A tutti voi che passate da qui: BENVENUTI
Se avete desiderio di capire che cosa insegna la Bibbia che il Magistero della Santa Chiesa, con il Sommo Pontefice ci insegna, questo Gruppo fa per voi. Non siamo "esperti" del settore, ma siamo Laici impegnati nella Chiesa che qui si sono incontrati da diverse parti d'Italia per essere testimoni anche nella rete della Verità che tentiamo di vivere nel quotidiano, come lo stesso amato Giovanni Paolo II suggeriva.
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Brevi meditazioni dai Padri, dai Santi e Dottori della Chiesa

Ultimo Aggiornamento: 20/09/2018 20:39
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26/08/2016 12:46
 
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TESTI E MASSIME DI GREGORIO MAGNO PAPA

 
"Tutti i peccatori difendono un altro peccatore nel male in cui sono implicati anche loro"

(Peccatores quique in quo sibi male sunt conscii, in eo et alium peccantem defendunt)".

Commento morale a Giobbe, VI, XXXIII, 10. Città Nuova editrice1/4, Roma 2001, p. 419.





"Viene messo sul cuore il sigillo dello sposo, quando viene impresso il mistero della sua fede a custodia del nostro pensiero, affinché quel servo infedele, cioè il nostro avversario, quando osserva i cuori segnati dalla fede, non osi fare irruzione in essi con la tentazione.
(Sponsus ergo in cor signaculum ponitur quando fidei eius mysterium in custodia nostrae cogitationi imprimitur, ut ille infidelis servus, nimirum noster adversarius, cum signata fide corda considerat, temptando ea irrumpere non praesumat)".
Commento morale a Giobbe, VI, XXIX, 12. Città Nuova Editrice/4, Roma 2001, p.87.



"La vita attiva è molto differente da quella contemplativa, ma quando è venuto il nostro Redentore, incarnandosi, mentre mostrò l'una e l'altra, associò in sé l'una e l'altra. Infatti quando compiva i miracoli in città e poi passava la notte in continua preghiera, offrì ai suoi discepoli l'esempio perché, attendendo alla contemplazione, non trascurassero il prossimo e, viceversa, impegnandosi in modo eccessivo nella cura del prossimo, non trascurassero l'impegno della contemplazione ma, dedicandosi ad ambedue le cose, le congiungessero in modo tale che né l'amore del prossimo ostacolasse l'amore di Dio, né l'amore di Dio, che è prioritario, trascurasse l'amore del prossimo".
Commento morale a Giobbe, VI, XXVIII, 33. Città Nuova Editrice/4, Roma 2001, p.57.


Lucerna del  corpo è l'occhio (Lc 11,34) perché il valore dell'azione è illuminato dal raggio della retta intenzione (quia per bonae intentionis radium merita illustrantur actionis). Se il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce (Ivi). Infatti se noi abbiamo un'intenzione retta con un pensiero semplice, compiamo un'opera buona, anche se appare meno buona. Ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo copro sarà tenebroso; perché quando si compie un'azione, anche retta, con intenzione perversa, anche se può apparire splendida agli occhi dellgli uomini, al giudizio del giudice è tenebrosa (quia cum perversa intentione quid vel rectum agitur, etsi splendore coram hominibus cernitur, apud examen tamen interni iudicis obscuratur)".
Commento morale a Giobbe VI, XXVIII, 30, Città Nuova Editrice/4, Roma 2001, p.55.


"Si distende l'arco appunto per poterlo utilmente tendere al momento opportuno. Se non c'è una pausa di distensione, a causa della stessa tensione l'arco perde la forza di colpire. Così la virtù si maniene in esercizio se qualche volta per discrezione si sospende, e tanto più validamente colpisce poi i vizi, quanto più, per un certo tempo, smette di colpire per discrezione .
 
(Ex studio namque arcus distenditur, ut in suo tempore cum utilitate tendatur. Qui si otium relaxationis non accipit, feriendi virtutem ipso usu tensionis perdit. Sic aliquando in exercitatione virtus, cum per discretionem praetermittitur, reservatur ut tanto, post, vitia valenter feriat, quanto a percussione interim prudenter cessat").
Commento morale a Giobbe, VI, XXVIII, 29. Città Nuova Editrice/4, Roma 2001, p.53.
 
 
"Mancando la discrezione, 
si perde spesso una virtù 
che si sarebbe consolidata se, 
per discrezione, 
fosse stata sospesa.  
 
(Plerumque enim virtus 
cum indiscrete tenetur 
amittitur,
cumque discrete intermittitur, 
plus tenetur)"
 
Commento morale a Giobbe, VI, XXVIII, 29. Città Nuova Editrice/4, Roma 2001, p.53.


"Non sempre la stessa cosa 
è virtù, 
perché spesso 
col mutare delle situazioni 
muta il valore 
delle azioni stesse"
 
(Non enim res eadem 
semper est virtus, 
quia per momenta temporum 
saepe merita mutantur actionum)"
Commento morale a Giobbe, VI, XXVIII, 28, Città Nuova Editrice/4, Roma 2001, p.51.


"Sporge il piede 
sul precipizio, 
chi non tiene conto 
del limite 
delle sue dimensioni.
 
(In praecipiti enim 
pedem porrigit 
qui mensurarum suarum 
limitem 
non attendit)".
Commento morale a Giobbe, VI, XXVIII, 24. Città Nuova Editrice/4, Roma 2001, p.49.


"Che è infatti 
la santa Chiesa, 
se non il corpo 
del suo capo divino?
 
Quid enim 
sancta Ecclesia, 
nisi superni sui capitis 
corpus est?"
Commento morale a Giobbe, VI, XXVIII, 23. Città Nuova Editrice/4, Roma 2001, pag. 47.


"I santi dottori vengono chiamati base, perché se predicano la verità e la loro vita è in armonia con la loro predicazione (quia dum recta praedicant, et praedicationi suae vivendo concordant), con la stabile solidità dei loro costumi sostengono tutto il peso della Chiesa, sopportano dure prove da parte degli increduli e, con l'esempio delle loro opere, dimostrano che sono facili anche i precetti che i fedeli ritengono difficili".
Commento morale a Giobbe, VI, XXVIII, 17. Città Nuova Editrice/4, Roma 2001, p.41.


"Nelle Scritture ai termini semplici e chiari si mescolano certe cose oscure affinché, guidati  da ciò che è privo di senso letterale, si possa  scoprire il senso mistico anche di ciò che appare sensato secondo la lettera (rebus planis ac patentibus obscura quaedam ac dissona permiscentur, ut per hoc quod ab intellectu litterae discrepat et illud inquiratur mystice quod dictum iuxta litteram sonat). E infatti come mediante alcune cose chiare ne conosciamo altre oscure, così può succedere che le parti oscure del testo ci spingano a individuare un significato più elevato anche in quelle parti che ritenevamo chiare".
Commento morale a Giobbe, VI, XXVIII, 14. Città Nuova Editrice/4, pp.35.37.


"I giusto, non riuscendo a penetrare per mezzo della conoscenza nelle profondità del mistero, bussa alla porta del segreto di Dio e rimane lì davanti, riconoscendo umilmente la propria impotenza e, timoroso, loda di fuori quel che non  riesce a comprendere dentro".
Commento morale a Giobbe, VI, XXVIII, 13. Città Nuova Editrice/4, Roma 2001, p.35.

"Si può dire che la parola che Dio ci rivolge  interiormente, più che farsi sentire, si compie dentro di noi, poiché quando penetra in noi senza la lentezza del discorso, rischiara con luce repentina le tenebre della nostra ignoranza.
(Dei locutio ad nos intrinsecus facta videtur, potius quam auditur, quia dum semetipsam sine mora sermonis insinuat, repentina luce nostrae ignorantiae tenebras illustrat)".
Commento morale a Giobbe, VI, XXVIII2. Città Nuova Editrice/4, Roma 2001, p.25.

"La Parola non fa strepito e si fa sentire senza alcun suono (Sine strepitu sermo est, qui et auditum aperit, et habere sonitum nescit). E' quanto è stato scritto della venuta dello Spirito Santo...In Atti 2, 2-3 in cui né il fuoco era Dio, né il vento era Dio, ma per mezzo di ciò che esteriormente fece sentire, significò ciò che interiormente compì. Esteriormente mostrò le lingue di fuoco, interiormente  infuocò di zelo i discepoli e li ammestrò con la sua parola. Si servì dunque degli elementi sombolici, e così, mentre i corpi avvertirono il fuoco e il vento, i cuori furono ammaestrati da un fuoco invisibile e da una parola senza suono. Fuori ci fu un fuoco invisibile, dentro il fuoco che comunicò la scienza".
Commento morale a Giobbe, VI, XXVIII, 2. Città Nuova Editrice/4, Roma 2001, p.23.


"Che cosa può talvolta rovinare un'anima più della consapevolezza della propria virtù? Gonfia di questa presunzione, viene svuotata della verità che la riempiva; e mentre le insinua che merita il premio, ne allenta la tensione verso il meglio (Quid enim peius plerumque animam quam conscia virtus interficit? Quae illam dum consideratione sua inflat, a plenitudine veritatis evacuat; et dum se ad percipienda praemia sufficere suggerit, eam a meliorationis intentione distendit)".
Commento morale a Giobbe VI, XXVIII,01, Città Nuova Editrice/4, Roma 2001.


"Zaccheo, piccolo di satura, salì sul sicomoro e vide il Signore, perché quelli che umilmente scelgono di essere stolti nel mondo diventano capaci di contemplare con acutezza la sapienza di Dio. La folla impedisce alla nostra piccolezza di vedere il Signore, nel senso che il tumulto degli affari secolari grava sulla debolezza della mente umana impedendole di scorgere la luce della verità. Ma saliamo saggiamente sul sicomoro, se provvediamo a coltivare la stoltezza che da Dio ci viene inculcata".
Commento morale a Giobbe, V, XXVII, 79. Città Muova Editrice/3, Roma 1997, p.617.


"Quelli che credono di essere sapienti non possono contemplare la sapienza di Dio, perché sono tanto più lontani dalla sua luce quanto più mancano di umiltà in se stessi. Il gonfiore della superbia, crescendo nella loro mente, chiude infatti lo sguardo alla contemplazione; e mentre essi ritengono di essere più luminosi degli altri, si privano di fatto della luce della verità.
(Contemplari enim Dei sapientiam non possunt qui sibi sapientes videntur, quia tanto ab eius luce longe sunt, quanto apud semetipsos humiles non sunt; quia in eorum mentibus dum tumor elationis crescit, aciem contemplationis claudit; et unde se lucere prae ceteris aestimant, inde se lumine veritatis privant)".
Commento morale a Giobbe, V, XXVII, 79. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 617.


"Ci sono alcuni che hanno un umile sentimento di sé, poiché, pur trovandosi in mezzo agli onori, ritengono di essere soltanto polvere e cenere, ma davanti agli uomini non vogliono apparire spregevoli e, contrariamente a ciò che pensano di se stessi, si ammantano esteriormente di un rigoroso decoro. E ci sono altri che desiderano apparire vili davanti agli uomini, non tengono conto di quel che sono mostrandosi spregevoli, ma dentro di loro si gonfiano per il merito stesso dell'ostentata umiltà, e tanto sono superbi nel cuore quanto apparentemente calpestano la superbia".
Commento morale a Giobbe, V, XXVII, 78. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 615.


"Quando una virtù viene usata per vanagloria, non è più virtù, perché è a servizio del vizio. Siccome l'origine della virtù è l'umiltà, germoglia davvero in noi quella virtù che rimane nella sua propria radice, cioè nell'umiltà. Se si stacca da questa inaridisce, perché rimane priva della linfa della carità che intimamente la alimenta.(Quia enim origo virtutis humilitas est, illa in nobis virtus veraciter pullulat, quae in radice propria, id est in humilitate, perdurat. A qua nimirum si abscinditur arescit, quia vivificantem se in intimis humorem caritatis perdit)".
Commento morale a Giobbe, V, XXVII, 76. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.613.

"Ci sono beni sommi e beni medi. Beni sommi sono la fede, la speranza e la carità. Se uno li possiede davvero, non c'è pericolo che possano cambiarsi in male. Beni medi sono la profezia, la dottrina, il potere di compiere guarigioni e simili, per i quali esistono due possibilità: o si usano unicamente in vista della patria eterna, oppure in vista, talvolta, della gloria terrena...Siccome però spesso succede che gli stessi doni che si è contenti di ricevere allontanino l'animo incauto dall'opera del donatore, occorre vigilare, provvedendo di vincere prima i vizi e poi custodire con cautela i doni (Quia ergo saepe per ipsa dona quae se percipere exultat, a manu dantis incautus animus elongat, vigilanti provisione curandum est ut et prius subigantur vitia, et post sub circumspectione dona teneantur)".
Commento morale a Giobbe, V, XXVIII76. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.613.


"I santi dottori, quando si accorgono che i loro uditori progrediscono nell'amore di Dio, s'infervorano maggiromente anch'essi nella forza del loro insegnamento; e vedendo quelli molto ardenti e ferventi in ordine alle cose celesti, acquistano maggior entusiasmo per annunciare i beni della ptaria celeste....Essi però non doverbbero attribuire mai a se stessi il merito, se vedono gli uditori  progredire verso traguardi più alti  grazie alla loro esortazione, perché se lo Spirito santo non riempie il cuore degli uditori, invano risuona la voce dei maestri agli orecchi del corpo. Possono sì, esteriormente, formulare la parola proprio di un  maestro, ma non possono imprimerla interiormente (Formulare enim vocem magistri exterius possunt, sed hanc imprimere interius non possunt)".
Commento morale a Giobbe, V, XXVII, 64. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.603.



"Sentiero stretto è vivere in questo mondo senza alcuna cupidigia delle cose del mondo (in hoc mundo vivere, sed de huius mundi concupiscentia nihil habere); non desiderare le cose altrui...per amore di Dio amare gli obbrobri...perdonare di cuore a chi ci fa del male e conservare intatto nel cuore l'amore per il Signore...Scienza perfetta poi è compiere tutte queste cose e sapere che in base ai nostri meriti siamo nulla (Perfecta scientia est haec cuncta sollicite agere et se, de suis meritis, scire nihil esse)...Scienza perfetta è anchde sapere tutto e tuttavia non sapere di essere sapiente (Perfecta scientia est scire omnia, et tamen scientem se esse nescire)".
Commneto morale a Giobbe, V, XXVII, 61.62. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.601.



"Anche nel cuore dei buoni possono entrare pensieri illeciti, ma non possono rimanervi, perché essi, onde impedire che la casa della coscienza ne rimanga prigioniera, mettono in fuga il nemico appena tocca la soglia del cuore (Et in bonis enim cordibus cogitationes illicitae veniunt, sed tamen morari prohibentur, quia recti quique ne captivandum domum conscientiae praebeant, ab ipso cordis limine hostem fugant)".
Commento morale a Giobbe, V, XXVII, 50. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.589.


"Sentire la voce dello sposo significa elevarsi mediante la forza dell'intima compunzione verso l'amore del Creatore invisibile. Ma nessuno sa da dove viene, perché non si sa in quali occasioni si effonda in noi mediante la bocca di coloro che predicano. E nessuno sa dove va, perché, quando molti ascoltano la medesima predicazione, non si può certo comprendere chi egli respinge, abbandonandolo, e nel cuore di chi entri, per riposarvi. Unico è ciò che avviene fuori, ma non è unico il modo con cui per mezzo di lui sono penetrati i cuori di quelli che sono in ascolto, perché colui che modifica le cose visibili in modo invisibile, pianta in modo incomprensibile i germi delle cause nei cuori umani (Una quippe res foris agitur, sed non per hanc uno modo intuentium corda penetrantur, quia qui invisibiliter visibilia modificat in humanis cordibus causarum semina, incomprehesibiliter plantat)".
Commento morale a Giobbe, V, XXVII, 41. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 577. 


"Il primo ascolto della voce divina avviene nella paura, per poi convertirsi in dolcezza. Prima ci raggiunge con il timore del severo giudizio per poi ristorarci, dopo averci fatto soffrire, consolandoci con superna dolcezza (Auditio igitur vocis Dei prius in terrore fit, ut post vertatur in dulcedinem, quia ante nos districti iudicii timore castigat, ut iam castigatos supernae dulcedinis consolatione reficiat)".
Commento morale a Giobbe, V, XXVII, 33, Città Nuova Editrice /3. Roma 1997, p.569.


"Il grande dono dei predicatori consiste nel saper affliggere le anime dei superbi e, dopo averle afflitte, saperle anche nutrire con la parola della consolazione...Sì Dio Onnipotente mediante i suoi predicatori prima ci scuote rimproverandoci della cattiva azione, e poi ci nutre consolandoci per mezzo della speranza (Quia nimirum Omnipotens Deus per praedicatores suos prius nos de prava actione corripiens concutit, et postmodum per spem consolans nutrit)".
Commento morale a Giobbe, V, XXVII, 22. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, P. 557.


"Nella santa Chiesa vi sono alcuni che vivono bene ma non sanno predicare il bene, quasi fossero stelle nate in tempo di siccità: possono fare luce agli altri mediante l'esempio di una vita buona, ma non sono in grado di far piovere mediante la parola della predicazione. (Stellae quidem sunt, sed in siccitate aeris natae; quia per exemplum bene vivendi lucere ceteris possunt, sed per praedicationis verbum pluere nequent)".
Commento morale a Giobbe, V, XXVII, 12. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, pp. 545-547.
 

"LAmato è cercato nel letto lungo la notte, perché lo Spirito lo si desidera nella tribolazione dentro la camera segreta del cuore. Tuttavia la sposa che lo cerca non lo trova, perché ogni anima eletta arde di amore per Lui, ma ancora non le è concesso di vedere il volto che cerca, affinché cresca il desiderio di colui che essa ama.
(Dilectus namque in lectulo per noctes quaeritur, quia intra secreta cordis cubilia in tribulatione spiritus desideratur. Quem tamen quaerens sponsa non invenit, quia electa quaeque anima iam quidem amoris eius facibus flagrat, sed adhuc quaesita negatur species, ut amantis desiderium crescat)".
Commento morale a Giobbe, V, XXVII, 4. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.539.


"Eliu, dotto e arrogante, alcune volte proferisce ciò che è profumato, altre volte ciò che punge; perciò bisogna prendere dal suo insegnamento ciò che profuma, stando tuttavia bene attenti a ciò che ferisce per la sua superbia (sumendum est de eius doctrina quod fragrat, ut tamen sollicite cavendum sit de elatione quod vulnerat)... del resto sappiamo che perfino un'asina ricevette dalla visione di un angelo parole ragionevoli (cum ex visione angeli accepisse verba rationabilia et asinam noverimus)...spesso succede un uomo qualunque riceva parole sante per mezzo dello spirito di profezia, senza che tuttavia giunga a meritare la gloria della santità; infatti con la parola succede che si elevi al di sopra di sé e con la vita precipiti al di sotto di sé (ut supra se loquendo et infra se vivendo torpescat)".
Commento morale a Giobbe, V, XXVII, 1.2. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.537.


"Il nostro Creatore permette che l'animo innalzato dalla prosperità sia improvvisamente colpito dalla tentazione, perché veda con maggiore verità la propria debolezza e dalla boria orgogliosa, che aveva assunto a motivo delle virtù, scivoli in basso divenendo migliore in se stesso...Infatti rinunziamo alla grandezza e alle prove di forza quando, sotto la spinta della colpa, siamo costretti a pensare cosa siamo (magnitudinem et robustos motus deponimus quando, pulsante vitio, cogimur pensare quid sumus)".
Commento morale a Giobbe, V, XXVI, 82. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 531.


"Se chi intende correggere 
si lascia vincere dall'ira, 
anziché correggere 
opprime"
(Si is qui corrigere nititur
 ira superatur, 
opprimit antequam corrigat)".
Commento morale a Giobbe, V, XXVI, 78. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 527.


"Quando correggiamo le colpe degli altri, è giusto che giudichiamo le nostre, affinché la mente mitighi prima la propria eccitazione e calmi prima dentro di sé con serena equità l'impeto del proprio zelo, per non cadere in peccato, volendo correggere il peccato".
(Dignum quippe est ut cum aliena corrigimus, prius nostra metiamur, ut prius mens a sua accensione deferveat e prius intra semetipsam zeli sui impetum tranquilla aequitate componat, ne si ad animadvertenda vitia abrepto furore trahimur et, peccatum corrigendo, peccemus)".
Commento morale a Giobbe, V, XXVI, 78. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 527.


"Ogni peccato è senza fondamento perché per sua natura non sussiste. Il male non è una sostanza. Tuttavia qualunque esso sia, si lamenta della natura del bene. 
(Omne peccatum fundamentum non habet, quia non ex propria natura subsistit. Malum quippe sine substantia est. Quod tamen, utcumque sit, in boni natura coalescit)".
Commento morale a Giobbe, V, XXVI, 68. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 517.


"E' ormai caduto nel pozzo chi commette ciò che la legge divina proibisce (Iam in puteum cecidit qui hoc quod divina lex prohibet perpetravit); ma se non l'opprime una lunga abitudine, il pozzo non ha ancora serrato la sua bocca. Ne esce tanto più facilmente quanto meno è prigioniero dell'abitudine (Tanto facilius egreditur, quanto minori consuetudine coartatur)."
Commento morale a Giobbe, V, XXVI, 65. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 515.


"La tribolazione 
apre l'orecchio del cuore, 
che spesso 
la prosperità di questo mondo 
chiude.
(Aurem itaque cordis 
tribulatio aperit, 
quam saepe 
huis mundi prosperitas 
claudit)".
Commento morale a Giobbe, V, XXVI, 64. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.515.



[Modificato da Caterina63 04/12/2016 00:52]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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