Commento morale a Giobbe, VI, XXVIII, 24. Città Nuova Editrice/4, Roma 2001, p.49.
"Che è infatti
la santa Chiesa,
se non il corpo
del suo capo divino?
Quid enim
sancta Ecclesia,
nisi superni sui capitis
corpus est?"
Commento morale a Giobbe, VI, XXVIII, 23. Città Nuova Editrice/4, Roma 2001, pag. 47.
"I santi dottori vengono chiamati base, perché se predicano la verità e la loro vita è in armonia con la loro predicazione (quia dum recta praedicant, et praedicationi suae vivendo concordant), con la stabile solidità dei loro costumi sostengono tutto il peso della Chiesa, sopportano dure prove da parte degli increduli e, con l'esempio delle loro opere, dimostrano che sono facili anche i precetti che i fedeli ritengono difficili".
Commento morale a Giobbe, VI, XXVIII, 17. Città Nuova Editrice/4, Roma 2001, p.41.
"Nelle Scritture ai termini semplici e chiari si mescolano certe cose oscure affinché, guidati da ciò che è privo di senso letterale, si possa scoprire il senso mistico anche di ciò che appare sensato secondo la lettera (rebus planis ac patentibus obscura quaedam ac dissona permiscentur, ut per hoc quod ab intellectu litterae discrepat et illud inquiratur mystice quod dictum iuxta litteram sonat). E infatti come mediante alcune cose chiare ne conosciamo altre oscure, così può succedere che le parti oscure del testo ci spingano a individuare un significato più elevato anche in quelle parti che ritenevamo chiare".
Commento morale a Giobbe, VI, XXVIII, 14. Città Nuova Editrice/4, pp.35.37.
"I giusto, non riuscendo a penetrare per mezzo della conoscenza nelle profondità del mistero, bussa alla porta del segreto di Dio e rimane lì davanti, riconoscendo umilmente la propria impotenza e, timoroso, loda di fuori quel che non riesce a comprendere dentro".
Commento morale a Giobbe, VI, XXVIII, 13. Città Nuova Editrice/4, Roma 2001, p.35.
"Si può dire che la parola che Dio ci rivolge interiormente, più che farsi sentire, si compie dentro di noi, poiché quando penetra in noi senza la lentezza del discorso, rischiara con luce repentina le tenebre della nostra ignoranza.
(Dei locutio ad nos intrinsecus facta videtur, potius quam auditur, quia dum semetipsam sine mora sermonis insinuat, repentina luce nostrae ignorantiae tenebras illustrat)".
Commento morale a Giobbe, VI, XXVIII2. Città Nuova Editrice/4, Roma 2001, p.25.
"La Parola non fa strepito e si fa sentire senza alcun suono (Sine strepitu sermo est, qui et auditum aperit, et habere sonitum nescit). E' quanto è stato scritto della venuta dello Spirito Santo...In Atti 2, 2-3 in cui né il fuoco era Dio, né il vento era Dio, ma per mezzo di ciò che esteriormente fece sentire, significò ciò che interiormente compì. Esteriormente mostrò le lingue di fuoco, interiormente infuocò di zelo i discepoli e li ammestrò con la sua parola. Si servì dunque degli elementi sombolici, e così, mentre i corpi avvertirono il fuoco e il vento, i cuori furono ammaestrati da un fuoco invisibile e da una parola senza suono. Fuori ci fu un fuoco invisibile, dentro il fuoco che comunicò la scienza".
Commento morale a Giobbe, VI, XXVIII, 2. Città Nuova Editrice/4, Roma 2001, p.23.
"Che cosa può talvolta rovinare un'anima più della consapevolezza della propria virtù? Gonfia di questa presunzione, viene svuotata della verità che la riempiva; e mentre le insinua che merita il premio, ne allenta la tensione verso il meglio (Quid enim peius plerumque animam quam conscia virtus interficit? Quae illam dum consideratione sua inflat, a plenitudine veritatis evacuat; et dum se ad percipienda praemia sufficere suggerit, eam a meliorationis intentione distendit)".
Commento morale a Giobbe VI, XXVIII,01, Città Nuova Editrice/4, Roma 2001.
"Zaccheo, piccolo di satura, salì sul sicomoro e vide il Signore, perché quelli che umilmente scelgono di essere stolti nel mondo diventano capaci di contemplare con acutezza la sapienza di Dio. La folla impedisce alla nostra piccolezza di vedere il Signore, nel senso che il tumulto degli affari secolari grava sulla debolezza della mente umana impedendole di scorgere la luce della verità. Ma saliamo saggiamente sul sicomoro, se provvediamo a coltivare la stoltezza che da Dio ci viene inculcata".
Commento morale a Giobbe, V, XXVII, 79. Città Muova Editrice/3, Roma 1997, p.617.
"Quelli che credono di essere sapienti non possono contemplare la sapienza di Dio, perché sono tanto più lontani dalla sua luce quanto più mancano di umiltà in se stessi. Il gonfiore della superbia, crescendo nella loro mente, chiude infatti lo sguardo alla contemplazione; e mentre essi ritengono di essere più luminosi degli altri, si privano di fatto della luce della verità.
(Contemplari enim Dei sapientiam non possunt qui sibi sapientes videntur, quia tanto ab eius luce longe sunt, quanto apud semetipsos humiles non sunt; quia in eorum mentibus dum tumor elationis crescit, aciem contemplationis claudit; et unde se lucere prae ceteris aestimant, inde se lumine veritatis privant)".
Commento morale a Giobbe, V, XXVII, 79. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 617.
"Ci sono alcuni che hanno un umile sentimento di sé, poiché, pur trovandosi in mezzo agli onori, ritengono di essere soltanto polvere e cenere, ma davanti agli uomini non vogliono apparire spregevoli e, contrariamente a ciò che pensano di se stessi, si ammantano esteriormente di un rigoroso decoro. E ci sono altri che desiderano apparire vili davanti agli uomini, non tengono conto di quel che sono mostrandosi spregevoli, ma dentro di loro si gonfiano per il merito stesso dell'ostentata umiltà, e tanto sono superbi nel cuore quanto apparentemente calpestano la superbia".
Commento morale a Giobbe, V, XXVII, 78. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 615.
"Quando una virtù viene usata per vanagloria, non è più virtù, perché è a servizio del vizio. Siccome l'origine della virtù è l'umiltà, germoglia davvero in noi quella virtù che rimane nella sua propria radice, cioè nell'umiltà. Se si stacca da questa inaridisce, perché rimane priva della linfa della carità che intimamente la alimenta.(Quia enim origo virtutis humilitas est, illa in nobis virtus veraciter pullulat, quae in radice propria, id est in humilitate, perdurat. A qua nimirum si abscinditur arescit, quia vivificantem se in intimis humorem caritatis perdit)".
Commento morale a Giobbe, V, XXVII, 76. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.613.
"Ci sono beni sommi e beni medi. Beni sommi sono la fede, la speranza e la carità. Se uno li possiede davvero, non c'è pericolo che possano cambiarsi in male. Beni medi sono la profezia, la dottrina, il potere di compiere guarigioni e simili, per i quali esistono due possibilità: o si usano unicamente in vista della patria eterna, oppure in vista, talvolta, della gloria terrena...Siccome però spesso succede che gli stessi doni che si è contenti di ricevere allontanino l'animo incauto dall'opera del donatore, occorre vigilare, provvedendo di vincere prima i vizi e poi custodire con cautela i doni (Quia ergo saepe per ipsa dona quae se percipere exultat, a manu dantis incautus animus elongat, vigilanti provisione curandum est ut et prius subigantur vitia, et post sub circumspectione dona teneantur)".
Commento morale a Giobbe, V, XXVIII76. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.613.
"I santi dottori, quando si accorgono che i loro uditori progrediscono nell'amore di Dio, s'infervorano maggiromente anch'essi nella forza del loro insegnamento; e vedendo quelli molto ardenti e ferventi in ordine alle cose celesti, acquistano maggior entusiasmo per annunciare i beni della ptaria celeste....Essi però non doverbbero attribuire mai a se stessi il merito, se vedono gli uditori progredire verso traguardi più alti grazie alla loro esortazione, perché se lo Spirito santo non riempie il cuore degli uditori, invano risuona la voce dei maestri agli orecchi del corpo. Possono sì, esteriormente, formulare la parola proprio di un maestro, ma non possono imprimerla interiormente (Formulare enim vocem magistri exterius possunt, sed hanc imprimere interius non possunt)".
Commento morale a Giobbe, V, XXVII, 64. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.603.
"Sentiero stretto è vivere in questo mondo senza alcuna cupidigia delle cose del mondo (in hoc mundo vivere, sed de huius mundi concupiscentia nihil habere); non desiderare le cose altrui...per amore di Dio amare gli obbrobri...perdonare di cuore a chi ci fa del male e conservare intatto nel cuore l'amore per il Signore...Scienza perfetta poi è compiere tutte queste cose e sapere che in base ai nostri meriti siamo nulla (Perfecta scientia est haec cuncta sollicite agere et se, de suis meritis, scire nihil esse)...Scienza perfetta è anchde sapere tutto e tuttavia non sapere di essere sapiente (Perfecta scientia est scire omnia, et tamen scientem se esse nescire)".
Commneto morale a Giobbe, V, XXVII, 61.62. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.601.
"Anche nel cuore dei buoni possono entrare pensieri illeciti, ma non possono rimanervi, perché essi, onde impedire che la casa della coscienza ne rimanga prigioniera, mettono in fuga il nemico appena tocca la soglia del cuore (Et in bonis enim cordibus cogitationes illicitae veniunt, sed tamen morari prohibentur, quia recti quique ne captivandum domum conscientiae praebeant, ab ipso cordis limine hostem fugant)".
Commento morale a Giobbe, V, XXVII, 50. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.589.
"Sentire la voce dello sposo significa elevarsi mediante la forza dell'intima compunzione verso l'amore del Creatore invisibile. Ma nessuno sa da dove viene, perché non si sa in quali occasioni si effonda in noi mediante la bocca di coloro che predicano. E nessuno sa dove va, perché, quando molti ascoltano la medesima predicazione, non si può certo comprendere chi egli respinge, abbandonandolo, e nel cuore di chi entri, per riposarvi. Unico è ciò che avviene fuori, ma non è unico il modo con cui per mezzo di lui sono penetrati i cuori di quelli che sono in ascolto, perché colui che modifica le cose visibili in modo invisibile, pianta in modo incomprensibile i germi delle cause nei cuori umani (Una quippe res foris agitur, sed non per hanc uno modo intuentium corda penetrantur, quia qui invisibiliter visibilia modificat in humanis cordibus causarum semina, incomprehesibiliter plantat)".
Commento morale a Giobbe, V, XXVII, 41. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 577.
"Il primo ascolto della voce divina avviene nella paura, per poi convertirsi in dolcezza. Prima ci raggiunge con il timore del severo giudizio per poi ristorarci, dopo averci fatto soffrire, consolandoci con superna dolcezza (Auditio igitur vocis Dei prius in terrore fit, ut post vertatur in dulcedinem, quia ante nos districti iudicii timore castigat, ut iam castigatos supernae dulcedinis consolatione reficiat)".
Commento morale a Giobbe, V, XXVII, 33, Città Nuova Editrice /3. Roma 1997, p.569.
"Il grande dono dei predicatori consiste nel saper affliggere le anime dei superbi e, dopo averle afflitte, saperle anche nutrire con la parola della consolazione...Sì Dio Onnipotente mediante i suoi predicatori prima ci scuote rimproverandoci della cattiva azione, e poi ci nutre consolandoci per mezzo della speranza (Quia nimirum Omnipotens Deus per praedicatores suos prius nos de prava actione corripiens concutit, et postmodum per spem consolans nutrit)".
Commento morale a Giobbe, V, XXVII, 22. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, P. 557.
"Nella santa Chiesa vi sono alcuni che vivono bene ma non sanno predicare il bene, quasi fossero stelle nate in tempo di siccità: possono fare luce agli altri mediante l'esempio di una vita buona, ma non sono in grado di far piovere mediante la parola della predicazione. (Stellae quidem sunt, sed in siccitate aeris natae; quia per exemplum bene vivendi lucere ceteris possunt, sed per praedicationis verbum pluere nequent)".
Commento morale a Giobbe, V, XXVII, 12. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, pp. 545-547.
"LAmato è cercato nel letto lungo la notte, perché lo Spirito lo si desidera nella tribolazione dentro la camera segreta del cuore. Tuttavia la sposa che lo cerca non lo trova, perché ogni anima eletta arde di amore per Lui, ma ancora non le è concesso di vedere il volto che cerca, affinché cresca il desiderio di colui che essa ama.
(Dilectus namque in lectulo per noctes quaeritur, quia intra secreta cordis cubilia in tribulatione spiritus desideratur. Quem tamen quaerens sponsa non invenit, quia electa quaeque anima iam quidem amoris eius facibus flagrat, sed adhuc quaesita negatur species, ut amantis desiderium crescat)".
Commento morale a Giobbe, V, XXVII, 4. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.539.
"Eliu, dotto e arrogante, alcune volte proferisce ciò che è profumato, altre volte ciò che punge; perciò bisogna prendere dal suo insegnamento ciò che profuma, stando tuttavia bene attenti a ciò che ferisce per la sua superbia (sumendum est de eius doctrina quod fragrat, ut tamen sollicite cavendum sit de elatione quod vulnerat)... del resto sappiamo che perfino un'asina ricevette dalla visione di un angelo parole ragionevoli (cum ex visione angeli accepisse verba rationabilia et asinam noverimus)...spesso succede un uomo qualunque riceva parole sante per mezzo dello spirito di profezia, senza che tuttavia giunga a meritare la gloria della santità; infatti con la parola succede che si elevi al di sopra di sé e con la vita precipiti al di sotto di sé (ut supra se loquendo et infra se vivendo torpescat)".
Commento morale a Giobbe, V, XXVII, 1.2. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.537.
"Il nostro Creatore permette che l'animo innalzato dalla prosperità sia improvvisamente colpito dalla tentazione, perché veda con maggiore verità la propria debolezza e dalla boria orgogliosa, che aveva assunto a motivo delle virtù, scivoli in basso divenendo migliore in se stesso...Infatti rinunziamo alla grandezza e alle prove di forza quando, sotto la spinta della colpa, siamo costretti a pensare cosa siamo (magnitudinem et robustos motus deponimus quando, pulsante vitio, cogimur pensare quid sumus)".
Commento morale a Giobbe, V, XXVI, 82. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 531.
"Se chi intende correggere
si lascia vincere dall'ira,
anziché correggere
opprime"
(Si is qui corrigere nititur
ira superatur,
opprimit antequam corrigat)".
Commento morale a Giobbe, V, XXVI, 78. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 527.
"Quando correggiamo le colpe degli altri, è giusto che giudichiamo le nostre, affinché la mente mitighi prima la propria eccitazione e calmi prima dentro di sé con serena equità l'impeto del proprio zelo, per non cadere in peccato, volendo correggere il peccato".
(Dignum quippe est ut cum aliena corrigimus, prius nostra metiamur, ut prius mens a sua accensione deferveat e prius intra semetipsam zeli sui impetum tranquilla aequitate componat, ne si ad animadvertenda vitia abrepto furore trahimur et, peccatum corrigendo, peccemus)".
Commento morale a Giobbe, V, XXVI, 78. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 527.
"Ogni peccato è senza fondamento perché per sua natura non sussiste. Il male non è una sostanza. Tuttavia qualunque esso sia, si lamenta della natura del bene.
(Omne peccatum fundamentum non habet, quia non ex propria natura subsistit. Malum quippe sine substantia est. Quod tamen, utcumque sit, in boni natura coalescit)".
Commento morale a Giobbe, V, XXVI, 68. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 517.
"E' ormai caduto nel pozzo chi commette ciò che la legge divina proibisce (Iam in puteum cecidit qui hoc quod divina lex prohibet perpetravit); ma se non l'opprime una lunga abitudine, il pozzo non ha ancora serrato la sua bocca. Ne esce tanto più facilmente quanto meno è prigioniero dell'abitudine (Tanto facilius egreditur, quanto minori consuetudine coartatur)."
Commento morale a Giobbe, V, XXVI, 65. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 515.
"La tribolazione
apre l'orecchio del cuore,
che spesso
la prosperità di questo mondo
chiude.
(Aurem itaque cordis
tribulatio aperit,
quam saepe
huis mundi prosperitas
claudit)".
Commento morale a Giobbe, V, XXVI, 64. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.515.