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Se avete desiderio di capire che cosa insegna la Bibbia che il Magistero della Santa Chiesa, con il Sommo Pontefice ci insegna, questo Gruppo fa per voi. Non siamo "esperti" del settore, ma siamo Laici impegnati nella Chiesa che qui si sono incontrati da diverse parti d'Italia per essere testimoni anche nella rete della Verità che tentiamo di vivere nel quotidiano, come lo stesso amato Giovanni Paolo II suggeriva.
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Raccolta Magistero Benedetto XVI 1° e 2 novembre

Ultimo Aggiornamento: 29/10/2016 14:08
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29/10/2016 10:48
 
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BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 2 novembre 2005


 

Salmo 111, 1-6
Beatitudine dell’uomo giusto
Secondi Vespri - Domenica 4a settimana

1. Dopo aver celebrato ieri la solenne festa di tutti i Santi del cielo, quest’oggi facciamo memoria di tutti i fedeli defunti. La liturgia ci invita a pregare per i nostri cari scomparsi, volgendo il pensiero al mistero della morte, comune eredità di tutti gli uomini.

Illuminati dalla fede, guardiamo all’enigma umano della morte con serenità e speranza. Secondo la Scrittura, infatti, essa più che una fine, è una nuova nascita, è il passaggio obbligato attraverso il quale possono raggiungere la vita in pienezza coloro che modellano la loro esistenza terrena secondo le indicazioni della Parola di Dio.

Il salmo 111, composizione di taglio sapienziale, ci presenta la figura di questi giusti, i quali temono il Signore, ne riconoscono la trascendenza e aderiscono con fiducia e amore alla sua volontà in attesa di incontrarlo dopo la morte.

A questi fedeli è riservata una "beatitudine": «Beato l’uomo che teme il Signore» (v. 1). Il Salmista precisa subito in che cosa consista tale timore: esso si manifesta nella docilità ai comandamenti di Dio. È proclamato beato colui che «trova grande gioia» nell’osservare i comandamenti, trovando in essi gioia e pace.

2. La docilità a Dio è, quindi, radice di speranza e di armonia interiore ed esteriore. L’osservanza della legge morale è sorgente di profonda pace della coscienza. Anzi, secondo la visione biblica della «retribuzione», sul giusto si stende il manto della benedizione divina, che imprime stabilità e successo alle sue opere e a quelle dei suoi discendenti: «Potente sulla terra sarà la sua stirpe, la discendenza dei giusti sarà benedetta. Onore e ricchezza nella sua casa» (vv. 2-3; cfr v. 9). Certo, a questa visione ottimistica si oppongono le osservazioni amare del giusto Giobbe, che sperimenta il mistero del dolore, si sente ingiustamente punito e sottoposto a prove apparentemente insensate. Bisognerà, quindi, leggere questo Salmo nel contesto globale della Rivelazione, che abbraccia la realtà della vita umana in tutti i suoi aspetti.

Tuttavia rimane valida la fiducia che il Salmista vuole trasmettere e far sperimentare a chi ha scelto di seguire la via di una condotta moralmente ineccepibile, contro ogni alternativa di illusorio successo ottenuto attraverso l’ingiustizia e l’immoralità.

3. Il cuore di questa fedeltà alla Parola divina consiste in una scelta fondamentale, cioè la carità verso i poveri e i bisognosi: «Felice l’uomo pietoso che dà in prestito… Egli dona largamente ai poveri» (vv. 5.9). Il fedele è, dunque, generoso; rispettando la norma biblica, egli concede prestiti ai fratelli in necessità, senza interesse (cfr Dt 15,7-11) e senza cadere nell’infamia dell’usura che annienta la vita dei miseri.

Il giusto, raccogliendo il monito costante dei profeti, si schiera dalla parte degli emarginati, e li sostiene con aiuti abbondanti. «Egli dona largamente ai poveri», si dice nel versetto 9, esprimendo così un’estrema generosità, completamente disinteressata.

4. Il Salmo 111, accanto al ritratto dell’uomo fedele e caritatevole, «buono, misericordioso e giusto», presenta in finale, in un solo versetto (cfr v. 10), anche il profilo del malvagio. Questo individuo assiste al successo della persona giusta rodendosi di rabbia e di invidia. È il tormento di chi ha una cattiva coscienza, a differenza dell’uomo generoso che ha «saldo» e «sicuro il suo cuore» (vv. 7-8).

Noi fissiamo il nostro sguardo sul volto sereno dell’uomo fedele che «dona largamente ai poveri» e ci affidiamo per la nostra riflessione conclusiva alle parole di Clemente Alessandrino che, commentando l'invito di Gesù a procurarsi amici con la disonesta ricchezza (cfr Lc 16,9), nel suo scritto intitolato Quale ricco si salverà, osserva: con questa affermazione Gesù «dichiara ingiusto per natura ogni possesso che uno possiede per se stesso come bene proprio e non lo pone in comune per coloro che ne hanno bisogno; ma dichiara altresì che da questa ingiustizia è possibile compiere un'opera giusta e salutare, dando riposo a qualcuno di quei piccoli che hanno una dimora eterna presso il Padre (cfr Mt 10,42; 18,10)» (31,6: Collana di Testi Patristici, CXLVIII, Roma 1999, pp. 56-57).

E, rivolgendosi al lettore, Clemente avverte: «Guarda in primo luogo che egli non ti ha comandato di farti pregare né di aspettare di essere supplicato, ma di cercare tu stesso quelli che sono ben degni di essere ascoltati, in quanto sono discepoli del Salvatore» (31,7: ibidem, p. 57).

Poi, ricorrendo a un altro testo biblico, commenta: «È dunque bello il detto dell'apostolo: "Dio ama chi dona con gioia" (2Cor 9,7), chi gode nel donare e non semina scarsamente, per non raccogliere allo stesso modo, ma condivide senza rammarichi e distinzioni e dolore, e questo è autentico far del bene» (31,8: ibidem).

Nel giorno della commemorazione dei defunti, come ho detto inizialmente, siamo tutti chiamati a confrontarci con l'enigma della morte e quindi con la questione di come vivere bene, come trovare la felicità. E questo Salmo risponde:  felice l'uomo che dona; felice l'uomo che non utilizza la vita per se stesso, ma dona; felice l'uomo che è misericordioso, buono e giusto; felice l'uomo che vive nell'amore di Dio e del prossimo. Così viviamo bene e così non dobbiamo aver paura della morte, perché siamo nella felicità che viene da Dio e che dura sempre.


Saluti:

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. 

Saluto, infine, i giovani, i malati e gli sposi novelli. La Solennità di Tutti i Santi, che abbiamo celebrato ieri, e l’odierna commemorazione dei Fedeli Defunti, ci offrono l’opportunità di riflettere, ancora una volta, sull’autentico significato dell’esistenza terrena e sul suo valore per l’eternità.

Questi giorni di riflessione e di preghiera siano per voi, cari giovani, un invito a imitare l’eroismo dei Santi, che hanno speso la vita per Dio e per il prossimo. Siano di conforto per voi, cari malati, associati al mistero della passione di Cristo. Diventino un’occasione propizia per voi, cari sposi novelli, per comprendere sempre meglio che siete chiamati a testimoniare con la vostra reciproca fedeltà l’amore con cui Dio circonda ogni uomo.

Concludiamo il nostro incontro, cantando il Pater Noster.





BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 8 novembre 2006

 

Paolo - La centralità di Gesù Cristo

Cari fratelli e sorelle,

nella catechesi precedente, quindici giorni fa, ho cercato di tracciare le linee essenziali della biografia dell’apostolo Paolo. Abbiamo visto come l’incontro con Cristo sulla strada di Damasco abbia letteralmente rivoluzionato la sua vita. Cristo divenne la sua ragion d’essere e il motivo profondo di tutto il suo lavoro apostolico. Nelle sue lettere, dopo il nome di Dio, che appare più di 500 volte, il nome che viene menzionato più spesso è quello di Cristo (380 volte). È dunque importante che ci rendiamo conto di quanto Gesù Cristo possa incidere nella vita di un uomo e quindi anche nella nostra stessa vita. In realtà, Cristo Gesù è l’apice della storia salvifica e quindi il vero punto discriminante anche nel dialogo con le altre religioni.

Guardando a Paolo, potremmo formulare così l’interrogativo di fondo: come avviene l’incontro di un essere umano con Cristo? E in che cosa consiste il rapporto che ne deriva? La risposta data da Paolo può essere compresa in due momenti. In primo luogo, Paolo ci aiuta a capire il valore assolutamente fondante e insostituibile della fede. Ecco che cosa scrive nella Lettera ai Romani: «Noi riteniamo che l'uomo viene giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge» (3,28). E così pure nella Lettera ai Galati: «L'uomo non è giustificato dalle opere della Legge, ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo; perciò abbiamo creduto anche noi in Gesù Cristo per essere giustificati dalla fede in Cristo e non dalle opere della Legge, poiché dalle opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno» (2,16). «Essere giustificati» significa essere resi giusti, cioè essere accolti dalla giustizia misericordiosa di Dio, ed entrare in comunione con Lui, e di conseguenza poter stabilire un rapporto molto più autentico con tutti i nostri fratelli: e questo sulla base di un totale perdono dei nostri peccati. Ebbene, Paolo dice con tutta chiarezza che questa condizione di vita non dipende dalle nostre eventuali opere buone, ma da una pura grazia di Dio: «Siamo giustificati gratuitamente per sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù» (Rm 3,24).

Con queste parole san Paolo esprime il contenuto fondamentale della sua conversione, la nuova direzione della sua vita risultante dal suo incontro col Cristo risorto. Paolo, prima della conversione, non era stato un uomo lontano da Dio e dalla sua Legge. Al contrario, era un osservante, con una osservanza fedele fino al fanatismo. Nella luce dell’incontro con Cristo capì, però, che con questo aveva cercato di costruire se stesso, la sua propria giustizia, e che con tutta questa giustizia era vissuto per se stesso. Capì che un nuovo orientamento della sua vita era assolutamente necessario. E questo nuovo orientamento lo troviamo espresso nelle sue parole: «Questa vita che io vivo nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2, 20). Paolo, quindi, non vive più per sé, per la sua propria giustizia. Vive di Cristo e con Cristo: dando se stesso, non più cercando e costruendo se stesso. Questa è la nuova giustizia, il nuovo orientamento donatoci dal Signore, donatoci dalla fede. Davanti alla croce del Cristo, espressione estrema della sua autodonazione, non c’è nessuno che possa vantare se stesso, la propria giustizia fatta da sé, per sé! Altrove Paolo, riecheggiando Geremia, esplicita questo pensiero scrivendo: «Chi si vanta si vanti nel Signore» (1 Cor 1,31 = Ger 9,22s); oppure: «Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo del quale il mondo per me è stato crocifisso come io per il mondo» (Gal 6,14).

Riflettendo su che cosa voglia dire giustificazione non per le opere ma per la fede, siamo così arrivati alla seconda componente che definisce l’identità cristiana descritta da san Paolo nella propria vita. Identità cristiana che si compone proprio di due elementi: questo non cercarsi da sè, ma riceversi da Cristo e donarsi con Cristo, e così partecipare personalmente alla vicenda di Cristo stesso, fino ad immergersi in Lui e a condividere tanto la sua morte quanto la sua vita. È ciò che Paolo scrive nella Lettera ai Romani: «Siamo stati battezzati nella sua morte... siamo stati sepolti con lui… siamo stati completamente uniti a lui... Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio in Cristo Gesù» (Rm 6,3.4.5.11). Proprio quest'ultima espressione è sintomatica: per Paolo, infatti, non basta dire che i cristiani sono dei battezzati o dei credenti; per lui è altrettanto importante dire che essi sono «in Cristo Gesù» (cfr anche Rm 8,1.2.39; 12,5; 16,3.7.10; 1 Cor 1,2.3, ecc.). Altre volte egli inverte i termini e scrive che «Cristo è in noi/voi» (Rm 8,10; 2 Cor 13,5) o «in me» (Gal 2,20). Questa mutua compenetrazione tra Cristo e il cristiano, caratteristica dell’insegnamento di Paolo, completa il suo discorso sulla fede. La fede, infatti, pur unendoci intimamente a Cristo, sottolinea la distinzione tra  noi e Lui. Ma, secondo Paolo, la vita del cristiano ha pure una componente che potremmo dire ‘mistica’, in quanto comporta un’immedesimazione di noi con Cristo e di Cristo con noi. In questo senso, l’Apostolo giunge persino a qualificare le nostre sofferenze come le «sofferenze di Cristo in noi» (2 Cor 1,5), così che noi «portiamo sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo» (2 Cor 4,10).

Tutto questo dobbiamo calarlo nella nostra vita quotidiana seguendo l’esempio di Paolo che è vissuto sempre con questo grande respiro spirituale. Da una parte, la fede deve mantenerci in un costante atteggiamento di umiltà di fronte a Dio, anzi di adorazione e di lode nei suoi confronti. Infatti, ciò che noi siamo in quanto cristiani lo dobbiamo soltanto a Lui e alla sua grazia. Poiché niente e nessuno può prendere il suo posto, bisogna dunque che a nient'altro e a nessun altro noi tributiamo l'omaggio che tributiamo a Lui. Nessun idolo deve contaminare il nostro universo spirituale, altrimenti invece di godere della libertà acquisita ricadremmo in una forma di umiliante schiavitù. Dall'altra parte, la nostra radicale appartenenza a Cristo e il fatto che «siamo in Lui» deve infonderci un atteggiamento di totale fiducia e di immensa gioia. In definitiva, infatti, dobbiamo esclamare con san Paolo: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?» (Rm 8,31). E la risposta è che niente e nessuno «potrà mai separarci  dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,39). La nostra vita cristiana, dunque, poggia sulla roccia più stabile e sicura che si possa immaginare. E da essa traiamo tutta la nostra energia, come scrive appunto l'Apostolo: «Tutto posso in colui che mi dà la forza» (Fi1 4,13).

Affrontiamo perciò la nostra esistenza, con le sue gioie e i suoi dolori, sorretti da questi grandi sentimenti che Paolo ci offre. Facendone l'esperienza potremo capire quanto sia vero ciò che lo stesso Apostolo scrive: «So a chi ho creduto, e sono convinto che egli è capace di conservare il mio deposito fino a quel giorno», cioè fino al giorno definitivo (2 Tm 1,12) del nostro incontro con Cristo Giudice, Salvatore del mondo e nostro.


Saluti:

 

*** 

Rivolgo un cordiale pensiero ai pellegrini di lingua italiana. 

Il mio pensiero va, infine, ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Cari giovani, progettate il vostro futuro in piena fedeltà al Vangelo, secondo l’insegnamento e l’esempio di Gesù. Voi, cari ammalati, offrite la vostra sofferenza al Signore, perché Egli possa estendere la sua azione salvifica nel mondo. E voi, cari sposi novelli, nel cammino che avete intrapreso lasciatevi sempre guidare da una fede viva, per crescere nel fervore spirituale e nell’amore.

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 5 novembre 2008 

   

San Paolo (11).

L'importanza della cristologia: la decisività della risurrezione

Cari fratelli e sorelle,

“Se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede... e voi siete ancora nei vostri peccati” (1 Cor 15,14.17). Con queste forti parole della prima Lettera ai Corinzi, san Paolo fa capire quale decisiva importanza egli attribuisse alla risurrezione di Gesù. In tale evento infatti sta la soluzione del problema posto dal dramma della Croce. Da sola la Croce non potrebbe spiegare la fede cristiana, anzi rimarrebbe una tragedia, indicazione dell’assurdità dell’essere. Il mistero pasquale consiste nel fatto che quel Crocifisso “è risorto il terzo giorno secondo le Scritture” (1 Cor 15,4) - così attesta la tradizione protocristiana. Sta qui la chiave di volta della cristologia paolina: tutto ruota attorno a questo centro gravitazionale. L'intero insegnamento dell’apostolo Paolo parte dal e arriva sempre al mistero di Colui che il Padre ha risuscitato da morte. La risurrezione è un dato fondamentale, quasi un assioma previo (cfr 1 Cor 15,12), in base al quale Paolo può formulare il suo annuncio (kerygma) sintetico: Colui che è stato crocifisso, e che ha così manifestato l’immenso amore di Dio per l’uomo, è risorto ed è vivo in mezzo a noi.

E’ importante cogliere il legame tra l’annuncio della risurrezione, così come Paolo lo formula, e quello in uso nelle prime comunità cristiane prepaoline. Qui davvero si può vedere l'importanza della tradizione che precede l’Apostolo e che egli, con grande rispetto e attenzione, vuole a sua volta consegnare. Il testo sulla risurrezione, contenuto nel cap. 15,1-11 della prima Lettera ai Corinzi, pone bene in risalto il nesso tra “ricevere” e “trasmettere”. San Paolo attribuisce molta importanza alla formulazione letterale della tradizione; al termine del passo in esame sottolinea: “Sia io che loro così predichiamo” (1 Cor 15,11), mettendo con ciò in luce l'unità del kerigma, dell’annuncio per tutti i credenti e per tutti coloro che annunceranno la risurrezione di Cristo. La tradizione a cui si ricollega è la fonte alla quale attingere. L’originalità della sua cristologia non va mai a discapito della fedeltà alla tradizione. Il kerigma degli Apostoli presiede sempre alla personale rielaborazione di Paolo; ogni sua argomentazione muove dalla tradizione comune, in cui s’esprime la fede condivisa da tutte le Chiese, che sono una sola Chiesa. E così san Paolo offre un modello per tutti i tempi sul come fare teologia e come predicare. Il teologo, il predicatore non crea nuove visioni del mondo e della vita, ma è al servizio della verità trasmessa, al servizio del fatto reale di Cristo, della Croce, della risurrezione. Il suo compito è aiutarci a comprendere oggi, dietro le antiche parole, la realtà del “Dio con noi”, quindi la realtà della vera vita.

E’ qui opportuno precisare: san Paolo, nell’annunciare la risurrezione, non si preoccupa di presentarne un’esposizione dottrinale organica - non vuol scrivere quasi un manuale di teologia - ma affronta il tema rispondendo a dubbi e domande concrete che gli venivano proposte dai fedeli; un discorso occasionale dunque, ma pieno di fede e di teologia vissuta. Vi si riscontra una concentrazione sull’essenziale: noi siamo stati “giustificati”, cioè resi giusti, salvati, dal Cristo morto e risorto per noi. Emerge innanzitutto il fatto della risurrezione, senza il quale la vita cristiana sarebbe semplicemente assurda. In quel mattino di Pasqua avvenne qualcosa di straordinario, di nuovo e, al tempo stesso, di molto concreto, contrassegnato da segni ben precisi, registrati da numerosi testimoni. Anche per Paolo, come per gli altri autori del Nuovo Testamento, la risurrezione è legata alla testimonianzadi chi ha fatto un’esperienza diretta del Risorto. Si tratta di vedere e di sentire non solo con gli occhi o con i sensi, ma anche con una luce interiore che spinge a riconoscere ciò che i sensi esterni attestano come dato oggettivo. Paolo dà perciò - come i quattro Vangeli – fondamentale rilevanza al tema delle apparizioni, le quali sono condizione fondamentale per la fede nel Risorto che ha lasciato la tomba vuota. Questi due fatti sono importanti: la tomba è vuota e Gesù è apparso realmente. Si costituisce così quella catena della tradizione che, attraverso la testimonianza degli Apostoli e dei primi discepoli, giungerà alle generazioni successive, fino a noi. La prima conseguenza, o il primo modo di esprimere questa testimonianza, è di predicare la risurrezione di Cristo come sintesi dell'annuncio evangelico e come punto culminante di un itinerario salvifico. Tutto questo Paolo lo fa in diverse occasioni: si possono consultare le Lettere e gli Atti degli Apostoli dove si vede sempre che il punto essenziale per lui è essere testimone della risurrezione. Vorrei citare solo un testo: Paolo, arrestato a Gerusalemme, sta davanti al Sinedrio come accusato. In questa circostanza nella quale è in gioco per lui la morte o la vita, egli indica quale è il senso e il contenuto di tutta la sua predicazione: “Io sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dei morti” (At 23,6). Questo stesso ritornello Paolo ripete continuamente nelle sue Lettere (cfr 1 Ts 1,9s4,13-185,10), nelle quali fa appello anche alla sua personale esperienza, al suo personale incontro con Cristo risorto (cfr Gal 1,15-161 Cor 9,1).

Ma possiamo domandarci: qual è, per san Paolo, il senso profondo dell'evento della risurrezione di Gesù? Che cosa dice a noi a distanza di duemila anni? L’affermazione “Cristo è risorto” è attuale anche per noi? Perché la risurrezione è per lui e per noi oggi un tema così determinante? Paolo dà solennemente risposta a questa domanda all'inizio della Lettera ai Romani, ove esordisce riferendosi al “Vangelo di Dio … che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santità in virtù della risurrezione dei morti” (Rm 1,3-4). Paolo sa bene e lo dice molte volte che Gesù era Figlio di Dio sempre, dal momento della sua incarnazione. La novità della risurrezione consiste nel fatto che Gesù, elevato dall’umiltà della sua esistenza terrena, viene costituito Figlio di Dio “con potenza”. Il Gesù umiliato fino alla morte di croce può dire adesso agli Undici: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra” (Mt 28, 18). E’ realizzato quanto dice il Salmo 2, 8: “Chiedi a me, ti darò in possesso le genti e in dominio i confini della terra”. Perciò con la risurrezione comincia l’annuncio del Vangelo di Cristo a tutti i popoli – comincia il Regno di Cristo, questo nuovo Regno che non conosce altro potere che quello della verità e dell’amore. La risurrezione svela quindi definitivamente qual è l’autentica identità e la straordinaria statura del Crocifisso. Una dignità incomparabile e altissima: Gesù è Dio! Per san Paolo la segreta identità di Gesù, più ancora che nell'incarnazione, si rivela nel mistero della risurrezione. Mentre il titolo di Cristo, cioè di ‘Messia’, ‘Unto’, in san Paolo tende a diventare il nome proprio di Gesù e quello di Signore specifica il suo rapporto personale con i credenti, ora il titolo di Figlio di Dio viene ad illustrare l'intimo rapporto di Gesù con Dio, un rapporto che si rivela pienamente nell’evento pasquale. Si può dire, pertanto, che Gesù è risuscitato per essere il Signore dei morti e dei vivi (cfr Rm 14,9; e 2 Cor 5,15) o, in altri termini, il nostro Salvatore (cfr Rm 4,25).

Tutto questo è gravido di importanti conseguenze per la nostra vita di fede: noi siamo chiamati a partecipare fin nell'intimo del nostro essere a tutta la vicenda della morte e della risurrezione di Cristo. Dice l’Apostolo: siamo “morti con Cristo” e crediamo che “vivremo con lui, sapendo che Cristo risorto dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui” (Rm 6,8-9). Ciò si traduce in una condivisione delle sofferenze di Cristo, che prelude a quella piena configurazione con Lui mediante la risurrezione a cui miriamo nella speranza. E’ ciò che è avvenuto anche a san Paolo, la cui personale esperienza è descritta nelle Lettere con toni tanto accorati quanto realistici: “Perché io possa conoscere Lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti” (Fil 3,10-11; cfr 2 Tm 2,8-12). La teologia della Croce non è una teoria – è la realtà della vita cristiana. Vivere nella fede in Gesù Cristo, vivere la verità e l’amore implica rinunce ogni giorno, implica sofferenze. Il cristianesimo non è la via della comodità, è piuttosto una scalata esigente, illuminata però dalla luce di Cristo e dalla grande speranza che nasce da Lui. Sant’Agostino dice: Ai cristiani non è risparmiata la sofferenza, anzi a loro ne tocca un po’ di più, perché vivere la fede esprime il coraggio di affrontare la vita e la storia più in profondità. Tuttavia solo così, sperimentando la sofferenza, conosciamo la vita nella sua profondità, nella sua bellezza, nella grande speranza suscitata da Cristo crocifisso e risorto. Il credente si trova perciò collocato tra due poli: da un lato, la risurrezione che in qualche modo è già presente e operante in noi (cfr Col 3,1-4Ef 2,6); dall'altro, l’urgenza di inserirsi in quel processo che conduce tutti e tutto verso la pienezza, descritta nella Lettera ai Romani con un’ardita immagine: come tutta la creazione geme e soffre quasi le doglie del parto, così anche noi gemiamo nell'attesa della redenzione del nostro corpo, della nostra redenzione e risurrezione (cfr Rm 8,18-23).

In sintesi, possiamo dire con Paolo che il vero credente ottiene la salvezza professando con la sua bocca che Gesù è il Signore ecredendo con il suo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti (cfr Rm 10,9). Importante è innanzitutto il cuore che crede in Cristo e nella fede “tocca” il Risorto; ma non basta portare nel cuore la fede, dobbiamo confessarla e testimoniarla con la bocca, con la nostra vita, rendendo così presente la verità della croce e della risurrezione nella nostra storia In questo modo infatti il cristiano si inserisce in quel processo grazie al quale il primo Adamo, terrestre e soggetto alla corruzione e alla morte, va trasformandosi nell'ultimo Adamo, quello celeste e incorruttibile (cfr 1 Cor 15,20-22.42-49). Tale processo è stato avviato con la risurrezione di Cristo, nella quale pertanto si fonda la speranza di potere un giorno entrare anche noi con Cristo nella vera nostra patria che sta nei Cieli. Sorretti da questa speranza proseguiamo con coraggio e con gioia.

 

 

 


Saluti:

 

* * *

Saluto ora i pellegrini di lingua italiana e porgo a ciascuno un cordiale benvenuto. Con particolare affetto mi rivolgo ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli. La Chiesa ci invita in questi giorni a pregare per i nostri cari defunti e il loro ricordo ci invita a meditare sul mistero della morte e della vita eterna. Il pensiero della morte non sia per voi, cari giovani, motivo di tristezza, ma stimolo ad apprezzare e valorizzare appieno la vostra giovinezza, orientando sempre il vostro spirito ai valori spirituali che non periscono. Voi, cari ammalati, rinnovate costantemente la vostra fiducia nel Signore, sapendo che in ogni situazione siamo sempre nelle sue mani: Egli è per noi Padre buono e misericordioso. E voi, cari sposi novelli, traete dalla prospettiva della vita eterna un incoraggiamento a progettare la vostra famiglia lasciandovi guidare da Cristo e dal suo Vangelo.

   






Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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