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Ultimo Aggiornamento: 08/01/2019 13:00
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10/01/2017 23:43
 
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  Benedetto XVI, Il sale della terra. Cristianesimo e Chiesa cattolica nel XXI sec


Joseph Ratzinger – Benedetto XVI, Il sale della terra. Cristianesimo e Chiesa cattolica nel XXI secolo. Un colloquio con Peter Seewald, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2005, € 18 

Il libro, risalente al 1996, è stato ripubblicato, come molti altri testi di Joseph Ratzinger, dopo l’elezione dell’autore al soglio pontificio. Si tratta di un libro intervista col giornalista Peter Seewald, che potrebbe far coppia col più celebre Rapporto sulla fede, anch’esso libro intervista scritto con Vittorio Messori, per accostarsi in maniera scorrevole - ma non per questo banale - al pensiero del regnante pontefice. Benché non sia, ovviamente, un atto pontificio, esso può costituire un invito alla lettura – e un aiuto per la comprensione - del magistero di papa Benedetto XVI. 

Seewald esordisce nella premessa (pp. 5-7) descrivendo « un uomo di aspetto modesto, dai capelli bianchissimi, che dava una certa impressione di fragilità; camminava a piccoli passi, vestito del suo nero abito talare, con una piccolissima e semplice valigia. […] L’atmosfera dell’incontro è stata intensa e seria, ma talvolta questo “principe della Chiesa” sedeva tanto leggero sulla sua sedia che si aveva l’impressione di avere a che fare con uno studente. Una volta egli interruppe la nostra conversazione per ritirarsi in meditazione o, forse, anche per chiedere allo Spirito Santo le parole giuste. Non lo so. Il cardinale Joseph Ratzinger è considerato, soprattutto in patria, un controverso – e discusso – uomo di Chiesa. Tuttavia, molte delle analisi e dei giudizi da lui formulati in determinati momenti si sono nel frattempo avverati, spesso persino nei dettagli. E sono pochi ad avere una tanto dolorosa consapevolezza delle perdite e del dramma della Chiesa del nostro tempo, come questo signore intelligente, che ha le sue radici nella Baviera contadina». 


Segue una parte intitolata «La fede cattolica – Segni e parole» (pp. 9-44) - che si differenzia dai successivi capitoli “a tema” - in cui la chiacchierata tra il giornalista e il cardinale prende le mosse da una battuta: «Eminenza, si dice che il papa talvolta abbia paura di Lei e che gli sia capitato di chiedersi: “Per carità, che cosa ne dirà il cardinal Ratzinger?” – (divertito) Può essere stata una battuta. Ma di sicuro non ha paura di me!». Gli argomenti toccati sono qui molto vari, dai colloqui con Giovanni Paolo II alla vita di fede del cardinale - che afferma «per me avere a che fare con Dio è già di per sé una necessità» - fino alla situazione attuale della barca di Pietro («Vale ancora la pena di salirvi?» chiede Seewald): «Si può anche vedere che il crollo della Chiesa e del cristianesimo cui abbiamo assistito negli ultimi trenta, quarant’anni, è in parte responsabile delle gravi situazioni di sfacelo spirituale, delle difficoltà di orientamento, dell’abbandono e della trascuratezza che noi osserviamo. Per questo io dico: se non ci fosse questa barca, la si dovrebbe inventare».

Infatti la barca, benché la secolarizzazione ne abbia notevolmente diminuito i passeggeri, e la crisi di vocazioni l’equipaggio, continua a restare a galla e non ci si sta neanche male… basterebbe avere la pazienza di esplorarla prima di dire che è meglio rituffarsi in mare: «l’idea dominante è quella che il cristianesimo già lo si conosce e quindi si deve cercare qualcosa di diverso. Deve venir fuori, per così dire, una nuova curiosità per il cristianesimo, il desiderio di conoscere davvero ciò che esso è». Lo spazio non ci consente di avvertire il clero che la «nuova curiosità per il cristianesimo» non si suscita certo con il piano-bar domenicale, ma per tale aspetto rinviamo agli splendidi scritti di Ratzinger sulla liturgia… 

Tra i numerosi altri argomenti toccati, meritevoli di segnalazione, ci limiteremo solo alla domanda: «Qual è la cosa che più la affascina nell’essere cattolico? - Affascinante è questa grande, viva storia, in cui noi siamo entrati, e questo, anche solo dal punto di vista umano, è già qualcosa di speciale. Affascinante è che una istituzione, con tante debolezze umane e malgrado tanti fallimenti, si mantenga intatta nella sua continuità e che io, vivendo in questa grande comunità, possa sentirmi in comunione con tutti i viventi e i defunti […]».

Perché «cattolico» non indica solo un’universalità spaziale, ma anche temporale, una comunione con tutti coloro che nei secoli hanno fatto parte della «famiglia degli amici di Dio» (espressione cara al papa). Come non ripensare alle scene di un anno fa, quando il nuovo pontefice, partendo dalla tomba di Pietro, si apprestava a continuarne la difficile missione accompagnato dal canto delle Laudes Regiae, le invocazioni alla schiera dei santi, a ciascuno dei quali si chiedeva “tu illum adiuva”, “aiutalo”…? 

Nel primo capitolo, «La persona» (pp. 45-136), la conversazione si concentra sulle diverse tappe della vita di Joseph Ratzinger, ultimo di tre fratelli, nato il Sabato Santo del 1927 a Marktl am Inn, in Baviera. Questo capitolo anticipa in gran parte il contenuto del libro «La mia vita», pubblicato da Ratzinger nel 1997 e contenente i suoi ricordi fino alla nomina a cardinale, pertanto più che i passi strettamente biografici segnaleremo qui quelli con ricadute attuali per la vita della Chiesa, cioè l’annoso problema della ricezione e dell’interpretazione del Concilio Vaticano II - problema che sarebbe in realtà risolto da un pezzo, se solo si fosse fatto riferimento ai testi conciliari e all’«interpretatio authentica» che ne hanno dato i successori di Pietro (il cui mestiere è appunto di confermare nella fede i fratelli: cfr. Lc 22,32), invece di rincorrere continuamente i segni dei tempi… per adeguarvisi! 

Seewald, ripercorrendo quegli anni, in cui il giovane teologo Ratzinger era parte attiva del rinnovamento conciliare, gli chiede: «Ci si aspettava un salto in avanti, si è raccolto un “processo di decadimento”. Che cosa è andato storto? – […] tra quel che i padri conciliari volevano e quel che è stato mediato all’opinione pubblica e che, poi, ha finito per impregnare la coscienza comune, c’era una sensibile differenza. I Padri volevano aggiornare la fede, ma, appunto, proprio presentandola in tutta la sua forza. Invece è andata via via formandosi l’idea che la riforma consistesse semplicemente nel gettare la zavorra, così che, alla fine, la riforma è sembrata consistere non in una radicalizzazione della fede, ma in un suo annacquamento. In ogni caso, oggi si vede sempre più chiaramente come non si raggiunge la forma giusta di concentrazione, di semplificazione e di approfondimento limitandosi semplicemente alle facilitazioni, agli adattamenti e alle concessioni. Ciò significa che, fondamentalmente, esistono due concetti di riforma. Il primo consiste più nel rinunciare alla potenza esteriore, a dei fattori esterni, ma per vivere ancora più della fede, l’altro consiste, per dirla in termini caricaturali, nel mettersi comodi nella storia; e poi, ovviamente, le cose vanno male».

E prosegue concludendo che «la vera eredità del concilio si trova nei suoi testi. Se essi vengono interpretati in modo serio e approfondito, allora si è al riparo da estremismi in entrambe le direzioni; e allora si apre davvero una strada che ha ancora molto futuro davanti a sé». Sono gli stessi concetti che ha espresso, da papa, il 22 dicembre 2005 in un denso discorso sull’argomento, al quale, ovviamente, rimandiamo. 

Prima di passare alla parte successiva, riportiamo solo una frase detta a proposito dei teologi (tra i quali, non dimentichiamolo, c’è anche lui): «noi siamo al servizio della Chiesa, e non coloro che decidono che cosa essa sia». 

Il secondo capitolo (pp. 137-244) si intitola «Problemi della Chiesa cattolica», problemi che si possono riassumere nella drastica riduzione dell’influenza della Chiesa nelle società, e persino sui suoi stessi fedeli – che magari conoscono benissimo la passione di papa Wojtyła per la montagna, o di papa Ratzinger per Mozart, ma ignorano del tutto i loro insegnamenti. Seewald affronta la questione senza falsi pudori, paragonando (l’unico eufemismo è un «quasi») la Chiesa ad un buco nero, ad una stella prossima a spegnersi. L’autorevole interlocutore, altrettanto privo di peli sulla lingua, non si scompone: «In effetti da un punto di vista empirico, le cose possono sembrare davvero così. […] Sarebbe indubbiamente una falsa aspettativa pensare che possa aver luogo un radicale mutamento del trend storico, che la fede diventi nuovamente un grande fenomeno di massa, un fenomeno che domina la storia».
La differenza con la stella, però, è che il cristianesimo non è destinato a spegnersi, ma ad essere sempre una «forza vitale della storia», a prescindere dalle dimensioni – proprio come l’evangelico granello di senape. 

La diagnosi è confermata. Ma quali sono le cause? Innanzitutto la nostra epoca – detta anche post-moderna – non è più quella della secolarizzazione, dell’eccesso di razionalismo, ma al contrario di una ricerca del sacro un po’ selvaggia, al di fuori delle Chiese tradizionali, nelle quali si crede di non poter trovare «la vivacità, la semplicità della fede». La diffidenza verso le istituzioni è una delle caratteristiche della nostra epoca, e Seewald osserva come «non vi sia provocazione maggiore del fatto puro e semplice che esista ancora una Chiesa istituzionale». «Tutto questo, però, - risponde Ratzinger – depone per molti aspetti a favore della Chiesa cattolica, è l’ammissione che essa ha ancora una capacità di provocare, che è ancora un pungolo e un segno di contraddizione o, come dice san Paolo, è “scandalo”, pietra d’inciampo». Del resto, «è davvero divertente osservare quanto rapidamente cambino le mode culturali». 

Il problema è dunque cambiato rispetto a qualche tempo fa: se prima il rischio era la secolarizzazione, adesso è la soggettivizzazione della religione, sia nel senso che essa è divenuta una sorta di bricolage, in cui ciascuno toglie o aggiunge secondo i propri comodi, sia nel senso che la religione in quanto tale è relegata nel privato, e lì deve restare: «la religione non è affatto scomparsa, ma si è spostata nell’ambito del soggettivo. La fede è allora tollerata come una delle forme soggettive di religiosità, oppure mantiene un certo spazio come fattore culturale». Date queste premesse non stupisce la lucidità con cui il card. Ratzinger dice che «una dittatura anticristiana del futuro sarà presumibilmente molto più sottile di quelle che abbiamo conosciuto finora. Essa si mostrerà apparentemente aperta alle religioni, ma a condizione che non si vada a toccare il suo modello di condotta e di pensiero».

Basterebbe aguzzare un po’ la vista per osservare questo sottile anticristianesimo già al lavoro, e scoprire sotto i rassicuranti proclami buonisti della mentalità odierna (e persino di certo volontariato) le aggressioni alla libertà religiosa, alla vita umana nascente, alla famiglia naturale, o alla semplice possibilità che la ragione umana (anche di un ateo) possa cogliere qualcosa della Verità, qualcosa di più di una semplice opinione da tenere per sé. 

Tornando alla perdita d’influenza della Chiesa cattolica, il cuore del discorso di Ratzinger è che i problemi non si risolvono annacquando la fede, ma, al contrario, vivendola più intensamente. Presunte terapie, come il sacerdozio alle donne, o una maggiore elasticità circa la morale sessuale, non avrebbero alcuna utilità, né per la Chiesa – basti l’esempio delle numerose comunità protestanti, cui tutte queste concessioni non hanno provocato altro che uno svuotamento delle panche – che inoltre è vincolata dalla parola di Dio e dalla legge naturale; né per gli uomini, poiché in tal modo la Chiesa non servirebbe più loro, ma i loro capricci. Ratzinger ne parla qui per diverse interessantissime pagine ma conclude andando, ancora una volta, all’essenziale: «Sono convinto che nel momento in cui si verificherà una svolta spirituale, questi problemi perderanno di importanza in modo altrettanto improvviso, come sono emersi. Perché, in ultima analisi, non sono i veri problemi dell’uomo». 

Infine arriviamo al terzo capitolo, «Alle soglie di una nuova epoca» (pp. 245-320), che inizia con un bilancio di fronte alle tante critiche (di cui sarebbe buona norma accertare la veridicità e il pulpito di provenienza…) rivolte ai cristiani del passato: «è davvero necessario che la Chiesa reciti il suo “mea culpa”, perché possa porsi con sincerità davanti a Dio e agli uomini. È altrettanto importante, però, non ignorare che, nonostante tutti gli errori e le debolezze, la parola di Dio è sempre stata annunciata e i sacramenti impartiti, e che, di conseguenza, erano comunque percettibili le forze della salvezza, forze che hanno posto argini al male». 

Argomento centrale del capitolo sono, tuttavia, le ipotesi, sollecitate da Seewald, circa l’avvenire della Chiesa e del suo ruolo nel mondo. Ratzinger, nonostante abbia alle spalle numerose diagnosi confermate col passare del tempo, è un po’ restio ad avventurarsi in «prospettive future, rispetto alle quali sono molto cauto», ma questo non gli impedisce di presentare all’interlocutore (e ai lettori) qualche riflessione sul domani. Concetto chiave è il fatto che «la Chiesa di domani […] sarà più chiaramente di oggi la Chiesa di una minoranza»: il mondo va in direzione opposta e l’ambiente sociale che circonda il singolo non trasmette più la fede, come avveniva in passato, dunque, poiché «non si può essere cristiani da soli […] è la Chiesa stessa che deve costruirsi delle cellule vitali», che deve sopperire alla disgregazione degli “ambienti”. Eppure, «proprio un’epoca di cristianesimo quantitativamente ridotto può suscitare una nuova vitalità di un cristianesimo più consapevole. Di fronte a noi c’è un nuovo tipo di epoca cristiana». 
Ma qual è la funzione di questa Chiesa di minoranza, che in condizioni difficili ritrova la sua vitalità, all’interno di un mondo in gran parte ostile? La risposta ci ricollega al titolo del libro: «Con le immagini bibliche del sale della terra e della luce del mondo si spiega la funzione di rappresentanza della Chiesa. “Sale della terra” presuppone che non tutta la terra sia sale». E il sale -come osservava a tale proposito Gilbert Keith Chesterton - notoriamente condisce in quanto ha un sapore radicalmente diverso da quello del cibo, talvolta persino in contraddizione… proprio come accade tra la Chiesa e il mondo! 

Stefano Chiappalone



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Card. Joseph Ratzginer  

Tratto dal libro  
Il sale della terra. Cristianesimo e Chiesa Cattolica nella svolta del terzo millennio.  
Un colloquio con Peter Seewald, 
Cinisello Balsamo: Ed. S.Paolo, pp. 199-202.

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Peter Seewald  
Mi chiedo perché la Chiesa non trasmetta meglio la fede a noi ignari e cristiani analfabeti, perché non ricordi più spesso la grandezza del Cattolicesimo, la libertà di pensiero, il perdono e la misericordia. Mi mancano anche i suoi riti tradizionali, le sue usanze e le feste che potrebbe celebrare con orgoglio e con la capacità derivatale da duemila anni di esperienza. In un libro di Isaac Singer ho trovato la descrizione della tradizionale festa ebraica delle capanne: il rabbino salmodiò la preghiera di benedizione del pasto e tenne una predica; i Chassidim si entusiasmarono perché una tale interpretazione della Torà non era mai stata data. Il rabbino aveva svelato dei santi segreti. Alla sera la tavola fu apparecchiata con la tovaglia dei giorni festivi. Poi fu deposto un pezzo di pane e vicino fu collocata una caraffa piena di vino e un calice per il qiddush. I partecipanti ebbero l'impressione che la capanna, allestita in una delle loro case, si trasformasse nella dimora di Dio. Da noi avviene piuttosto che le feste cristiane si trasformino in feste popolari con pâté di fegato e birra. 
 

Card. Joseph Ratzinger  
Qui si riaffaccia il tema della fusione di Cristianesimo e società e della penetrazione del Cristianesimo nelle usanze e nelle feste sociali, di cui abbiamo già parlato. In questo contesto però vorrei introdurre un altro tema. Il rabbino non ha detto certo niente di nuovo, ma il rito, svoltosi in modo devoto e festoso, ha proposto il contenuto in modo davvero nuovo e rendendolo nuovamente presente. 
Nella nostra riforma liturgica c'è la tendenza, a parer mio sbagliata, ad adattare completamente la liturgia al mondo moderno. Essa dovrebbe quindi diventare ancora più breve e da essa dovrebbe essere allontanato tutto ciò che si ritiene incomprensibile; alla fin fine, essa dovrebbe essere tradotta in una lingua ancora più semplice, più "piatta". In questo modo, però, l'essenza della liturgia e la stessa celebrazione liturgica vengono completamente fraintese. Perché in essa non si comprende solo in modo razionale, così come si capisce una conferenza, bensì in modo complesso, partecipando con tutti i sensi e lasciandosi compenetrare da una celebrazione che non è inventata da una qualsiasi commissione di esperti, ma che ci arriva dalla profondità dei millenni e, in definitiva, dall'eternità. 
Allorché l'Ebraismo perse il Tempio, rimase legato alle feste e ai riti sinagogali, e fu tenuto unito proprio grazie a questi grandi riti, in quanto celebrazioni della casa rimasta fedele al culto di Dio. Nei riti c'è una forma comune di vita, che non dipende solo da ciò che si comprende a livello superficiale, ma che ha a che fare con la grande continuità della storia della fede, che in essa si manifesta, e che rappresenta un'autorità, che non viene dal singolo. Il prete non è un presentatore che si inventa qualcosa e lo comunica abilmente. Può essere al contrario completamente sprovveduto come presentatore, perché comunque rappresenta qualcosa d'altro che non dipende affatto da lui. 
Naturalmente anche la comprensibilità fa parte della liturgia e per questo la parola di Dio deve essere presentata bene e, poi, altrettanto bene spiegata e interpretata. Ma alla comprensibilità della parola contribuiscono altre modalità di comprensione. Prima di tutto essa non è qualcosa che viene continuamente inventato da nuove commissioni. Altrimenti diverrebbe qualcosa di fatto in casa, a propria misura, tanto se le commissioni si riuniscono a Roma, a Treviri o a Parigi. Invece essa deve avere la sua continuità, una sua non arbitrarietà ultima, in cui io possa incontrare i millenni e, attraverso essi, l'eternità, e in cui possa entrare in rapporto con una comunità in festa, che è qualcosa di ben diverso da ciò che un comitato o l'organizzazione di una festa potrebbero mai inventarsi. 
Credo che proprio su questo punto sia nato un nuovo tipo di clericalismo, a partire dal quale si Può comprendere meglio la richiesta del sacerdozio femminile. Viene attribuita importanza al sacerdote in persona, nella sua persona; egli deve essere abile e saper rappresentare tutto molto bene. È lui il vero centro della celebrazione. Di conseguenza, ci si chiede perché solo certe persone possono farlo. Se egli, al contrario, si fa indietro in quanto persona ed è davvero solo un rappresentante, e si limita a compiere con fede quel che gli è richiesto, allora quel che avviene non gira più intorno a lui, non ha la sua persona come centro, ma egli si fa da parte ed emerge finalmente qualcosa di più grande. In questo si deve vedere ancora di più la forza dirompente della tradizione non manipolabile. La sua bellezza e la sua grandezza toccano anche chi non sa elaborare e capire razionalmente tutti i dettagli. Al centro sta allora la parola, che viene annunciata e spiegata.


Peter Seewald  
Per reagire a questo appiattimento e a questa perdita di fascino e di sacralità, non sarebbe opportuno pensare a un recupero dell'antico rito? 
 

Card. Joseph Ratzinger  
Da sola, questa non è una soluzione. Personalmente ritengo che si dovrebbe essere più generosi nel consentire l'antico rito a coloro che lo desiderano. Non si vede proprio che cosa debba esserci di pericoloso o inaccettabile. Una comunità mette in questione se stessa, quando considera improvvisamente proibito quello che fino a poco tempo prima le appariva sacro e quando ne fa sentire riprovevole il desiderio. Perché le si dovrebbe credere ancora? Non vieterà forse domani, ciò che oggi prescrive? Ma un semplice ritorno all'antico non è una soluzione. La nostra cultura si è così trasformata negli ultimi trent'anni che una liturgia celebrata esclusivamente in latino comporterebbe un'esperienza di estraniamento, insuperabile per molte persone. Quello di cui abbiamo bisogno è una nuova educazione liturgica, soprattutto dei sacerdoti. Deve diventare nuovamente chiaro che la scienza liturgica non esiste per produrre continuamente nuovi modelli, come può valere per l'industria automobilistica.
Esiste per introdurre l'uomo nelle feste e nella celebrazione, per disporre gli uomini ad accogliere il Mistero. Ce lo insegnano le chiese orientali, ma anche le religioni di tutto il mondo, che sanno come la liturgia sia qualcosa di diverso dall'invenzione di testi e riti e che essa vive proprio di ciò che non è manipolabile.
I giovani ne hanno una profonda percezione. I luoghi dove la liturgia viene celebrata senza fronzoli e in modo riverente esercitano notevole forza di attrazione, anche se non si capisce ogni suo singolo elemento. Abbiamo bisogno di luoghi come questi, capaci di offrire dei modelli. Purtroppo da noi c'è una tolleranza quasi illimitata per le modifiche spettacolari e avventurose, mentre praticamente non ce n'è per l'antica liturgia. Cosi siamo sicuramente su una strada sbagliata.


[Modificato da Caterina63 10/01/2017 23:43]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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