesa. Da un lato, questa immagine deve essere compresa nel senso che i rami selvatici innestati non sono all’origine i rami della pianta nella quale vengono innestati; la loro nuova situazione rappresenta una nuova realtà e una nuova dimensione dell’opera salvifica di Dio, tanto che la Chiesa cristiana non può essere semplicemente intesa come un ramo o un frutto di Israele (cfr. Mt 8,10-13). Dall’altro lato, questa immagine deve essere compresa anche nel senso che la Chiesa trae nutrimento e forza dalla radice di Israele ed i rami innestati avvizzirebbero o addirittura morirebbero se fossero recisi da tale radice (cfr. "Ecclesia in Medio Oriente", n. 21).


5. L’universalità della salvezza in Gesù Cristo e l’alleanza mai revocata di Dio con Israele

35. Poiché Dio non ha mai revocato la sua alleanza con il suo popolo Israele, non possono esserci vie o approcci diversi alla salvezza di Dio. La teoria che afferma l’esistenza di due vie salvifiche diverse, la via ebraica senza Cristo e la via attraverso Cristo, che i cristiani ritengono essere Gesù di Nazareth, metterebbe di fatti a repentaglio le basi della fede cristiana. Confessare la mediazione salvifica universale e dunque anche esclusiva di Gesù Cristo fa parte del fulcro della fede cristiana tanto quanto confessare il Dio uno e unico, il Dio di Israele che, rivelandosi in Gesù Cristo, si è manifestato pienamente come il Dio di tutti i popoli, nella misura in cui in Cristo si è compiuta la promessa che tutti i popoli pregheranno il Dio di Israele come l’unico Dio (cfr. Is 56,1-8). Nel documento pubblicato nel 1985 dalla Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo della Santa Sede "Circa una corretta presentazione degli ebrei e dell’ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica" si afferma dunque che la Chiesa e l’ebraismo non possono essere presentati come "due vie parallele di salvezza" e che la Chiesa deve "testimoniare il Cristo Redentore a tutti" (n. I,7). La fede cristiana confessa che Dio vuole condurre tutti gli uomini alla salvezza, che Gesù Cristo è il mediatore universale della salvezza e che non vi è "altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati" (At 4,12).

36. Dalla confessione cristiana di un’unica via di salvezza non consegue, però, che gli ebrei sono esclusi dalla salvezza di Dio perché non credono in Gesù Cristo quale Messia di Israele e Figlio di Dio. Tale affermazione non troverebbe fondamento nella visione soteriologica di San Paolo, il quale, nella Lettera ai Romani, esprime la sua convinzione non soltanto che non può esserci una rottura nella storia della salvezza, ma anche che la salvezza viene dagli ebrei (cfr. anche Gv 4,22). Dio ha affidato a Israele una missione unica e non porterà a compimento il suo misterioso piano di salvezza rivolto a tutti i popoli (cfr. 1 Tm 2,4) senza coinvolgere il suo "figlio primogenito" (Es 4,22). Vediamo dunque chiaramente che Paolo, nella Lettera ai Romani, risponde in maniera negativa e determinata alla domanda che lui stesso si è posto, ovvero se Dio abbia ripudiato il suo popolo. In maniera altrettanto decisa afferma: "perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!" (Rm 11,29). Il fatto che gli ebrei abbiano parte alla salvezza di Dio è teologicamente fuori discussione, ma come questo sia possibile senza una confessione esplicita di Cristo è e rimane un mistero divino insondabile. Non è dunque un caso che le riflessioni soteriologiche di Paolo in Romani 9-11 circa la salvezza definitiva degli ebrei sullo sfondo del mistero di Cristo culminino in una magnifica dossologia: "O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!" (Rm 11,33). Bernardo di Chiaravalle (De consideratione III/I,3) dice che per gli ebrei "è stato fissato un tempo che non può essere anticipato".

37. Un altro punto focale per i cattolici deve continuare ad essere l’assai complessa questione teologica di come conciliare in maniera coerente la fede cristiana nel ruolo salvifico universale di Gesù Cristo con la convinzione di fede altrettanto chiara che afferma l’esistenza di un’alleanza mai revocata di Dio con Israele. La Chiesa crede che Cristo è il Salvatore di tutti. Non possono dunque esserci due vie di salvezza, poiché Cristo è il redentore degli ebrei oltre che dei gentili. Qui ci troviamo davanti al mistero dell’agire divino, che non chiama in causa sforzi missionari volti alla conversione degli ebrei, ma l’attesa che il Signore realizzi l’ora in cui tutti saremo uniti, "in cui tutti i popoli acclameranno il Signore con una sola voce e ‘lo serviranno sotto uno stesso giogo’" ("Nostra aetate", n. 4).

38. La Dichiarazione sull’ebraismo del Concilio Vaticano Secondo, ovvero il quarto articolo di "Nostra aetate", si situa in un quadro decisamente teologico per quanto riguarda l’universalità della salvezza in Gesù Cristo e l’Alleanza irrevocata di Dio con Israele. Ciò non significa che nel testo siano state risolte tutte le questioni teologiche sorte nelle relazioni tra cristianesimo ed ebraismo. Tali questioni sono state inserite nella Dichiarazione, ma richiedono un’ulteriore riflessione teologica. Naturalmente esistono testi precedenti del Magistero sull’ebraismo, ma "Nostra aetate" (n. 4) presenta la prima panoramica teologica sulle relazioni della Chiesa cattolica con gli ebrei.

39. A motivo della grande svolta teologica apportata, il testo conciliare non di rado è stato sovra-interpretato e vi sono stati letti aspetti che esso in realtà non contiene. Un esempio importante di sovra-interpretazione è la seguente affermazione: che l’alleanza stretta da Dio con il suo popolo Israele è sempre in vigore e non sarà mai invalidata. Per quanto vera sia tale affermazione, questa non si trova esplicitamente espressa in "Nostra aetate" (n. 4). Essa è stata invece espressa per la prima volta con assoluta chiarezza dal Santo Papa Giovanni Paolo II, quando ha osservato, durante un incontro con i rappresentanti della comunità ebraica di Magonza, il 17 novembre 1980, che l’Antica Alleanza non è mai stata revocata da Dio: "La prima dimensione di questo dialogo, cioè l’incontro tra il popolo di Dio del Vecchio Testamento, da Dio mai denunziato […], e quello del Nuovo Testamento, è allo stesso tempo un dialogo all’interno della nostra Chiesa, per così dire tra la prima e la seconda parte della sua Bibbia" (n. 3). La stessa convinzione è affermata anche nel Catechismo della Chiesa del 1993: "l’Antica Alleanza non è mai stata revocata" (121).




  continua




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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