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Lettera ai Galati di Don Pedron Lino

Ultimo Aggiornamento: 14/10/2017 14:43
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14/10/2017 13:17
 
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v.11. L’incidente di Antiochia rappresenta un’ulteriore componente dell’argomentazione con la quale Paolo mostra che il suo vangelo non proviene "da uomo". In che cosa consisterebbe di fatto l’ "opporsi in faccia" risulta solo dal v. 14: di fronte alla comunità radunata, Paolo chiede severamente conto a Pietro del suo comportamento. E la colpa di Pietro consiste non solo nel timore e nella vile ipocrisia, ma anche nel pericolo che, per effetto del suo singolare comportamento, Pietro minaccia l’unità della comunità, e particolarmente nella sua incoerenza teologica, come Paolo gli fa notare. Paolo ha visto nella condotta di Pietro non tanto un attacco contro di sé, ma contro la verità del vangelo, un attacco al quale bisognava opporsi.


v. 12. Ogni comunione di mensa con i pagani era, per giudei e giudeocristiani di stretta ortodossia, un orrore (At 11,3). Anche Pietro in principio pensava così, finchè Dio non gli cambiò la mente (At 10). Comunque, in Antiochia egli sedeva a mensa con gli etnicocristiani senza farsi problema "prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo". È Giacomo che li ha mandati? Oppure sono arrivati da Gerusalemme alcuni giudeocristiani senza alcun incarico da parte di Giacomo? Stando al testo non si può prendere nessuna decisione a proposito. Paolo afferma semplicemente il fatto del loro arrivo e le conseguenze che esso provocò nella comunità di Antiochia. Molti esegeti sostengono che questi giudeocristiani furono mandati effettivamente da Giacomo ad Antiochia per compiere un’ispezione sui giudeocristiani, sui quali Giacomo, fratello del Signore, pretendeva di esercitare una giurisdizione. Ciò spiegherebbe anche il timore di Pietro nei confronti di questi ispettori. Paolo non si mette neanche a discutere con costoro, ma con Pietro perché costui per Paolo non è un uomo qualunque, ma l’uomo al quale spettano le ultime decisioni.


I giudeocristiani provenienti da Gerusalemme hanno una rigorosa mentalità legalistica e non possono concepire che si possa andare a tavola coi pagani, anche se questi - come essi stessi - sono diventati cristiani. Perciò si scandalizzano di una tale comunione di mensa in Antiochia; a quanto pare, per questo motivo, rivolgono rimproveri particolarmente aspri a Pietro e questi perde coraggio e si tira indietro. Il timore di Pietro si inquadra bene con il suo carattere (processo di Gesù); esso è espressione della sua viltà e della sua propensione a lasciarsi influenzare.


v. 13. Paolo giudica la condotta di Pietro una "ipocrisia", come risulta dall’osservazione: "Essi simularono insieme a lui". Probabilmente upòkrisis, ipocrisia, vuole semplicemente caratterizzare l’incoerenza del comportamento di Pietro. L’ipocrisia di Pietro si deve interpretare in base al v. 16, ossia a partire dalla migliore "conoscenza" di cui Pietro certamente dispone: come cristiano, egli "sa" precisamente che l’uomo viene giustificato dalla fede e non dalle opere della legge (At 10, 43-48). Quindi egli agisce contro la sua coscienza. Dunque il rimprovero di ipocrisia non riguarda il comportamento tattico di Pietro, ma la sua condotta teologica. Il peggio però fu che anche Barnaba, il coraggioso compagno di lotta di Paolo a Gerusalemme, cominciò a cedere e "si lasciò trascinare dalla loro simulazione"; e probabilmente questo improvviso voltafaccia di Barnaba colpì personalmente Paolo ancor più di quello di Pietro.


v. 14. Paolo vede subito che Pietro, Barnaba e gli altri "non camminano diritto per ciò che riguarda la verità del vangelo". Contro la loro migliore convinzione tentano di conseguire la verità del vangelo per vie traverse, facendo un giro attraverso il giudaismo, quindi non per la via diretta che porta a Cristo. La via è determinata dalla meta: essa passa attraverso la fede e non attraverso le opere della legge. Poiché Paolo vede Pietro su una strada sbagliata, che allontana dalla verità del vangelo, gliene chiede conto apertamente in presenza di tutti. "Paolo prende sempre tutta la Chiesa locale come testimone dei suoi interventi personali" (Bonnard). Fino a questo momento, con larghezza di vedute, Pietro ad Antiochia non ha tenuto conto della legge giudaica sui cibi. Ma ora, sotto la pressione dei nuovi arrivati da Gerusalemme egli vive nuovamente alla maniera dei giudei. Così, di fatto, costringe gli etnicocristiani a vivere in modo giudaico se vogliono continuare a mantenere anche esteriormente quella comunione ecclesiale che si manifesta nella comunione di mensa. La discussione teologica, alla quale Paolo passa al v.15, sia pure formalmente è indirizzata a Pietro, ma in realtà si rivolge già ai destinatari della lettera, i quali sono proprio personalmente interessati al tema di questa esposizione.


Paolo dimostra le conseguenze teologiche del vivere in modo giudaico: esso annulla il vangelo, perché ripropone nuovamente la speranza della salvezza nelle opere della legge, cosa che adesso anche i Galati vogliono fare.


vv. 15-16. Paolo parte da un fatto innegabile: esistono anche giudei che credono in Gesù Cristo: lui stesso, Pietro, Barnaba... Essi dovettero pur aver un motivo quando si fecero cristiani credenti; e il motivo è questo: essi "sanno" che la giustificazione dell’uomo si ha mediante la fede in Gesù Cristo, e non con l’adempimento delle opere della legge. Che cosa si intende precisamente con queste "opere della legge" che non procurano la giustificazione? Considerato il contesto di Gal 2,16 si pensa alle opere connesse con il modo di vivere giudaico, prima di tutte la prescrizione sui cibi. Ma dagli altri passi della lettera (3,2. 5.10) si ricava che come "opere della legge" non si vuole indicare soltanto le prescrizioni rituali del giudaismo, compresa la circoncisione, ma le "opere" dell’uomo deducibili dalla totalità della legge, dalla Torà. Questa constatazione è confermata dalla Lettera ai Romani (3,20.27-28; 4,2; 9,11-12. 31-32: 11,6).


La giustificazione avviene per fede; ciò è valido per sempre e, secondo l’esegesi scritturistica di Paolo, è già stato valido da sempre come mostra l’esempio di Abramo (Gal 3,6-12; Rm 4, 2-3. 23-24). Al posto del principio della legge, che comunque non portava alla giustificazione (Gal 3,11-12), subentra il principio della fede. La fede è la risposta appropriata a una concreta offerta di grazia da parte di Dio. La fede giustificante ha il suo fondamento oggettivo in quell’evento salvifico che è inscindibilmente congiunto con la persona e l’opera redentrice di Gesù Cristo; essa per ciò non è una fede qualsiasi, ma "fede in Gesù Cristo". Quindi la fede della giustificazione non è neppure semplicemente - per quanto sia già gran cosa - fiducia nella bontà di Dio. La via della giustificazione dai peccati e del loro perdono da parte di Dio, per i giudei passa attraverso "le opere della legge". Al contrario, per Paolo la via della salvezza non passa più per le opere della legge, ma esclusivamente attraverso la fede in Gesù Cristo. Cristo è subentrato al posto della legge. L’appropriazione della salvezza non si compie più mediante le opere della legge, ma soltanto per mezzo della fede nel Cristo morto e risorto. In questa prospettiva "la legge è stata il nostro pedagogo fino all’arrivo di Cristo" (3,24). Ma chi viene giustificato dalla fede? La risposta di Paolo è chiara: l’uomo, ogni uomo senza eccezione; che sia giudeo o pagano non fa differenza.


Paolo continua il suo discorso: Anche noi giudeocristiani, benché per nascita fossimo giudei e dapprincipio ci aspettassimo la salvezza dalla legge, ci siamo tuttavia decisi a scegliere la fede in Cristo proprio perché noi siamo giunti alla convinzione che la giustificazione non proviene dalla legge, ma dalla fede in Cristo. "Noi diventammo credenti in Gesù Cristo": con ciò l’apostolo indica la specificità dalla quale tutto dipende e che distingue la fede cristiana da quella giudaica. Dunque la conversione dei giudei al vangelo ha questo scopo: "essere giustificati dalla fede in Cristo" .


v. 17. Il versetto presenta difficoltà di interpretazione. Se adesso Pietro e gli altri giudeocristiani si ritirano dalla comunione di mensa con gli etnicocristiani ciò suscita facilmente l’impressione che con questa comunione di mensa abbiano agito contro la loro coscienza, compiendo qualcosa di male. E tuttavia sono loro stessi convinti che la giustificazione si deve ricercare solo in Cristo e non nelle prescrizioni rituali del giudaismo riguardanti i cibi. Essi vivevano in Antiochia secondo le norme dei pagani (v. 14). Se ora convertendosi di nuovo alla legge giudaica sono nel vero, la conseguenza non può essere che questa: con il loro sforzo di cercare la giustificazione in Cristo, e non nelle opere della legge, sono diventati anch’essi peccatori come i pagani che non hanno la legge. E allora si pone la domanda che è tutta un rimprovero: Cristo sarebbe dunque un complice del peccato, sarebbe al servizio del peccato? "Nonsia mai!".


v. 18. Il versetto spiega perché chi tornasse a condurre una vita secondo la legge, per ciò stesso si qualificherebbe da sé come un "trasgressore" della Torà e quindi come un pagano senza la legge. Con i termini contrapposti demolire - ricostruire, Paolo sembra riprodurre un’espressione rabbinica. Dietro l’aggettivo indeterminato "queste cose" si nasconde la concezione della legge come parete divisoria, che nell’opinione giudaica separa i giudei dai pagani. Pietro ha abbattuto questa parete divisoria quando praticava la comunione di mensa con gli etnicocristiani, adesso comincia di nuovo a ricostruirla. Se lo fa, vuol dire che egli stesso giudica la sua precedente comunione di mensa con gli etnicocristiani come qualcosa di peccaminoso, e così si classifica spontaneamente come un trasgressore della legge.


v. 19. Paolo propone un’idea del tutto nuova e a prima vista incomprensibile: "Mediante la legge sono morto per la legge". Il pensiero potrebbe essere più chiaro se dicesse: "Mediante la fede e il battesimo sono morto alla legge"; ma questo complemento non c’è. Il commento teologico a Gal 2,19 si trova in Rm 7,1-6, specialmente nel v. 6. La legge, benché fosse per sua natura una forza vitale (Gal 3,12) e santa (Rm 7,12), di fatto è diventata una potenza di morte (Rm 7,10). Alla legge è stata congiunta da Dio la promessa della vita, ma ciò vale solo per colui che l’adempie (Gal 3,12). Chi non l’adempie è votato alla sua maledizione apportatrice di morte. E, in realtà, secondo Paolo nessuno è in grado di adempiere le rigide esigenze della legge. Perciò tutti "per mezzo della legge" sono vittime della morte, "morti". Da Dio stesso con la legge è stata offerta all’uomo la possibilità della vita o della morte: "Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male" (Dt 30,15). All’uomo la scelta: se adempie la legge, ha la vita dinanzi a Dio; se la trasgredisce, incorre nella maledizione mortifera della legge. E Paolo non ha esitazioni nel constatare la morte dell’uomo "ad opera della legge"! Ma come può aggiungere: "affinché io viva per Dio"? Gli enunciati di questo verso sono troppo concisi e non esplicano sufficientemente la teologia che sottintendono. Solo conoscendo la teologia complessiva delle Lettere ai Romani e ai Galati, si può comprendere la connessione concettuale fra questo "essere crocifisso con Cristo" e il "morire a discapito della legge". Dietro l’espressione "io sono crocifisso con Cristo" si nasconde un punto capitale della teologia battesimale di Paolo, secondo cui il battesimo è un misterioso morire con Cristo (Rm 6,3-9; Col 2,12; 2Cor 6,9). Per Paolo nel battesimo non ci si ferma al morire con Cristo, ma contemporaneamente è un venire risuscitati con lui a una vita nuova. In Cristo il battezzato ha ricevuto un nuovo Signore, che è subentrato al posto della legge (Rm 7,1-6). Allora, se è vero che noi siamo stati sospinti nella morte dalla legge, il morire fu però un morire insieme a Cristo, il Vivente, cosicché ora noi viviamo "per Dio". La legge non può più avanzare alcuna pretesa su di noi; la sua maledizione mortifera è stata abolita da Cristo (Gal 3,13). Da Cristo è stata creata una situazione di salvezza completamente nuova, con la quale è eliminata una volta per tutte l’antica situazione di morte, nella quale ci trovavamo mentre imperava la legge.


Veramente, secondo l’Antico Testamento il fine della legge era "una vita per Dio" ma, data la debolezza della carne e la peccaminosità dell’uomo da essa provocata, questo fine non veniva raggiunto. Ora invece, grazie alla morte in comunione con Cristo, esso deve e può essere raggiunto. Come fa capire l’espressione "affinché io viva per Dio", questa vita nuova è intesa anzitutto in senso etico, cioè essa si manifesta esistenzialmente nell’obbedienza all’imperativo divino (Rm 6,2.4.11 ss.; 7,4; 2Cor 5,15; 1Tm 6,18-19). È vero che chi è morto alla legge non è più tenuto a compiere le opere della legge, ma non è neppure abbandonato al libertinismo pagano e alla mancanza di legge dei pagani, ma ora è più che mai obbligato a vivere per Dio, perché Cristo vive in lui. Di ciò si tratta nel v. seguente.


v. 20. Il verbo "vivere" del v.19 ha fornito all’apostolo uno spunto decisivo, che dà origine a quattro frasi contenenti il medesimo termine. Da Cristo oramai è stato inaugurato l’eone nuovo, escatologico, che pone fine all’eone antico, contraddistinto dalla legge. Dunque la dichiarazione "Cristo vive in me" ha un senso ontologico ed escatologico. Per il fatto che Cristo, fondatore e fondamento del nuovo eone, vive nel battezzato, questi vive davvero nel futuro salvifico, già iniziato, della signoria di Cristo e quindi è sottratto all’eone della legge. Sennonché questa "esistenza in Cristo" del battezzato ha una sua particolare proprietà: per adesso è ancora un’esistenza "nella carne". Ma benché il battezzato "adesso" viva ancora "nella carne" e perciò diretto alla morte fisica, egli tuttavia "vive nella fede" del Figlio di Dio. "Nella carne" e "nella fede" richiamano le condizioni esistenziali tuttora esistenti: io sono ancora "nella carne" e non vivo ancora nella contemplazione, ma "nella fede". E la fede nella quale vivo non è una fede generica, ma precisamente fede "nel Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me". Poiché il Figlio di Dio mi ha amato e si è sacrificato per me, la mia esistenza carnale è un’esistenza di piena fiducia e di ferma speranza. Cristo non mi abbandonerà alla sorte che tocca all’esistere nella carne, a quell’essere fisicamente votato alla morte, ma farà sì che la mia vita vera - ricevuta nel battesimo e per il momento nascosta con Cristo in Dio (Col 3,3) - abbia il sopravvento definitivo sulla morte. La vita trascorsa nella fede è sicuramente un’esistenza provvisoria, ma con la certezza che il Cristo vivente in me e morto per me vincerà il mio destino di morte congiunto all’esistenza nella carne (Rm 7,24; 8). Mentre l’esistenza "nella carne" destina alla caducità e alla morte, l’esistenza "nella fede" indirizza al futuro di Dio. "La fede, infatti, è anticipazione del futuro" (Bisping).


v. 21. "Non invalido la grazia". La grazia è il fatto che Cristo ha dato se stesso per me. Il Figlio di Dio è andato alla morte "per me", cioè al mio posto e in mio favore. Questo è un avvenimento di grazia perché io fui graziato e ricevetti la vita di Cristo, senza la legge, ma per puro amore di Dio verso di me. Perciò qui chàris assume il significato di "ordinamento di grazia" che si contrappone ad un altro ordinamento, al sistema della legge. Con questo versetto Paolo propone un aut-aut: o la legge o il vangelo! E che il divino ordinamento della grazia sia concepito in contrasto con la legge risulta chiaro dal seguito dello scritto: "Infatti se la giustizia proviene dalla legge, allora Cristo è morto invano". Paolo afferma che la salvezza escatologica, la giustificazione viene soltanto dal Cristo morto e risorto. E la via che conduce ad essa è la via della fede. "L’antica possibilità di connessione con la legge, che pone il giudeo di fronte a Dio e che si realizza nell’adempimento dei precetti, è abolita coll’"in Cristo", ossia è sostituita da una nuova, più stretta connessione, che concede agli uomini di partecipare di Dio mediante suo Figlio, apparso nella carne. Il nuovo principio di questa partecipazione è la fede, che per il cristiano ha abrogato il vecchio principio della legge, che collegava il giudeo a Dio" (Schoeps). Secondo Paolo la legge era in funzione e preparazione alla nuova alleanza che Dio avrebbe fatto attraverso il suo Messia. Ora il Messia è venuto e quindi la legge ha adempiuto la sua funzione "che indirizzava al di là di se stessa" ossia al Cristo. "La legge è stata il nostro pedagogo finché non fosse venuto il Cristo, affinché fossimo giustificati dalla fede" (Gal 3,24). La legge come via di salvezza è superata dalla morte vicaria ed espiatrice di Cristo. Altrimenti Cristo sarebbe morto invano; la sua venuta nel mondo e la sua morte sarebbero state superflue. A dire il vero anche i giudeocristiani, o più esattamente i giudaisti cristiani, non negavano la portata salvifica della morte di Cristo. Però vedevano il rapporto legge-Cristo diversamente da Paolo. Anche secondo loro "Cristo morì per i nostri peccati", perché noi non abbiamo soddisfatto le esigenze della legge e anche in futuro più volte non le soddisferemo. Proprio per questo, Cristo con la sua morte espia. Ma a loro giudizio ciò non significa che per questa ragione la legge sia messa fuori gioco; anche in seguito la Torà continuerà a sussistere in tutta la sua completezza e validità. Per chi si sottrae alle sue esigenze, anzi la dichiara nulla, anche la morte di Cristo non ha un’importanza salvifica. Così i "giudaisti" fra i giudeocristiani cercavano di prendere sul serio e l’una e l’altra cosa: la Torà con il suo permanente valore e, insieme, la croce di Cristo. Paolo invece vede diversamente la relazione tra legge e Cristo, tra il dominio della legge e il dominio della grazia. Egli è convinto che con la risurrezione di Cristo è già cominciato il futuro eone della vita eterna. La conseguenza per Paolo è che così ha avuto inizio anche un nuovo ordinamento di salvezza con una nuova via di salvezza: il tempo in cui tutto è regolato dalla grazia di Dio, in cui la giustificazione dell’uomo avviene "per fede" e non più per le opere della legge. Quindi, nel pensiero di Paolo Cristo segna l’autentica cesura della storia: ciò che stava prima di lui è l’eone antico, contrassegnato dal potere della legge che conduce alla morte; ciò che comincia con lui è l’eone avvenire, nuovo, nel quale viene concesso ai credenti mediante il battesimo e la fede il dono escatologico della vita, e così è già completamente infranto il dominio della morte esercitato dalla legge. Per Paolo, Cristo è "la fine della legge per chiunque crede" (Rm 10,4). A questo riguardo vogliamo ricordare che Paolo ha elaborato la sua teologia della legge non contro il giudaismo, ma contro i suoi avversari "giudaisti" cristiani. In Galati egli lotta contro un falso vangelo cristiano.


 


2.2
Il vangelo di Paolo non è secondo il gusto degli uomini, ma secondo la Scrittura
(3,1-6,10)

Nella grande sezione 1,13-2,21 l’apostolo ha potuto fornire la prova che egli non ha ricevuto il suo vangelo per la mediazione di uomini. Ma ora sembra che un altro grave rimprovero dei suoi avversari sia questo: il suo vangelo è "secondo il gusto degli uomini"; evidentemente una vita libera dalla legge non potrebbe essere che estremamente gradita agli uomini! L’apostolo risponde che il suo vangelo, e quindi la via della salvezza della fede "senza le opere della legge", è secondo la Scrittura. Se così è, allora un opporsi al vangelo libero dalla legge, o un sospettare di esso, è disobbedienza contro la volontà salvifica di Dio, già da lungo tempo rivelata dalla Scrittura.

Secondo la Scrittura la vera e propria via di salvezza è quella della fede e non quella delle opere della legge.

a) Un appello all’esperienza cristiana dei Galati (3,1-5)

1O stolti Gàlati, chi mai vi ha ammaliati, proprio voi agli occhi dei quali fu rappresentato al vivo Gesù Cristo crocifisso? 2Questo solo io vorrei sapere da voi: è per le opere della legge che avete ricevuto lo Spirito o per aver creduto alla predicazione? 3Siete così privi d’intelligenza che, dopo aver incominciato con lo Spirito, ora volete finire con la carne? 4Tante esperienze le avete fatte invano? Se almeno fosse invano! 5Colui che dunque vi concede lo Spirito e opera portenti in mezzo a voi, lo fa grazie alle opere della legge o perché avete creduto alla predicazione?

I Galati stanno per fare esattamente il contrario di quello che l’apostolo vorrebbe: essi aboliscono l’ordinamento della grazia di Dio, cercando la giustificazione "mediante la legge". La tecnica particolare dell’interrogazione dell’apostolo ha in sé qualcosa di provocante. Queste domande vogliono essere un richiamo all’esperienza cristiana dei Galati.

vv. 1-2. Se i Galati sono apostrofati come anòetoi, insensati, con ciò viene loro attribuita non una scarsa intelligenza, ma una mancanza di discernimento per ciò che concerne l’essenza del vangelo e quindi del cristianesimo."Chi vi ha stregati?" Ciò che induce i Galati a deviare verso il giudaismo è, secondo Paolo, causato da qualche cosa che supera un’arte di persuasione umana, da una potenza demoniaca che l’apostolo lascia indeterminata.

Per l’apostolo l’intento dei Galati è così incomprensibile, che gli fa l’effetto di un incantesimo demoniaco. Egli vuole sapere da essi solo questo: in base a che cosa i Galati hanno ricevuto lo Spirito? In virtù delle opere della legge oppure per l’accettazione obbediente della predicazione della fede? Essi hanno ricevuto lo Spirito per l’accettazione obbediente della predicazione della fede. Nella chiesa primitiva il ricevimento dello Spirito andava congiunto con effetti carismatici e prodigi. Che i Galati possiedano questa esperienza dello Spirito, l’apostolo lo fa supporre nella seconda domanda rivolta loro.

v. 3. La parola "carne" indica il comportamento autosufficiente dell’uomo, il quale si fida delle proprie capacità e di ciò che ha a disposizione. Questa errata fiducia si acquista nel compiere le opere della legge che possono istigare a far valere la propria giustizia, mentre per il cristiano la vera giustizia, la giustizia di Dio, è un puro dono della grazia, proveniente dalla fede. Paolo invita gli insensati Galati perché abbandonino la via delle opere della legge per tornare a quella dello Spirito.

v. 4. Le grandi cose che i Galati hanno sperimentato sono il dono dello Spirito e i prodigi ad esso connessi. Ma non può essere che si ricevano invano cose così grandi? Paolo spera che i Galati non abbiano ricevuto inutilmente il dono dello Spirito e che i suoi inviti contenuti nelle domande raggiungano ancora il loro scopo presso di loro.

v. 5. Paolo esprime di nuovo il suo pensiero con una domanda: Dio vi ha consegnato lo Spirito con tutti i suoi doni in base alle opere della legge o in virtù dell’ascolto obbediente del messaggio della fede? La risposta c’è. E questa volta non è quella dei Galati e neppure quella di Paolo, ma quella della Scrittura.

b) L’affermazione della Scrittura (3,6-18)

6Fu così che Abramo ebbe fede in Dio e gli fu accreditato come giustizia. 7Sappiate dunque che figli di Abramo sono quelli che vengono dalla fede. 8E la Scrittura, prevedendo che Dio avrebbe giustificato i pagani per la fede, preannunziò ad Abramo questo lieto annunzio: In te saranno benedette tutte le genti. 9Di conseguenza, quelli che hanno la fede vengono benedetti insieme ad Abramo che credette. 10Quelli invece che si richiamano alle opere della legge, stanno sotto la maledizione, poiché sta scritto: Maledetto chiunque non rimane fedele a tutte le cose scritte nel libro della legge per praticarle. 11E che nessuno possa giustificarsi davanti a Dio per la legge risulta dal fatto che il giusto vivrà in virtù della fede. 12Ora la legge non si basa sulla fede; al contrario dice che chi praticherà queste cose, vivrà per esse. 13Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno, 14perché in Cristo Gesù la benedizione di Abramo passasse alle genti e noi ricevessimo la promessa dello Spirito mediante la fede. 15Fratelli, ecco, vi faccio un esempio comune: un testamento legittimo, pur essendo solo un atto umano, nessuno lo dichiara nullo o vi aggiunge qualche cosa. 16Ora è appunto ad Abramo e alla sua discendenza che furon fatte le promesse. Non dice la Scrittura: «e ai tuoi discendenti», come se si trattasse di molti, ma e alla tua discendenza, come a uno solo, cioè Cristo. 17Ora io dico: un testamento stabilito in precedenza da Dio stesso, non può dichiararlo nullo una legge che è venuta quattrocentotrenta anni dopo, annullando così la promessa. 18Se infatti l’eredità si ottenesse in base alla legge, non sarebbe più in base alla promessa; Dio invece concesse il suo favore ad Abramo mediante la promessa.

Paolo è nato giudeo ed è stato istruito nel rabbinismo. Perciò conosce l’autorità divina della Scrittura e ha una buona padronanza delle regole dell’esegesi dei rabbini, soprattutto di quelle che essi applicavano per combinare tra loro i passi della Scrittura, così da ottenere una prova scritturistica. Egli vede tracciata nella Scrittura la via di Dio, specialmente le sue promesse di salvezza per il futuro messianico. Tutta la Scrittura punta sul Messia che, in base alla convinzione di fede di Paolo, è Gesù Cristo. Da questo punto di arrivo, che è Cristo, egli comprende il senso delle dichiarazioni e delle promesse dell’Antico Testamento. Paolo prende l’esempio di Abramo, che gli sta tanto a cuore, e mediante tale esempio egli fonda la sua teologia della giustificazione partendo dalla Scrittura e dimostra che, secondo la Scrittura, la giustificazione proviene dalla fede e non dalle opere della legge. In questo modo viene stabilito anche il collegamento con quanto è stato detto in precedenza. "Abramo" è la parola caratteristica che dà coesione all’intera pericope. In questa sezione essa ricorre sette volte e fa da inclusione di tutto il brano. Abramo è il primo ebreo e padre di tutti gli ebrei. Perciò, se l’apostolo riesce a dimostrare dalla Scrittura che Abramo è padre di tutti i credenti (Rm 4,11) egli può proporre un fondamento scritturistico convincente per la sua teologia della fede. Inoltre già all’interno dell’Antico Testamento Abramo viene designato anche come "il grande padre di molti popoli" (Sir 44,19).

v. 6. Paolo dice ai Galati: quanto alla situazione della vostra salvezza, le cose stanno come ad Abramo: egli credette a Dio; e quindi voi venite giustificati dalla fede perché secondo la Scrittura fu così anche per Abramo, come afferma Gen 15,6. Nel racconto della Genesi la fede di Abramo è un atto di fiducia, un acconsentire ai piani di Dio nella storia, un lasciar mano libera al potere di Dio. Ma che cosa significa l’espressione "gli fu computato come giustizia"? Il termine ebraico corrispondente a "computare, ascrivere" è hashàb ed è espressione di un atto mentale, di giudizio. Se dunque Dio computa a giustizia ad Abramo la sua fede, egli - secondo Gen 15,6 - emette su di lui il giudizio: Abramo è giusto, si trova nel debito rapporto di comunione con me. Egli viene dichiarato giusto al cospetto di Jahvè. Non è l’adempimento di precetti, ma la fede, e soltanto la fede, che viene computata ad Abramo come giustizia, che cioè lo fa dichiarare un uomo giusto. Questo "dichiarare giusto" è un giudizio di Dio su Abramo, che la Scrittura constata. Tale constatazione della Scrittura è per Paolo estremamente importante; con Gen 15,6 egli ottiene un principio teologico basilare di prim’ordine. Come Abramo - secondo Gen 15,6 - fu giustificato "per la fede", così anche i Galati; anch’essi ricevettero lo Spirito per la loro obbedienza di fede e non in base alle opere della legge.

v. 7. Quindi i Galati devono trarre una conclusione da questo giudizio della Scrittura. Quelli della fede sono figli di Abramo e non quelli della legge; sono quelli della fede la discendenza innumerevole che Dio promise ad Abramo e non quelli nati dalla sua carne. Secondo Rm 4,17 questa fede di Abramo è una fede nel Dio che risuscita i morti e chiama ad esistere ciò che non è, e di conseguenza una fede nella potenza creatrice di Dio che infrange e supera ogni misura naturale. È la fede nel Dio del miracolo! Secondo Paolo tale è anche la fede del cristiano; questi infatti crede nel Dio che ha risuscitato dai morti Cristo e che, benché siamo peccatori, risuscita dai morti assieme a Cristo anche noi. Questa è la fede nel Dio di una nuova creazione, e si basa proprio sulla sua parola. Nel caso di Abramo si tratta di una precisa parola di promessa; per i cristiani è il vangelo, che viene loro annunciato. Quelli che credono alla maniera di Abramo sono figli di Abramo.

v. 8. La promessa di Dio che consiste nel dono dello Spirito (v. 2) viene data da Dio anche ai pagani: "In te saranno benedetti tutti i popoli". La Scrittura ha previsto che Dio giustifica i pagani per mezzo della fede. La previsione della Scrittura equivale a una decisione divina anticipata, che adesso raggiunge il suo scopo.

v. 9. Tutti i popoli della terra sono benedetti insieme ad Abramo. È ben difficile che un ebreo possa accettare la "logica" di Paolo. Perché soltanto la via della fede dovrebbe condurre alla giustificazione e non le opere della legge disposte da Dio? Nei vv. seguenti Paolo risponde a questa domanda. Sennonché il concatenamento dei suoi pensieri è un po’ sconnesso, e ciò provoca delle difficoltà nell’esegesi.

v. 10. Tutti gli uomini che vivono di fede sono benedetti da Dio, mentre tutti gli uomini che vivono delle opere della legge sottostanno a una maledizione. Ma l’apostolo non procede con argomenti logici convincenti, ma deduce la prova della sua affermazione dalla Scrittura: "Infatti sta scritto: Maledetto chiunque non si attiene a tutto ciò che sta scritto nel libro della legge per adempierlo" (Dt 27,26). Per Paolo è incontestabile che tutti coloro che edificano la loro esistenza religiosa sulle opere della legge "sottostanno alla maledizione" perché nessuno era ed è in grado (Rm 3,19-20) di adempiere realmente le rigorose prescrizioni della legge. "Paolo considera il non adempimento della legge nella sua totalità come un dato di fatto e perciò collega senza esitazioni legge e maledizione, come sopra ha collegato fede e benedizione" (Berger). Perciò Dio nella sua bontà ha aperto un’altra via di salvezza per tutti, lasciando però che la maledizione diventi del tutto efficiente, ma non su tutti gli uomini, ma su uno solo: Gesù Cristo, "che per noi è diventato maledizione" (v.13). Paolo è convinto che nessuno ha la capacità di compiere realmente le opere della legge. E per questo motivo bisogna cercare un altro principio di salvezza che è anche conforme alla Scrittura: il principio della fede.

v. 11. Infatti nella Scrittura si legge: "Il giusto vivrà di fede" (Ab 2,4). Paolo introduce nella citazione di Abacuc le sue convinzioni di fede cristiana: per lui la fede è soprattutto fede in Cristo, ingresso nella comunione con Cristo, addirittura un "essere in Cristo". Perciò l’ebreo non accetterà da lui la sua esegesi. Anche nell’esegesi di Qumran il "giusto" di Ab 2,4 è "l’esecutore della legge" e la sua fedeltà riguarda la fedeltà verso Jahvè. Ma per Paolo Ab 2,4 rientra senza dubbio nelle prove scritturistiche più importanti della sua teologia della fede (Rm 1,17) e per lui è un fatto evidente "che per mezzo della legge nessuno viene giustificato presso Dio". Dicendo questo, Paolo non pensa semplicemente ai giudei, ma all’umanità intera. La giustificazione si ottiene, come insegna la Scrittura, soltanto in virtù della fede. Il principio della fede però non ha nulla a vedere col principio della legge, come spiega il seguente v.12.

v. 12. Infatti la legge si basa sul principio del fare, dell’adempimento. La Scrittura stessa dice: "Colui che segue le mie leggi e i miei comandi, ha per essi la vita" (Lv 18,5). Ciò rimane convinzione ovvia di tutto il giudaismo (Ez 20,11.13.15. 21; Sir 17,11; Bar 4,1; Ab 6,7; ecc.). E secondo l’Antico Testamento ovviamente Dio si aspetta che i suoi precetti e regolamenti siano osservati in Israele: dall’obbedienza ad essi dipende la stabilità dell’alleanza: i comandi e le prescrizioni di Dio erano ritenuti facilmente eseguibili. "Se soltanto lo vuoi, tu puoi osservare i comandamenti" (Sir 15,15). Ma Paolo, come i profeti dell’Antico Testamento, conosce il fallimento di Israele e di tutti gli uomini di fronte alle esigenze del Dio santo. Ma poiché l’apostolo sa che l’uomo non adempie le prescrizioni della legge, vale ugualmente per lui l’altra massima della Scrittura, secondo cui tutti sono stati e sono sotto la maledizione fatale della legge, tanto i giudei quanto i pagani. E da ciò nasce il pressante interrogativo circa la salvezza: chi può liberare l’uomo da questa maledizione mortale? Lui stesso con uno sforzo personale o un altro, che subentri al suo posto? A questa domanda Paolo risponde nel v. seguente.

v. 13. La risposta dell’apostolo è: "Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge", che comportava la nostra morte. Egli lo fece, diventando lui stesso maledizione al nostro posto. Con la sua morte espiatrice Cristo, prendendo sostitutivamente su di sé la maledizione mortale della legge che gravava su di noi, divenne una maledizione, cioè un maledetto, come attesta la Scrittura: "Maledetto chiunque è appeso al legno" (Dt 21,23). Per Paolo, Cristo è colui che fu appeso al legno senza colpa e al posto di altri. Ma a che scopo Cristo divenne per noi maledizione?

v. 14. L’azione redentrice vicaria di Cristo ha un fine salvifico universale. Perciò l’opera redentrice di Cristo può avere solo questo fine: che i pagani ricevano il dono promesso dalla benedizione "mediante la fede". E adesso finalmente ci si può anche rendere conto di ciò che fu accennato in 3,2, cioè che la promessa di benedizione, fatta ad Abramo per i popoli pagani, consiste di fatto nel dono dello Spirito. Questo Spirito era già stato promesso dai profeti per il futuro tempo della salvezza tanto per il Messia (Is 11,2-3) quanto per Israele (Is 32,15; 44, 3; 59,21; Ez 11,19; 36, 26-27; 39,29) e anche per i pagani (Gl 3,1-2). Anzi il dono dello Spirito è la "primizia" (Rm 8,23) o la "caparra" (2 Cor 1,22; 5,5; Ef 1,14) della futura salvezza totale. Usando i due termini "Spirito" e "fede" nel v. 14, Paolo collega le riflessioni teologiche immediatamente precedenti con la tematica fondamentale avviata in 3,1-5 nel suo appello all’esperienza cristiana dei Galati: essi, che provengono dai popoli pagani, a suo tempo hanno ricevuto lo Spirito promesso perché hanno accettato l’annuncio della fede, in conformità alla promessa di salvezza fatta da Dio.

v. 15. L’interesse è rivolto all’eredità escatologica, in virtù della quale i Galati - a causa della loro obbedienza al messaggio della fede - hanno già ricevuto lo Spirito promesso (3, 2.14). La promessa della Scrittura, che è connessa alla fede, non può essere invalidata dalla legge. Paolo si riferisce a una istituzione vigente nel diritto ebraico per confermare con essa quanto dice la Scrittura. "Perfino il testamento di un uomo, redatto con validità giuridica, nessuno lo invalida o vi aggiunge qualcosa" (v.15). A maggior ragione "un testamento autenticato da Dio, non può essere invalidato dalla legge, che ebbe origine 430 anni dopo" (v. 17).

v. 16. Il testamento di Dio (le sue promesse di benedizione per tutte le famiglie dei popoli) fu fatto ad Abramo e alla sua discendenza. Il discendente vero e proprio di Abramo è il Cristo nel quale la promessa per Abramo diventò realtà per le genti (v.14). Per Paolo e i cristiani Cristo è il detentore escatologico della promessa di benedizione. Nella visuale cristiana il Cristo crocifisso è il vero Isacco (Rm 8, 32), e quindi il seme di Abramo per antonomasia, che diventò il portatore escatologico della promessa di benedizione per le genti.

v. 17. Paolo afferma che la legge del Sinai non invalida il testamento della promessa di Dio. Ma non sarebbe conforme al pensiero di Paolo il vedere per questo nella legge una potenza contraria a Dio. In Rm 7,12 l’apostolo scrive: "La legge di per sé è santa e il comandamento è santo, giusto e buono". Ciò che Paolo vuol dire è che la legislazione del Sinai non è un codicillo integrativo alla promessa e tanto meno il suo annullamento. Ma poiché egli, da cristiano credente nella Bibbia, sa che pure la legge proviene da Dio esattamente come la promessa, deve anche guardarsi da un pericoloso dualismo; e ci riesce, precisando in modo nuovo nei, vv. 19 ss., la mutua relazione tra legge e promessa. In questo versetto Paolo sottolinea che la promessa è stata ratificata prima della legge. Ciò è inteso in senso temporale (430 anni prima); ma poiché nella concezione rabbinica priorità equivale a superiorità, la promessa fatta in precedenza è superiore alla legge data in seguito. Per questo la legge non può annullare la promessa.



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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