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Una provocazione ma anche uno studio sulla scelta di Paolo VI per la messa moderna

Ultimo Aggiornamento: 16/05/2019 22:51
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22/04/2018 22:33
 
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Paolo VI e la riforma liturgica. La approvò, ma gli piaceva poco



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I difensori della liturgia preconciliare additano in Paolo VI il responsabile ultimo di tutte le innovazioni. In realtà tra lui e la riforma — il cui “regista” fu Annibale Bugnini — che man mano prendeva corpo non c’era affatto quella sintonia che i critici gli rimproverano. Ma allora perché la approvò?


di Sandro Magister (19-04-2018)


“Lo vuole il Papa”. È così che monsignor Annibale Bugnini (1912-1982), l’artefice della riforma liturgica che seguì al Concilio Vaticano II, metteva ogni volta a tacere gli esperti che contestavano l’una o l’altra delle sue innovazioni più sconsiderate.


Il papa era Paolo VI, che in effetti aveva affidato proprio a Bugnini il ruolo di segretario e factotum del consiglio per la riforma della liturgia, presieduta dal cardinale Giacomo Lercaro.


Bugnini godeva di pessima reputazione presso alcuni dei componenti del consiglio. “Scellerato e mellifluo”, “manovratore”, “sprovvisto di cultura come di onestà”: così l’ha definito nelle sue Memorie il grande teologo e liturgista Louis Bouyer (1913-2004), stimatissimo da Paolo VI.


Paolo VI e Bugnini

Il quale papa, alla fine, fu sul punto di fare cardinale Bouyer e punì Bugnini esiliandolo come nunzio a Teheran, resosi conto dei danni che aveva procurato e della falsità di quel “Lo vuole il papa” di cui il reprobo si faceva scudo.


Nei decenni successivi, comunque, gli eredi di Bugnini dominarono il campo. Il suo segretario personale Piero Marini fu dal 1983 al 2007 il regista delle cerimonie pontificie. E di recente sono usciti su Bugnini dei libri che ne esaltano il ruolo.


Ma tornando a Paolo VI, come egli visse la vicenda della riforma liturgica? I difensori della liturgia preconciliare additano in lui il responsabile ultimo di tutte le innovazioni. In realtà tra Paolo VI e la riforma che man mano prendeva corpo non c’era affatto quella sintonia che i critici gli rimproverano. Anzi, non poche volte Paolo VI soffriva per ciò che vedeva compiersi, e che era all’opposto della sua cultura liturgica, della sua sensibilità, dello spirito con cui lui stesso celebrava.


C’è un piccolo libro, uscito nei giorni scorsi, che getta una nuova luce proprio su questa personale sofferenza di papa Giovanni Battista Montini per una riforma liturgica di cui non condivideva tante cose: Paolo VI. Una storia minima, a cura di Leonardo Sapienza, Edizioni VivereIn, Monopoli, 2018.


In questo libro monsignor Sapienza – che dal 2012 è reggente della prefettura della casa pontificia – raccoglie varie pagine dei “Diari” redatti da colui che con Paolo VI era il maestro delle cerimonie pontificie, Virgilio Noè (1922-2011), poi divenuto cardinale nel 1991.


Con questi “Diari” Noè prolungò una tradizione che risale al Liber notarum del tedesco Johannes Burckardt, cerimoniere di Alessandro VI. Nel resoconto di ogni celebrazione Noè registrava anche tutto ciò che Paolo VI gli aveva detto prima e dopo il rito, compresi i suoi commenti a talune novità della riforma liturgica sperimentati per la prima volta in quell’occasione.


Ad esempio, il 3 giugno 1971, dopo la messa di commemorazione della morte di Giovanni XXIII, Paolo VI commentò: “Come mai nella liturgia dei defunti non si parla più di peccato e di espiazione? Manca completamente l’implorazione alla misericordia del Signore. Anche stamattina, per la messa celebrata nelle Grotte [vaticane], pur avendo dei testi bellissimi, mancava in essi tuttavia il senso del peccato e il senso della misericordia. Ma abbiamo bisogno di questo! E quando verrà la mia ultima ora, domandate misericordia per me al Signore, perché ne ho tanto bisogno!”.


E ancora nel 1975, dopo un’altra messa celebrata in memoria di Giovanni XXIII: “Certo, in questa liturgia mancano i grandi temi della morte, del giudizio…”.


Il riferimento non è esplicito, ma Paolo VI qui lamentava, tra l’altro, l’estromissione dalla liturgia dei defunti della grandiosa sequenza Dies irae, che in effetti oggi non si recita né si canta più nelle messe, ma sopravvive solo nei concerti, nelle composizioni di Mozart, Verdi e di altri musicisti.


Un’altra volta, il 10 aprile 1971, al termine della veglia pasquale riformata, Paolo VI commentò: “Certo che la nuova liturgia ha molto alleggerito la simbologia. Però la esagerata semplificazione ha tolto degli elementi che una volta facevano molta presa sull’animo dei fedeli”. E chiese al suo cerimoniere: “Questa liturgia della veglia pasquale è definitiva?”. Al che Noè rispose: “Sì, Padre Santo, ormai i libri liturgici sono stati stampati”. “Ma si potrà ancora cambiare qualche cosa?”, insisté il papa, evidentemente non soddisfatto.


Un’altra volta, il 24 settembre 1972, Paolo VI replicò al proprio segretario Pasquale Macchi, che lamentava la lunghezza del canto del Credo: “Ma ci deve essere qualche isola in cui tutti si ritrovino insieme: ad esempio il Credo, il Pater noster in gregoriano…”.


Il 18 maggio 1975, dopo aver notato più d’una volta che durante la distribuzione della Comunione, in basilica o in piazza San Pietro, c’era chi passava di mano in mano l’Ostia consacrata, Paolo VI commentò: “Il pane eucaristico non può essere trattato con tanta libertà! I fedeli, in questi casi, si comportano da… infedeli!”.


Prima di ogni messa, mentre rivestiva i paramenti sacri, Paolo VI continuò a recitare le preghiere previste nel messale antico “cum sacerdos induitur sacerdotalibus paramentis” anche dopo che erano state abolite. E un giorno, il 24 settembre 1972, chiese sorridendo a Noè: “È proibito recitare queste preghiere mentre si indossano i paramenti?”. “No, Padre Santo: si possono recitare, se lo si vuole”, gli rispose il cerimoniere. E il papa: “Ma non si trovano più queste preghiere in nessun libro: anche nella sagrestia non ci sono più i cartelli… E così si perderanno!”.


Sono piccole battute, espressive però della sensibilità liturgica di papa Montini e del suo disagio per una riforma che vedeva procedere fuori misura, come lo stesso Noè ha annotato nei suoi “Diari”: “Si ha l’impressione che il papa non sia completamente soddisfatto di quello che è stato compiuto nella riforma liturgica. […] Non sempre conosce tutto quello che è stato fatto per la riforma liturgica. Forse qualche volta gli è sfuggito qualche cosa, nel momento della preparazione e dell’approvazione”.


Anche questo dovrà essere ricordato di lui, quando nel prossimo autunno Paolo VI sarà proclamato santo.




A titolo di documentazione, ecco qui di seguito – in latino e in lingua moderna – le preghiere che i sacerdoti dicevano mentre indossavano i paramenti sacri e che Paolo VI continuò a recitare anche dopo la loro cancellazione dagli attuali libri liturgici.


Cum lavat manus, dicat:
Mentre si lava le mani, dica:

Da, Domine, virtutem manibus meis ad abstergendam omnem maculam: ut sine pollutione mentis et corporis valeam tibi servire.
Concedi, o Signore, che le mie mani siano monde da ogni macchia: affinché possa servirti con purezza di mente e di corpo.

Ad amictum, dum ponitur super caput, dicat:
All’amitto, mentre se lo poggia sul capo, dica:

Impone, Domine, capiti meo galeam salutis, ad expugnandos diabolicos incursus.
Imponi, o Signore, sul mio capo l’elmo della salvezza, per vincere gli assalti del demonio.

Ad albam, cum ea induitur:
Al camice, mentre lo indossa:

Dealba me, Domine, et munda cor meum; ut, in sanguine Agni dealbatus, gaudiis perfruat sempiternis.
Purificami, o Signore, e monda il mio cuore: affinché, purificato nel sangue dell’Agnello, io goda dei gaudii eterni.

Ad cingulum, dum se cingit:
Al cingolo, mentre se ne cinge:

Praecinge me, Domine, cingulo puritatis, et extingue in lumbis meis humorem libidinis; ut maneat in me virtus continentiae et castitatis.
Cingimi, o Signore, col cingolo della purezza, ed estingui nei miei lombi l’ardore della concupiscenza; affinché si mantenga in me la virtú della continenza e della castità.

Ad manipulum, dum imponitur bracchio sinistro:
Al manipolo, mentre se lo pone sul braccio sinistro:

Merear, Domine, portare manipulum fletus et doloris; ut cum exsultatione recipiam mercedem laboris.
Fa, o Signore, che io meriti di portare il manipolo del pianto e del dolore: affinché riceva con gioia la mercede del mio lavoro.

Ad stolam, dum imponitur collo:
Alla stola, mentre se la pone sul collo:

Redde mihi, Domine, stolam immortalitatis, quam perdidi in praevaricatione primi parentis: et, quamvis indignus accedo ad tuum sacrum mysterium, merear tamen gaudium sempiternum.
Rendimi, o Signore, la stola dell’immortalità, perduta per la prevaricazione del progenitore; e sebbene io acceda indegno al tuo sacro mistero, fa che possa meritare il gaudio eterno.

Ad casulam, cum assumitur:
Alla pianeta, mentre se la impone:

Domine, qui dixisti: Iugum meum suave est, et onus meum leve: fac, ut istud portare sic valeam, quod consequar tuam gratiam. Amen.
O Signore, che hai detto: Il mio giogo è soave e il mio carico è lieve: fa che io possa portare questo in modo da conseguire la tua grazia. Così sia.

(fonte: settimocielo.it)







Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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