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Quando e come un Papa favorisce l'eresia... (2)

Ultimo Aggiornamento: 10/04/2018 01:10
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Sesso: Femminile
02/02/2017 00:08
 
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  Abbiamo già segnalato prese diposizione di vescovi e presbiteri, molti dei quali stanno dando corso a una specie di gara a chi più si discosta dalla dottrina e pastorale cattolica.


Riportiamo oggi una lettera aperta di un giornalista non sempre attento al Magistero, Aldo Maria Valli, in quanto voce ex altera pars: cioè efficacissima testimonianza della crescente confusione e disorientamento provocato dalle aperture all'adulterio e al divorzio.
Le stesse perplessità sulla Amoris Laetitae sono state espresse, più profondamente, da Stanislaw Grygiel, amico di Karol Wojtila e già consigliere di San Giovanni Paolo II : http://www.ilfoglio.it/chiesa/2016/05/26/il-dramma-di-papa-francesco___1-v-142525-rubriche_c396.htm

 

Lettera agli amici
di Aldo Maria Valli, 29 maggio 2016

Un  giornalista non dovrebbe mai parlare di se stesso, se non altro per buon gusto. Faccio un’eccezione, e prometto che resterà tale, per rispondere ai tanti amici che hanno reagito ai miei ultimi articoli, nei quali non ho nascosto le perplessità circa Amoris laetitia e altre affermazioni di papa Francesco.

Amoris laetitia in un primo tempo mi è piaciuta. Ci ho visto lo sforzo sincero di calarsi nella realtà. Poi però, leggendo e rileggendo, ecco le perplessità e i dubbi. Riconducibili a una domanda che mi assilla: ma il paradigma della situazione, fatto proprio da Francesco quando suggerisce di procedere secondo la logica del caso per caso, non finisce per giustificare tutto? E, così facendo, non scivola nel relativismo? E non sarà forse per questo che Francesco è tanto applaudito da atei e laicisti, che scambiano la sua misericordia per un lasciapassare? Ecco perché ho scritto l’articolo nel quale esprimo tutte le mie perplessità su quella che ho definito la Chiesa del “ma anche”. Una Chiesa che, attraverso il paradigma della situazione contingente, alla fin fine risponde sì, ma anche no, no, ma anche sì, una Chiesa che cerca di tenere assieme ciò che assieme non può stare e che in questo modo non porta all’integrazione, ma alla confusione.

Scrivendo, avevo in mente tanti amici divorziati e risposati, così come tanti amici omosessuali, i quali, da credenti, mi hanno sempre detto di aspettare dal papa una parola sicura.

Da parte mia, nessuna “manovra”, nessun progetto di chissà quale natura, nessuna decisione di abbandonare un partito (ma quale?) per entrare in un altro (ma quale?). Solo la manifestazione sincera, e anche dolorosa, di un dubbio. Dolorosa perché voglio molto bene al papa. Ma è proprio perché gli voglio bene che lo prendo sul serio. Ed è proprio perché lo prendo sul serio che mi interrogo su quanto insegna. A partire dal concetto di misericordia, che Francesco ha messo al centro del suo magistero.

Vi dicevo di altre perplessità suscitate in me dalle parole del papa. Mi limito a due circostanze. La prima, quando, in un video dedicato al dialogo tra le religioni, Francesco ha sostenuto che “in questa moltitudine, in questa ampia gamma di religioni e assenza di religioni, vi è una sola certezza: siamo tutti figli di Dio”. La seconda, quando, nella chiesa luterana di Roma, con un lungo intervento a braccio, ha detto che la possibilità o meno di fare la comunione insieme (luterani e cattolici) “è un problema a cui ognuno deve rispondere”.

Come sarebbe a dire che la “sola certezza” è che siamo tutti figli di Dio? E il Vangelo di Gesù? Non è quella la nostra certezza? Mi chiedo: qui non siamo, di nuovo, di fronte a parole dal sapore relativista (e, in questo caso, anche sincretista)? E come sarebbe a dire che la comunione, cuore della vita cristiana, è un problema a cui ognuno deve rispondere? Non siamo qui, ancora, nel relativismo? Su una questione così importante non dovrebbe essere proprio il papa, il nostro pastore, a rispondere?

Alla luce di queste perplessità, ho riletto anche la famosa frase sul “chi sono io per giudicare?”, che all’inizio mi era apparsa molto evangelica, e pian piano è cresciuto dentro di me il dubbio: non c’è forse, anche lì, il germe del relativismo?

Lo ripeto: voglio bene al papa, molto bene. Per questo mi faccio tante domande che, fra l’altro, mi creano un sacco di problemi. Quanto sarebbe più comodo starsene tranquilli e ripetere, senza troppi pensieri, le parole che vanno per la maggiore, come misericordia, periferie, Chiesa in uscita, eccetera. Invece no: mi interrogo. Perché non mi sembra serio, oltre che ben poco cristiano, recepire tutto in modo fintamente neutro. Il buon Dio ci ha dotato di cuore e cervello, ed è contento se li usiamo.

Come molti di voi sanno, io sono un papà di sei figli. Un papà ormai un po’ attempato (e adesso anche nonno), ma che è ancora in servizio attivo (quattro le figlie che vivono con me e mia moglie Serena) e ancora, di conseguenza, si confronta ogni giorno con il problema delle risposte da dare ai figli su molteplici questioni: andare al mare in auto e fermarsi fino a tardi, dormire fuori con il fidanzato, stare a casa per evitare il compito in classe di latino, comprare o meno un vestito nuovo, cercare un appartamento per andare a vivere da sola…

Ora, mi chiedo e chiedo a voi: che padre sarei se alle mie figlie, di fronte alle mille domande che mi pongono, rispondessi: sì, ma anche no; no, ma anche sì, fate voi. Che padre sarei se rispondessi che dipende dalla situazione contingente? Se rispondessi così, non lascerei credere alle mie figlie che non esistono il bene e il male in quanto tali ma esiste solo l’esperienza individuale e quella è la misura di tutto? Che padre sarei se rispondessi che non è mio compito giudicare? Come potrei mantenere la mia credibilità se fossi un padre del “ma anche”? Che cosa significa, per un padre, essere misericordioso? Giudicare la realtà e dare risposte certe, attraverso rigorose argomentazioni, o affidarsi al paradigma della situazione?

Badate bene: io sono convinto che il relativismo sia nell’aria che respiriamo. Pertanto, tutti ci possiamo cadere, anche inavvertitamente. Ma proprio per questo motivo dobbiamo vigilare, prima di tutto nei confronti di noi stessi.

Cari amici miei, non so se sono riuscito a spiegarmi. Il discorso dovrebbe essere molto più lungo, ma credo di aver detto l’essenziale e non voglio annoiarvi.

Ringrazio tutti per l’attenzione che mi riservate: davvero non avrei mai immaginato di poter suscitare tante reazioni.

A chi poi paventa che, dietro le mie ultime uscite, ci sia una sorta di manovra per “lanciare” un nuovo libro, rispondo: magari potessi scrivere un nuovo libro su questi argomenti! Vorrebbe dire che avrei le idee chiare. E invece mi trovo a essere così pieno di dubbi, così turbato e perplesso.

Ma sursum corda!  E duc in altum!

Grazie a tutti. Aldo Maria Valli


La Chiesa e la logica del “ma anche”

Noi cristiani lo sappiamo, o dovremmo saperlo: la nostra fede è all’insegna dell’et et, non dell’aut aut. Non siamo esclusivisti. Dio è uno e trino. È Padre e Figlio e Spirito Santo. Gesù è Dio e uomo, vero Dio e vero uomo. Per il cristiano, l’uomo è carne e spirito, corpo e anima. Al cristiano piace integrare, includere, non ergere barriere. Con l’incarnazione Dio si è fatto uomo. La Chiesa stessa vive all’insegna dell’et et. È Chiesa di preghiera e di azione, di grandi asceti e grandi lavoratori, di contemplazione di missione. Ora et labora, non ora aut labora. La Chiesa ha i predicatori e i confessori, i monaci e le monache di clausura e i preti di strada. La Chiesa accoglie tutti: poveri e ricchi, colti e incolti, giovani vecchi.

Da qualche tempo però sembra di notare che alla logica dell’et et si stia sostituendo nella nostra Chiesa una logica diversa: quella del non solum, sed etiam, cioè del «non solo, ma anche». Potrebbe sembrare che, tutto sommato, non vi siano differenze, ma non è così.

Pensiamo ad Amoris laetitia, nella quale la logica del «ma anche» si trova un po’ ovunque. Dando vita spesso ad affermazioni singolari. Prendiamo per esempio il punto 308, dove si dice: «I Pastori che propongono ai fedeli l’ideale pieno del Vangelo e la dottrina della Chiesa devono aiutarli anche ad assumere la logica della compassione verso le persone fragili e ad evitare persecuzioni o giudizi troppo duri e impazienti». Dobbiamo dedurne che il modo più efficace per essere compassionevoli non è esattamente quello di proporre l’ideale pieno del Vangelo?Quanto poi alla vexata quaestio circa la comunione ai divorziati risposati, qual è la conclusione? Dopo aver letto e riletto il testo più e più volte, la risposta è: comunione sì, ma anche no. Oppure: comunione no, ma anche sì. Nel documento, in effetti, entrambe le conclusioni sono legittimate. A ciò conduce la logica del caso per caso, a sua volta figlia dell’etica della situazione. Mi devo considerare un peccatore? Sì, ma anche no. No, ma anche sì. Dipende.

I sintomi della logica del «ma anche» emergono qua e là, in occasioni diverse, ma sono sempre più frequenti.

Vado in ordine sparso.

Primo esempio. Quando papa Francesco si è recato in visita alla chiesa luterana di Roma e gli è stato chiesto se un cattolico e un luterano possono partecipare alla comunione, Bergoglio, attraverso una lunga risposta a braccio, ha detto in sostanza: no, ma anche sì, bisogna vedere caso per caso, perché «è un problema a cui ognuno deve rispondere».

Secondo esempio. Quando, nella sala stampa vaticana, il cardinale Schönborn, commentando Amoris laetitia, ha detto che il divieto di fare la comunione, per i divorziati risposati, non è stato revocato, ma,  attraverso la via caritatis indicata da Francesco, «si può dare anche l’aiuto dei sacramenti in certi casi», in pratica ha detto:  no, ma anche sì; sì, ma anche no.

Terzo esempio. Quando Francesco, prendendo parte a un video sul dialogo interreligioso (nel quale appaiono un musulmano, un buddista, un ebreo e un prete cattolico) ha detto che le persone «trovano Dio in modi diversi» e «in questa moltitudine c’è una sola certezza per noi: siamo tutti figli di Dio», chi eventualmente volesse avere un’altra certezza di un certo spessore (qual è la vera fede?) potrebbe arrivare alla conclusione che è la nostra, ma anche quella degli altri.

Quarto esempio. Quando eminenti esponenti della curia romana ci dicono che la Chiesa, dopo la rinuncia di Benedetto XVI, ha sì un  unico papa legittimo, però ha in effetti due successori di Pietro, entrambi viventi ed entrambi pienamente papi, si vede anche lì all’opera la logica del «ma anche»: abbiamo un papa, ma anche due. E se qualcuno, inopportunamente, sostenesse che non possono essere entrambi pienamente papi, la risposta sarebbe assicurata: perché no? Lo è l’uno, ma anche l’altro.

Mi fermo con gli esempi e vengo al dunque. Attenzione: i cattolici sono pluralisti e non amano l’uniformità. Fin dall’inizio le comunità cristiane nascono all’insegna dell’inculturazione della fede e dunque sono multiformi. Tanto è vero che ancora oggi abbiamo riti diversi. La Chiesa si incultura in Occidente e in Oriente, al Nord e al Sud, in ogni contesto. In quanto cattolica, è opportuno ripeterlo, si rivolge a tutti e tutti accoglie: non seleziona a priori su base di censo o di conoscenza. Altrimenti sarebbe settaria, non cattolica. E fin qui siamo in pieno nella logica dell’et et.

La logica del «ma anche» però è un’altra cosa. È la pretesa di tenere uniti gli opposti o comunque qualcosa che insieme non ci può stare, o ci può stare solo a prezzo di forzature. C’è una differenza profonda  tra la logica dell’et et e quella del «ma anche». Se l’et et unisce, il «ma anche» più che altro giustifica. Se l’et et rispetta la complessità e la riporta a unità, il «ma anche» cerca di superare la complessità attraverso qualche scorciatoia logica ed etica. Laddove l’et et unisce, il «ma anche» banalizza. Mentre l’et et punta alla verità, il «ma anche» si mette al servizio dell’utilità.

Qualcuno dirà: scusa tanto, ma che c’è poi di male nella Chiesa del «ma anche»? È così bello poter dire sì ma anche no, no ma anche sì. È umano. Noi siamo creature complesse, dunque perché andare alla ricerca di impossibili risposte nette e univoche? È tanto bello e buono non giudicare e prendere la realtà per quella che è, cioè complicata e contraddittoria. Perché dobbiamo sottoporre le persone a dure prove? Non è meglio smussare gli angoli e giustificare?

Ecco che cosa c’è di male: che la Chiesa del «ma anche» sposa esattamente la logica del mondo, non quella del Vangelo di Gesù. E infatti riceve gli applausi del mondo. Ma noi sappiamo che questo non è un buon segno. Il cristiano, quando è coerente, è perseguitato dal mondo, non applaudito.

D’altra parte, mentre suscita gli entusiasmi degli atei e dei laicisti, che vi trovano conferme e giustificazioni, la logica del «ma anche» lascia perplessi coloro che sono in cerca della fede. Chi cerca la Verità con la V maiuscola non vuole scorciatoie e parole ambivalenti. Ha desiderio di indicazioni di senso.

Lo scivolamento dalla logica dell’et et a quella del non solum, sed etiam avviene ogni giorno, in modo magari impercettibile, ma inesorabile. E coinvolge persone degnissime e buonissime, convinte in cuor loro di essere al servizio del Vangelo. Più che colpevoli, sono vittime. Perché la logica del «ma anche» è nell’aria che respiriamo.

Essere uomini e donne dell’et et significa non essere ambigui e non lasciare spazio alla confusione.  La logica dell’et et sfocia nell’inclusione, non nella confusione. Gesù, campione dell’et et e non dell’aut aut, ha raccomandato che il nostro parlare sia «sì sì, no no». La confusione e la doppiezza sono specialità del diavolo, che in questo modo persegue il suo obiettivo: separare.

Personalmente, proprio perché so che, come tutti, respiro ogni giorno aria impregnata dalla logica del «ma anche», per cercare di stare in guardia uso un semplice espediente: ogni volta che in un’argomentazione trovo sintomi di «ma anche», lascio che un campanello squilli nella testa e nel cuore. Lì, mi dico, c’è qualcosa che non va. Lì il soggettivismo è in agguato. E quando poi il soggettivismo, come il lupo della favola, si traveste e indossa l’abito della coscienza morale e, per giustificarsi, dice con voce suadente «ma io, in coscienza…», il campanello suona ancora più forte. E mi viene in mente il cardinale Newman, per il quale la coscienza non era la scorciatoia verso l’etica della situazione, ma l’originario vicario di Cristo.

Sentiamo in proposito le cristalline parole di  Benedetto XVI (20 dicembre 2010): «Nel pensiero moderno, la parola “coscienza” significa che, in materia di morale e di religione, la dimensione soggettiva, l’individuo, costituisce l’ultima istanza della decisione. La concezione che Newman ha della coscienza è diametralmente opposta. Per lui “coscienza” significa la capacità di verità dell’uomo: la capacità di riconoscere proprio negli ambiti decisivi della sua esistenza — religione e morale — una verità, “la” verità. La coscienza, la capacità dell’uomo di riconoscere la verità, gli impone con ciò, al tempo stesso, il dovere di incamminarsi verso la verità, di cercarla e di sottomettersi ad essa laddove la incontra. Coscienza è capacità di verità, e obbedienza nei confronti della verità, che si mostra all’uomo che cerca col cuore aperto. Il cammino delle conversioni di Newman è un cammino della coscienza, un cammino non della soggettività che si afferma, ma, proprio al contrario, dell’obbedienza verso la verità che, a passo a passo, si apriva a lui».

Il che spiega perché, nella famosa Lettera al Duca di Norfolk, Newman scrisse che, nel caso avesse dovuto portare la religione in un brindisi, certamente avrebbe brindato per il papa, ma prima per la coscienza e poi per il papa. Ovvero: prima per la ricerca della verità, poi per l’autorità.

Ecco: coscienza è capacità di verità. Quando la coscienza del cristiano abbandona il sentiero stretto e impervio di questa ricerca e si incammina lungo i boulevard del «ma anche» (illuminati dai mass media e gratificanti, ma senza uscita), ho l’impressione che rischi fortemente di perdersi. E di finire dritta dritta nella tana del lupo.

Aldo Maria Valli


Un Papa violento?

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(di Roberto de Mattei

Contro l’evidenza c’è poco da argomentare. La mano tesa di papa Bergoglio nei confronti della Fraternità San Pio X è la stessa che si abbatte in questi giorni sull’Ordine di Malta e sui Francescani dell’Immacolata.

La vicenda dell’Ordine di Malta si è conclusa con la resa incondizionata del Gran Maestro e il ritorno del potere di Albrecht von Boeslager e del potente gruppo tedesco che egli rappresenta. 

La vicenda è stata riassunta in questi termini da Riccardo Cascioli su La Nuova Bussola quotidiana: il responsabile della deriva morale dell’Ordine è stato riabilitato e chi ha cercato di fermarlo è stato mandato a casa .

Ciò è avvenuto in pieno dispregio per la sovranità dell’Ordine, come emerge dalla lettera del 25 gennaio, indirizzata ai membri del Sovrano Consiglio dal segretario di Stato Pietro Parolin a nome del Santo Padre, con cui la Santa Sede ha di fatto commissariato l’Ordine.

Sarebbe logico che gli oltre 100 Stati che mantengono rapporti diplomatici con l’Ordine di Malta ritirino i loro ambasciatori, dal momento che le relazioni possono essere direttamente intrattenute con il Vaticano, da cui ormai l’Ordine dipende in toto.

Il disprezzo che papa Francesco dimostra verso la legge si estende dal diritto internazionale al diritto civile italiano.

Un decreto emesso dalla Congregazione dei Religiosi con l’assenso del Papa, impone a padre Stefano Maria Manelli, superiore dei Francescani dell’Immacolata, di non comunicare con i mezzi di informazione, né apparire in pubblico; di non partecipare ad alcuna iniziativa o incontri di alcun genere; e soprattutto «di rimettere entro il limite di 15 giorni dalla consegna del presente decreto il patrimonio economico gestito dalle associazioni civili e ogni altra somma a sua disposizione nella piena disponibilità dei singoli istituti», cioè di devolvere alla Congregazione dei Religiosi beni patrimoniali di cui, come è stato confermato dal Tribunale del Riesame di Avellino, padre Manelli non dispone, perché essi appartengono ad associazioni legalmente riconosciute dallo Stato italiano.

«Nel 2017, nella Chiesa della Misericordia», commenta Marco Tosatti, «mancano i tratti di corda, e la maschera di ferro, e il catalogo è completo».

Come se non bastasse, mons. Ramon C. Arguelles, arcivescovo di Lipa nelle Filippine, è venuto a sapere delle sue dimissioni da un comunicato della Sala Stampa vaticana.

 Si ignorano le ragioni di tale provvedimento ma le si possono intuire: mons. Arguelles ha canonicamente riconosciuto un’associazione che raccoglie un gruppo di ex-seminaristi dei Francescani dell’Immacolata, che hanno abbandonato il loro ordine, per poter studiare e prepararsi al sacerdozio in piena libertà e indipendenza. Si tratta di una colpa, a quanto pare imperdonabile.

Sorge qui la domanda se papa Francesco non sia un Papa violento, intendendo bene il senso di questo termine. La violenza non è la forza esercitata in maniera cruenta, ma la forza applicata in maniera illegittima, in spregio al diritto, per raggiungere il proprio scopo.

Il desiderio di mons. Bernard Fellay di regolarizzare la posizione canonica della Fraternità San Pio X con un accordo che in nulla leda l’identità del suo istituto è certamente apprezzabile, ma viene da chiedersi: è opportuno mettersi sotto l’ombrello giuridico di Roma proprio nel momento in cui il diritto viene ignorato, o addirittura usato come mezzo per reprimere chi vuole restare fedele alla fede e alla morale cattolica?

 (di Roberto de Mattei)



[Modificato da Caterina63 03/02/2017 19:37]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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