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Eucaristia piccolo catechismo eucaristico di mons. Luciano Pascucci

Ultimo Aggiornamento: 19/04/2017 14:20
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L'eucaristia è il bene più prezioso della chiesa

Una spiegazione della Messa, di mons. Luciano Pascucci

Luciano Pascucci, da 35 anni è sacerdote del clero romano. È stato 21 anni in parrocchia e da 14 anni è responsabile della formazione permanente del clero di Roma. Con questo opuscolo: ‘L’Eucaristia: il bene più prezioso della Chiesa’, intende iniziare i semplici fedeli alla celebrazione eucaristica. Questo ‘catechismo eucaristico’ può essere utile anche ai sacerdoti che hanno il compito di ‘vigilare, affinché i fedeli prendano parte all’azione liturgica consapevolmente, attivamente e fruttuosamente’ (SC 11).

Introduzione generale

Alcune obiezioni sulla Messa:

- Vado a Messa solo quando me la sento, quando ne ho voglia, se no a che serve?
Dire: “Se ho voglia” è ridurre la Messa a sensazione, a sentimento, a stato d’animo, a umore; significa ridurre Dio e l’incontro con lui a quello che sono io, o a quello che vivo e che provo in questo momento, senza tenere per nulla in considerazione Dio che mi chiama a celebrarla insieme agli altri fratelli.

- La Messa è sempre uguale, perché andarci?
L’incontro con il Signore nell’Eucaristia è sempre diverso, se per te lui è una persona viva che ha qualcosa di nuovo da dirti. Se questo rapporto di amicizia cresce e diventa sempre più forte, allora la Messa sarà un incontro sempre nuovo e arricchente per te e per le persone che ti incontreranno. Tocca non solo al sacerdote che presiede, ma a tutta la comunità che celebra, rendere la Messa ogni volta una festa, non ripetitiva e noiosa.

- Chi va a messa è peggio degli altri!
Può darsi! Ma la Messa non è per chi non ha colpe. Il Signore viene a noi e in noi per guarirci. Dire che chi va a Messa è peggio degli altri mi sembra una scusa, tra l’altro poco originale; e poi chi sei tu per giudicare? (cf. Gc 4,12).

- A me il prete non piace; è noioso e antipatico…
Qualche volta può succedere che non ti sia simpatico il sacerdote, ma l’Eucaristia non è fatta dal sacerdote. Invece di dire che “solo il prete può celebrare la Messa”, diciamo piuttosto che la Messa non si può celebrare senza il prete, proprio perché l’Eucaristia è azione di Cristo e della Chiesa insieme. Il sacerdote, grazie all’ordinazione ricevuta, ha il compito di presiedere la celebrazione, per far vedere e manifestare visibilmente la presenza e l’azione di Gesù risorto che raccoglie nell’unità la sua Chiesa e invita alla sua mensa la comunità. Il sacerdote è un cristiano come te; egli partecipa all’Eucaristia come inviato del Signore per offrire al suo popolo il corpo e il sangue di Gesù come cibo e bevanda di salvezza. Nel presiedere alla celebrazione di tutta la comunità egli non agisce a titolo personale: esercita un compito che gli è stato affidato. Tutta la comunità celebra l’Eucaristia e partecipa del sacrificio di Gesù.

- Non vado a Messa, perché non ho tempo!
Dobbiamo essere sinceri con noi stessi. Quando desideri una cosa, cerchi in tutti i modi di ottenerla.
E allora chièditi: Quanto desideri il Signore? Quanto ci tieni all’amicizia con lui?

- Preferisco andare in chiesa da solo che quando c’è la Messa!
Questo dimostra che la Messa è ancora tutta da scoprire; infatti l’efficacia della Messa è unica e infinita, perché offro Cristo al Padre e, attraverso la mediazione di Cristo, posso ottenere ciò che da solo non potrei mai ottenere.

Pregiudizi sulla Messa

Quando mancano i motivi veri e adeguati per andare a Messa, è inevitabile che la partecipazione si svuoti di significato, diventi abitudinaria e ripetitiva, mal sopportata, connotata da un forte individualismo (vado alla “mia” messa), a volte velata da pensieri di superstizione, se non di vera e propria magia.

Quali sono in genere i comportamenti immotivati o del tutto erronei riguardo alla partecipazione alla Messa?
1. Non andare a Messa per ignoranza. Oggi c’è un forte analfabetismo religioso e, naturalmente, anche riguardo alla Messa. Ci vuole un vero ‘catechismo eucaristico’. Purtroppo c’è un diffuso pregiudizio che ritiene la partecipazione fedele alla Messa come una cosa di scarsa importanza. Si può farne a meno senza problemi. Per questo pochi vanno a Messa regolarmente. Per alcuni oggi ‘essere praticanti’ vuol dire andare a Messa saltuariamente.
2. Andare a Messa semplicemente per abitudine. Tutto viene fatto ‘in automatico’. Non mi faccio domande; venire non mi disturba più di tanto! E allora ci vado e basta!
3. Andare a Messa solo per dovere. In fondo non costa troppo pagare questa tassa settimanale di un’oretta scarsa. E poi, quando sei andato ti senti più sollevato, con la coscienza a posto: ti sei tolto il pensiero e, fino alla prossima settimana, non ci pensi più.
4. Andare a Messa per ottenere un vantaggio. La tua frequenza aumenta in connessione con qualche grazia particolare da chiedere (in vista di un intervento chirurgico o di un esame…).
5. Andare a Messa per fare una bella esperienza spirituale. Ciò ha un influsso calmante sullo stress della mia settimana lavorativa. La Messa mi rilassa e mi distende!
6. Andare a Messa per stare con il ‘tuo’ Gesù. Prego meglio quando la chiesa è deserta, per questo vado in chiesa quando non c’è nessuno o alla Messa meno animata, senza canti. Se vado qualche volta, spero che mi lascino godere il mio rapporto intimo e personale con il mio Gesù. La religione è un affare privato tra me e il mio Dio, e ciò che accade in chiesa alla domenica è irrilevante. Perché andarci?

Non c’è nulla di più grande!

- “Ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo Corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun’altra azione della Chiesa, allo stesso titolo e allo stesso grado, ne uguaglia l’efficacia” (SC 7). “Nell’Eucaristia è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Gesù, nostra Pasqua…” (PO 5).

-“L’Eucaristia è un sacrificio di ringraziamento al Padre, una benedizione con la quale la Chiesa esprime la propria riconoscenza a Dio per tutti i suoi benefici, per tutto ciò che ha operato mediante la creazione, la redenzione e la santificazione” (CCC 1360).

-“Il sacrificio eucaristico è un sacrificio eterno. Esso viene offerto ogni giorno per la nostra consolazione, anzi in ogni ora e momento, perché ne abbiamo un fortissimo aiuto” (G. Fisher). Sicuramente in ogni momento del giorno e della notte in un angolo della terra viene celebrata una Messa.

- La Messa è una preziosa eredità alla quale tutti noi possiamo attingere. Siamo depositari di un tesoro preziosissimo per la vita dell’umanità. Cosa ne stiamo facendo? Che rapporto ha con la nostra vita?

- ‘E’ più facile che il mondo possa vivere senza il sole, piuttosto che senza l’Eucaristia’ (S. Pio da Pietrelcina).

- La Messa è un vero matrimonio mistico. La dimensione nuziale gli si addice in una maniera tutta particolare. Così prega la liturgia: “O Dio, che nell’ora della croce hai chiamato l’umanità ad unirsi in Cristo, sposo e Signore, fa’ che in questo convito domenicale la santa Chiesa sperimenti la forza trasformante del suo amore e pregusti nella speranza la gioia delle nozze eterne”. La Messa è anticipazione delle nozze eterne.

Sei buone ragioni per andare a Messa.

La Messa non è un insieme di preghiere e di riti, di intercessioni e di gesti liturgici, pur essendo accompagnata e, per così dire, espressa da tutto questo.
La Messa non entra nella categoria dell’orazione, ma in quella dell’azione.
La Messa è un evento colossale. Qualcosa succede in essa. Si richiede e si determina una reale partecipazione a qualcosa che realmente avviene.
Nella Messa è Dio che agisce e agisce per salvarci, anche se apparentemente sembra che non succeda niente.

Andare a Messa senza rendersi conto di questa elementare verità significa rimanere fuori dalla sua logica, estranei al suo linguaggio, incapaci di ricevere il dono che essa porta con sé.
Andiamo a rileggere alcune pagine luminose della prima Costituzione del Concilio Vaticano II, quella sulla Liturgia (Sacrosanctum Concilium): vi troviamo delle espressioni di grande significato e attualità per la nostra fede di oggi, e purtroppo largamente sconosciute.

Faccio solo due esempi: il Concilio ricorda che nel divino sacrificio dell’eucaristia si attua l’opera della nostra redenzione, e si contribuisce nel modo più efficace a far sì che i fedeli esprimano nella loro vita e manifestino agli altri il mistero di Cristo e la genuina natura della vera chiesa.
Indicando poi la liturgia come fonte e culmine della vita cristiana, come luogo in cui si esprime e si alimenta la sua forza redentrice e la sua bellezza, il testo del Concilio prosegue dicendo che nella Messa si rinnova l’alleanza del Signore con l’umanità e si accende nei fedeli il fuoco dell’amore di Cristo (cf. Lc 12,49), in modo che in essi prenda forma l’annuncio e l’offerta della salvezza rivolta al mondo intero:

“Dalla liturgia, dunque, particolarmente dall’eucaristia, deriva in noi, come da sorgente, la grazia e si ottiene con la massima efficacia quella santificazione degli uomini e glorificazione di Dio in Cristo verso la quale convergono, come a loro fine, tutte le altre attività della chiesa” (SC 10).

“L’Eucaristia ha dettato una nuova struttura del nostro tempo. Il Risorto si era manifestato il giorno dopo il sabato, il primo della settimana, giorno del sole e della creazione. Dall’inizio i cristiani hanno celebrato il loro incontro con il Risorto, l’Eucaristia, in quel primo giorno, in questo nuovo giorno del vero Sole della storia, il Cristo Risorto. E’ molto importante per noi cristiani, seguire questo ritmo nuovo del tempo, incontrandoci col Risorto nella domenica” (Benedetto XVI).

Come potrebbero i cristiani trascurare questo incontro, questo banchetto che Cristo ci prepara nel suo amore, in cui è lui stesso che passa a servirci (cf. Lc 12,37)?
Che la partecipazione ad esso sia insieme degnissima e gioiosa! E’ il Cristo, crocifisso e glorificato, che passa in mezzo ai suoi discepoli, per trascinarli insieme nel rinnovamento della sua risurrezione.
È il culmine, quaggiù, dell’Alleanza d’amore tra Dio e il suo popolo, firmata nel Sangue di Cristo: segno e sorgente di gioia cristiana, tappa per la Festa eterna.

     


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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RITI INIZIALI

I riti iniziali comprendono tutto ciò che si svolge dall’ingresso fino alla proclamazione della Parola.
Il loro scopo è quello di fare sì che i fedeli, riuniti insieme, costituiscano una comunità, si raccolgano in sé per disporsi rettamente ad ascoltare con fede la Parola di Dio ed a celebrare degnamente l’Eucaristia, e perché entrino in preghiera.
Non è sempre chiaro nella mente e nel cuore dei soggetti laici il motivo della convocazione; alle ragioni della fede spesso si mescolano altre motivazioni.
Per questo ci sono i riti di introduzione: perché vengano purificate le intenzioni dei fedeli convocati e ci sia un’appropriazione oggettiva della ragioni della fede e della grazia.

E’ profondamente diverso, sia per una comunità che per una singola persona, iniziare la santa Messa con un’assemblea già adunata e preparata o con un’assemblea in buona parte ancora in formazione.
Nel primo caso i riti introduttivi potranno dispiegare tutte le loro potenzialità in ordine all’evangelizzazione della mente e del cuore dei fedeli.
Nell’altro caso essi risulteranno solo un riempitivo e una fase di passaggio, ancora incerta e confusa.
Concretamente essi si articolano così:


a. Il popolo si raduna.

Convocazione dell’assemblea. La Messa è una ‘sacra convocazione’; ciò significa che il Signore ci raduna insieme alla sua presenza, nel giorno della sua risurrezione; ci invita a entrare in comunione con lui e tra di noi. Non è solo un fatto materiale rispondente a una necessità: il fatto di radunarsi esprime e realizza il mistero della Chiesa, che è ‘un popolo radunato’, e rende presente Cristo in mezzo ai suoi riuniti nel suo nome.
E’ una convocazione ecclesiale che in ultima analisi è convocazione divina. Tutto questo è un’epifania della Chiesa.
La ragione del radunarsi dei cristiani la domenica non è da cercare sul versante morale di una generosità particolare, bensì sul versante “teologale” di una risposta a una chiamata di Cristo stesso: è lui che convoca (ek-kalèo) il suo popolo, è lui che esercita in mezzo e in favore di questo popolo il suo sacerdozio unico e intrasmissibile.
La celebrazione comincia già quando, al suono delle campane, i fedeli escono di casa e si avviano verso la chiesa. E’ la voce del Signore che ci invita e ci dice: “Venite, vi sto aspettando!”. Le chiese ci ricordano che siamo pellegrini.
Ci avviamo verso la chiesa per ringraziare, lodare, benedire, esaltare, glorificare, cantare, gioire insieme. La vita ha vinto sulla morte, l’amore ha vinto l’egoismo; ci è stata data la speranza della nostra stessa vittoria! E’ mai possibile rimanere indifferenti o pigri?
Per facilitare l’unione materiale di chi si raduna è molto utile un intelligente e discreto servizio di accoglienza. E’ d’obbligo l’invito a spegnere il cellulare, perché ci si concentri sull’azione liturgica che sta per iniziare.
Il primo atteggiamento cristiano quando si arriva in questa assemblea domenicale non è quello di mettersi la testa fra le mani, di tapparsi gli orecchi e chiudere gli occhi per potersi raccogliere nel cuore a cuore con Dio, ma è quello di accogliere questi ‘altri’ che sono donati da Dio a ciascuno come il prossimo più prossimo da amare; anzi, come membra del medesimo ‘Corpo’, come pietre vive del medesimo ‘Tempio’.
Per questo tutta l’assemblea è chiamata ad essere interamente attiva con Cristo. Si invera così l’adagio, teologicamente fondato sulla tradizione liturgica costante del “noi” partecipativo (“ti preghiamo”, “ti rendiamo grazie”, “ti chiediamo”…) e diventato oggi comune: “uno solo presiede, ma tutti celebrano”, adagio da intendere così: uno solo presiede per manifestare e rendere possibile il fatto che tutti celebrano!
“La liturgia non dice ‘io’, bensì ‘noi’. La liturgia non è opera del singolo, bensì della totalità dei fedeli. Essa si dilata oltre i limiti di uno spazio determinato e abbraccia tutti i credenti della terra intera. E travalica anche i limiti del tempo, in quanto la comunità che prega sulla terra si sente una cosa sola anche con i beati, che vivono nell’eternità” (Romano Guardini).

Dunque, la Messa non è uno spettacolo. Qualche volta si sente dire specialmente dalle persone adulte: “Andiamo a prendere Messa” o “Andiamo a sentire la Messa”. La Messa non è qualcosa che si prende o si ascolta, come si può vedere un film o una partita di calcio.
La Messaè la festa dei cristiani che si incontrano con il Signore risorto e fra di loro. La Messa non va “ascoltata”, ma va vissuta e partecipata. Sono io insieme a tutti gli altri che celebro la Messa e il sacerdote come ministro incaricato la presiede.


b. Accesso dei ministri all’altare

1. Processione d’ingresso.

E’ la prima della quattro processioni previste dalla celebrazione della Messa. Esse sono:
a. la processione di ingresso,
b. la processione al Vangelo,
c. la processione per la presentazione dei doni,
d. la processione alla comunione.
La processione d’ingresso è il movimento compiuto dal presidente assieme agli altri ministri verso l’altare. Il presidente è segno visibile di Cristo. Essa ricorda la chiesa pellegrinante che è in cammino verso la casa di Dio nella gloria.


2. Canto d’ingresso.

Salmo di ingresso (Introitus) . L’introito diventa l’idea-guida del nostro cammino verso l’altare e del nostro comportamento interiore all’inizio della celebrazione. Impariamo a ordinare pensieri ed emozioni, temi e impressioni. Tutto il popolo, in un modo o nell’altro, deve partecipare all’esecuzione del canto di ingresso. L’unione delle voci contribuisce efficacemente a favorire quell’unione degli spiriti che costituisce uno degli scopi del canto di ingresso. Il canto d’ingresso serve anche a introdurre lo spirito dei fedeli riuniti nel mistero del tempo liturgico o della festività. Cantando, la comunità entra nel mistero dell’amore che Dio le mostrerà nell’Eucaristia.
- Il canto – in particolare – è segno della gioia del cuore (cf At 2,46). Dice molto bene S. Agostino: “Il canto è proprio di chi ama”.
- Il canto sottolinea la dimensione gioiosa e conviviale della Messa. “Il canto ha una grande valenza antropologica e simbolica, dà forza al messaggio di fede, fa sentire uniti, suscita emozioni, apre all’adorazione, facilita la contemplazione e la preghiera, è espressione di festa e di gioia” (Benedetto XVI).


3. Gli atti di riverenza davanti all’altare.

- Prima riverenza è l’inchino o l’inginocchiarsi (se c’è il SS. Sacramento). Mi faccio piccolo, mi abbasso, e questo per amore. Nell’inginocchiarsi l’uomo si fa piccolo per un profondo rispetto verso Dio.
- Seconda riverenza è il bacio dell’altare. E’ il segno di venerazione più antico e più importante. L’altare rimanda a Cristo, poiché l’unico altare del cristianesimo è Cristo, nostra vittima e sacerdote. L’altare della nostra celebrazione serve solo come richiamo all’altare vero e proprio, a Cristo. E’ Cristo, infatti, l’altare sul quale i nostri doni vengono presentati al Padre. Dice S. Ambrogio:‘Che cos’è l’altare se non la forma del corpo di Cristo?’. Il bacio dell’altare intende quindi il Signore, a cui vogliamo manifestare riverenza e amore. E’ il bacio che la Chiesa Sposa dona a Cristo Sposo.
- Terza riverenza è l’incensazione dell’altare. Come non pensare in questo caso ai Magi? Dopo la nascita del Figlio di Dio a Betlemme, essi portano fra i loro doni, anche l’incenso, e qui sull’altare il Signore nasce di nuovo.
Questi tre gesti di venerazione all’altare permettono di stabilire un particolare rapporto con Cristo. Sono anzi l’opportuno coronamento del rito di ingresso, che ha appunto lo scopo di un primo incontro dei fedeli con il Signore.


4. Il segno della croce.

Con il segno di croce iniziale ci si mette già alla presenza di Dio. Con esso proclamiamo la nostra fede, quella in cui siamo stati battezzati: Dio è Padre e Figlio e Spirito santo.
- La Messa comincia con il Battesimo. Quando l’uomo diventa cristiano, viene versata tre volte sul suo capo dell’acqua e si dice: “Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”. Solo il battezzato può celebrare l’Eucaristia e parteciparvi. Il Battesimo è la porta d’ingresso verso l’altare. - La Messa comincia con la Pasqua. Il segno della croce è il segno dell’amore con cui Cristo ci ha amati sino alla fine. Ci dice che andiamo ad offrire con tutti i cristiani il sacrificio della croce e ad offrire noi stessi. Andiamo ad unire la croce delle nostre vite con quella di Cristo.
- La Messa comincia nel nome della Trinità. Le tre persone divine vengono nominate perché la Messa è avvento di Dio per la nostra vita. Intorno all’altare scorre la triplice vita divina. Noi a Messa sediamo a mensa con la SS. Trinità. Nella Trinità troviamo asilo e gioia. Dio non è un Dio lontano e chiuso in se stesso, ma il Dio disponibile verso di noi, che ci consente di partecipare alla circolazione del suo amore. Tutta la struttura della celebrazione eucaristica è trinitaria. I credenti, attraverso il battesimo, sono stati inseriti nella comunione trinitaria.

- Questo segno tracciato sul nostro corpo è una vera professione di fede, dice che ci riconosciamo di Cristo, che siamo radunati nel suo nome e che siamo un riflesso del mistero della SS. Trinità.
- La Messa comincia con un segno di croce, ma termina anche con un segno di croce, la benedizione. La Messa è come rivestita dalla croce.
- Per i primi cristiani il segno della croce era come un distintivo con cui essi incidevano sul proprio corpo l’amore di Cristo. Compiendo il segno della croce, noi sfioriamo prima la fronte, poi l’addome, quindi la spalla sinistra e quella destra, volendo così esprimere che Gesù ama tutto di noi: il pensiero, la vitalità, la sessualità, l’inconscio e la consapevolezza.

- ‘Fate bene il segno della croce. Non un gesto affrettato, rattrappito, che non abbia alcun senso. No! Un segno di croce, uno vero, lento, largo, dalla fronte al petto, da una spalla all’altra. Sentite come questo gesto vi avvolge? Raccoglietevi, riunite in questo segno tutti i vostri pensieri e tutto il vostro cuore: sentirete quanto vi prende, vi fa sicuri, vi santifica’ (R. Guardini).

     


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Il saluto

Il sacerdote, che rappresenta Cristo in persona, inizia il dialogo con l’assemblea e ‘annunzia alla comunità riunita la presenza del Signore’. Il saluto iniziale è il primo elemento che ci porta a sottolineare il mistero della presenza di Dio che si attua quando “due o più” sono riuniti nel nome del Signore.
Il saluto può essere prolungato da una monizione. Questa non dà spiegazioni, ma introduce i fedeli nello spirito della celebrazione ed eventualmente anche all’atto penitenziale che segue.
Deve essere breve e preparata bene per creare fin dall’inizio tra celebrante e fedeli un clima di fraterna comunione che deve caratterizzare tutta la celebrazione.
Durante il saluto il sacerdote allarga le braccia e le richiude. Il gesto ‘afferra’, per così dire, il Signore per offrirlo ai fedeli.
- Con questo saluto si capisce chiaramente che non è il sacerdote a presiedere la Messa, ma che è Cristo in persona, presente in mezzo a noi.
- Il saluto del celebrante mette in risalto quella dimensione di accoglienza che deve caratterizzare tutta la celebrazione


1. Il Signore sia con voi!

Così il sacerdote saluta la sua comunità. Un saluto è sempre legato alla situazione. Un saluto profano (come ‘buon giorno’) all’inizio della sacra assemblea del popolo di Dio non è appropriato alla circostanza. La versione del saluto contiene un augurio di benedizione. L’originale latino e greco contiene la constatazione di un dato di fatto. Si dovrebbe correttamente tradurre: ‘Il Signore è (sta) con voi!’. Con il ‘Signore’ si intende Gesù Cristo, il supremo Kyrios, il Figlio di Dio. Il saluto è cristologico. Il Signore è con voi per pregare con voi! Se la formula di saluto si presenta sotto forma di augurio (il Signore sia con voi), ciò significa che si implora, davanti a Dio, la realizzazione della promessa fatta da Gesù.

2. La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo sia con tutti voi.

Questa seconda forma di saluto colpisce per la formulazione trinitaria. Dopo quel piccolo inno trinitario che è il segno della croce, viene ora di nuovo pronunciata una formula trinitaria. Essa rimanda al termine, alla mèta e allo scopo finale della celebrazione presente. Grazia, amore e comunione del Dio uno e trino devono restare con l’uomo quando egli torna a casa. ‘Con tutti voi’ dà al saluto un’ampiezza maggiore, che corrisponde alle braccia aperte del celebrante. Tutti i presenti, anche quelli spiritualmente assenti, anche coloro che non si sono ancora aperti, anche quelli che forse non accettano del tutto il celebrante, tutti sono benvenuti, tutti sono compresi nell’abbraccio.

3. La grazia e la pace di Dio nostro Padre e del Signore nostro Gesù Cristo sia con tutti voi.

Il saluto ‘Grazia e pace’, qualche volta ampliato con ‘misericordia’ è il normale inizio di tutte le lettere paoline e di Pietro, e patrimonio dello stile epistolare cristiano. ‘Grazia e pace’ viene tradotto ottimamente dal saluto francescano ‘Pace e bene’. Grazia e pace sono i doni essenziali di Dio. La grazia è il perdono, la benevolenza, la bellezza di Dio che si schiude a noi. La pace è ciò che consegue da questo, la tranquillità e l’ordine interiore in ogni uomo, fra gli uomini e dell’uomo con Dio.

4. E con il tuo spirito!

E’ la risposta dell’assemblea al saluto del celebrante. Al celebrante consacrato viene augurato che la presenza del Signore lo rafforzi nella grazia spiritualmente feconda della consacrazione. Come dire: “Lo Spirito Santo che ti è stato dato il giorno della tua ordinazione sia con te e agisca in te, perché adempia bene il tuo ruolo di sacerdote”. L’assemblea indica con questa risposta la propria adesione al Signore e il desiderio di ricambiare il suo amore. Per cui Il saluto sacerdotale e la risposta del popolo manifestano il mistero della Chiesa radunata.

Fin dall’inizio della Messa ci si trova così avvolti nella presenza del Signore, che è luce, amore, grazia, pace, pazienza, benevolenza; è tutto quello che c’è di più bello, di più santo, di più desiderabile per creare comunione ed essere un riflesso della SS. Trinità.


d. L’atto penitenziale

La presenza di Cristo in mezzo a noi nella celebrazione eucaristica è fonte di continuo rinnovamento di vita. In questo senso la celebrazione eucaristica è la scuola più efficace per prendere coscienza della nostra condizione di peccatori. Nell’atto penitenziale celebriamo una duplice storia: la storia della fedeltà di Dio (Cristo/Signore…) e la storia della nostra infedeltà (abbi pietà di noi…).
Dietro invito del celebrante-presidente si compie tutti insieme l’atto penitenziale. E’ composto di quattro elementi:
1. Invito all’atto penitenziale riservato al celebrante.
2. Pausa di silenzio. E’ simbolo della presenza dello Spirito che ci fa consapevoli del nostro peccato e della misericordia del Padre..
3. Confessione generale.
4. Preghiera di assoluzione del sacerdote. Questo atto sottolinea un’esigenza di fondo: per accostarsi al Dio tre volte Santo è necessaria la purificazione interiore del cuore, ci vuole il sacrificio del ‘cuore contrito’, che scava nell’intimo lo spazio vitale per la grazia di Cristo. Solo questo ci rende atti a ‘celebrare i santi misteri’. Ci fa sentire più acuto il bisogno di essere salvati mediante l’innesto nel sacrificio di Cristo. L’atto penitenziale, pur non avendo valore di sacramento, ha una sua vera efficacia di perdono. E’ un sacramentale che rimette i peccati veniali a coloro che sono veramente pentiti.
- Ordinariamente per il perdono dei peccati gravi è richiesta la confessione sacramentale, come anche per rinnovare la grazia del sacramento stesso. Questo non vuol dire che è necessario confessarsi sempre prima di ogni Messa, se non ci sono peccati gravi. Per celebrare il Sacramento della Penitenza con calma e con dignità è sempre consigliabile farlo al di fuori della celebrazione eucaristica.

La forma più usata di preghiera penitenziale è il Confiteor. Davanti alla giustizia di Dio e degli uomini ci riconosciamo colpevoli; la colpa, non solo è la cosa più umana per gli uomini, ma anche la cosa più individuale per l’individuo. Per questo si dice: ‘Confesso che ho…’ L’accento sull’Io durante la preghiera comunitaria sottolinea il fatto che con una colpa personale noi feriamo non solamente il nostro cuore, ma anche la comunità, recando danno alla chiesa tutta.
Confesso di aver molto (nimis) peccato! Ogni colpa è troppo di fronte alla grazia di Dio, al bisogno del fratello, al compito di ciascuno. La più grande colpa sarebbe dire: ‘Non vedo alcuna colpa, non so che cosa devo confessare!’. Allora diviene colpa anche la mancanza di discernimento (cf. 1Gv 1,8).
Pensieri: nei pensieri c’è la radice stessa del peccato, perché si annida la superbia e si nasconde soprattutto l’insidia del maligno con i suoi cattivi suggerimenti. La purificazione dei pensieri perciò sta alla base della conversione.
Ai pensieri seguono le parole. Se si pensa male, le parole che ne derivano non possono che essere cattive, false e oltraggiose.
Alle parole seguono le opere, gli atti concreti e anche gli atteggiamenti che feriscono il prossimo e offendono Dio stesso.
Sono da considerare peccati pure le omissioni, ossia il non compiere il bene che si deve e si può fare: anzitutto il dovere specifico della propria condizione. Trascurare di fare il bene solo perché non rientra nei nostri stretti doveri è peccato di omissione.
Durante il Confiteor ci si batte il petto. La narrazione della morte di Gesù ci indica: “Tutte le folle che erano accorse a questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornarono percuotendosi il petto” (Lc 23,48). Con la Messa noi celebriamo la morte del Signore!
Per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa…Quanto è importante compiere bene questo gesto! Esso ci insegna proprio a non puntare mai il dito sugli altri, a non caricare mai gli altri delle responsabilità dei nostri peccati. Senza finzioni, senza maschere o giustificazioni riconosciamo la nostra condizione di peccatori.
L’ultimo elemento dell’atto di penitenza è la supplica per il perdono. (Dio Onnipotente abbia misericordia di noi…). E’ bene chiarire che non si tratta di un’assoluzione nel senso del sacramento della Riconciliazione.

- “Perciò, chiunque mangia il pane e beve al calice del Signore in modo indegno, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore. Ciascuno, dunque, esamini se stesso e poi mangi del pane e beva del calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna” (1Cor 11,27-31). L’apostolo Paolo sembra dire alla comunità: “Guardate che ciò che fate coinvolge responsabilmente la vostra vita e rischia di coinvolgerla irreparabilmente se lo fate con leggerezza! L’indegnità a cui Paolo si riferisce, è soprattutto l’indegnità morale, un comportamento contrastante con il significato dell’Eucaristia che è comunione, amore, unità. L’indegnità è, in concreto, la divisione nella comunità.
L’indegnità radicale è l’autosufficienza. E’ la disattenzione, la superficialità da cui discende in modo ovvio di prendere tutto come viene, quasi fosse dovuto.
Il peccato fondamentale che va combattuto, perché è come un tarlo che corrode lo stile eucaristico della comunità, è la pretesa di ovvietà. Ed è la stessa che abbiamo rispetto alla Parola di Dio, parola che già crediamo di sapere, di conoscere, di aver sentito tante volte. La vera indegnità è di ritenersi degni, di ridurre il dono a dovuto, la grazia a debito, l’amore a calcolo. L’atteggiamento eucaristico è quello di Elisabetta che dice a Maria: “A che cosa devo che la Madre del Signore venga da me?” o quello del centurione romano, che dice a Gesù: “Signore, io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto!” o di Giovanni Battista, che dice di Gesù: “Io non sono degno di sciogliere il legaccio dei suoi sandali!”.
La presunzione di credersi degni dell’Eucaristia apre la porta ad una sufficienza che rende l’Eucaristia poco efficace, perché non la si vede più come dono incredibile, infinitamente grande e immenso di Dio di fronte al quale dobbiamo cadere in riconoscente adorazione.

- “Non dite che non ne siete degni. E’ vero: non ne siete degni, ma ne avete bisogno” (Il S. Curato d’Ars). Vista la nostra incoerenza a vivere il Vangelo sarebbe sbagliato concludere: “Allora è meglio non comunicarsi!”. Del resto dove attingeremmo l’amore che il Signore ci chiede se egli non ci donasse dapprima il suo?
- L’atto penitenziale e le tante altre parti penitenziali della Messa mettono in risalto l’importantissima dimensione penitenziale della Messa.


e. Signore, pietà e Gloria

Kyrie, eleison: è la grande giaculatoria del culto del dio Sole, forse la forma più ardente dell’antica religiosità pagana. Quando un trionfatore percorreva la Via Sacra lungo il Foro Romano verso il Campidoglio, lo si acclamava da ogni parte, dai soldati e dalla folla, con innumerevoli litanie: Kyrie, eleison!
Si tratta di un’autentica supplica, di un lamento da mendicante, di un’implorazione di perdono del peccatore. L’implorazione è in sé lode di colui al quale essa si rivolge; la supplica esprime la fiducia nella bontà e nella potenza del supplicato. Il Kyrie quindi rimane lode anche se è implorazione, anzi proprio perché è implorazione. La migliore interpretazione del Kyrie la dà il successivo ‘Gloria’, il quale loda e implora nello stesso tempo.
Il Kyrios al quale si rivolge il Kyrie è Cristo. Il destinatario di questa preghiera è e rimane Cristo. Il Kyrie è un canto perché Cristo manifesti la sua intercessione presso il Padre.
Questo grido all’inizio dell’Eucaristia esprime il nostro desiderio di tornare a casa.

Gloria: è un inno antichissimo e venerabile con il quale la Chiesa, radunata dallo Spirito Santo, glorifica e supplica Dio Padre e l’Agnello. E’ un inno trinitario.
- Il primo movimento di questa sinfonia si chiama trionfo romano (Canto del trionfo). Il Gloria ha origine dalle acclamazioni che, col Kyrie eleison, venivano levate da diversi cori e gruppi durante il corteo trionfale di un vincitore lungo la Via Sacra verso il tempio di Giove Capitolino. Da una parte si canta ‘Laudamus te’, dall’altra un drappello intona ‘Benedicimus te’, più oltre un gruppo ‘Adoramus te’…: è un echeggiare e un cantare, alla maniera di squilli di tromba e rulli di tamburo.
- Il secondo movimento si chiama: canto mattutino. Il Gloria ha origine da un canto mattutino paleocristiano. Già nelle lettere paoline è riconoscibile il tipo di canto che il cristiano ha portato nel mondo. E’ significativo che esso sia posto fra i riti iniziali della Messa domenicale, allo spuntare del sole dell’Eucaristia.
- Il terzo movimento si chiama canto pasquale. Il canto mattutino del Gloria occupa il suo posto liturgico di primissimo piano durante la veglia pasquale. Nondimeno il carattere pasquale del Gloria rimane visibile, poiché ogni domenica è una Pasqua settimanale, ogni festa in onore di un martire è festa di risurrezione. Canto pasquale per il banchetto del Signore.
Ciò che colpisce apertamente nel Gloria è il suo carattere gioioso. E’ pieno di vivacità, mette il cuore in festa, dà il tono a tutta la Messa.


f. Colletta

Con la colletta, questi riti trovano il loro culmine e la loro conclusione. Essa ha lo scopo di raccogliere, riassumere (probabilmente dal latino colligere) le aspirazioni e le preghiere che sono nel cuore dei fedeli in una formula comunitaria, in cui viene espressa ‘l’indole della celebrazione’: si crea così il clima spirituale in cui ognuno è chiamato ad entrare.
E’ una preghiera in sintonia con il messaggio offerto dalla liturgia della Parola, verso la quale orienta e di cui frequentemente è la sintesi. La sua funzione è proprio quella di aiutare i fedeli ad accostarsi alla Parola di Dio cogliendone l’ispirazione globale e profonda, per interiorizzarla e custodirla nel cuore.
L’orazione ha tre parti:
- Il primo elemento è l’introduzione, il breve invito “Oremus-preghiamo”. Il sacerdote dice esortando, convincendo, con entusiasmo, coinvolgendo anche se stesso: ‘Preghiamo’.
- La seconda parte non viene detta: è in silenzio. Rivela l’agire dello Spirito, che anima l’assemblea all’orazione; serve per prendere coscienza di essere alla presenza del Signore e per poter formulare nel proprio cuore la preghiera personale e non formulata.
- La terza parte è l’orazione vera e propria. Oratio significa discorso celebrativo.
Questa è la tripartizione dell’orazione: allocuzione, formula di preghiera, augurio.
Il primo elemento dell’orazione contiene una memoria, un ricordo delle gesta e del volere di Dio.
Il secondo elemento denota l’umile atteggiamento orante di chi supplica; occasionalmente esso è costituito anche da una sola parola: per esempio, quaesumus (preghiamo, di grazia, per favore).
Il terzo elemento annuncia ciò che ci auguriamo.
Orazione non significa preghiera, ma discorso. Essa è una preghiera sotto forma di discorso, discorso poetico, solenne con Dio, discorso sotto forma di preghiera. Chi è che tiene il discorso? Visto esteriormente è il presbitero, colui che presiede l’assemblea sacra del popolo di Dio. Tuttavia il presbitero parla solo come rappresentante di un altro che lo ha eletto a suo strumento: il vero oratore è Cristo. E’ Cristo che tiene il discorso! Lo si capisce anche dalle braccia allargate del sacerdote che lo rappresenta. Esse ricordano le braccia stese e inchiodate del Crocifisso, con le quali egli vuole abbracciare tutti. Egli è sempre vivo per intercedere a nostro favore (cf. Eb 7,25). Chi tiene il discorso è Cristo. Egli parla sotto forma di preghiera al popolo che ha condotto di fronte al Padre. Queste preghiere si distinguono per brevità, chiarezza e concisione.
Sono quasi sempre rivolte “ad Patrem per Filium in Spiritu Sancto”, secondo le linee fondamentali della preghiera cristiana e dell’economia della salvezza che per Cristo e nello Spirito Santo ci conduce al Padre.
La Chiesarivolge la sua orazione a Dio in Cristo, in sintonia con la sua sensibilità per essere sempre e solo nella volontà del Padre. Così il nostro pregare entra nello stretto rapporto che qualifica la reciproca relazione Padre-Figlio. Il Padre e il Figlio nello Spirito sono i protagonisti della nostra preghiera.
L’Amen conclusivo proclamato da tutta l’assemblea è segno di adesione alla preghiera fatta dal celebrante a nome di tutti.

Dopo questi riti e preghiere, gli animi dei fedeli sono disposti all’ascolto della Parola di Dio e alla celebrazione della Cena del Signore.

  LITURGIA DELLA PAROLA


La liturgia della Parola proclama il disegno di Dio sul cosmo e sull’umanità e quindi interpreta nel modo più ricco il senso dell’eucaristia. Per questo il massimo di attuazione della parola è, naturalmente quello che si compie nella celebrazione dell’Eucaristia. Ogni assemblea liturgica rappresenta il luogo privilegiato della proclamazione della Parola, poiché in essa godiamo della potenza sacramentale del Risorto. Il motivo è evidente. L’Eucaristia contiene, nel sacramento del pane e del vino, il gesto supremo di amore con cui Gesù ha donato la sua vita per noi, si è chinato a lavare i nostri piedi, ci ha riconciliato al Padre, ha stabilito la nuova ed eterna alleanza. In questo senso l’Eucaristia contiene tutto il senso della Bibbia, anzi tutto il senso del cosmo. La Bibbia non fa altro che esprimere attraverso una lunga narrazione e una molteplicità di parole quello che la croce di Gesù dice in un unico, totale gesto di amore. Per questo, quando la Parola di Dio viene annunciata nell’Eucaristia, essa possiede il massimo di forza, comunica l’energia dell’amore di Dio, muove alla conversione e rigenera alla vita nuova, che è appunto vita in Cristo.’Rigenerati non da un seme corruttibile, ma incorruttibile, per mezzo della parola di Dio viva ed eterna’ (1 Pt 1,23).
La Chiesaè stata definita anche come ‘una comunità in ascolto’. Il nuovo popolo di Dio è chiamato ad ascoltare Cristo: è lui infatti, presente, che parla al suo popolo quando nella Chiesa si leggono le Scritture (cf. SC 7). Deve accoglierne le parole e rispondergli con la preghiera e col canto. Gesù Cristo non è presente solo nella forma sacramentale, ma anche nella celebrazione della Parola di Dio. Questo vale soprattutto per il Vangelo.
Non si tratta, dunque, di leggere semplicemente un brano della Bibbia, ma di “celebrare”, cioè di accogliere con stupore, gioia, riconoscenza, docilità, fede, la parola che al Signore piace inviarci.
La liturgia della Parola è un evento, qualcosa che succede. L’essenziale è che appaia quello che avviene: il Signore ha convocato la sua comunità e instaura con essa un dialogo di comunione e di amore.
La percezione della presenza del Signore si dimostra soprattutto nel modo con cui la Parola di Dio viene proclamata dal lettore e nell’attenzione con cui viene da tutti ascoltata.

I lettori siano veramente idonei e seriamente preparati. Pertanto un bambino-lettore, per la sua incapacità a comprendere e a proclamare in modo dignitoso e comprensibile, non è un buon servizio reso alla Parola di Dio e alla comunità che la deve ascoltare. Si preferisce parlare di “proclamazione” anziché di “lettura” delle lezioni. Il termine “proclamazione” implica una particolare densità di significato. La parola di Dio, proclamata nell’assemblea liturgica, è attuale comunicazione di un messaggio di Dio alla comunità e ai singoli. E’ Dio stesso che parla per bocca del suo ministro per rinnovare l’alleanza con il suo popolo. Il lettore deve, dunque, annunciare con chiarezza e semplicità. La chiarezza è fondamentale. Chi ascolta deve poter capire bene quanto viene annunciato. Per questo non vanno bene lettori improvvisati; chi legge, se vuole leggere bene, dando il senso corretto alle parole e il ritmo corretto alle frasi, deve conoscere bene il testo, averlo letto più volte a voce alta, articolando i suoni. Deve sapere, il lettore, che Dio parla all’assemblea attraverso la sua voce, ma questo richiede necessariamente che l’assemblea capisca quanto viene letto.
Qualcuno potrebbe pensare che, siccome è Dio stesso che parla attraverso la voce del lettore, la lettura debba avere qualcosa di enfatico che ne sottolinei la forza. E’ vero il contrario. Ogni enfasi attira l’attenzione sul lettore che diventa in qualche modo attore. Ma nella liturgia della parola il lettore è solo strumento; quindi deve essere evitata accuratamente ogni drammatizzazione impropria perché appaia in tutto il suo splendore la parola stessa.

I fogli volanti sono in contraddizione con l’atteggiamento dell’assemblea e con la natura comunitaria della celebrazione. Mediante l’ascolto l’assemblea manifesta l’attitudine fondamentale e permanente della Chiesa “in religioso ascolto della Parola di Dio”. E’ necessario un ascolto totale della Parola di Dio che viene proclamata; ascoltarla fissando lo sguardo su colui che parla. E’ Dio che parla! Merita che lo si ascolti veramente. Bisogna insegnare all’assemblea a seguire la liturgia della parola ascoltando (non leggendo le letture nel foglietto). Il motivo è che la lettura è personale (ciascuno legge sul suo foglietto, col suo ritmo di lettura) mentre l’ascolto è comunitario (tutti ascoltano l’unica parola che viene proclamata, che fa la Chiesa). Ora, siccome lo scopo della liturgia della parola (e di tutta la liturgia) è quello di formare un unico popolo, non ha evidentemente senso che ciascuno legga per conto suo. E’ invece pieno di significato che tutta l’assemblea, dopo aver ascoltato, esprima la sua adesione unanime alla parola udita.
In tutte le azioni liturgiche Dio parla al suo popolo; il popolo risponde a Dio con il canto e la preghiera; la parola di Dio è rivolta alla comunità, la risposta alla parola di Dio è data dalla comunità.

La dimensione dialogica caratterizza tutta la Messa, ma in particolare la liturgia della Parola.
La liturgia della parola è da considerare come la lettera d’amore che Dio ci manda, un lungo e sempre risonante discorso d’amore dello sposo alla sua sposa. Per cui se noi-chiesa siamo la sposa veramente innamorata dello Sposo (Teofilo), che è Cristo, leggiamo e rileggiamo le sue parole appassionate, senza stancarci mai. Due suggerimenti molto concreti:

- leggere e meditare le letture della domenica già prima di venire in chiesa
- venire in chiesa un po’ prima della Messa e così dispormi a questo ascolto appassionato della parola. Sarebbe un controsenso arrivare in chiesa dopo la proclamazione della parola di Dio.

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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  a. Letture.

Il Dio in cui crediamo non è un Dio muto. Entra in contatto con gli esseri che ha creato e parla con loro. L’iniziativa deve sempre partire da lui, perché da lui viene la verità e insieme la salvezza.
Non è solo la lettura di un libro. E’ una parola viva, perché è Cristo glorioso, presente, che parla e che ci interpella. Perciò essa è ‘forza divina di salvezza’: ha la stessa forza creatrice che aveva il ‘Fiat’ della creazione, o che aveva sulla bocca di Gesù, che parlava ‘con autorità’.
La parola di Dio è rivolta direttamente a me e mi interpella. Dalle letture proclamate in chiesa non speriamo di imparare fatti nuovi sulla vita di Gesù, ma di incontrarlo.
Ogni domenica ha tre letture: dal profeta, dall’apostolo, dal vangelo. E c’è un ciclo triennale di letture. Così vengono presentate tutte le pagine centrali della Bibbia.
Ecco come si snoda concretamente questo dialogo d’amore tra Dio e il suo popolo.

Prima lettura.

All’inizio della liturgia della parola risuona la voce del “profeta”, si legge cioè un testo dell’Antico Testamento (tranne che nelle domeniche di Pasqua), che ci parla dell’azione di Dio prima della venuta di Gesù.
La Chiesaè convinta che tutto l’Antico Testamento rende testimonianza a Gesù, perché in Gesù viene portata a compimento la rivelazione di quell’amore di Dio che è il senso di tutto.
Gesù non è un meteorite apparso improvvisamente, ma piuttosto è il compimento di un lungo processo di rivelazione: la storia d’Israele come storia privilegiata di salvezza.
Al termine delle letture, i lettori dicono: “Parola di Dio”, sia per ricordare ancora che la parola proclamata non è semplice parola di uomo, ma parola di Dio, sia per indicare il termine delle lezioni e rendere più facile la successiva acclamazione del popolo: “Rendiamo grazie a Dio”. Il nostro primo rendimento di grazie che facciamo a Dio nella messa è per la Parola di Dio.
Questa acclamazione ha un doppio significato: di rendimento di grazie a Dio per il dono della sua parola, di adesione alla parola ascoltata.
Poi, dopo un attimo di silenzio, segue la proclamazione di un salmo sotto forma responsoriale. L’attimo di silenzio serve per renderci conto che non stiamo ammucchiando letture diverse, ma ci prepariamo a rispondere alla lettura che abbiamo ascoltato.


Canto o preghiera responsoriale.

Quando qualcuno ci parla, è normale rispondergli. Si può paragonare la prima lettura e il salmo ad un dialogo amoroso. Il salmo è la risposta comunitaria, il momento lirico del dialogo: quello in cui la parola nuda si rivela impotente a esprimere l’emozione di un popolo in attuale ascolto del Dio vivo. Questa risposta è attinta normalmente dalla raccolta dei Salmi e dei Cantici della Scrittura.
Rispondiamo alla parola di Dio con la stessa parola di Dio. Che la risposta sia data con un Salmo indica chiaramente l’intenzione della Chiesa: Dio stesso ci mette sulla bocca le parole di una risposta degna. Insomma, ci lasciamo coinvolgere in un dramma che ci è proposto da Dio e noi accettiamo volentieri di “entrare in gioco” nel modo in cui Dio vuole.
Questo canto ha valore in sé: non è accompagnatorio di un rito, come il canto di introito, di offertorio, di comunione. Costituisce una sosta obbligata, provocata dalla parola di Dio ascoltata, durante la quale si gode, indipendentemente da altri riti, di un momento intenso di preghiera, ora di lode, ora di ringraziamento, ora di supplica, a seconda dei casi. Il salmo responsoriale è così chiamato perché di preferenza è cantato in forma responsoriale. In tale forma di esecuzione dei salmi un cantore (il salmista), proferisce i versetti del salmo, l’assemblea intercala un ritornello (responsum), desunto generalmente dal salmo stesso.
Il salmo responsoriale è chiamato anche “graduale”, perché anticamente veniva proclamato dal cantore dai gradini (gradus) dell’ambone.
Il salmo è strettamente legato alla prima lettura; si presenta come un’eco di essa. Vuole dire che il popolo risponde a Dio riutilizzando le sue parole appena ascoltate.


Seconda lettura.

Un posto notevole è occupato nella liturgia della parola dalla lettura dell’ “apostolo”.
Presenta un passo scelto dalle lettere di S. Paolo o di un altro apostolo. Informa sul pensiero e la vita dei primi cristiani. Il messaggio degli apostoli ci aiuta a comprendere in profondità il mistero di Cristo come rivelazione del Padre, come parola di Dio fatta carne.
Paolo e gli altri autori del Nuovo Testamento sono necessari per incominciare a sondare le insondabili ricchezze di Cristo.


L’Alleluia

L’alleluia (=Lodate Dio!) accompagna la processione del Vangelo. Il versetto dell’ ”alleluia” e il versetto prima del Vangelo sono orientati alla lettura che segue, cioè al Vangelo.
Prima di tutto ci si alza in piedi, perché la lettura del Vangelo è più importante delle altre, per la grande venerazione che abbiamo per Gesù, per le sue parole e per tutto quello che ha fatto. Con l’Alleluia si acclama al Signore che ci parla attraverso il suo Vangelo. E’ come se si dicesse: “Sii lodato Dio, perché il Figlio tuo ci viene a parlare nel Vangelo! Lode a te per la gioiosa notizia del Vangelo! Lode a te per le parole di vita e di luce che stiamo per ascoltare!”. L’alleluia o il versetto prima del Vangelo, se non sono cantati, si possono tralasciare.

La processione al Vangelo è il movimento verso l’ambone (= salire sopra, piano rialzato) di colui che deve proclamare la parola del Vangelo.

  Il Vangelo.

La proclamazione del Vangelo costituisce il momento culminante e più solenne della liturgia della parola: è dato agli uomini ascoltare Cristo stesso, vederlo con gli occhi della fede. E’ il nostro Maestro ed è a lui che si rivolge tutta la nostra attenzione perché ci insegna la verità. La stessa Liturgia insegna che si deve dare ad essa massima venerazione e la distingue dalle altre letture in modo particolare: il ministro incaricato di proclamarla si prepara con la benedizione o con la preghiera.
S’inizia con un piccolo dialogo: “Il Signore sia con voi!” “E con il tuo Spirito” “Dal vangelo secondo…” “Gloria a te, o Signore”. Serve, questo dialogo, a “svegliare la comunità” e renderla consapevole di quanto sta avvenendo.

Dopo essere stato deposto sull’ambone, il libro dei vangeli (evangeliario) può essere onorato con una incensazione.
Nelle celebrazioni più solenni viene usato anche l’incenso, che manifesta e rivela nello stesso tempo; manifesta che siamo di fronte ad un’esperienza che ci supera: da una parte vediamo e ascoltiamo, ma nello stesso tempo quello che accade è più di quanto gli occhi possano registrare o gli orecchi percepire. La nube dell’incenso allude al mistero. Nello stesso tempo l’incenso avvolge di profumo l’ambone, il libro e il lettore. C’è un profumo di vita nella parola di Dio, il profumo che definisce la conoscenza di Dio e del suo Figlio.

Chi proclama il Vangelo (sacerdote o diacono), con il piccolo segno di croce tracciato sul libro dei Vangeli, indica che la sorgente dell’efficacia della proclamazione del Vangelo è Cristo stesso presente nel Vangelo.
Con il triplice segno di croce fatto sulla fronte, sulle labbra e sul cuore, domandiamo che le parole del Vangelo ci invadano completamente e piantino solide radici nella nostra intelligenza e nel nostro cuore. Domandiamo anche che la nostra intelligenza sia illuminata per comprendere bene e il nostro cuore sia riscaldato per accogliere degnamente queste parole. Con questo segno vogliamo, a fronte alta, farci garanti della parola che Cristo ci ha portato e che è consegnata in questo libro, confessarla con la nostra bocca e soprattutto conservarla fedelmente nel cuore.
Le acclamazioni: una all’inizio della proclamazione del Vangelo, “Gloria a te, o Signore” e una alla fine “Lode a te, o Cristo”, dopo che chi proclama il Vangelo ha detto: “Parola del Signore” sono un rinnovato atto di fede a Cristo che si rende presente durante la proclamazione del Vangelo. “Parola del Signore” “Lode a te, o Cristo!”. Il senso di questa espressione non è: “Parola che il Signore ha pronunciato o vissuto duemila anni fa e che oggi viene da noi ripresa”, ma piuttosto: “Parola che il Signore risorto rivolge oggi alla sua comunità qui raccolta per illuminarla e correggerla, purificarla e muoverla all’amore”.
Nella dimensione dell’amore rientra il bacio che viene dato sul Vangelo dopo il suo annuncio. Il bacio è il ringraziamento per la Parola.

- La parola ‘vangelo’ significa ‘bella notizia’. Per cui: se non ascoltiamo quello che viene letto come se fosse una bella notizia, allora non l’ascoltiamo bene. E’ solo se ascoltiamo tutto, persino il Giudizio Universale, come una buona notizia, per la quale ringraziamo, che abbiamo ascoltato il Vangelo come se fosse Parola di Dio.


L’omelia

L’omelia (conversazione, colloquio, trattenimento familiare) commenta la Parola, la adatta alle situazione degli ascoltatori, li aiuta ad accoglierla e ad ‘entrare’ pienamente nella celebrazione. L’omelia serve a portare il Vangelo al cuore della gente, a scaldare il cuore di chi ascolta, perché cambi il loro cuore.
L’annuncio fatto nell’omelia deve aiutare a trasformare l’ascolto della Parola in accoglienza della Parola. E’ parte integrante della Messa e spetta al celebrante come tale.
L’omelia non è un’interruzione del corso della Messa per insegnare qualcosa; è invece un elemento integrante della Messa stessa che permette di vivere con il massimo di attualità quanto viene proclamato. Arte del predicatore sarebbe riuscire a unire in modo armonico la Parola che è stata annunciata con la Liturgia che si celebra e con l’Assemblea concreta che è presente.
Un’omelia è “riuscita” quando ha aiutato l’assemblea a celebrare bene; e celebrare bene significa lasciare che la propria vita concreta – famiglia, lavoro, amicizia, pensieri, desideri, decisioni – venga toccata dal mistero di Cristo e ne esca rinnovata, convertita. L’omelia deve aprire alla speranza. Un predicatore vero non è tanto quello che coltiva i buoni sentimenti della gente, ma colui che inquieta le coscienze. “All’udire tutto questo si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro: ‘Che cosa dobbiamo fare, fratelli?” (At 2,37).
Deve avvenire quanto S. Agostino poneva come obiettivo del catechista chiamato ad annunciare ai principianti il cuore del vangelo: “Attraverso l’annuncio della salvezza il mondo intero ascoltando creda, credendo speri, sperando ami”. Per parlare efficacemente bisogna avere qualcosa da dire; poi dirlo con chiarezza; e, una volta detto, tacere.
Questa regola si adatta benissimo anche all’omelia: deve avere qualcosa da comunicare, essere chiara, non trascinarsi inutilmente in fiumi di parole. Il compito principale del predicatore è aiutarci a scoprire in ogni testo una fonte di gioia.
L’omelia dovrà avere il calore di un Vangelo, cioè di un lieto annuncio: quel calore che aveva la Maddalena quando andò ad annunciare agli apostoli, col fiato mozzato, che aveva visto il Signore Risorto.


b. Riflessione e preghiera silenziosa.

Non è imposta, ma è raccomandata. E’ il momento personale e meditativo della risposta: una libera effusione dell’anima. Questa pausa di silenzio è necessaria perché la parola proclamata penetri in profondità e acquisti efficacia.
La parola di Dio nasce dal silenzio. La fretta, guardare continuamente l’orologio, non aiuta i fedeli a vivere l’incontro personale con Dio: l’uomo infatti ha bisogno di silenzio per cogliere quelle voci che solo nel raccoglimento diventano fonte di luce, di sapienza, di gaudio interiore dello spirito. Dobbiamo imparare a riempire gli spazi di silenzio con lo stare alla presenza di Dio e con il dialogo intenso e personale con lui. Un silenzio abitato, un silenzio eloquente, un silenzio che non deve essere riempito da movimenti del corpo, della testa, degli occhi, ma dalla lode e dalla quiete. A volte ci sono silenzi impazienti che sono peggio del rumore.
Per una celebrazione degna e fruttuosa devono essere assicurati i tempi di silenzio previsti:
- prima dell’inizio della Messa
- all’atto penitenziale
- dopo la liturgia della Parola
- dopo la comunione

c. Il Credo

E’ un ‘sì’ gridato con gioia a Dio. Esprime l’adesione alla Parola ascoltata. La Parola di Dio seminata nel nostro cuore ottiene frutti e ci orienta ad abbandonare i nostri pensieri e a vivere i pensieri di Dio. Dobbiamo avere il coraggio di schierarci. Recitare il Credo è da coraggiosi.
Dopo ‘l’ascolto della fede’, ‘l’obbedienza della fede’, che prepara al sacrificio, la cui anima è un atto di suprema obbedienza al Padre. Durante il “Credo” i fedeli stanno in piedi, volendo con questo atteggiamento, esprimere l’ardore e la fermezza della loro fede. Si inchinano profondamente alle parole “e per opera dello Spirito Santo…”. La professione di fede è un’adesione esplicita a Dio che è Trinità; Lui è il termine della nostra fede, alla quale la Chiesa ci educa.



d. La preghiera universale o dei fedeli

Fa da cerniera, conclude la prima parte della celebrazione e introduce alla seconda. Il suo carattere è appunto l’universalità. E’ una sollecita attenzione alle necessità locali, che pastore e gregge devono guardare insieme: ma ciò che va contemperato con le esigenze della Chiesa universale e di tutto il mondo. La successione delle intenzioni è ordinariamente questa:

Per le necessità della Chiesa.
Per i governanti e la salvezza di tutto il mondo.
Per tutti quelli che si trovano in particolari necessità.
Per la comunità locale.

Queste intenzioni si possono adattare e anche completare con l’aggiunta di intenzioni particolari alla concreta assemblea.
E’ detta anche “preghiera dei fedeli”, perché è stata riservata dalla tradizione ai battezzati. Essi, dopo essere stati nutriti dalla parola di Dio, facendo eco ad essa, ed esercitando il loro sacerdozio battesimale, pregano per l’intera umanità. E’ il momento di lasciar battere il nostro cuore secondo le dimensioni dell’universo, di essere sensibili verso le sofferenze, le pene, le speranze di tutti gli uomini. E’ segno di carità anche pregare per gli altri.
Con la preghiera dei fedeli portiamo tutto il mondo dentro la Messa. E’ il momento di implorare Dio perché si mostri buono e generoso verso tutti. Con questo intervento l’assemblea intende esprimere la propria partecipazione alla preghiera di Cristo che “risorto sta alla destra di Dio e intercede per noi” (Rm 8,34). Infatti cos’è la preghiera dei fedeli se non l’espressione dell’amore stesso di Cristo per tutti gli uomini?

La dimensione di intercessione che caratterizza tutta la celebrazione eucaristica, è presente in particolare nella preghiera dei fedeli.
E’ una preghiera che può facilmente scadere e prestarsi ad abusi. Le intenzioni di preghiera siano intenzioni di preghiera, non piccole omelie, non trattati teologici, non sfoghi personali.

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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LITURGIA EUCARISTICA


Per comprendere bene questo rito è essenziale riferirsi alla Cena. Si metterebbe invece su una via sbagliata chi volesse vedere corrispondenze visibili tra i gesti della Messa e la tragedia del Golgota. Certo: il contenuto è il sacrificio di Gesù. Ma la forma rituale con cui questa realtà è rivestita, è quella di un banchetto gioioso, allietato dalla presenza del Risorto.
Ed ecco le principale componenti del rito:


a. Presentazione-preparazione dei doni

Eravamo abituati alla parola ‘offertorio’: ma questo termine oscura la fisionomia essenziale di questo momento rituale. Prima di tutto si prepara l’altare che è il centro della celebrazione, collocandovi l’occorrente. Quindi si portano le offerte e si depongono sopra l’altare. Sull’altare non ci si deve mettere niente, se non il messale, la pisside e il calice. E’ bene che siano recate dai fedeli, in forma processionale, mentre si canta l’antifona destinata ad accompagnare il rito.

La processione per la presentazione dei doni: è il movimento caratterizzato dalla gioia di una comunità che esprime la sua gratitudine a Dio e afferma la signorìa di colui che è l’origine di ogni realtà creata riconoscendo la propria povertà. La processione offertoriale ha il profondo significato di portare veramente il nostro mondo al cospetto di Dio. Anche questo serve ad esprimere la parte attiva che ognuno prende al sacrificio: all’altare viene offerto e consacrato ciò che ogni fedele ha portato, non tanto e solo in beni materiali, quanto con quel ‘complemento alla passione di Cristo’ che Paolo domanda (cf. Col 1,24).

Il mistero dell’acqua e del vino: prima della preghiera di benedizione per il vino, durante la preparazione del calice, assieme al vino viene versata anche, nel calice, qualche goccia d’acqua. E ciò perché Gesù nell’ultima cena consacrò del vino misto ad acqua, seguendo un uso di origine mediterranea e quindi conosciuto anche presso gli ebrei. Tale uso aveva lo scopo di evitare gli effetti inebrianti del vino. Ma soprattutto la mescolanza dell’acqua con il vino simboleggia la nostra unione con Dio, o, meglio, l’unione della nostra natura umana con la natura divina di Cristo.L’acqua indica la Chiesa, il vino indica Cristo. Cristo e la Chiesa sono strettamente uniti per l’offerta della messa. L’io dell’offerente dovrebbe dissolversi come una goccia d’acqua nel vino del sacrificio di Cristo. Così nell’Eucaristia noi diventiamo partecipi della natura divina (cf. 2Pt 1,4) e diventiamo una sola cosa con Dio in Gesù Cristo, come l’acqua e il vino sono diventati un’unica, inscindibile sostanza. Questo piccolo gesto dona un nuovo senso alla nostra esistenza: sapere che la vita e l’amore di Dio scorrono in me – e non possono più essere separati da me – mi fa sperimentare la mia grande dignità di cristiano.
Quindi i doni vengono presentati a Dio e poi deposti sull’altare con la formula di ‘benedizione’.

L’elevazione delle offerteè un’immagine simbolica importante: con questo gesto le offerte terrene entrano nell’ambito divino e noi riconosciamo che tutto proviene da Dio e a lui appartiene. Insieme con le offerte noi innalziamo la nostra vita fino a Dio, perché soltanto partendo da lui essa sarà sana e salva.

La ‘benedizione’, in linguaggio biblico, è un’esclamazione di ammirazione e di riconoscenza gioiosa, è una confessione di lode per tutto quello che Dio fa per noi. L’oggetto sono il pane e il vino, che qui sono il simbolo di tutto il creato. La formula di benedizione presenta a Dio questi doni, come per affermare il suo sovrano dominio su tutte le cose. E poiché sono anche ‘frutto del nostro lavoro’, è il senso stesso della nostra esistenza che viene percepito in quel momento: essa è fatta per essere donata a lui in un gesto d’amore, come ‘ostia vivente’. Questi doni, il Padre nella sua bontà ce li restituirà tra poco, sublimati nel Corpo e Sangue del suo Figlio; e allora potremo offrire al Padre ‘il Figlio del suo amore’.
- Bisogna ritrovare nello sguardo sulle cose del creato e sul lavoro dell’uomo una nuova capacità di benedizione; bisogna riscoprire la dimensione provvidenziale dell’ordine creaturale, riaprire lo spazio del gratuito e della riconoscenza di fronte alla destinazione ‘altra’ delle cose quotidiane. Nell’Eucaristia c’è anche una dimensione cosmica.

- Va esclusa, perché senza senso, la presentazione di oggetti che poi dovrebbero essere ripresi dagli offerenti. Non si tratterebbe più di “doni”!

- La dimensione offertoriale è molto importante, perché sottolinea la mia partecipazione all’offerta di Cristo. Non solo il presbitero, ma anche ogni fedele, per il sacerdozio comune dei fedeli, deve considerarsi, come Cristo, sacerdote e vittima.

L’elemosina: La questua in denaro o altri doni, portati dai fedeli o raccolti in chiesa, è un gesto concreto che si attua nella celebrazione per sovvenire alle necessità della chiesa e dei più poveri. Questi doni vengono deposti in luogo adatto, fuori della mensa eucaristica. L’ideale sarebbe che il ricavato della questua venisse presentato al sacerdote assieme agli altri doni. L’elemosina non è un disturbo! Sarebbe un gesto del tutto materiale nel mezzo di un’azione che dovrebbe essere tutta spirituale!? Eppure l’elemosina è necessaria, perché nella messa non si può andare a dire seriamente a Dio che lo si ama, senza mostrare nel medesimo tempo che si ama anche il prossimo.
L’elemosina sottolinea l’importante dimensione di condivisione con i poveri, che non può assolutamente mancare in ogni celebrazione eucaristica. La testimonianza della carità nasce intrinsecamente dall’Eucaristia.

L’incensazione del pane e del vino e dello stesso altare vuole significare che l’offerta della Chiesa e la sua preghiera si innalzano come incenso al cospetto di Dio. Vuole anche simboleggiare l’onore ad essi dovuto, e, nello stesso tempo, in certo modo, purificarli e santificarli. L’incensazione acquista così il valore di un ossequio anticipato al Corpo e al Sangue di Cristo che si renderanno presenti sull’altare sotto le umili apparenze del pane e del vino. E quasi a rendere partecipi di tale onore, purificazione e santificazione il sacerdote e i fedeli tutti, l’incensazione è rivolta anche a loro. E giustamente. Essi sono templi viventi di Dio e come tali, degni di onore; ma sono anche bisognosi di purificazione e di santificazione. Ma l’estensione dell’incensazione dai doni eucaristici e dall’altare al sacerdote e ai fedeli vuole essere ancora per loro un richiamo a sentirsi coinvolti personalmente nella presentazione dei doni deposti sull’altare per il sacrificio. L’assemblea intera, rappresentata dai doni presentati e incensati, intende prepararsi ad offrirsi con Cristo a Dio in sacrificio di soave odore.

Il gesto del Lavabo (Lavami. Signore, da ogni colpa) alla conclusione della preparazione dei doni è altamente simbolico. Intende esprimere il desiderio di una purificazione interiore prima della celebrazione del sacrificio eucaristico. Essa consta di due elementi collegati tra di loro: l’invito alla preghiera, l’orazione sulle offerte.

Orate fratres (pregate, fratelli…)! E’ un’introduzione alla orazione sulle offerte. Ritorna ancora l’idea del sacrificio, che occuperà un posto di primo piano nella preghiera eucaristica.

Oratio super oblata (orazione sui doni): sostanzialmente vengono presentati alcuni grandi temi: quello dell’offerta, della santificazione e del sacrificio. Vengono offerti il pane e il vino, si prega Dio di volerli accettare e santificare, di volerli trasformare nel Corpo e nel Sangue di Cristo che riattualizzerà il suo sacrificio.

Vengono così suscitate nel cuore dei fedeli quelle disposizioni interiori che sono necessarie per la partecipazione al sacrificio. Durante la prima parte del rito i fedeli stanno seduti e così esprimono la loro calma attesa e, nello stesso tempo, la loro attenta meditazione. Poi si alzano in piedi: ciò esprime la riconoscente accoglienza dell’incensazione loro indirizzata, il rispetto del sacerdote che li invita alla preghiera, la piena adesione all’invito loro rivolto e all’orazione sulle offerte.

- Il pane e il vino. Gesù non ha scelto dei prodotti ‘naturali’ che escono così dalla terra, ma ‘artificiali’, trasformati dall’attività dell’uomo. Sono questi prodotti che l’azione dello Spirito trasformerà nella presenza del Cristo donato per noi. E’ bello allora pensare che in quel pane e quel vino che vengono presentati all’altare ci siamo noi, la nostra vita, il nostro lavoro, la nostra fatica, le paure e le gioie; tutto quel complesso di sentimenti e di esperienze che costituiscono il nostro vissuto.
- Ci consegniamo a Dio perché faccia di noi quello che vuole, perché ci ‘usi’ come strumento della realizzazione della sua volontà di salvezza.

Ecco il viaggio del pane. Dopo che i fedeli lo hanno portato sull’altare, il pane incomincia un viaggio molto bello. Il sacerdote lo prende nelle sue mani e lo presenta a Dio. Poi pronuncerà su di esso una lunga preghiera di benedizione: la preghiera eucaristica. Al termine di questa preghiera il pane sarà sollevato in alto; è come se il sacerdote volesse farlo salire così fino al cuore di Dio. Fatto questo gesto, il pane sarà spezzato, poi distribuito alle persone venute a celebrare l’Eucaristia.


b. Preghiera eucaristica

Viene anche denominata: (Anafora=offerta) o (Canone=regola). Nella celebrazione eucaristica la parte centrale, quella fissa che non cambia, detta appunto “canone”, che vuol dire regola, è la parte della liturgia che produce il mistero, il mistero della presenza eucaristica di Cristo sull’altare.
Si giunge così al momento centrale e culminante dell’intera celebrazione (è il cuore della Messa): la grande preghiera eucaristica, la preghiera di azione di grazie e di santificazione, proclamata dal ministro a nome di tutta l’assemblea, e durante la quale si rinnova la Cena del Signore. Essa ci dà la chiave per afferrare la portata del rito e, insieme, con l’efficacia che le è conferita da Cristo, fa l’Eucaristia, cioè apre quel gesto umano sul mistero di Dio. Permette all’assemblea dei fedeli di unirsi a Cristo nella confessione delle meraviglie di Dio e nell’oblazione del sacrificio.
La preghiera eucaristica è una preghiera-azione. Infatti durante la preghiera eucaristica si agisce, si fa qualche cosa. E’ azione soprattutto perché riattualizza, ripresenta al Padre, nella virtù dello Spirito Santo, il sacrificio pasquale di Cristo. Eccone gli elementi:

Un inno di azione di grazie

Prefazio. Indica in genere la formula che precede un discorso. Nella liturgia romana sarebbe la forma introduttoria della preghiera eucaristica: il sacerdote, a nome di tutto il popolo santo, glorifica Dio Padre e gli rende grazie per tutta l’opera di salvezza che ha messo in atto per noi o per qualche suo aspetto particolare, a seconda della diversità del giorno, della festa o del tempo. Il prefazio, all’inizio della preghiera eucaristica, stabilisce quel clima di rendimento di grazie che dovrà pervadere poi tutta la preghiera.

Il dialogo introduttivo è antichissimo: il saluto, l’invito ad un’attiva partecipazione (Sursum corda!, (Habemus ad Dominum!), l’invito al rendimento di grazie.”In alto i nostri cuori!” “Sono rivolti al Signore!”: ossia non assorbiti da pensieri o preoccupazioni che possono insorgere dentro di noi, non divagando all’esterno distratti da varie cose, ma in uno slancio di elevazione, con il cuore, la mente e lo sguardo tutti convergenti verso Dio.
Al dialogo introduttivo segue una formula nella quale viene espresso, in forma solenne e lirica, il rendimento di grazie al Padre. Segue la parte centrale del prefazio, nella quale viene indicato il motivo del rendimento di grazie.
E’ l’elemento più variabile del prefazio (embolismo=elemento immesso, aggiunto). Esso è in stretta relazione con il mistero della salvezza ricordato. E’ l’elemento più interessante e più importante del prefazio, perché serve ad orientare e a concretizzare, volta per volta, il rendimento di grazie dell’assemblea.
C’è poi la formula del protocollo finale che ha lo scopo di far sfociare il rendimento di grazie precedente nella speciale lode e glorificazione di Dio espressa nel “Santo”. La forma è caratterizzata dal ricordo dei cori angelici, ai quali si associa la Chiesa.

- Il Prefazio è preghiera gioiosa e luminosa; persino nelle Messe di esequie, quando stiamo piangendo la perdita di persone care e sentiamo il dolore del distacco, noi continuiamo a dire: “E’ veramente cosa buona e giusta rendere grazie…”. Lo possiamo fare perché anche lì, di fronte alla morte, ritroviamo i segni della presenza del Signore e abbiamo, da lui, la promessa di una consolazione vera. Il prefazio è scuola raffinata di ringraziamento e di lode.

Molta gente fa fatica a entrare nel cuore dell’Eucaristia, a rendere grazie e questo per due motivi:
- Passiamo molto tempo a guardare noi stessi, soprattutto gli aspetti penosi della nostra esistenza: le piccole preoccupazioni, i piccoli malanni, gli insuccessi… Passiamo molto tempo a considerare il lato oscuro del mondo: violenza, ingiustizia, violazioni dei diritti della persona…I nostri occhi non vedono quasi più il sole che sorge, la libertà che ci è data, i bambini che nascono… e poi tante altre cose di cui non parlano né i giornali, né la radio, né la televisione. Se ringraziassimo Dio per tutte le cose che ci dona, non avremmo più tempo per lamentarci di quello che ci manca.
La dimensione del rendimento di grazie è ciò che più di ogni altra caratterizza la celebrazione eucaristica, tanto da dare il nome alla stessa Messa, appunto ‘Eucaristia’.
- Non abbiamo molto il senso della gratuità. La vita per la vita! Il canto per il piacere di cantare! Conversare per la gioia di conversare! Tante cose che sembrano perdita di tempo. La preghiera eucaristica è qualcosa di gratuito, è l’amicizia espressa verso Dio, in risposta all’immenso amore che egli ha per noi.

     
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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19/04/2017 14:07
 
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  1. Il Santo

E’ un grido di gioia e di riconoscenza, cantato da tutti, a conclusione dell’inno di azione di grazie.

Il Sanctus andrebbe sempre cantato; non riusciremo a cantarlo come i cori angelici, ma dobbiamo esprimere l’adorazione gioiosa e consapevole della maestà di Dio. Dall’esame interno del testo risulta chiaramente che esso consta di due ben distinte parti: il “Santo” (in senso stretto), il “Benedetto”.

– Sanctus: è chiara la dipendenza dalla visione di Is 6,1-3 (Antico Testamento). La triplice ripetizione del termine “santo” equivale ad un superlativo con cui si cerca di esprimere la infinita santità di Dio. La Chiesa si sente associata ai cori angelici che cantano le lodi di Dio. Fa suo in particolare il “trisagio” cantato dai serafini a Dio durante la citata visione di Isaia. Il “Santo” è così uno dei momenti in cui nella liturgia terrena si partecipa esplicitamente, pregustandola, a quella celeste, che viene celebrata nella santa Gerusalemme, cantando al Signore l’inno di gloria insieme con tutte le schiere delle milizie celesti (cf. SC 8). ‘I cieli e la terra sono pieni della gloria di Dio!’ La gloria di Dio, che riempie cieli e terra, è solo il suo Amore. La lode qui possiede una chiara dimensione cosmica.

– Benedictus: è il canto con cui il Signore Gesù viene accolto al suo ingresso a Gerusalemme prima della passione (Nuovo Testamento). E’ un canto strettamente messianico. Prezioso elemento cristologico, che arricchisce l’inno di gloria innalzato a Dio con il “Santo”.

Osanna=salve, evviva! Tutta la formula ha uno spiccato carattere di glorificazione-benedizione. L’espressione “Benedetto…” era la formula con la quale i sacerdoti benedicevano coloro che entravano nel tempio di Gerusalemme. Così anche in bocca a coloro che accolgono Cristo a Gerusalemme l’espressione conserva, intensificandolo, il suo significato di benedizione. Lo stesso si dica del “Benedetto” della preghiera eucaristica.

Con il “Santo” i fedeli sono opportunamente preparati alla manifestazione di Dio (teofania) che seguirà e disposti ad accogliere il Messia che si renderà nuovamente presente tra gli uomini.

 

- Unendoci agli angeli che cantano eternamente la gloria di Dio e del Figlio suo, il “Santo” dà alla nostra Messa un’ampiezza che merita di essere sottolineata. La Messa non è semplicemente la preghiera di coloro che si riuniscono in questa o quella chiesa; è la preghiera e la lode della chiesa intera, sparsa in tutto il mondo. Nel più modesto luogo di culto, là dove si riuniscono forse soltanto poche persone sconosciute al grande pubblico, è presente tutta la chiesa. Il “Santo” allarga questa prospettiva, facendoci prendere coscienza che la chiesa che celebra non è soltanto quella della terra. E’ anche quella del cielo. Angeli e arcangeli, serafini e cherubini, santi e sante di Dio, tutti gli eletti vi prendono parte. Il “Santo” ci obbliga a vedere le cose in grande, a pensare in grande, a dare alla nostra azione di grazie tutta l’ampiezza che deve avere. Gli angeli sono i nostri ‘compagni liturgici’.

La comunità celebrante non rimane chiusa in se stessa, ma, come se si schiudesse una finestra sul cielo, prende parte alla liturgia celeste.

 

  1. L’epiclesi

 

L’epiclesi (=invocare sopra o per) con cui si chiede a Dio di sacralizzare i doni con l’effusione del suo Spirito, trasformandoli nel Corpo e nel Sangue di Cristo (epiclesi di consacrazione); e in un secondo momento di santificare coloro che li riceveranno, producendo un frutto di grazia nelle loro anime (epiclesi di comunione). L’azione dello Spirito Santo per la trasformazione sia del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo, sia per l’unione di tutti nel corpo mistico di Cristo costituisce il continuo esaudimento della preghiera di Cristo, che conferma nella Chiesa il clima della prima Pentecoste cristiana. Durante l’invocazione dello Spirito, il sacerdote stende le mani sui doni volendo indicare che lo Spirito vivificante di Dio si riversa sul pane e sul vino per trasformarli in Corpo e Sangue di Cristo.

 

- Nella prima epiclesi lo Spirito Santo opera davvero la trasformazione del pane e del vino. Le specie (ciò che i sensi percepiscono) rimangono ovviamente immutate: colore e sapore, qualità fisiche e chimiche del pane e del vino non cambiano. Ma cambia radicalmente la volontà creatrice di Dio rispetto a questi elementi: Dio ci pone davanti questo pane e questo vino come cibo e bevanda che sono la presenza viva, attuale, efficace del suo Figlio; e quello che Dio definisce è la verità delle cose. Si compie così la misteriosa promessa di Gesù: “La mia carne è vero cibo e il mio sangue è vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui (Gv 6,55-56).

 

- Nella seconda epiclesi invochiamo lo Spirito Santo perché ci faccia diventare “un solo corpo e un solo spirito”. E’ questo, in realtà, il frutto dell’Eucaristia. L’Eucaristia ci è donata per aprire a noi la possibilità di vivere ‘in Cristo’ e quindi, di diventare in lui, un unico corpo, appunto la Chiesa, corpo di Cristo.

Se dunque è la Chiesa che fa l’Eucaristia è vero anche che l’Eucaristia fa la Chiesa, perché trasforma un gruppo umano nel corpo vivo e santo del Signore. L’Eucaristia edifica la Chiesa come corpo di Cristo perché trasforma tutti coloro che vi partecipano, facendone membra dell’unico corpo di Cristo.

 

- Dovunque si compie qualcosa di grande in nome di Dio, lo Spirito è presente. Nulla si compie senza di lui. Lo Spirito santifica ciò che viene a contatto con lui. Poiché in lui risiede la pienezza di Dio, può trasformare ogni cosa e ogni persona in cui va ad abitare.

 

  1. Il racconto dell’istituzione e la consacrazione:

 

Mediante le parole e i gesti di Cristo, si compie il sacrificio che Cristo stesso istituì nell’ultima cena, quando offrì il suo Corpo e il suo Sangue sotto le specie del pane e del vino, lo diede a mangiare e a bere agli Apostoli e lasciò loro il mandato di perpetuare questo mistero. Il racconto dell’istituzione non è un semplice racconto che abbia solo lo scopo di ricordare qualche cosa, di informare. Tale racconto è il segno efficace del sacrificio glorioso di Cristo, da lui ripresentato al Padre nella virtù dello Spirito Santo per la salvezza degli uomini. Tale racconto è dunque ricco di un grande dinamismo, in quanto riattualizza ciò che è il compendio di tutte le meraviglie operate da Dio per gli uomini, il mistero pasquale di Cristo. In questo modo il sacerdote non solo racconta ma ‘fa’ la cena del Signore.

Questo è il mio Corpo… Questo è il mio Sangue…  Come dire: questo sono io, questa è la mia esistenza per voi e con voi! Nell’Eucaristia Gesù Cristo non è lì semplicemente come una cosa, una presenza statica. E’ lì non in senso locale, ma personale. E’ presente come l’amore di una persona amata.

Nell’Eucaristia non è presente in qualsiasi modo! E’ presente come corpo spezzato e come vino versato; è presente nella dimensione dell’amico che dona la vita per coloro che ama (cf. Gv 15,13).

E’ la grande dimensione del dono di sé (sacrificale).  Al di sopra di tutto c’è la gratuità e la generosità.

Il suo corpo è presente in mezzo a noi in modo diverso dal nostro. Noi siamo attenti e preoccupati per il nostro corpo (anche troppo!), egli, invece, è presente  come un corpo spezzato.

Quell’ostia è una contestazione continua al nostro modo di vivere, alle attenzioni così premurose per star bene, al nostro risparmiarci dalla fatica. Ognuno di noi tira al risparmio quando si tratta di spendersi per gli altri. Quell’ostia ci dice esattamente il contrario!

Dopo la consacrazione delle specie eucaristiche ha luogo la loro duplice ostensione. Si tratta di una semplice ostensione e non di una vera elevazione. Tale ostensione ha lo scopo di presentare all’adorazione dei fedeli il corpo e il sangue del Signore. Per questo gli occhi dei fedeli devono essere rivolti verso le specie eucaristiche.

‘Elevando l’ostia, il sacerdote vuole significare tre cose: ecco il Figlio di Dio che, per te, mostra le sue piaghe al Padre celeste; ecco il Figlio di Dio che, per te, è stato innalzato sulla croce; ecco il Figlio di Dio che ritornerà a giudicare i vivi e i morti’ (Bertoldo di Ratisbona). Guardando l’ostia, i credenti sperano in una guarigione delle loro ferite personali.

- ‘Per voi e per tutti…’: Queste parole esprimono molto bene la dimensione cattolicadell’Eucaristia. L’Eucaristia è il pane dei pellegrini che hanno gli occhi e il cuore sempre orientati verso l’orizzonte, nell’attesa che spunti il giorno definitivo del ritorno di Gesù.

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Fate questo in memoria di me: Non vuol dire soltanto compiere i gesti che ha compiuto Gesù o pronunciare le parole che ha pronunciato Gesù. Gesù non si è accontentato di dare ai suoi amici pane e vino, ma ha donato se stesso. La prova è che il giorno dopo Gesù era inchiodato ad una croce. “Fate questo in memoria di me” vuol dire: fate come me. Prima celebrate l’Eucaristia in chiesa. Poi, usciti di chiesa, continuate a donare la vostra vita a quelli che vi circondano. Ci invita a compiere non solamente i gesti del giovedì santo, ma anche quelli del venerdì santo. La cena e la croce fanno un tutt’uno per Cristo. Lo devono essere anche per noi.

Se la Messa nascesse da una nostra iniziativa, le nostre parole riuscirebbero solo a esprimere un desiderio di comunione con Gesù che nasce dall’amicizia per lui. Ma è Gesù stesso che, facendo la cena con i suoi amici, ha comandato: “Fate questo in memoria di me”. Noi facciamo ogni cosa in obbedienza a Gesù; per questo siamo convinti che quanto chiediamo ci viene effettivamente donato.

 

Mistero della fede… Annunciamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione nell’attesa della tua venuta! Il mistero della fede, di cui si tratta, è il mistero di Cristo stesso, che si può riassumere in tre punti: la sua morte, la sua risurrezione e il suo ritorno alla fine dei tempi. Queste tre realtà mettono in evidenza le tre dimensioni fondamentali e necessarie dell’Eucaristia. L’Eucaristia ci fa fare riferimento al passato: la morte di Gesù sul Calvario. Indica anche una realtà attuale: la presenza di Cristo risuscitato in mezzo a noi. Annuncia un evento futuro: il ritorno del Figlio di Dio nella gloria.

- L’acclamazione vuol dire almeno due cose: che siamo davanti a un mistero che deride la percezione dei nostri sensi. “Hai nascosto in croce la Divinità, ma sull’altare si cela anche la tua umanità” (S. Tommaso). E’ la grande dimensione misterica dell’Eucaristia, da non trascurare mai.

- C’è di più: tutto quanto la fede proclama (l’amore di Dio per noi, la nostra comunione con lui, la speranza della vita eterna), tutto questo è contenuto nel mistero dell’Eucaristia. Oggi si fa memoria della passione di Gesù; oggi si è comunicato il dono della sua vita, offerta per noi sula croce una volta per sempre, oggi pregustiamo il compimento della nostra speranza, la partecipazione alla gloria di Dio. Piccolissimo è il segno (un pezzo di pane spezzato) ma immense sono le dimensioni del mistero.

 

- L’Eucaristia è protesa e ci protende verso il ritorno di Cristo. Con tutti i credenti ci fa pregare con le parole che erano costantemente sulle labbra dei primi credenti: ‘Maranatha! Vieni, Signore Gesù!’ (cf. Ap 22,20). Qui e in altri momenti si coglie con forza l’importantedimensione escatologica  della celebrazione eucaristica.

 

- L’acclamazione dopo la consacrazione si rivolge direttamente a Cristo, cosa piuttosto rara durante la Messa. Ciò si verifica solo in tre momenti: nel rito penitenziale (Cristo pietà), nella preghiera per la pace (Signore, Gesù Cristo…), e nell’acclamazione dopo la consacrazione.

 

  1. L’anamnesi

 

L’anamnesi o memoriale, con cui la Chiesa, in obbedienza al comando di Cristo, celebra il memoriale della sua Pasqua (la beata passione, la gloriosa risurrezione e l’ascensione al cielo) in attesa della sua venuta nella gloria alla fine dei tempi.

Quando facciamo memoria di Cristo che ha detto “Questo è il mio corpo”, non si tratta di un semplice ricordo che rinvia al passato. Il pane diventa il corpo di Cristo e possiamo nutrircene come hanno fatto gli apostoli. Quando ci ricordiamo di Cristo che si è consegnato fino alla morte, questo atto di donazione – che è eterno – viene reinserito nel tempo e nel luogo in cui siamo, perché possiamo prendervi parte. Poiché il ricordo che si effettua nella Messa è del tutto particolare, si chiama “memoriale”. E’ celebrazione che attualizza il sacrificio che Cristo ha offerto al Padre, una volta per tutte sulla croce in favore dell’umanità.

 

  1. L’offerta

  

La Chiesaoffre al Padre Cristo presente in atto sacrificale, e con lui offre se stessa, per consumare i suoi figli nell’unione con Dio e tra di loro.

Non basta che offriamo il Cristo. Dobbiamo offrire noi stessi insieme con lui ( cf. Rm 12,1-2).. L’offerta di Cristo diventa dunque la nostra offerta e la nostra offerta si unisce alla sua. Diventa sua.

 

- E’ legge del dono che quanto è offerto generosamente e viene accolto con riconoscenza dal destinatario del dono susciti una risposta di reciprocità. Accetto il tuo dono con gioia; sono contento che tu mi abbia manifestato col dono la tua attenzione e il tuo amore; ti accolgo e riconosco come autentico amico. Desidero allora esprimere a mia volta l’amore col dono; dirti il mio affetto dandoti un segno di vicinanza. Un dono sollecita l’altro! Credo sia questa la logica che ci porta, dopo la consacrazione, a pregare dicendo: “Celebrando il memoriale del tuo Figlio, morto per la nostra salvezza, gloriosamente risorto e asceso al cielo, nell’attesa della sua venuta ti offriamo, Padre, in rendimento di grazie, questo sacrificio vivo e santo”.

- Ma noi che cosa possiamo offrire a Dio? Tutto quello che siamo e che abbiamo ci viene da lui. Non possiamo quindi offrirgli se non i suoi stessi doni. La nostra offerta non è né per rendere più ricco Dio (non ne ha bisogno), né per sentirci capaci di dare qualcosa a lui (non ce n’è bisogno). E’ invece il modo più intenso di esprimere la riconoscenza che il suo dono incredibile (ci ha donato il suo Figlio!) ha suscitato nel nostro cuore; è per legare indissolubilmente la nostra esistenza alla sua e accettare tutto il dinamismo della comunione che Dio vuole stabilire con noi uomini perché siamo suo popolo.

 

  1. Le intercessioni

 

Per i vivi e i defunti commemorando i santi. Con esse la Chiesa, in comunione con i Santi del cielo, implora per tutti i suoi membri sparsi ai quattro venti, chiedendo che abbiano parte alla salvezza di Cristo. Superando i confini di spazio e di tempo, la supplica abbraccia anche quelli che hanno incontrato lo Sposo.

E’ il momento in cui la preghiera ricorda Maria Santissima, perfetta realizzatrice della Chiesa e i santi, anch’essi espressione autentica di una chiesa vissuta e si raccomanda alla loro intercessione. Poi coinvolge nel movimento di intercessione tutta la Chiesa unita attorno al Papa: il vescovo, il collegio dei vescovi, i preti, il popolo intero, i presenti. L’umanità intera viene posta davanti a Dio come destinata ad assumere la forma di Cristo. Infine la preghiera eucaristica raccoglie la memoria dei defunti perché nessuno manchi alla comunione che l’Eucaristia genera.

 

  1. La dossologia finale

 

Esprime la glorificazione di Dio, che il popolo conclude con un Amen corale; al dire di S. Girolamo, dovrebbe avere il fragore di un tuono. E’ la ratifica dell’intera assemblea a tutta la grande preghiera, è il consenso dell’assemblea a tutto quello che è stato detto. E’ l’amen più importante di tutta la celebrazione. Questa risposta dell’assemblea non dovrebbe passare inosservata come un ‘amen’ qualsiasi, ripetuto stancamente. Per questo va cantato!

L’Amen del popolo sigilla la preghiera e realizza la partecipazione di tutti. La preghiera è fatta da colui che presiede in quanto mandato da Cristo, ma è fatta a nome di tutti e tutti debbono sentirsi coinvolti. Lo fanno appunto cantando a una sola voce la conclusione della preghiera:l’Amen.

Il gesto compiuto dal sacerdote al termine della preghiera eucaristica è una vera elevazione. Essa ha lo scopo di presentare al Padre, per offrirgliela, la vittima immacolata, Cristo, suprema espressione dell’onore e della gloria dovuti a Dio. Gesto dunque altamente significativo e importante! Grazie a Cristo, “per lui, con lui e in lui” la nostra intera esistenza,e quella di tutta l’umanità, diventa “un sacrificio perenne” per la gloria del Padre.

 

- Questi elementi che strutturano la prece, non sono evidentemente dei frammenti di preghiera, posti l’uno accanto all’altro. Si inseriscono al contrario in un movimento di preghiera che ha un’unità infrangibile. Ecco come si concatenano. Il nucleo centrale, l’asse dominante che attraversa tutta la preghiera e la sostiene da un capo all’altro è l’azione di grazie: la proclamazione nel giubilo e nella fede, delle meraviglie di Dio. La supplica nasce spontaneamente da questa lode, perché si realizzi con pienezza ciò che è oggetto dell’azione di grazie. In fondo si dice a Dio: Tu che hai fatto tutto questo nella storia della salvezza, compilo nuovamente ora per mezzo di questi segni sacramentali. L’epiclesi si rivolge allo Spirito Santo, perché solo la sua potenza santificatrice può attualizzare l’opera della redenzione. Il racconto dell’istituzione, in cui culmina l’azione di grazie, è considerato come il riassunto sacramentale di tutte le meraviglie del passato. Tutto ciò che Dio ha compiuto in favore degli uomini confluisce in quei segni sensibili, ove si rende presente Cristo con tutte le ricchezze del suo regno. Il memoriale riprende poi il nucleo centrale di questa economia. Il mistero pasquale mostra che esso è reso presente nei segni sacramentali che Cristo ci ha lasciato, e lo presenta al Padre in un gesto di offerta: ‘Ti offriamo, o Padre…’. Il movimento della preghiera si placa poi nella glorificazione finale, che si ricollega all’inno iniziale, a modo di inclusione.

 

- La preghiera eucaristica non è la preghiera soltanto del sacerdote; è la preghiera di tutta l’assemblea. La prova è che, proclamando la preghiera eucaristica, il sacerdote non usa mai l’ “io”, bensì il “noi”. Cantiamo ad una sola voce la tua gloria… Ti offriamo, Padre, il pane della vita… Ti rendiamo grazie… Ti preghiamo umilmente… Di noi tutti abbi misericordia… E’ sempre il “noi” che ritorna! Ciò dimostra che la preghiera eucaristica è la preghiera di tutti quelli che partecipano alla Messa. Il sacerdote non è separato dall’assemblea. Costituisce un solo corpo con essa e parla a suo nome. E’ dunque l’assemblea tutta intera che rende grazie a Dio, è l’assemblea intera che invoca lo Spirito Santo, l’assemblea intera che presenta le sue preghiere al Padre.

- La preghiera eucaristica è la preghiera di tutta l’assemblea, tuttavia è solo il sacerdote che la presiede. Tutti partecipano a questa preghiera, ma non al medesimo titolo né alla medesima maniera. Nella Messa ci vuole uno che presiede, uno che simbolizzi Cristo e agisca a suo nome in modo speciale. La Messa è prima di tutto azione di Cristo. Spetta al sacerdote far vedere che Cristo è nel mezzo e alla testa dell’assemblea, quando si celebra un’Eucaristia. E’ stato ordinato per adempiere questa funzione. Affinché l’Eucaristia sia ben celebrata, è necessario che ciascuno faccia bene la sua parte e che nessuno invada la parte dell’altro. Che il sacerdote dunque presieda la preghiera eucaristica e che i membri dell’assemblea vi prendano parte con tutto il loro cuore, con tutta l’anima, con tutto lo spirito… con i canti, le risposte, i gesti. E anche con i loro silenzi!

- La preghiera eucaristica esige che tutti l’ascoltino con rispetto e in silenzio, e vi partecipino con le acclamazioni previste nel rito, senza dire sottovoce le parole del sacerdote.

       

 


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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19/04/2017 14:15
 
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c. Riti di comunione

Sono riti che dispongono immediatamente i fedeli alla comunione.

La preghiera del Signore, (o ‘Padre nostro’)

E’ sempre stata considerata la preghiera classica di preparazione alla comunione. Tutti ‘osiamo’ rivolgerci a Dio chiamandolo Padre, perché il sacrificio di Gesù ci ha fatti figli di adozione. E’ la preghiera dell’amore e della nostra parentela con Dio. In quel momento ci sentiamo tutti fratelli intorno alla mensa dell’unico Padre. E la preghiera dei figli e dei fratelli.
La preghiera del “Padre nostro” è stata accolta nella celebrazione eucaristica prima della comunione perché considerata un’ottima preparazione alla comunione a causa di due delle sue domande: “dacci oggi il nostro pane quotidiano”, e “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. L’ultima richiesta: ‘liberaci dal male’, è sviluppata da una preghiera del celebrante (embolismo), che chiede per tutta l’assemblea dei fedeli la liberazione dal potere del male, cui l’assemblea si associa alla fine con un’antica acclamazione, che inneggia alla gloria di Cristo Re (dossologia).

Il rito della pace (che non è obbligatorio, leggere qui il Documento ufficiale della Chiesa)

Con questo rito i fedeli implorano la pace e l’unità per la Chiesa e per l’intera famiglia umana, ed esprimono fra di loro l’amore vicendevole, prima di partecipare all’unico pane. Ha lo scopo di significare l’unità dei cuori.
Prima del banchetto è buona norma dichiarare pace e amicizia, almeno ai vicini di tavola. Bisognerà preoccuparsi di renderlo autentico, eliminando tutti gli spazi di indifferenza che separano; facendo della vicinanza fisica, che ci pone nella chiesa gomito a gomito, un segno di unanimità spirituale.
Il rito della pace, posto in questo momento della Messa, deve essere considerato come l’ultima parte dell’atto penitenziale, quindi come necessità di riconciliazione visibile prima di mangiare il Corpo del Signore. Lo scambio della pace è posto qualche istante prima della comunione. Niente di più logico, perché come potremmo da una parte avvicinarci a Cristo e dirgli che lo amiamo, e dall’altra rifiutarci di voltarci verso questo nostro fratello o sorella che ci è a fianco?
La pace che ci si scambia è la pace di Cristo e non un semplice saluto tra amici; per questo, per vivere bene questo gesto basta scambiarlo con le persone più vicine. E’ un gesto molto esigente. Andare verso l’altro, mettersi a parlare con un estraneo non è cosa facile!
Non bisogna mai farlo scadere a gesto banale e senza convinzione. Nel compiere questo gesto occorre mantenere una compostezza, un ordine, affinché non sia turbato il clima che deve essere di attesa della partecipazione al banchetto. La pace di Cristo non può essere donata nel chiasso, nel disordine, o peggio ancora in un clima di comunicazione superficiale.
Celebrare l’Eucaristia vuol dire riscoprire la vocazione all’amore fraterno vissuto nei fatti. L’assemblea eucaristica è un vero evento di fraternità.
La dimensione comunitaria caratterizza naturalmente tutta la celebrazione eucaristica.


La frazione del pane

Essa non è un gesto funzionale, ma simbolico; ed è accompagnata dal suo canto proprio, l’Agnus Dei. La sua portata è tale che nell’epoca apostolica ha dato il nome a tutta l’azione liturgica: riproduce il gesto di Cristo che nella cena spezzò il pane, gesto al quale i discepoli di Emmaus riconobbero Cristo loro ospite la sera di Pasqua (cf. Lc 28, 35).
Esprime la profonda unità che ci amalgama insieme in un unico corpo, dal momento che comunichiamo a un unico pane. E’ qui che trova la sua radicazione soprannaturale quel senso di fraternità così acutamente vissuto e sofferto dalla nostra generazione, come la sua esigenza di tradursi in gesti concreti: ‘Poiché se comunichiamo al pane celeste, come non comunicheremo anche al pane terreno?’ (Didaché). Questi tre elementi preparatori significano dunque in modo convergente una realtà unica: la carità che ci vincola tra di noi, mentre ci unisce a Lui, e ci inserisce nel suo sacrificio. La comunione è una comune-unione a Cristo. E’ questo il frutto ultimo dell’Eucaristia, ed è l’anima stessa della Chiesa. Sì, ci vuole la Chiesa per fare l’Eucaristia, ma soprattutto ci vuole l’Eucaristia per la fare la Chiesa.
“Come questo pane spezzato era prima sparso qua e là per i colli, e, raccolto, diventa una cosa sola, così si raccolga la tua Chiesa dai confini della terra nel tuo regno…” (Dottrina dei Dodici apostoli).
Fin dai primi secoli i cristiani si dicevano anche che la frazione del pane era anche il simbolo della passione e della morte di Cristo. E’ vero! Il corpo di Cristo è stato spezzato come si spezza il pane; così dobbiamo fare anche noi per i fratelli! Spezzarci in quattro!
Spezzare il pane ci ricorda che anche noi stessi siamo persone ‘spezzate’ e ferite, ma anche che – al di là della nostra fragilità – c’è il Risorto che tutto ricompone e salva.

L’immixtio: il celebrante mette nel calice una piccola porzione dell’ostia. Vuole simboleggiare l’unità del corpo e del sangue nell’unico Cristo. Le specie eucaristiche, quella del pane e quella del vino, prima separate, vengono unite, mediante l’immistione, per significare l’integra e viva presenza in esse di Cristo glorioso. Quando il sangue non scorre più nelle vene di una persona, è la morte! Così si può dire che, quando il pane e il vino (corpo e sangue di Cristo) sono posti uno a fianco all’altro, abbiamo sotto gli occhi un segno di morte. Al contrario, se il pane e il vino sono riuniti, abbiamo un segno di vita. Il gesto di mettere un pezzetto di pane consacrato nel calice ha dunque per scopo di manifestare che Cristo che era morto, ora è vivo. E’ risuscitato!
Questo gesto, oltre a essere un segno di risurrezione, è anche un segno di vita eterna. Il sacerdote dice a voce bassa questa preghiera: “Il corpo e il sangue di Cristo, uniti in questo calice, siano per noi cibo di vita eterna”. Il corpo e il sangue di Cristo sono sorgente e causa anche della nostra risurrezione. ‘Con l’Eucaristia si assimila, per così dire, il ‘segreto’ della risurrezione (Giovanni Paolo II).
Questo piccolo segno è bellissimo perché significa anche che le fratture della mia vita vengono sanate quando esse vengono intinte nell’amore di Cristo, di cui il calice è ricolmo. La mia vita riacquista la sua interezza se viene immersa nel sangue di Cristo, che è morto e risorto per me.
Da ultimo, il gesto vorrebbe anche richiamare il rito antico che indicava il senso di unità tra il presbitero celebrante e il Vescovo. Infatti, il frammento messo nel calice dal presbitero celebrante era stato inviato dal Vescovo per mezzo di accoliti, in segno di profonda unità sacramentale e dottrinale.

La preparazione personale del sacerdote: il sacerdote si prepara con una preghiera silenziosa a ricevere con frutto il Corpo e il Sangue di Cristo. Lo stesso fanno i fedeli pregando in silenzio. Quindi il celebrante mostra ai fedeli il pane eucaristico che sarà ricevuto nella comunione e li invita al banchetto di Cristo; poi insieme con essi esprime sentimenti di umiltà, servendosi delle parole del Vangelo (Domine, non sum dignus…).

Agnus Dei:Gesù è l’agnello. Con la sua sofferenza, la sua agonia, la sua pazienza e la sua morte, vissute in un amore immenso, egli è diventato l’agnello che ci salva. Credere all’agnello è credere alla salvezza. Acclamare e cantare il salvatore. Accogliere l’agnello è accogliere la salvezza.


La comunione

Mentre i fedeli si recano processionalmente alla mensa eucaristica, si esegue un canto che vuole esprimere l’unità dei cuori traboccanti di gioia, attraverso l’unità delle voci.
L’antifona alla comunione è un elemento prezioso che illustra il dinamismo che anima parola e sacramento. Specialmente nei tempi forti, questa antifona riprende letteralmente un versetto del Vangelo per significare che quanto è stato proclamato è dato adesso in partecipazione, nel senso che la Parola si è fatta carne. L’antifona manifesta l’unione molto stretta che esiste tra le due mense dell’Eucaristia: quella della Parola e quella del Pane. Ciò che la Parola proclama, il Pane ce lo dona.

La processione alla comunione è il movimento verso l’altare della comunità che partecipa al dono più grande, il Corpo di Cristo. Deve essere una processione ordinata per custodire il raccoglimento. L’ordine serve perché l’attenzione sia diretta all’Eucaristia.
E’ desiderabile che le ostie a cui ci si comunica siano consacrate nella stessa Messa, ‘affinché la comunione appaia meglio, anche attraverso i segni, come partecipazione al sacrificio che si sta attualmente celebrando’. Il ministro pronuncia solo le parole: “Il Corpo di Cristo”, tenendo nel frattempo l’ostia un po’ sollevata. Egli attende poi che il comunicando dica:“Amen”, prima di dargli l’ostia. Il fedele con l’Amen professa apertamente la sua fede nella presenza reale di Cristo. Amen! Vuol dire: “Sì, Signore, riconosco che vieni verso di me e ti doni a me sotto il segno del pane”.
Amen! Vuol dire: “Sì, Signore, ti accolgo dicendoti che voglio amarti con tutto me stesso”.
Amen! Vuol dire: “Sì, voglio essere tuo discepolo e donarti la mia vita, come hai fatto tu”.

Il silenzio.

Poi l’azione si arresta. Ci si siede (o in ginocchio) e si rimane in silenzio. E’ un silenzio carico di tensione spirituale, perché segna il momento personale dell’incontro con il Salvatore. Il silenzio dopo la comunione favorisce la preghiera interiore di lode e di ringraziamento.
Dopo la comunione è bene mantenere un po’ di silenzio affinché l’unione con Cristo possa arrivare al cuore e compiersi in tutti i sensi. Il silenzio può fare spazio a un dialogo personale con Cristo che ora è in noi. Il silenzio può anche essere semplicemente l’eco di ciò che abbiamo celebrato: corpo e sangue di Cristo penetrano in tutto il mio corpo e negli abissi della mia anima. Si tratta di un attento inoltrarsi nel mistero della comunione: ora, Dio e la sua creatura sono diventati, inscindibilmente, una cosa sola. Ciò che Dio ha operato in me, io lo devo realizzare per me nella mia vita. Se Dio è diventato una cosa sola con me, posso essere in accordo e in armonia con me stesso e con la mia vita. E, se Cristo è in tutti noi, devo cercare nel mio intimo di diventare benevolo nei confronti di tutti gli altri e di sentirmi una sola cosa con loro.
E’ un silenzio di adorazione, un silenzio in cui tutti devono essere coscienti di essere il corpo del Signore. E’ questo il momento di percepire che la comunione eucaristica è fonte della comunione ecclesiale.

- Il corpo e il sangue di Cristo non sono ‘cose sacre’, che appartengono a Cristo, che si assumono e si adorano come cose esterne a lui (vado a prendere l’ostia!), ma sono il Signore stesso, in persona, vivo e vero, di cui diventiamo consorti. “Ricevendo il corpo e il sangue di Cristo, tu diventi con-corporeo e con-sanguineo di Cristo” (S. Cirillo di Alessandria). Il tuo legame con Cristo diventa più forte di quello che tu hai con i tuoi congiunti.

- Fare la comunione significa assimilare il dono di Dio e permettere a questo dono di plasmare la nostra esistenza umana trasmettendole la sua forma, la forma dell’amore che si mette in gioco per la vita degli altri. Se dimoriamo in Gesù, il senso è che viviamo entro lo spazio che Gesù ha creato con la sua vita e il suo amore. Continuiamo a vivere nel mondo, certo, ma lo stile, la logica, i desideri non sono più quelli appresi dal mondo, ma quelli che lo Spirito di Gesù suscita in noi. Non sono più i modelli mondani che dirigono le nostre scelte, ma i modelli evangelici. I modelli mondani pongono come obiettivo il successo in tutte le sue forme (ricchezza, potere, godimento); i modelli evangelici pongono come obiettivo l’amore (“Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato”).
La comunione ha una dimensione essenzialmente sociale e dobbiamo renderla esplicita. Scrivendo ai Corinzi, Paolo invita i credenti a evitare ogni forma di idolatria e porta una motivazione tipicamente cristiana: non si può mettere insieme la comunione con Cristo e la comunione con gli idoli:“Parlo come a persone intelligenti; giudicate voi stessi quello che dico; il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (1Cor 10,15-17). Non siamo soli ad accostarci all’Eucaristia; siamo mescolati con tutta l’assemblea, con tutti i discepoli. Ci accostiamo all’altare per mangiare e per bere; per entrare in comunione col Signore vivente. E siccome il Signore nel quale l’eucaristia c’introduce è l’unico Signore, aderendo a lui veniamo a costituire un’unica realtà, un unico corpo.
‘Quando riceviamo Cristo, l’amore di Dio si espande nel nostro intimo, modifica radicalmente il nostro cuore e ci rende capaci di gesti che, per la forza diffusiva del bene, possono trasformare la vita di coloro che ci sono accanto’ (Benedetto XVI).

- I fedeli non prendono da soli il pane consacrato, ma lo ricevono dal sacerdote (eccezionalmente dal ministro straordinario dell’Eucaristia o dall‘accolito). L’Eucaristia è un dono. Non lo si prende da se stessi, lo si riceve da un altro. E’ un bene divino, al quale nessuna persona ha diritto e sul quale nessuno può disporre.

COME RICEVERE L'EUCARISTIA, CLICCARE QUI  

- Ricevendo l’Eucaristia, non solo riceviamo il corpo eucaristico di Cristo, ma anche il ‘corpo mistico’ di Cristo. E dicendo ‘Amen’, lo diciamo non solo a Cristo, ma anche alla Chiesa, a cominciare dalla mia ‘chiesa domestica’, che è la mia famiglia.

PICCOLA PARENTESI IMPORTANTE - NOSTRA - 

Il blog Radicati nella fede, fece tempo fa un bellissimo articolo dal titolo interessante: “La messa dell’assemblea culla l’agnosticismo” clicca qui, vi invitiamo davvero a leggerlo e a meditare… “Ciò che non c’è più nella Messa, scompare inevitabilmente anche dalla vita cristiana. È solo questione di tempo, e nemmeno molto. Così è stato con l’ultima riforma liturgica: i “vuoti” del rito sono diventati “vuoti” del nuovo cristianesimo…

cliccare qui per l'articolo integrale

CHIUSA PARENTESI....


Conclusione.

L’orazione dopo la comunione. Il rito della comunione termina con una preghiera del celebrante a nome di tutti. Esprime l’azione di grazie per il dono ricevuto, chiede i frutti del mistero celebrato, e proietta la luce dell’Eucaristia sulla vita quotidiana, che ne deve essere lievitata e trasfigurata.

RITI CONCLUSIVI


Sono semplicissimi: un saluto e una benedizione del celebrante, e il congedo dell’assemblea.

a. Saluto

E’ naturale che il sacerdote, al termine della Messa, rivolga il suo saluto al popolo.

La benedizione. Con essa il sacerdote augura che le tre Persone divine vogliono “dire bene”, compiacersi di coloro che hanno partecipato alla celebrazione. La benedizione finale della messa implora la protezione del Padre, e del Figlio e dello Spirito Santo su quelli che stanno per allontanarsi. Domanda che rimangano in loro i doni che hanno ricevuto, perché continuino a vivere secondo lo spirito dell’Eucaristia che hanno appena celebrato.


b. Il congedo

‘La Messa è finita; andate in pace’. E’ come se dicesse: il rito è concluso, ma ora comincia un’altra celebrazione, in cui è impegnata tutta la vostra vita. Andate, per le strade del mondo, e siate in mezzo ai fratelli ‘i testimoni della morte e della risurrezione di Cristo’ con la parola, con l’azione e con la vita. Ite, missa est! La messa non è fine e sosta, piuttosto è un cammino. Un riposarsi per via e poi di nuovo un incamminarsi. Per questo la santa Messa termina con l’espressione che le dà il nome: Ite, missa est! ‘Missa’ è la forma tardo latina per missio o dimissio (= congedo). Il servizio divino non si esaurisce in se stesso, ma è ‘Missa’ subordinata alla missione che ci disperde per il mondo. Non andiamo alla Messa per guadagnarci un pezzetto di Paradiso, bensì per il rafforzamento della nostra missione. Andate! La Messa in chiesa è terminata. Ora comincia la messa nel cuore del mondo. Dunque, il congedo non chiude la celebrazione eucaristica quasi fosse una parentesi nella nostra giornata, ma la immette, come una sorgente pura, nel fiume della vita che da essa deve venire rinnovata.
- Molto opportunamente il congedo sottolinea l’irrinunciabile dimensione missionaria della celebrazione eucaristica.
Alla formula di congedo pronunziata dal ministro il popolo risponde dicendo:“Rendiamo grazie a Dio”. Acclamazione spontanea che vuole manifestare i ricchi, profondi sentimenti che pervadono lo spirito di quanti hanno avuto la fortuna e la gioia di partecipare all’Eucaristia. Essa mette il suggello a tutta la celebrazione eucaristica, vero rendimento di grazie a Dio per Cristo nella virtù dello Spirito Santo.
Il sacerdote bacia ancora una volta l’altare per portare con sé la sua forza e per congedarsi con amore da Cristo: l’amore di Gesù celebrato sull’altare deve ora improntare il suo dire e il suo agire e deve scorrere in tutti i suoi incontri.
La comunità si congeda eseguendo un canto oppure ascoltando il suono dell’organo, mentre esce. E’ bene recuperare lo spazio sacro evitando di fare della chiesa una piazza. A questo serve il sagrato della Chiesa stessa.
Ciò che è veramente importante è che il mistero della sacra celebrazione permei il corpo e l’anima dei fedeli, per poter uscire dalla chiesa veramente diversi da come sono entrati e per poter trasformare, ora che sono stati trasformati, anche la loro vita di tutti i giorni.
Quando siamo andati alla messa domenicale e torniamo a casa, non dovremmo essere accompagnati dalla coscienza un poco farisaica di aver fatto il nostro dovere. Veniamo fuori dalla Messa forse più buoni e cresciuti nella fede, ma certamente più responsabili.

Una preghiera per ringraziare


Al termine delle nostre considerazioni, ridiamo voce alla grande e santa tradizione liturgica della Chiesa e facciamo nostra la preghiera con la quale la Didachè invita a rendere grazie dopo aver consumato il sacrificio eucaristico:

Dopo aver mangiato, ringraziate così:
Ti ringraziamo Padre santo,
per il tuo santo nome
che hai fatto abitare nei nostri cuori
e per l’amore, la fede e l’immortalità,
che ci hai rivelato per mezzo
di Gesù, tuo Servo.
A Te gloria nei secoli!

Tu, Signore onnipotente,
hai creato l’universo a gloria del tuo nome;
hai dato cibo e bevanda agli uomini,
perché possano goderne
e così ti rendano grazie.
Ma a noi hai dato un cibo
e bevanda spirituali
e la vita eterna
per mezzo del tuo Servo.
Ti ringraziamo, soprattutto,
perché sei la nostra forza.
A Te gloria nei secoli!

Ricordati, Signore, della tua Chiesa,
liberala dal male
e rendila perfetta nel tuo amore;
purificata, raccoglila insieme
dai quattro venti nel Regno,
che per lei hai preparato.
Poiché tua è la potenza
e la gloria nei secoli!

Passi questo mondo di violenza
e venga la tua grazia!
Osanna al Figlio di Davide!
Chi è santo, si avvicini:
chi non lo è si converta.
Maranà tha: vieni, o Signore!
Amen
     

 

[Modificato da Caterina63 19/04/2017 14:20]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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