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LA VERA STORIA SULLA SCHIAVITU' E LA CHIESA CATTOLICA

Ultimo Aggiornamento: 15/11/2017 09:53
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18/05/2017 09:50
 
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  Il Cristianesimo abolì la schiavitù

Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù (Gal 3,28)

Natalia Ginzbur, ebrea e atea, dalle colonne dell'Unità il 22 Ottobre 1988, disse:
"Il crocifisso non genera alcuna discriminazione. Tace. È l’immagine della rivoluzione cristiana che ha sparso per il mondo l’idea di eguaglianza fra gli uomini fino ad allora assente. Il crocifisso rappresenta tutti perché prima di Cristo nessuno aveva mai detto che gli uomini sono eguali e fratelli di tutti, ricchi e poveri, credenti e non credenti, ebrei e non ebrei, neri e bianchi".

Non ci può essere dubbio che l'idea di eguaglianza essenziale tra tutti gli esseri umani è una idea essenzialmente e originalmente cristiana: chiamando Dio col nome di Padre, tutti i suoi figli sono fratelli, quindi non ci può essere disuguaglianza. 
Il cardine fondamentale della legge morale cristiana è infatti l'amore del prossimo: amare gli altri, senza distinzione di ceto, sesso o razza, come sé stessi. 

La sparizione della schiavitù è una della più clamorose e stupefacenti rivoluzioni. Un evento unico in quanto la schiavitù esisteva da sempre, tanto da essere ritenuta naturale, un “diritto”. 

  1. Gustave Bardy (uno dei più grandi e recenti studiosi di Patrologia) descrive la situazione di Roma, patria del diritto, prima dell’arrivo del Cristianesimo:
    “All’ultimo posto della società e, almeno in alcuni casi, più vicini agli animali che all’uomo, ci sono gli schiavi. 
    Essi non sono persone, ma cose, beni di proprietà che si acquistano e vendono, che si utilizzano a discrezione e da cui ci si separa una volta che si cessa di averne bisogno. La legge riconosce agli schiavi alcun diritto civile, così come lo schiavo non è autorizzato a fondare una famiglia, altrettanto è impedito dall’accedere ai culti nazionali"

    (La conversione al cristianesimo nei primi secoli, Jaca Book 2002, pag. 19-20)

La Chiesa primitiva sosteneva che lo schiavo fosse uguale all'uomo libero, poichè anch'esso figlio di Dio. Ma i primi cristiani non avevano ancora il potere per stravolgere l’ordine sociale vigente e poterono limitarsi solo a raccomandare il buon trattamento degli schiavi, e ad essi chiedevano di non odiare, e rispettare i loro padroni poiché anch'essi figli di Dio e in questo modo diventare più "liberi" degli stessi uomini romani. Insomma, come si vede dalle lettere di san Paolo, era chiesto di seguire l'insegnamento di Gesù: amare gli altri come sè stessi, perfino i propri nemici (1 Timoteo 6,1). 

Via via che il Cristianesimo dilagò per il mondo potè cominciare, attraverso i suoi valori morali nel magistero pontificio e nei catechismi, ad attenuare le dure leggi e le abitudini severe del mondo romano per migliorare successivamente le condizioni degli schiavi, che ottennero nel tempo una certa dignità morale, fino allo smantellamento della condizione di schiavitù. Tutto questo senza "colpi di stato" o manifestazioni di piazza, ma dimostrando quanto fosse più umano imitare l'esempio di comportamento di Gesù Cristo.

  1. Nel suo testo, il grande filosofo, critico letterario e antropologo René Girard, mostra come tutte le civiltà precristiane si fondavano sul rito sacrificale del capro espiatorio e sulla pratica culturale dei “sacrifici umani” (nelle religioni pagane, e come meccanismo sociale e politico nello schiavismo o nella pratica di guerra). 
    E afferma: "I Vangeli si riveleranno da sé potenza universale, demitizzando e distruggendo i meccanismi della persecuzione e della colpevolizzazione della vittima. Tutto questo è stato spazzato via e che lo si sappia o no, responsabili di questo crollo sono i Vangeli" 
    (Girard, Il capro espiatorio, Adelphi 1999, pag. 164-165).
  1. Anche il filosofo tedesco Immanuel Kant era convinto che "il Vangelo è la fonte da cui è scaturita la nostra cultura, tutto ciò che noi chiamiamo la civliltà".

La sparizione della schiavitù non segue una riforma sociale o politica, non proviene dall’eredità della cultura classica (infatti teorizzavano lo schiavismo sia i filosofi greci che il diritto romano), né era patrimonio della tradizione ebraica, tantomeno apparteneva alla cultura islamica, non è stato l’esito di un progresso civile, di un’evoluzione storica, bensì  all’origine del concetto di libertà c'è un uomo: Gesù di Nazareth.

Con l’avvento del cristianesimo fu infatti proclamata la totale uguaglianza –in forza di Cristo- di ebrei e pagani, uomini e donne, schiavi e liberi. Questo annuncio di liberazione raggiunse il mondo intero grazie alla missione della Chiesa. L'esempio di Gesù irrompe nella storia e attraverso i cristiani si fa scudo degli uomini indifesi, da origine a comunità dentro le quali, e per la prima volta, non c'è lo schiavo ma la persona umana avente gli stessi diritti degli altri nella comunità, a cominciare dai Sacramenti e persino nel ruolo di presbitero e vescovo, ruoli che nelle religioni pagane erano affidati alle caste.

E’ particolarmente significativo nel XV° secolo l’impegno dei Trinitari, sorti nel 1198 con l’approvazione di Innocenzo III°, che liberarono, nel periodo della loro attività circa 900.000 schiavi cristiani, lasciando se stessi in cambio. Persino Voltaire riconosceva la bellezza di questa storia esaltante.

  1. Leon Bloy, scrittore e saggista storico francese, afferma: "Gesù sta al centro di tutto, assume tutto e si fa carico di tutto, tutto soffre. E’ impossibile oggi colpire un qualunque essere senza colpire lui, è impossibile umiliare qualcuno o annientarlo, senza umiliare lui, maledire o assassinare uno qualsiasi, senza maledire o uccidere Lui". 
    (Josè Descalzo, Gesù di Nazareth, pag. 25-26).

Dopo la scoperta dell'America si ripropose il problema della schiavitù, Papa Paolo III non esitò a condannare chiunque usasse violenza sugli Indios colonizzati (vedi qui). 

Giuristi e filosofi, nel XV° secolo, dichiararono legale la schiavitù dei neri. La Chiesa, da sola, si oppose nuovamente condannando la schiavitù: papa Urbano IIX, con la bolla del 22 aprile 1639 e in modo definitivo da Gregorio XVI° con la lettera “In supremo” del 1839, affermarono: "In virtù della nostra autorità riproviamo il traffico dei negri come indegno del nome Cristiano. In virtù di questa stessa autorità proibiamo e interdiciamo ad ogni ecclesiastico o laico di considerare il traffico dei negri come lecito e sotto qualsiasi pretesto di predicare o insegnare in pubblico o in qualunque altro modo una dottrina in contrasto con quella apostolica" (Gregorio XVI, In Supremo).

Durante il Concilio Vaticano I° (1870) il vescovo Daniele Comboni si battè contro la schiavitù ed il mercato degli schiavi in Egitto.
Era convinto che non si poteva eliminare lo schiavismo a base di trattati come pensavano di fare le nazioni europee e scrisse: "l’abolizione della schiavitù decisa dalle potenze europee a Parigi nel 1856 è lettera morta per l’Africa centrale, propongo la scomunica ai cristiani che cooperano alla tratta degli schiavi, di non restituire gli schiavi che fuggono e che si rifugiano nelle missioni cristiane e di fronte alle proteste dei padroni, di andare in tribunale forti della legge abrogazionista egiziana".

In occasione dei 500 anni dall’invasione dell’America, Giovanni Paolo II°, durante la visita all’isola di Gorè, in Senegal, uno dei porti dove gli schiavi erano venduti all’asta, volle, nonstante tutto l'impegno della Chiesa nei secoli, chiedere agli africani di perdonare il crimine inumano commesso da coloro che si dicevano cristiani, ma che erano lontani dall'insegnamento di Cristo e della Chiesa.

    1. Queste evidenze storiche hanno permesso all'atea Margherita Hack di affermare: "Gesù è stato certamente la maggior personalità della storia. Il suo insegnamento, se è resistito per 2000 anni, significa che aveva davvero qualcosa di eccezionale: ha trasmesso valori che sono essenziali anche per un non credente". (Dove nascono le stelle, Sperling & Kupfer, Milano 2004, pag. 198).

    2. Il grande storico e politico Benedetto Croce affermò: "Il cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuta: così grande, così profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata e irresistibile nel suo attuarsi. Tutte le altre rivoluzioni, tutte le maggiori scoperte che segnano epoche nella storia umana, non sostengono il suo confronto, parendo rispetto a lei particolari e limitate. E le rivoluzioni e le scoperte che seguirono nei tempi moderni non si possono pensare senza la rivoluzione cristiana, in relazione di dipendenza da lei, a cui spetta il primato perché l’impulso originario fu e perdura il suo"
      (Dialogo su Dio: Carteggio, 1941-1952)
    3. .

  1. Anche l'ateo Albert Camus affermò:"Io non credo nella resurrezione però non posso nascondere l’emozione che sento di fronte a Cristo e al suo insegnamento. Di fronte a lui e di fronte alla sua storia non provo che rispetto e venerazione".

Questa messa al bando della logica dei “sacrifici umani” (a cui apparteneva lo schiavismo) non solo non fece decadere la società, come riteneva Nietzsche (una frase è rimasta famosa: "L'abolizione della schiavitù, presunto contributo alla "dignità dell'uomo", è in realtà l'annientamento di una stirpe profondamente diversa, mediante l'affossamento dei suoi valori e della sua felicità"qui un articolo interessante in merito), 
ma fece fare un balzo a tutto lo sviluppo tecnologico. (Vedi qui). 

  1. Chiudiamo con una frase del grande stoico e filosofo francese Leon Poliakov: "Purtroppo con la frattura protestante, l’avvento della cultura laica, illuminista [l'inizio dell'ateismo] e l’indebolimento della Chiesa, tornerà purtroppo a dominare l’ideologia razziale della diseguaglianza tra gli esseri umani. Addirittura giustificata con teorie scientifiche"(Leon Poliakov, Il mito ariano, Editori Riuniti 1999).

Riferimenti:
  1. Enciclopedia online Treccani (sotto la voce "decadenza della schiavitù tradizionale").
  1. Sito interessantissimo dal punto di vista della verità storica: Culturanuova.
  1. Indagine su Gesù, Antonio Socci, Rizzoli 2008.

SI LEGGA ANCHE QUI




La Chiesa accettò o si oppose alla schiavitù?

Pubblichiamo la conclusione del libro La Chiesa e gli schiavi (EDB 2016), ampliamento della tesi di laurea in Antropologia (UniBo 2015, col medievista prof. Leardo Mascanzoni, che ha curato la prefazione) del nostro articolista Roberto Reggi, realizzato con l’aiuto del latinista Filippo Zanini e dell’antichista Gian Battista Cairo. Il testo raccoglie tutte le fonti (circa 250) del magistero ecclesiale sul tema della schiavitù, di cui ci siamo più volte occupati, evidenziando l’efficacia della dottrina cristiana nell’abolizione di questo istituto altrimenti universale.

Quanto al rapporto tra schiavitù e Chiesa cattolica, la storiografia sembra in definitiva risentire di una certa polarizzazione ideologica. Da un lato, documenti ecclesiali e monografie apologetiche e filocattoliche tendono a presentare la Chiesa come integerrima paladina della libertà, dato che fin dai suoi esordi si è battuta per la mitigazione della schiavitù, l’emancipazione degli schiavi, e poi l’abolizione vera e propria, sia nel medioevo che nell’età moderna. Dal lato opposto, testi di stampo anticlericale la presentano come pienamente connivente con la schiavitù, dato che ha più volte condannato la liberazione generalizzata e ha tratto sostentamento dal lavoro di schiavi impiegati in fondi ecclesiastici del medioevo e oltre.

Ma in estrema sintesi come stanno le cose? La Chiesa cattolica fu schiavista o antischiavista? Dati e fonti alla mano, la risposta giusta è: dipende da cosa si intende per schiavitù. Anche se le fonti occidentali usano prevalentemente il termine servus, troppo facilmente fatto corrispondere al moderno «schiavo», la servitù non è mai stata socialmente, dottrinalmente e pastoralmente intesa come un’unica e monolitica istituzione.

È infatti doverosa la distinzione teorica tra:
‒ schiavitù ingiusta: cioè l’asservimento di civili innocenti, catturati, deportati, comprati e venduti, usati e abusati. Questa non è mai stata giustificata e incoraggiata dall’insegnamento cattolico ma, anzi, è stata ripetutamente condannata, in particolare in occasione della tratta mediterranea e soprattutto della tratta atlantica;
‒ servitù giusta, ripartita tra: servitù penale, cioè la privazione della libertà come conseguenza di crimini, quando non esisteva ancora l’istituto carcerario; servitù bellica per i prigionieri che non venivano uccisi, quando non esistevano ancora campi di internamento per prigionieri, in particolare i nemici pagani e saraceni incontrati nell’esplorazione dell’Africa atlantica; servitù economica e volontaria, cioè il rapporto subordinato e a tempo indeterminato tra un sottoposto e un padrone che gli doveva garantire tutela giuridica, protezione militare, mezzi di produzione (in essa va inclusa la categoria storiografica dei «servi della Chiesa», che non erano affatto una forma di schiavitù, ma durante i secoli feudali hanno garantito il sostentamento a persone ed enti ecclesiali, in maniera analoga a quanto avveniva in ambito secolare).

La schiavitù ingiusta è stata considerata illegittima dall’insegnamento cattolico principalmente sulla base di alcuni temi teologici: la naturale uguaglianza degli uomini derivati da un unico creatore; lo stato di originaria e naturale libertà; la redenzione e liberazione operata da Cristo; nonché per motivi di compassione morale che si potrebbero definire caritatevoli o filantropici.

In questo senso la prima condanna contro l’ingiusta schiavitù di persone libere, cristiani o meno, può essere trovata già nel Nuovo Testamento, con la condanna paolina dei «mercanti di uomini» (1Tm 1,10); tra i padri, prima l’orientale Gregorio di Nissa († 394), poi l’occidentale Agostino († 430). Tra i concili ecclesiali la prima esplicita condanna si ha col concilio di Reims (625), tra i papi con Giovanni VIII (†882), ma per una condanna solenne, autorevole, universale, fondata sui temi antropologici e teologici suddetti, occorre attendere la Creator omnium di papa Eugenio IV (17 dicembre 1434).

Invece la servitù giusta è stata variamente legittimata (inevitabile conseguenza, male minore, provvidenziale disposizione divina) come derivata dal peccato originale e dai peccati personali degli uomini, inclusi crimini, guerre e ingiustizie sociali; ritenuta appropriata e legittima non sul piano giuridico del diritto naturale (assoluto, originale e voluto da Dio), ma su quello del diritto delle genti (relativo, contingente e voluto dagli uomini). Questa convinzione cristiana ha segnato un radicale distacco dalla concezione classica sintetizzata da Aristotele, il quale intendeva la schiavitù (con la considerazione dello schiavo come un mero «strumento animato») come logica e naturale. Circa la servitù giusta può essere utile precisare che, pur con le debite differenze storicamente contingenti, a livello assoluto e teoretico anche le società contemporanee presentano istituzioni affini: la privazione di libertà dei criminali, eventualmente da impiegare in lavori forzati; la riduzione in prigionia di aggressori e nemici esterni alla nazione; la sottoscrizione di un contratto lavorativo a tempo indeterminato, dove il «padrone» fornisce mezzi di produzione per il mantenimento dei sottoposti.

In entrambi i casi (schiavitù ingiusta e servitù giusta), l’insegnamento cattolico ha frequentemente esortato i sottoposti all’accettazione della condizione acquisita, i superiori al trattamento fraterno e non violento dei sottoposti, e ripetutamente valorizzato la meritoria azione di liberazione. Se non si riconosce questa distinzione tra schiavitù ingiusta e servitù giusta, non si capisce come mai in molti concili e autori sono presenti riflessioni e disposizioni al contempo sia favorevoli che contrarie alla servitù: ad esempio Agostino, Gregorio Magno, Tommaso, e i papi Alessandro III, Callisto III, Sisto IV, Paolo III, Pio V, Urbano VIII, Innocenzo XI, Pio VI, Pio IX.

Questa conclusione lascia spazio a due domande non indifferenti, per le quali un’esaustiva risposta meriterebbe molte altre pagine di discussione.
Prima domanda: se il cristianesimo ha considerato ingiusto l’asservimento di persone innocenti sulla base dei principi della comune natura e originaria libertà, perché anche l’Islam (che condivide gli stessi principi) non è riuscito a produrre simili anticorpi teorici contro la schiavitù? Nello specifico, perché per secoli truppe e flotte islamiche hanno liberamente razziato e asservito pagani e cristiani, mentre i tentativi opposti da parte di potenze cristiane sono andati incontro a (fattivamente inutili) condanne religiose? Perché sono stati presenti dal medioevo istituti di redenzione cattolici che hanno fatto la spola con le coste nordafricane per redimere centinaia di migliaia di cristiani, mentre lo stesso non è avvenuto da parte islamica? Perché sono stati moschetti e fregate occidentali a porre fine alla tratta islamica nell’oceano Indiano, mentre il contrario non è accaduto con la tratta atlantica «cristiana»?

Una possibile risposta. È vero che le tre religioni monoteiste condividono la fede in un unico Creatore, per il quale tutti gli uomini sono naturalmente uguali. È vero anche che per esse la liberazione di uno schiavo è considerata un’azione moralmente meritoria, al pari dell’elemosina ai poveri. Ma è vero soprattutto che ad esempio Gesù, Pietro, Paolo, non possedettero schiavi, né esortarono a farlo per il presente o l’avvenire. Lo stesso non vale per Maometto e per gli insegnamenti contenuti nel Corano, i quali costituiscono l’unico piano normativo legittimo: la legge islamica (sharī’a) ha valore sia religioso che civile, è impensabile una scissione (come per la tradizione cristiana) tra diritto naturale e diritto positivo.

Seconda domanda: se il cattolicesimo ha continuamente riprovato la schiavitù ingiusta, cioè tratta, deportazione e asservimento di uomini donne e bambini innocenti, come mai in epoca moderna questa è stata la fisiologica costante dei possedimenti oltremare delle potenze cattoliche, nello specifico la nuova Spagna e soprattutto il Brasile portoghese?

Il motivo può essere cercato nelle pressioni per il mantenimento della schiavitù esercitate dalle autorità civili sulla Chiesa, la quale nei secoli è stata di fatto tutt’altro che autonoma e potente. In tal senso possono essere citati tre casi paradigmatici. L’anglosassone concilio di Berkhamsted (697), unico pronunciamento ecclesiale nel quale viene accettata (non legittimata, né esortata) la tratta -cioè che un servo sia rapito e rivenduto o venduto oltremare-, precisa che questa prassi «piacerà al re» (regi placuerit). Espressione anomala nei pronunciamenti conciliari: quando in essi viene citata un’auctoritas si legge piuttosto «in questo sacrosanto concilio decretiamo e stabiliamo che…», o simili. Quasi a dire che quei vescovi legittimarono la tratta schiavista, ma obtorto collo e a compiacimento del re. Ancora, nella Roma rinascimentale, che aveva da poco patito il «protestante» sacco del 1527, papa Paolo III con la Pastorale officium (1537) condannava con scomunica la schiavitù degli amerindi. Condanna che lo stesso papa dovette revocare l’anno seguente (Non indecens videtur, 1538) per la protesta dello spagnolo Carlo I.

Dello stesso papa, che evidentemente non era padrone neanche in casa sua, va ricordato il decreto di liberazione degli schiavi dell’urbe (Novimus quod, 1535), che fu poi costretto a ritrattare (1548) per le pressioni dei conservatori (governatori). Rodney Stark così commenta le ripetute e inconcludenti condanne: «Ciò dimostra chiaramente la debolezza dell’autorità papale in quell’epoca, non l’indifferenza della Chiesa di fronte al peccato della schiavitù». Le pressioni esercitate sui papi, che promulgarono comunque ripetuti divieti e ricorrenti condanne anche con scomunica, dovevano essere molto più forti ed efficaci sui vescovi locali che dovevano applicare tali provvedimenti, questo perché per secoli nella nomina e nel mantenimento della carica dei pastori locali un ruolo preponderante era giocato dai regnanti e dalle autorità civili (cf. la quarta delle piaghe della Chiesa descritte da Rosmini). Così i vescovi furono più attenti alle pressioni di latifondisti, fazendeiros terrieri e governatori locali, invece che alle condanne teologiche e morali del lontano vescovo di Roma. Non a caso, nel nuovo mondo i più fermi avversari di schiavitù e tratta non furono chierici diocesani ma esponenti di ordini religiosi, in primis domenicani (come Bartolomeo de las Casas) e gesuiti, legati in misura minore alle logiche secolari.


Qui l’articolo originale: Aleteia.org



 

[Modificato da Caterina63 18/05/2017 11:04]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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