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La Chiesa non può dare la Comunione ai divorziati-risposati perché LI AMA (2)

Ultimo Aggiornamento: 25/02/2018 13:51
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20/04/2017 10:27
 
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Si può accedere all'Eucarestia solo se purificati

di padre Riccardo Barile OP

Il Cenacolo, Beato Angelico

«(Voi mariti e mogli) non rifiutatevi l’un l’altro, se non di comune accordo e temporaneamente, per dedicarvi alla preghiera» (1Cor 7,3). A partire da qui, san Gerolamo († 420) - notoriamente un “patito” della verginità e della vedovanza, tanto che i suoi avversari lo accusavano di intrattenere più amicizie femminili che maschili (all’epoca era un’accusa; oggi potrebbe essere un complimento di... non essere quello che in idioma felsineo si definisce un “busone”!) - San Gerolamo, dicevo, a partire da qui prosegue: «Che cosa è più grande: pregare o ricevere il corpo di Cristo? Certamente ricevere il corpo di Cristo. Ma se ciò che è di meno (= pregare) è impedito dall’unione carnale, ciò che è di più (= ricevere il corpo di Cristo) ne sarà molto di più impedito» (Lettera 49,15 A Pammachio; cf anche Contro Gioviniano I,7). 

Mai sostenuta in documenti magisteriali di primaria importanza, l’idea e la conseguente prassi che l’accostarsi all’Eucaristia comportasse al meglio l’astensione dai rapporti coniugali in quel giorno o in un lasso di giorni precedenti, divenne un fiume carsico di notevole consistenza, ribadita anche in un lettera da un pastore mite come san Gregorio Magno († 604). Questo “consiglio” fu “anche” uno dei fattori che nella tarda antichità e nel Medioevo contribuì a diradare la pratica della comunione. Con molta attenuazione e con eleganza secentesca francese, anzi savoiarda, è presente ancora in san Francesco di Sales († 1622), che consiglia a una buona signora (e al di lei marito): «È cosa poco conveniente, benché non sia un grande peccato, chiedere la soddisfazione del debito coniugale nel giorno in cui si è fatta la comunione; ma non è sconveniente, anzi direi che è meritorio, renderlo» (Filotea II,20).

Certo che a leggere questi testi l’impressione è di trovarsi in un mondo e in una Chiesa alla rovescia rispetto alle problematiche attuali: altro che comunione ai divorziati risposati e ai conviventi! Ma di che cosa di trattava? Di Vangelo o di cultura?

Per rispondere è utile un salto al 1847. Giuseppe Verdi a Parigi rincontrò stabilmente la prima interprete femminile del Nabucco, Giuseppina Strepponi, ed iniziò con lei una relazione “coniugale” stabile trasferendosi a Busseto, dove però la coppia fu oggetto di critiche e disapprovazioni, soprattutto per la Strepponi, già madre a seguito di due libere relazioni. Tutto si attenuò un poco quando i due si sposarono il 20 agosto 1859 non a Busseto ma in una cittadina della Savoia. La valutazione negativa e scandalosa da dove nasceva? Dalla mentalità cattolica? Forse in gran parte, ma non totalmente.

Un secolo dopo, nel 1946 Nilde Iotti iniziò una relazione stabile con Palmiro Togliatti, regolarmente sposato e che dunque abbandonò la moglie. Il che non fu ben visto da una parte di quelli che allora contavano nel Partito comunista italiano. Ma non si può presupporre che le riserve partissero dalla fedeltà al Vangelo e alla dottrina della Chiesa: erano chiaramente riserve culturali o morali/culturali.

Pochi anni dopo, il 18 aprile 1963 a Milano nella clinica Mangiagalli nacque Massimiliano, figlio “naturale” di Mina e dell’attore Corrado Pani “sposato”. Qui le reazioni furono diverse: mentre alcuni giornali condannarono non la nascita ma la relazione che l’aveva originata e mentre la televisione di stato diradò la presenza di Mina sul piccolo schermo casalingo, una parte crescente di opinione pubblica dimostrò invece una benevola solidarietà e approvazione non dando rilevanza alla relazione “illecita”, tanto che Mina commenterà più tardi: «La gente non si è lasciata condizionare da questo fatto, l’ha superato». Ciò che non era capitato nei due esempi precedenti.

Oltre a Mina si potrebbero portare tanti altri esempi, comunque più o meno dagli anni ’60 cominciò a imporsi un movimento teso a sdoganare da vincoli morali e sociali il rapporto affettivo tra uomo e donna, lasciandolo esclusivamente alla loro scelta. Oggi questo processo è culminato tracimando da uomo/donna ed estendendosi anche a uomo/uomo, donna/donna, adulto/bambino e financo a uomo/animale.

Prima che un problema morale è un problema di cultura e quindi di percezione. La gente “media” percepisce una differenza più o meno giuridica tra chi è sposato in chiesa o in comune e chi non lo è, ma percepisce sempre meno la valenza morale di questi vincoli. Anche il buon fedele che viene in chiesa, se non è oggetto di una catechesi attenta e aggiornata, rischia di restare culturalmente indifferente a fronte dei diversi tipi di vincolo, che, sia nel linguaggio come nella prassi, sono legittimati senza discriminazioni di sorta. Questa è una novità pastorale che esige una precisa reazione al momento in cui la Chiesa incontra le persone.

Ma torniamo all’Eucaristia, ricordando l’Eucaristia da poco celebrata lo scorso Giovedì Santo, all’inizio del triduo pasquale. Quella Eucaristia ha rimandato più di altre alla memoria del Cenacolo, l’Ultima Cena e la prima Eucaristia di Gesù. In essa ci fu un protagonista - Gesù -, ma anche due estremi di partecipanti: da una parte i discepoli preparati e dall’altra Giuda. Così nella prima Eucaristia ci fu la prima comunione “santa” e la prima comunione “sacrilega” e peccaminosa: lo abbiamo mai notato?

Che la comunione di Giuda fosse peccaminosa e sacrilega va da sé e non esige altre spiegazioni. Che la comunione dei restanti discepoli fosse preceduta da una preparazione (peraltro estesa anche a Giuda) da parte di Cristo, lo si evince dal fatto che furono chiamati a seguire per alcuni anni il Maestro nella sua predicazione e fatti oggetto più di una volta di insegnamenti rivolti direttamente a loro. Ma risulta anche dalla lavanda dei piedi, a patto di comprenderla nella sua pienezza. Un certo numero di santi padri - e sant’Ambrogio ne è un testimone autorevole - per la lavanda dei piedi parlavano di “exemplum humilitatis” ma anche di “mysterium sanctificationis”.

Ora ciò che è presente e divulgato nella pastorale attuale è l’esempio di umiltà, cioè il servizio di Gesù e di riflesso dei futuri pastori della Chiesa e di tutti i cristiani. Ciò è vero ma non è tutta la verità. Gv 13,6-10 spiega che lasciarsi lavare i piedi da Gesù è condizione per aver parte con Lui; soprattutto parla di purezza, di purificazione, del fatto che non tutti i presenti sono puri. Per cui la lavanda dei piedi è anche da parte di Gesù un mistero di santificazione, con il quale purifica i discepoli in vista di prendere parte all’Eucaristia. Così una tradizione - oggi scarsamente divulgata nella pastorale spicciola - ha visto nella lavanda dei piedi la figura del Battesimo e delle successive purificazioni per accedere all’Eucaristia.

È determinante che già da parte di Gesù e già nella prima Eucaristia siano presenti la messa in guardia da una comunione sacrilega e il rifiuto di prendere la gente “così come è”, insieme all’offerta di un cammino di purificazione necessario per arrivare all’Eucaristia.

Perché non pensare tutto questo anche in relazione alla mentalità presente circa i rapporti affettivi tra uomo e donna dei quali abbiamo parlato e anche in relazione a tutto il resto del messaggio cristiano, compresa, in questa luce, la parte di verità di 1Cor 7,3, di san Gerolamo, di san Francesco di Sales ecc.?

La Chiesa deve certamente partire dalla gente così come è, ma non può ammetterla all’Eucaristia “così come è”, “così come pensa”, “così come vive”. La Chiesa portando all’Eucaristia non può limitarsi a lavare i piedi nel senso di servire il mondo (degli uomini) offrendo la salvezza, ma deve anche lavare i piedi nel senso di purificare il mondo da ciò che impedisce di arrivare alla Eucaristia.

         


AMORIS LAETITIA
Prete in confessionale
 

È possibile che in una situazione oggettiva di peccato si possa essere comunque in stato di grazia? È l'interrogativo che nasce dal numero 305 di Amoris Laetitia. Esaminando tutte le possibilità, esiste una sola, ristretta, possibilità, che in ogni caso non può che essere transitoria.

di padre Riccardo Barile OP

«A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato - che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno - si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa» (AL = Amoris laetitia 305).

AL 305 vanifica i discorsi sulla santità dell’Eucaristia e il criterio di quanti vi devono o non vi devono essere ammessi? Qualcuno lo sostiene, ma il discorso è più complesso.

NECESSARIE DISAMBIGUAZIONI

Facciamo il punto: di chi sta parlando AL 305? Parla di coppie non “regolarmente e cattolicamente” sposate - semplici conviventi, sposati solo civilmente, divorziati risposati ecc. -, con un periodo di convivenza che garantisca la serietà e l’impegno e magari con figli, coppie che praticano normali rapporti sessuali e che si sentono o possono essere veramente in grazia di Dio per via di fattori attenuanti. E che di conseguenza accedono all’Eucaristia.

La questione che si pone è: come fanno costoro ad essere a posto o a sentirsi tali? Le risposte possono essere molte, anche se quella accettabile sembra una sola:

1. O perché tra persone “libere” da vincoli matrimoniali è possibile l’attività sessuale sia subito, sia con maggiori ragioni dopo un periodo di convivenza. Ma questo non può stare in piedi ed è talmente ovvio che risparmio le citazioni magisteriali di supporto.

2. O perché, pur continuando a sussistere canonicamente un precedente matrimonio, dopo una nuova unione consolidata è possibile avere rapporti sessuali per tante ragioni, quali il “bene essere” della nuova unione o, più in radice, perché la morte dell’amore ha portato con sé anche la morte del precedente matrimonio. Ma questo non può stare in piedi: il matrimonio non può essere sciolto, i coniugi restano tali davanti a Dio e gli atti sessuali sono leciti solo all’interno del matrimonio valido (CCC 1614, 1640, 2382, 1649, 2390). A meno di entrare nella prospettiva di alcune Chiese ortodosse, le quali però prevedono un secondo matrimonio con dei testi liturgici da far morire di vergogna i nubendi: «Dona loro la conversione del pubblicano, le lacrime della cortigiana, la confessione del ladrone ... abbi pietà delle colpe dei tuoi servi, che non avendo sopportato la calura della giornata e la febbre della carne, vengono ad unirsi con un secondo legame matrimoniale».

3. Per ignoranza della norma o per una diminuita pienezza dell’atto volontario. Questa sembra l’unica via praticabile per interpretare cattolicamente AL 305.

CONOSCERE E NON CONOSCERE?

Prendiamo dunque in considerazione le attenuanti, che AL descrive tenendo conto della situazione attuale: «I limiti [di certe situazioni] non dipendono semplicemente da una eventuale ignoranza della norma» e, «pur conoscendo bene la norma, un soggetto può avere grande difficoltà nel comprendere valori insiti nella norma morale» (AL 301). Altri condizionamenti nascono da violenza, timore, immaturità affettiva, angoscia, fattori psichici e sociali (cf AL 302, che cita a sua volta il CCC 1735 e altri documenti).

Mentre gli ultimi condizionamenti sono scontati, il discorso sull’ignoranza è relativamente nuovo: ci può essere ignoranza anche conoscendo la norma! Perché l’affermazione non risulti contraddittoria (conoscere e nello stesso tempo essere ignoranti), penso che bisogna distinguere tra la conoscenza di una affermazione e l’accettazione della sua autorevolezza. La quale autorevolezza viene minata o per lo meno diluita quanto più l’informazione è abbondante. La presenza di tantissime informazioni non “dall’altra sponda” ma dalla stessa comunità cristiana di appartenenza, fa sì che esse si relativizzino a vicenda e siano poste sullo stesso livello di elenco di notizie o di pareri. Da qui la difficoltà a comprendere i valori insisti nella norma morale (anche grazie alla spintarella di qualche teologo...); da qui una maggior facilità ad emettere un giudizio di coscienza difforme dalla norma soprattutto quanto si tratta di resistere alla seconda serie di condizionamenti quali immaturità, angoscia, modelli sociali ecc.: «Ma se uno (vescovo) dice così o un altro (vescovo) dice cosà, chi me lo fa fare a caricarmi della croce solo per seguire il parere di alcuni che non è condiviso da altri? E poi ho sentito dire che ci sono delle aperture da parte di papa Francesco...». Quante persone reagiscono così, condizionate dalle tante notizie, dalle immagini, dalla comunicazione informatica?

Anche se espresso in modo un po’ scanzonato, tutto questo porta a una conclusione seria: parecchia gente è così e seriamente la pastorale da qui deve partire.

Ma c’è un’altra conclusione altrettanto seria: così non dovrebbe essere, perché una buona frequentazione della comunità cristiana dovrebbe produrre un’altra situazione e non ci si può rassegnare ad accettare il dato di fatto.

COLORO CHE SI AUTOASSOLVONO

Sorge allora l’interrogativo: che fare per non trasformare in normale e abituale la situazione descritta in AL 305? La riposta è diversa a seconda di due gruppi di persone implicate:

- quanti, “irregolari”, in un modo o nell’altro si sentono “a posto” in forza di AL 305 e dunque hanno deciso di accedere all’Eucaristia senza più consultarsi con un sacerdote «o con laici che vivono dediti al Signore» (AL 312) (tra questi vanno annoverati anche quanti si sono consultati una volta con un prete, il quale ha detto loro che va bene così);

- quanti, “irregolari”, chiedono consiglio e instaurano un rapporto dialogico con un prete o con dei laici “dediti al Signore”.

Riservando a un successivo intervento alcune considerazioni sul secondo tipo di persone, consideriamo qui i primi, cioè persone che non possono essere “agganciate” direttamente in un dialogo pastorale.

Riguardo a questa tipologia, è anzitutto scorretto generalizzare, come se tutti o la maggior parte degli “irregolari” fossero nella situazione descritta in AL 305: ancora oggi c’è chi conosce in modo giusto la dottrina di Cristo e della Chiesa e, quando sbaglia, si ritiene peccatore! Anzi, si tratta di un piccolo gruppo, se consideriamo che AL 305 comporta la clausola «... che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno» e che il giudizio erroneo ma in buona fede della coscienza non lo si può presupporre «quando l’uomo poco si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all’abitudine del peccato» (GS 16). Se applichiamo questi due criteri, quanti restano presumibilmente in grazia pur «entro una situazione oggettiva di peccato» (AL 305)?

“LE COSE SANTE AI SANTI!”

In ogni caso, non potendo agganciare le singole persone, la Chiesa è tenuta a predicare l’ideale del matrimonio e questo va da sé. Ma più in profondità la Chiesa è tenuta a salvaguardare la santità dell’Eucaristia e il modo santo di accedervi.

San Giustino nel sec. II scriveva: «Questo cibo è chiamato da noi Eucaristia e a nessun altro è consentito parteciparne eccetto a colui che crede essere vere le cose insegnate da noi e a colui che si sarà bagnato nel lavacro per la remissione dei peccati e per la rigenerazione e che vive nel modo che Cristo ha insegnato» (Apologia I,66,1). È così scontato che molti “irregolari” vivano nel modo che Cristo ha insegnato?

Molte liturgie orientali prima della comunione prevedono l’ammonimento: «Ta àghia tois aghìois / Le cose sante ai santi». Ne è testimone già Cirillo di Gerusalemme al sec. IV nella Catechesi mistagogica V,19, il quale parla anche di “tremenda vittima” o “sacrificio terrificante” (V,9) presente nell’Eucaristia (nota bene: “dopo il concilio” la Catechesi è citata con compiacenza sul prendere la comunione in mano [V,21], ma ci si guarda bene dal citare V,9 sul “sacrificio terrificante”!). Certo, non si tratta di introdurre parole e riti estranei alla nostra liturgia latina, ma di parlare dell’Eucaristia “anche” in questo senso: accedere all’Eucaristia è accostarsi a un roveto ardente, a un sacrificio benevolmente tremendo, che richiede sempre un esame della nostra vita, della nostra situazione. E forse, accedendo con questa coscienza, si esaminerebbe meglio la propria vita e non sarebbe così facile dichiararsi in grazia di Dio pur entro una situazione oggettiva di peccato.

Ma infine può capitare che qualcuno sia realmente convinto di non trovarsi in peccato grave per via delle attenuanti, in primis l’ignoranza nella accezione contemporanea evocata prima. Ebbene, san Tommaso d’Aquino ritiene che se uno riceve l’Eucaristia «in peccato mortale senza averne coscienza e affetto» (questa frase sembra richiamare la clausola di AL 305), accostandosi all’Eucaristia «con devozione e riverenza, attraverso l’Eucaristia conseguirà la grazia della carità, la quale porterà a compimento la contrizione e la remissione del peccato» (III, q 79, a 3).

Cioè l’Eucaristia stessa porterà a far evolvere la situazione verso la verità della dottrina e della vita. Perché la situazione descritta in AL 305 è vera, ma non può che essere transitoria.

1. continua

 

 


[Modificato da Caterina63 08/06/2017 10:47]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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