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Lettera ai Galati di Don Pedron Lino

Ultimo Aggiornamento: 14/10/2017 14:43
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14/10/2017 13:18
 
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v. 18. L’eredità è in concreto la benedizione che Abramo ha ricevuto da Dio per sé e per i suoi discendenti (3,8): secondo il v.14 questa consiste nello Spirito e, secondo 4,5-7 nella "adozione a figli" connessa alla recezione dello Spirito che Cristo, vero seme-discendente di Abramo, comunica mediante la fede ai credenti, veri figli di Abramo. Ma ora si pone in modo tanto più urgente il problema della vera funzione salvifica della legge. Se questa non è un elemento aggiunto alla promessa e neppure una sorta di "disposizione esecutiva" di essa, che cosa è allora? Paolo risponde continuando il suo discorso sulla linea della Scrittura.


c) La vera funzione salvifica della legge (3,19-4,7)




19Perché allora la legge? Essa fu aggiunta per le trasgressioni, fino alla venuta della discendenza per la quale era stata fatta la promessa, e fu promulgata per mezzo di angeli attraverso un mediatore. 20Ora non si dà mediatore per una sola persona e Dio è uno solo. 21La legge è dunque contro le promesse di Dio? Impossibile! Se infatti fosse stata data una legge capace di conferire la vita, la giustificazione scaturirebbe davvero dalla legge; 22la Scrittura invece ha rinchiuso ogni cosa sotto il peccato, perché ai credenti la promessa venisse data in virtù della fede in Gesù Cristo. 23Prima però che venisse la fede, noi eravamo rinchiusi sotto la custodia della legge, in attesa della fede che doveva essere rivelata. 24Così la legge è per noi come un pedagogo che ci ha condotto a Cristo, perché fossimo giustificati per la fede. 25Ma appena è giunta la fede, noi non siamo più sotto un pedagogo. 26Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, 27poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. 28Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. 29E se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo


1Ecco, io faccio un altro esempio: per tutto il tempo che l’erede è fanciullo, non è per nulla differente da uno schiavo, pure essendo padrone di tutto; 2ma dipende da tutori e amministratori, fino al termine stabilito dal padre. 3Così anche noi quando eravamo fanciulli, eravamo come schiavi degli elementi del mondo. 4Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, 5per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli. 6E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! 7Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio.




Da 3,17 sembrerebbe quasi che si possa dedurre che la legge sia una rivale della "promessa". Ma Paolo dovrebbe rinnegare l’autorità divina della Scrittura se vedesse nella legge una potenza ostile a Dio. Per lui la legge non è né una potenza antidivina, né una concorrente della promessa. In 3,19 ss. Paolo espone dettagliatamente il suo punto di vista circa la legge e la sua vera funzione nella storia della salvezza. La promessa e la legge sono due opere dell’unico Dio.


v. 19. "Perché dunque fu aggiunta la legge?". La legge fu aggiunta a motivo delle trasgressioni; essa ha una funzione rivelatrice: doveva manifestare il peccato come peccato e come trasgressione di un precetto. La legge rende il peccato una trasgressione consapevole (Rm 5,13). Inoltre questa funzione della legge era temporalmente limitata: "fino a che venisse il seme (Cristo) al quale fu fatta la promessa". A questo proposito però il giudeo pensava diversamente: per lui la legge aveva una durata eterna.


"La legge fu promulgata per mezzo di angeli". L’opinione di Paolo è che la legge non fu data a Mosè direttamente da Dio, ma per mezzo di angeli. Questa credenza ricorre anche in At 7,53 (discorso di Stefano): "Voi avete ricevuto la legge per disposizione di angeli, ma non l’avete osservata", e in At 7,38: "Mosè fu mediatore fra l’angelo che gli parlava sul monte Sinai e i nostri padri". La troviamo anche in Eb 2,2: "Se infatti la parola trasmessa per mezzo degli angeli si è dimostrata salda...". Anche Flavio Giuseppe scrive in Ant. 15,5,3 par. 136: "Il meglio delle nostre dottrine e ciò che vi è di più santo nelle nostre leggi noi lo abbiamo appreso per mezzo degli angeli di Dio". In Gal 3,19 Paolo si appropria di tali concezioni per affermare con sicurezza l’inferiorità della legge nei confronti della promessa. "Per mano di un mediatore". In base al contesto (430 anni dopo; cfr. At 7,38), con "mediatore" si intende Mosè e non Cristo come hanno inteso per es. Crisostomo, Girolamo, Tommaso d’Aquino, Lutero, ecc. Perché nell’argomentazione Paolo si serva del concetto di "mediatore" è chiarito dal v. seguente.


v. 20. Questo versetto presenta particolari difficoltà all’esegesi; esso costituisce veramente una crux interpretum. Quando Dio fece la promessa ad Abramo non si servì di un mediatore, ma si mise in rapporto con Abramo direttamente, da persona a persona, come riferisce la Genesi. Gli angeli invece, poiché erano molti, nel trasmettere la legge, non poterono mettersi in rapporto diretto con il partner (il popolo di Israele), ma ebbero bisogno di un mediatore, cioè di Mosè. Quindi la legge, che di fatto fu disposta con l’aiuto di un mediatore, non è superiore alla promessa, ma inferiore ad essa. Nei vv. 19-20 Paolo risolve il problema dimostrando l’inferiorità della legge rispetto alla promessa. Con ciò tuttavia continua a non essere del tutto chiaro se la legge non sia una concorrente o addirittura una controistanza rispetto alla promessa. Paolo se ne avvede, come lascia intendere la domanda formulata con il v. seguente.


v. 21. "Dunque la legge è contro la promessa di Dio?". Paolo risponde: "Assolutamente no!". La legge non può essere una concorrente della promessa perché non è in grado di recare la salvezza. Dio ha dato una legge ed essa doveva veramente procurare la vita a coloro che l’avessero osservata (v.12). Ma in realtà non fu in grado di farlo, non fu capace di dare la vita. Se avesse potuto farlo, "la giustizia proverrebbe davvero dalla legge", e con la giustizia la salvezza escatologica. Tuttavia accadde il contrario, come assicura subito il v. successivo.


v. 22. La legge non poteva dare la vita. "La Scrittura racchiuse tutto sotto il peccato" esprime il giudizio emesso dalla Scrittura: tutti senza eccezione sono peccatori, sia giudei che pagani. In Rm 11,32 l’enunciato è ancora più preciso: ciò che qui è attestato dalla Scrittura, lì è detto di Dio: "Dio ha racchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia!". In questo versetto la Scrittura non si identifica con la legge. La Scrittura è il documento che accerta che le sacre esigenze di Dio, come sono codificate dalla legge, sono state trasgredite da tutti, e così essa constata che tutti sono caduti nel peccato. "Non c’è un giusto, neppure uno; non ce n’é uno che sia saggio, nessuno che cerchi Dio. Tutti si sono sviati, tutti assieme sono diventati inetti. Non ce n’é uno che faccia il bene, nemmeno uno solo" (Sal 14,1-3). Questa rovina generale, messa in luce dalla Scrittura, è per l’apostolo la prova che la legge effettivamente non era in grado di arrecare la vita (v.12). Tutto ciò vale anche per i Galati. Anche il loro dedicarsi alle opere della legge non procura ad essi la vita. Tuttavia questa constatazione negativa, costernante e totalmente disilludente della Scrittura sulla terribile situazione di rovina dell’umanità serve in definitiva a uno scopo di salvezza: "affinché ai credenti la promessa fosse data dalla fede in Gesù Cristo". Con ciò il problema "promessa-legge" che già da 2,16 ha movimentato i ragionamenti dell’apostolo potrebbe dirsi chiuso. Ma Paolo non è ancora soddisfatto. Nel seguito vuole approfondire ancor più la relazione fra legge e adempimento della promessa in Cristo. In quale rapporto stanno reciprocamente la legge e il tempo della fede, già cominciato in Cristo, che comporta l’adempimento della promessa?


vv. 23-25. Paolo parla del "venire" della fede, come nel v. 19 ha parlato del "venire" del discendente di Abramo, Gesù Cristo. "Si tratta del medesimo evento" (Bonnard). Il tempo, apportatore di salvezza del Messia viene qualificato come tempo della fede, che segue il tempo della legge, anzi ne rappresenta l’antitesi. La fede di cui si parla qui è quella in Gesù Cristo, che porta con sé la salvezza e che trasmette ai credenti la benedizione della promessa. "La legge è stata il nostro pedagogo finché non venne Cristo". Nel sistema educativo dell’antichità c’era il pedagogo, cioè uno schiavo che veniva assegnato al bambino, perché lo accompagnasse quando andava per la strada e a scuola, per proteggerlo dai pericoli, insegnargli come doveva comportarsi nelle varie circostanze ed essere di aiuto. Non era suo compito specifico quello di ammaestrare il bambino. Quando il ragazzo diventava maggiorenne, questa attività cessava. Dunque la funzione del pedagogo non consisteva in una vera e propria educazione del bimbo, ma nella sorveglianza e protezione. Per Paolo anche la legge è stata un pedagogo di questo tipo. La fede però non è frutto della legge, ma della rivelazione: essa è determinata dall’operato storico-salvifico di Dio in Cristo, mentre la legge è caratterizzata dalle opere, che non sono in grado di dare la vita. Possiamo parafrasare così il v. 24: "La legge è stata il nostro pedagogo fino alla venuta del Messia e nulla più, affinché noi ottenessimo la giustificazione non dalle opere della legge, ma dalla fede". In Rm 3,31 Paolo scrive: "Ma allora con la fede noi annulliamo la legge? Anzi, confermiamo la legge", ossia le diamo la sua vera validità e importanza nell’ambito della storia della salvezza.


"Affinché fossimo giustificati dalla fede". Il verbo significa essere dichiarato giusto, possedere la giustizia (3,6), la vita (3,21). Quindi la giustificazione non è puramente assoluzione dal peccato, ma nuova creazione dell’uomo, vita di Dio ricevuta per grazia. Il giusto è passato dallo stato di morte a quello di vita. Questa salvezza e trasformazione è già presente nell’uomo e consiste nell’adozione a figli di Dio (v.26). La funzione del pedagogo della legge cessò quando venne la fede in Cristo Gesù (v. 25). Dunque ora i credenti non sono più sotto la legge, ma sotto la grazia (Rm 6,14). Quali conseguenze etiche ne derivino, sarà dettagliatamente esposto da Paolo a partire da 5,13. È l’etica dell’amore e della libertà.


v. 26. Questo v. indica il motivo vero e proprio per cui nel tempo della fede: "non siamo più alle dipendenze di un pedagogo": perché siamo diventati figli di Dio. Paolo lo dice direttamente ai Galati perché stanno per sottomettersi di nuovo alla potestà del "pedagogo". Qui Paolo usa chiaramente il termine "figli" nel senso di figli adulti e liberi, non più sotto la tutela del pedagogo.


v. 27. La figliolanza divina dei credenti ha la base del suo essere "in Cristo Gesù" : perché tutti i battezzati in Cristo si sono rivestiti di Cristo. Con l’espressione "battezzare in Cristo" non si vuole indicare una formula battesimale, ma primariamente l’evento salvifico che si ha nel battesimo: entrare in Cristo salvatore significa essere salvati. In che cosa più esattamente consista questo avvenimento di salvezza collegato a Cristo, in occasione del battesimo, viene spiegato meglio in Rm 6,3 ss. In Gal 3,27 egli indica solo brevemente questo evento salvifico come un "indossare Cristo". Il Cristo risorto è diventato spirito datore di vita nel quale il battezzato è immerso e vive, è per così dire il suo nuovo abito unico e come tale rende insussistenti i segni di differenza dell’esistenza precedente, come spiega il v. seguente. Cristo è il modello unico e definitivo dell’esistenza umana.


v. 28. Poiché Cristo per il battezzato è la realtà nuova che tutto determina, non ci sono più tra i battezzati le differenze e i contrasti di prima. L’esistenza dei credenti in Cristo, che tutti i battezzati hanno indossato, trascende completamente tutte le differenze e le opposizioni. Davanti a Dio le realtà diverse dell’essere giudeo o greco, schiavo o libero, maschio o femmina, hanno perso ogni importanza per la salvezza. Nel contesto della situazione della lettera ciò significa che per i Galati non ha più senso né scopo il rivolgersi al modo giudaico di vivere la religione. Essendo essi battezzati in Cristo, vivono una realtà del tutto nuova che è Cristo, mediante il quale la legge giudaica è decaduta. La loro dedizione al "giudaismo" sarebbe un ritorno a un passato totalmente superato da Cristo. La forza unificatrice del battesimo viene motivata così: "Perché voi tutti siete uno solo in Cristo Gesù". Poiché tutti nel battesimo hanno "indossato" il medesimo Cristo, per mezzo del battesimo sono tutti diventati "uno solo". Il termine eis (uno solo) è l’uomo unitario escatologico, il cristiano. In Ef 2,15 Paolo scrive: "Egli fece diventare i due (il giudeo e il greco) in se stesso un unico uomo nuovo". I credenti sono compresi in una sfera di salvezza che è Cristo e così formano un’unità tra di loro. Gesù costituisce l’ambito in cui tutti i credenti sono "un unico": cioè l’uomo unitario escatologico vivente in Cristo, che ha superato tutte le differenze menzionate in questo versetto. Eis (uno solo) è ciò che si oppone alla serie elencata (giudeo, greco, schiavo, libero, maschio, femmina). Dunque se l’espressione: "voi tutti siete uno solo in Gesù Cristo" non comporta un’identità di Cristo e dei credenti in lui, essa però fa chiaramente capire il carattere "ontico" dell’unione dei battezzati in Cristo.


v. 29. Il v. conclude il tema che già aveva avuto inizio con 3,7. Ivi gli uomini della fede erano stati dichiarati i veri figli di Abramo. Poi si era constatato che Cristo era quel "seme" escatologico di Abramo mediante il quale e nel quale la promessa di Dio ad Abramo divenne realtà per i popoli. Il tramite, mediante il quale i popoli giungono a un reale collegamento con lui, è la via della fede e del battesimo. Chi in tal modo appartiene a Cristo, è il vero seme di Abramo e perciò anche erede della promessa di benedizione. Con il battesimo i Galati sono diventati proprietà di Cristo, appartengono onticamente a Cristo e quindi sono, in Cristo, seme di Abramo al quale si riferisce la promessa. Ecco perché una conversione dei Galati al giudaismo è superflua, anzi del tutto contraria alla promessa fatta da Dio stesso, e manifesta una comprensione totalmente errata della legge. Infatti la legge non può portare la salvezza, che dipende invece dalla benedizione; è puro dono di grazia ed è apparsa in Cristo.


vv. 4, 1-2. Paolo approfondisce l’idea della maggiore età dei Galati e del loro diritto all’eredità della salvezza in qualità di figli liberi, servendosi di un nuovo paragone tratto dall’ambito giuridico. In questo caso il termine di confronto è dato da un minorenne destinato a diventare erede. Finché dura il tempo della minor età "egli non si distingue in nulla dallo schiavo, benché sia possessore (potenziale) di tutto". Non gli spetta il diritto di disporre del suo patrimonio, ma è soggetto "a tutori e amministratori fino al termine stabilito dal padre".


v. 3. L’esempio desunto dal campo giuridico viene applicato alla storia della salvezza, a noi. "Noi", cioè giudei e pagani, nel tempo della nostra minore età, eravamo ridotti in schiavitù sotto "gli elementi del cosmo". Che cosa si vuol dire con ciò? Una risposta a questa difficile e dibattuta questione la troveremo nel commento a 4,8-11, perché là il contesto offre buoni spunti a questo scopo.


vv. 4-5. Ma la precedente condizione persistente del nostro asservimento appartiene ormai al passato. Infatti nel frattempo è accaduto qualcosa di decisivo che è detto "termine stabilito dal padre". La scadenza che segnò la fine del nostro asservimento agli elementi del mondo fu la venuta "della pienezza del tempo", in cui Dio inviò suo Figlio. La "pienezza del tempo" di cui si parla qui è il compimento dell’epoca precedente, del tempo dell’attesa, cioè del tempo della promessa e della legge. Ma poiché l’invio del Figlio è anche il compimento del tempo della promessa, qui "pienezza del tempo" significa più che una semplice scadenza da calendario; il compimento è il colmo della misura: viene introdotta direttamente nella storia l’attività salvifica di Dio; nell’avvenimento storico del Gesù terrestre Dio compie la sua azione escatologica. L’invio del Figlio da parte del Padre è un’azione unica e storica: il Figlio fu generato da una donna e sottoposto alla legge. Così Paolo sottolinea la vera e autentica umanità del Figlio. Dicendo che Cristo fu "sottoposto alla legge" e che "nacque da una donna" si vuol mettere in risalto il fatto che egli divenne uomo tra gli uomini e giudeo e, come tale, sottoposto alla legge. La sorte del Figlio aveva un preciso scopo salvifico: "affinché riscattasse quelli che si trovavano sotto la legge". Il nesso con il v.3 farebbe piuttosto attendere che si dicesse: "affinché riscattasse quelli che si trovavano sotto gli elementi del cosmo". Ora l’apostolo invece scrive "sotto la legge" per farci capire che esiste un’intima connessione tra il dominio della legge e il potere degli elementi del cosmo (cfr. 4,8-10). Il vero fine salvifico di Dio è la concessione della figliolanza, qui espressa con uiothesìa, che è propriamente un termine tecnico giuridico (adozione), ma che nella letteratura cristiana dei primi tempi si usa solo per rapporti religiosi (Rm 8,15.23; 9,4; Ef 1,5). L’"essere ammesso nella condizione di figlio" (uiothesìa, adozione) concede i pieni diritti di figlio, benché non vi sia alcuna figliolanza fisica. Soprattutto concede il diritto di accedere all’eredità del padre. La uiothesìa è un puro dono di grazia. Se nel paragone la realtà confrontata corrispondesse perfettamente al termine di confronto si dovrebbe leggere "affinché da minorenni diventassimo maggiorenni". Ma la maggiore età consiste proprio, concretamente, nell’idoneità ad accedere all’eredità della promessa. A questo scopo occorre essere figli; non ha importanza l’età. L’ammissione, per grazia, dei battezzati alla condizione di figli produce in loro una relazione nuova, intima e del tutto personale con Dio, come spiegherà il v.6.


v. 6. La questione se la ricezione dello Spirito da parte dei credenti sia la conseguenza della loro figliolanza o se viceversa la figliolanza sia la conseguenza della ricezione dello Spirito, deve essere risolta nel primo senso; l’ammissione alla condizione di figli, avvenuta nel battesimo, comporta anche il dono dello Spirito fatto ai figli. La figliolanza è la base della ricezione dello Spirito. Ciò che preme a Paolo è questo: constatare una equiparazione dei figli con il Figlio nella loro relazione esistenziale con Dio, la quale viene comunicata in continuità dallo Spirito del Figlio. Essi stanno in rapporto del tutto intimo-personale con Dio perché lo Spirito concesso loro nel battesimo grida a Dio nei loro cuori: "Padre!", come può fare soltanto il Figlio. Così lo Spirito dischiude e rende possibile una nuova relazione con Dio che Paolo qualifica come rapporto tra padre e figli. A che cosa pensa l’apostolo parlando del "gridare" dello Spirito? Forse a certe esperienze della Chiesa primitiva, come la glossolalia con le sue prime esclamazioni spontanee e inarticolate (1Cor 14) e alla preghiera dei cristiani in genere in quanto è suggerita dallo Spirito. Lo Spirito grida nei credenti a Dio "abbà". Questa invocazione è espressione del rapporto dell’uomo con Dio inteso in senso del tutto personale-intimo. In essa si manifesta la relazione filiale con Dio, che ai battezzati è resa accessibile dallo Spirito. In tal modo il cristiano per mezzo dello Spirito viene incluso nella famiglia di Dio (Rm 8,15-16; Ef 2,18). Con ciò è ora definitivamente chiarito dall’apostolo quale Spirito i Galati hanno ricevuto un tempo attraverso l’accoglienza della predicazione della fede, quand’essi diventarono cristiani.


v. 7. Ora da questa figliolanza dei credenti l’apostolo trae la conseguenza per il singolo cristiano: "Dunque tu non sei più schiavo, ma figlio". L’apostolo non dice minorenne, ma schiavo, probabilmente dando uno sguardo retrospettivo al "quando eravamo schiavi degli elementi del cosmo" (v.3). Quello che era uno schiavo è diventato un figlio libero, che quindi può anche accedere alla piena eredità. Ciò oltrepassa di molto l’enunciato di 3,29. Ivi i credenti sono chiamati "seme di Abramo" ed "eredi in conformità della promessa" e vengono immessi nel contesto della promessa che risale fino ad Abramo; in 4,6-7 invece si rivela loro la figliolanza divina, e ciò che i figli di Dio ereditano è tutta la salvezza escatologica (Rm 8,17). Ciò che veramente importa a Paolo è di mostrare ai Galati che a loro, in quanto credenti battezzati, viene donata da Dio l’eredità della salvezza, e perciò un rivolgersi da parte loro al giudaismo è superfluo. Il nome di Dio si trova, accentuato, alla conclusione della pericope perché egli è l’autore di tutta l’opera della salvezza.


d) Rinnovato appello alla saggezza dei Galati (4,8-20)




8Ma un tempo, per la vostra ignoranza di Dio, eravate sottomessi a divinità, che in realtà non lo sono; 9ora invece che avete conosciuto Dio, anzi da lui siete stati conosciuti, come potete rivolgervi di nuovo a quei deboli e miserabili elementi, ai quali di nuovo come un tempo volete servire? 10Voi infatti osservate giorni, mesi, stagioni e anni! 11Temo per voi che io mi sia affaticato invano a vostro riguardo 12Siate come me, ve ne prego, poiché anch’io sono stato come voi, fratelli. Non mi avete offeso in nulla.13Sapete che fu a causa di una malattia del corpo che vi annunziai la prima volta il vangelo; 14e quella che nella mia carne era per voi una prova non l’avete disprezzata né respinta, ma al contrario mi avete accolto come un angelo di Dio, come Cristo Gesù. 15Dove sono dunque le vostre felicitazioni? Vi rendo testimonianza che, se fosse stato possibile, vi sareste cavati anche gli occhi per darmeli. 16Sono dunque diventato vostro nemico dicendovi la verità? 17Costoro si danno premura per voi, ma non onestamente; vogliono mettervi fuori, perché mostriate zelo per loro. 18È bello invece essere circondati di premure nel bene sempre e non solo quando io mi trovo presso di voi, 19figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi! 20Vorrei essere vicino a voi in questo momento e poter cambiare il tono della mia voce, perché non so cosa fare a vostro riguardo.




I Galati quando erano pagani si trovavano in una schiavitù religiosa. Se ora dopo aver conosciuto il vero Dio ed essere stati conosciuti da lui, vogliono rivolgersi al giudaismo, finiscono per passare dalla vecchia schiavitù a una nuova, peggiore di quella antica. Se ciò accadesse, Paolo avrebbe faticato invano per loro.


v. 8. Il passato pagano dei Galati è il tempo dell’età minorenne quando erano asserviti agli elementi del cosmo, cioè servivano ancora gli idoli, perché non conoscevano ancora il vero Dio. Se Paolo designa gli dèi come esseri che "per natura loro non sono dèi", egli non vuole presumibilmente contestare la loro esistenza, ma la vera natura divina. Per l’apostolo essi sono probabilmente identici ai demoni, della cui realtà egli non dubita.


vv. 9-10. I Galati hanno conosciuto il vero Dio, perciò il cosmo perde il suo falso fascino e la sua pretesa di schiavizzare l’uomo. La debolezza e la miseria degli elementi del cosmo viene smascherata; la conoscenza del vero Dio include necessariamente in sé la convinzione che le potenze del cosmo non possono arrecare la salvezza. La connessione della mancanza di conoscenza di Dio con la caduta nel falso fascino del cosmo si trova già espressa nell’Antico Testamento, specialmente nel profeta Osea. La mancanza di conoscenza di Dio è molto spesso connessa con l’apostasia e l’idolatria. Perché Israele non ha la retta conoscenza di Dio adora Baal (Os 4,10), offre sacrifici a questo idolo (Os 11,2) e profetizza in suo nome (Ger 2,8). La vera conoscenza di Dio crea la distanza tra Dio e gli elementi del cosmo e crea libertà nei loro confronti. Ma l’apostolo si corregge nel suo modo di esprimersi: "o, più esattamente, voi siete conosciuti da Dio". Il senso di questa frase è il seguente: la vera conoscenza di Dio è un dono di grazia fatto agli eletti di Dio, tra i quali ci sono anche i Galati da quando sono diventati cristiani. "Anche questa terminologia, secondo cui Dio ‘conosce’ l’uomo (Ger 1,5) o il popolo d’Israele, è veterotestamentaria: cfr. Rm 11,2, con Am 3,1. Essa indica l’elezione, quindi un agire o comportarsi di Dio nei confronti dell’uomo" (Noetscher). Poiché dunque, Dio con la loro chiamata ha elargito ai Galati la vera conoscenza di se stesso, è tanto più sorprendente e incomprensibile che essi "ora" ritornino nuovamente ai "deboli e miseri elementi" e ancora vogliano servire ad essi in condizioni di schiavi. Il dedicarsi dei Galati alla vita regolata dalla legge è per loro una rinnovata dedizione agli "elementi del cosmo", benché essi certamente non vogliano più ricadere nel culto degli idoli. Tuttavia è un asservimento agli "elementi del cosmo". Ma dove si trovano le connessioni tra la vita conforme alla legge e l’asservimento agli "elementi del cosmo"? Paolo specifica il rinnovato servizio dei Galati agli elementi del cosmo dicendo soltanto: "voi osservate giorni e mesi e tempi e anni" (v.10). Purtroppo non dice di più. Ma, dato che i suoi avversari erano giudeocristiani giudaizzanti, si deve seguire una traccia che riconduca al protogiudaismo, e per questa via si giunge a un risultato. C’era infatti nel protogiudaismo specialmente tra gli apocalittici e gli esseni di Qumran, una "devozione calendaristica" che stava non ai margini, ma al centro della convinzione di fede religiosa. Tra il tanto materiale disponibile a questo riguardo, scegliamo per brevità un solo testo. In Hen. aeth. 82,4.7-10: "Il sole cammina nel cielo entrando e uscendo attraverso le porte per trenta giorni... I luminari, i mesi, le feste, gli anni e i giorni me li ha mostrati e rivelati Uriel, al quale il Signore di tutta la creazione per amor mio ha dato potere sulla schiera del cielo... Questa è la legge delle stelle, che ai loro posti , nei loro tempi, feste e mesi tramontano. Questi sono i nomi dei loro capi, che sorvegliano affinché sorgano nei loro tempi, che le conducono ai loro posti, nei loro ordini, tempi, mesi, periodi di dominio e alle loro stazioni". Il collegamento della Torà con il calendario non si ha solo in gruppi o figure che stanno ai margini del giudaismo, ma proprio nel giudaismo stesso, poiché la Torà stessa prescrive le celebrazioni delle feste, per le cui date il calendario era appunto normativo, e in particolare modo la stretta osservanza del precetto del sabato. Sussiste dunque un’affinità tra religiosità della Torà e religiosità calendaristica. Ma perché Paolo respinge così radicalmente questa religiosità? Molto probabilmente perché all’osservanza religiosamente motivata di giorni, mesi, tempi e anni andavano congiunti certi pericoli: un culto superstizioso degli astri, giacchè gli astri determinano il calendario e molto facilmente potevano essere scambiati per "dèi". Dunque per i Galati il passo dagli astri che regolano il calendario agli "dèi che in realtà non sono dèi" era breve.


v. 11. "Temo di essermi affaticato invano per voi". Paolo si riferisce al tempo in cui aveva annunciato ai Galati il vangelo. Tuttavia l’apostolo non si rassegna del tutto, e prosegue rivolgendo un nuovo appello ai Galati (4,12-20) e richiamandoli ai tempi del suo lavoro missionario presso di loro.


v. 12. Diventare come l’apostolo vuol dire imitare l’esempio che egli stesso ha dato ai Galati. E questo esempio è consistito nella vita "senza-legge" che egli ha condotto tra loro nel tempo in cui li evangelizzava. Quando annunciò il vangelo in un territorio completamente pagano egli era diventato ciò che scrive in 1Cor 9,21: "Con coloro che non hanno legge sono diventato come uno che è senza legge, pur non essendo senza la legge di Dio, anzi essendo nella legge di Cristo, per guadagnare coloro che sono senza legge". Egli viveva tra i Galati non come un giudeo, ma come un pagano: ora chiede ai Galati di fare la stessa cosa. Nel periodo in cui Paolo visse tra i Galati come un pagano e non come un giudeo, essi non si sono minimamente scandalizzati per la sua vita ‘senza-legge’ e non l’hanno diffamato e disprezzato come fanno ora i suoi avversari giudaizzanti.


v. 13. Durante il suo primo soggiorno in Galazia (At 16,6) Paolo ha annunciato loro il vangelo "in seguito a una debolezza della carne" cioè a causa di una malattia. Per un uomo come Paolo tutto diventa occasione favorevole quando si tratta di annunciare il vangelo.


v. 14. La malattia di Paolo sarebbe potuta diventare per i Galati un motivo per respingerlo e scacciarlo dal territorio; essa era una tentazione nella quale potevano facilmente cadere. Ma essi non hanno sputato davanti all’apostolo in segno di rifiuto o per difendersi dagli spiriti maligni della sua malattia e non hanno sputato neppure davanti al vangelo che egli annunciava loro. Lo stato fisico dell’apostolo e il Cristo crocifisso che egli annunciò loro, sembravano proprio adattarsi bene l’uno all’altro e formare in certo modo un’unità. I Galati accolsero Paolo "come un messaggero di Dio", anzi, di più, come Gesù Cristo stesso. Dunque, vuol dire Paolo, i Galati non avrebbero potuto accogliere un angelo o Gesù Cristo stesso meglio di come essi un tempo accolsero lui, missionario malato.


v. 15. I Galati si proclamarono beati e fortunati per la sua comparsa e la predicazione dell’apostolo presso di loro. Per lui sarebbero stati disposti a strapparsi gli occhi e a darglieli. Ciò può essere detto in senso figurato o anche in riferimento alla sua malattia. Se così fosse, la malattia di Paolo durante la sua missione in Galazia sarebbe consistita in un’affezione agli occhi. Ad ogni modo, come risulta dal v.14, sembra che la malattia di Paolo comportasse qualcosa che poteva suscitare disgusto e ripugnanza.


v. 16. Paolo non può credere di essere diventato nemico dei Galati perché ha annunciato loro la verità, quella stessa che ha formulato in 3,1: ha rappresentato al vivo davanti ai loro occhi Gesù Cristo crocifisso. Certamente questa verità includeva in sé anche la dottrina della libertà del cristiano dalle opere della legge, e quest’ultimo punto - "la verità del vangelo" - era diventata la pietra d’inciampo per i Galati, da quando i giudaisti avevano insegnato loro il contrario. Proprio di loro riprende a parlare di nuovo nel v. seguente.


v. 17. Secondo Paolo non può essere stato l’annuncio della verità a renderlo estraneo ai Galati: di questo allontanamento sono responsabili i suoi avversari i quali fanno la corte ai Galati con cattive intenzioni. "Il verbo zeloùn fa capire che Paolo ha visto nella condotta dei suoi avversari una vera e propria sommossa" (Guettgemanns). La cattiva intenzione del loro corteggiamento dei Galati mira a mettere male tra loro e Paolo. "Vogliono escludervi" significa che gli avversari di Paolo vogliono escludere i Galati dal privilegio del vangelo libero dalla legge e separarli da Paolo e dalle altre comunità etnicocristiane per poterli isolare e poi legarli più facilmente a sé. Gli avversari di Paolo vorrebbero avere per sé la benevolenza che i Galati un tempo avevano dimostrato in misura illimitata all’apostolo. Paolo scrive ciò alle comunità della Galazia perché capiscano il gioco dei suoi avversari.


v. 18. L’apostolo non rifiuta le premure dei Galati, purché non siano smancerie, ma vero amore che viene dimostrato al missionario e pastore d’anime. Inquadrato nel contesto il v. ha il senso implicito di un invito: "Rimanete nella vostra premura di un tempo per me! Allora rimarrete anche nella verità del vangelo!"


v. 19. Paolo un tempo ha generato i Galati fra i dolori e adesso nuovamente soffre per loro le doglie del parto: essi sono i suoi figli spirituali. Egli interpreta il suo lavoro missionario come paternità e maternità spirituale (1Ts 2,7-8.11; 1Cor 4,15). Solo quando Cristo avrà assunto presso i Galati una forma molto più stabile e la comunità sarà del tutto rafforzata nel vangelo, i dolori apostolici del parto avranno raggiunto pienamente il loro scopo spirituale. Essi non hanno ancora compreso l’essenza del cristianesimo, non l’hanno ancora riconosciuto come religione della croce. L’apostolo lotta perché ciò avvenga per loro, e Cristo diventi completa realtà. Poiché in questo processo spirituale si tratta anche di una conoscenza e di un giudizio, dell’"istinto" cristiano, che i Galati non possiedono ancora, il significato della preposizione en che precede umìn è propriamente ambiguo: sia nei Galati sia anche tra loro, nella comunità, Cristo deve anzitutto acquistare la sua vera forma. Finché ciò non avviene, perdurano i dolori del parto dell’apostolo.


v. 20. Paolo vorrebbe essere personalmente presso i Galati e cambiare la sua voce, perché è in imbarazzo a loro riguardo. L’apostolo vede i Galati su una strada che devia dalla verità del vangelo e ciò gli procura grandissima pena; non sa come uscirne, cioè quale sia il modo migliore per riguadagnare i Galati a Cristo. Ma questa pena e imbarazzo sono anche determinati dalla grande lontananza fisica dai Galati: egli vorrebbe essere di persona accanto a loro. Così potrebbe parlare in modo tutto diverso, molto più efficace e approfonditamente. La voce della madre preoccupata sarebbe più convincente per i Galati, se l’apostolo fosse personalmente tra di loro. La comunicazione epistolare non annulla la distanza interna ed esterna tra Paolo e i Galati. Sembra che l’apostolo abbia esaurito tutte le sue risorse perché conclude: "non so più che fare con voi".



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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