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Una provocazione ma anche uno studio sulla scelta di Paolo VI per la messa moderna

Ultimo Aggiornamento: 16/05/2019 22:51
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16/05/2019 22:51
 
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Messa tradizionale e Messa moderna. 

Precisazioni necessarie.


Riprendiamo un testo pubblicato dal vaticanista Marco Tosatti nel suo sito Stilum Curiae. Il testo è stato redatto da Cesare Baronio per intervenire su una “disputa teologico-liturgica” promossa dal domenicano Padre Giovanni Cavalcoli.
Abbiamo pensato che le precisazioni di Baronio possano essere utili ai nostri lettori per fissare alcuni punti chiave sulla sostanziale differenza esistente fra la Messa di sempre, o tradizionale, e la Messa di ieri, o moderna.
Il testo è reperibile anche nel sito Opportune Importune dello stesso Baronio.


Immagini e impaginazione sono nostre






Messa tradizionale  a Vocogno (VB)

 


Messa moderna a Cammarata (AG)


Reverendo Padre Cavalcoli,

La ringrazio di aver risposto alle mie osservazioni e di darmi modo di alimentare questa salutare disputa teologica con un figlio di San Domenico. Vorrà perdonarmi se, a beneficio del pio Lettore, mi permetterò di render meno accademica la nostra dissertazione, affinché questi possa trovarvi spunto di riflessione e di approfondimento.

Procedendo con il metodo della disputa, nel quale immagino Ella sia più versato di me, riassumerò il contenuto della Sua risposta dividendolo in proposizioni, in modo da poterle commentare singolarmente.

- I fedeli sono liberi di scegliere o la Messa Vetus Ordo o quella Novus Ordo.
- L’importante è che sia i fedeli che il celebrante rispettino le relative norme della celebrazione con diligenza e senza confondere le une con le altre.
- Chi segue il Vetus Ordo non deve disprezzare chi sceglie il Novus e viceversa.
- La Messa è sostanzialmente la stessa di sempre in entrambi casi. Cambiano solo le forme cerimoniali e le rubriche.

I. I fedeli sono liberi di scegliere o la Messa Vetus Ordo o quella Novus Ordo.

La Messa è atto supremo del culto pubblico della Chiesa. In essa è Cristo Sommo Pontefice, Capo del Corpo Mistico, per il tramite del Ministro che agisce in persona Christi, per offrire in forma incruenta il Santo Sacrificio a Dio Padre, secondo le finalità di adorazione, ringraziamento, propiziazione ed impetrazione. Questa è la dottrina cattolica, sulla quale suppongo non sussistano dubbii né obiezioni da parte Sua. Giacché, se così non fosse, non avrebbe scopo proseguire.

Ora, l’atto pubblico del culto è compiuto dalla Chiesa come azione di tutto il Corpo Mistico. La partecipazione del fedele, ancorché lodevole e commendevole per poter beneficiare delle Grazie del Santo Sacrificio, non è tuttavia elemento sostanziale dell’azione sacra: è dogma di fede che qualsiasi Messa, anche se celebrata dal solo sacerdote, è perfettamente valida e rende a Dio l’onore che Gli è dovuto, ed adempie perfettamente ai quattro fini ch’essa si prefigge. 
Già qui bisognerebbe notare che nel Novus Ordo è previsto un rito della Messa cum populoed uno della Messa sine populo, come se quando il sacerdote si volge per il Dominusvobicum non si rivolgesse all’intera Chiesa militante, purgante e trionfante, ma solo ai fedeli fisicamente presenti.

Essendo la Chiesa una sola, al di là della diversità dei riti – Romano, Ambrosiano, Mozarabico, Domenicano ecc. – è necessario che ogni rito abbia una sua unità ed unicità, poiché esso è espressione di un’unica comunità orante. Tant’è vero che fu sempre sollecitudine dei Romani Pontefici impartire norme tese a far sì che la Chiesa Romana avesse un proprio rito unico ed universale, e questo avvenne tanto prima quanto dopo il Concilio Vaticano II e la sua riforma liturgica. Paolo VI, nel promulgare il nuovo Messale, dichiarò abrogato il precedente, proprio per mantenere questa unità cultuale: lo fecero anche i suoi Predecessori, ogniqualvolta misero mano – anche se in modo decisamente marginale – alla forma liturgica. Così fecero ad esempio San Pio X, Pio XII e Giovanni XXIII. Anche su questo credo siamo d’accordo.

Ciò che considero invece un hapax è l’invenzione di due forme liturgiche del medesimo rito, così come la si è avuta con il Motu Proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI. In questo testo legislativo il Rito Romano viene ad avere due voci, una straordinaria ed una ordinaria, facendo sì che la Chiesa di Roma leia la sua preghiera ufficiale con due voci. In teoria, al di là della novità della soluzione adottata da Benedetto XVI, si potrebbe anche concedere che vi siano due forme nello stesso rito, così come ci sono diversi riti nella medesima Chiesa Cattolica.

Quindi, per usare un’espressione propria alla disputa teologica, concedo, e sono d’accordo che in astratto sia possibile che la Chiesa dia facoltà ai fedeli di assolvere legittimamente al precetto, assistendo alla Messa celebrata in una forma o in un’altra.

Tuttavia, distinguo. I fedeli, cioè, sono liberi di scegliere o la Messa Vetus Ordo o quella Novus Ordo, se entrambe le forme sono identiche quanto alla sostanza.
Questo presuppone che forma ordinaria – Novus Ordo – e straordinaria – Vetus Ordo – assolvano perfettamente alle finalità loro proprie ed allo stesso tempo esprimano la medesima fede, sia in modo prossimo che remoto. Se ciò è certissimo per la Messa antica, di istituzione apostolica, non può esser detto invece per la Messa riformata, che rispetto alla prima è gravemente lacunosa.

Questa lacuna dottrinale è rilevabile in modo remoto nella sua definizione, quale fu formulata nell’art. 7 della Institutio Generalis Missalis Romani promulgata da Paolo VI, nella quale la Messa veniva definita: «La cena del Signore, o messa, è la sacra sinassi o assemblea del popolo di Dio, presieduta dal sacerdote, per celebrare il memoriale del Signore. Vale perciò eminentemente per questa assemblea locale della Santa Chiesa, la promessa del Cristo: “Là dove due o tre sono radunati nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt. XVIII, 20)».
 
Questa prima redazione del 1969 venne poi emendata nel 1970 come segue: «Alla messa, o cena del Signore, il popolo di Dio si raduna sotto la presidenza del sacerdote che rappresenta il Cristo, per celebrare il memoriale del Signore o sacrificio eucaristico. Per conseguenza per questa assemblea locale della Santa Chiesa vale la promessa del Cristo: “Là dove due o tre sono radunati nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt. XVIII 20). In effetti, alla celebrazione della messa, nella quale si perpetua il sacrificio della Croce, il Cristo è realmente presente nell’assemblea riunita in suo nome, nella persona del ministro, nella sua parola sostanzialmente e in maniera ininterrotta sotto le specie eucaristiche».

La prima definizione della Messa fu definita da teologi e canonisti come eretica, o quantomeno prossima all’eresia, e per questo venne modificata in senso cattolico, riconoscendone l’erroneità. Già questa sarebbe una pessima premessa per la promulgazione di un rito normativo per tutta la Chiesa Romana; ma se si mutò la definizione della Messa, non si ritenne tuttavia di mutarne conseguentemente e coerentemente anche il contenuto, che rimase intatto.

Come spiego ai fedeli, poco addentro alle questioni teologiche e canoniche, è come se si preparasse una torta seguendo una ricetta, in cui gli ingredienti siano sbagliati, e una volta ottenuta la torta immangiabile, si pensasse di renderla buona semplicemente cambiando la ricetta ex post. O come se si prendesse un biglietto per Milano e, una volta in viaggio, si pensasse di poter cambiare destinazione non scendendo dal treno che va a Napoli e prendendo quello giusto, ma semplicemente cambiando il biglietto. Similmente, chi ha inventato il Novus Ordo – poiché di invenzione si tratta, quantomeno nelle parti che sono state deliberatamente modificate o sostituite rispetto a Vetus Ordo – ha voluto mantenere il rito limitandosi a correggerne l’elemento causale, senza metter mano al risultato finale. Un’operazione che suona come un maldestro tentativo di mantenere in vita un monstrum liturgicum con una specie di sanatio in radice più che discutibile.

La mia obiezione alla Sua affermazione consiste quindi nell’aver Ella assunto un principio generale condivisibile, che però nel caso specifico non può essere ammesso. 
E questo per due ragioni. Anzitutto l’Autorità Ecclesiastica dovrebbe avere come suo scopo principale la salus animarum, per conseguire la quale essa deve dotare i fedeli della pienezza degli strumenti per conseguire la Grazia e così santificarsi. L’aver abolito un rito venerando che esprime perfettamente la fede cattolica, per sostituirlo con un rito che, se non eretico, quantomeno è gravemente omissorio, è un’operazione già di per sé censurabile e riprovevole. In secondo luogo – anche ammesso che l’Autorità possa sostituire un bene minore ad un bene maggiore – è diritto inalienabile del fedele, anzi suo preciso dovere morale, preferire il bene maggiore al bene minore, e a fortiori preferire il bene al male. Ciò vale ancora di più per i sacerdoti, che hanno accettato un rito compromissorio che rende meno onore a Dio e che santifica di meno le anime, quando c’era un rito perfetto e non vi era alcuna ragione per abrogarlo.

Se questo era valido quando il Novus Ordo fu promulgato, è ancora più valido oggi, che di quell’innovazione si sono visti gli amari frutti. 
Porre quindi sullo stesso piano il Vetus Ordo ed il Novus può esser tollerabile se l’intenzione è di sostituire progressivamente il Vetus al Novus, agendo con prudenza di governo; ma è inaccettabile se l’operazione mira allo scopo contrario, accontentando i critici del rito riformato ma allo stesso tempo chiedendo loro di accettarlo come legittimo. 
Come se si chiedesse ai movimenti pro-vita di riconoscere come altrettanto legittimo il diritto all’aborto, in cambio della loro libertà d’azione. E qui parliamo di vite umane, tanto quanto con la Messa si tratta di anime che la Chiesa ha il dovere di salvare. 
Ma di questo tratterò al punto IV.

II. L’importante è che sia i fedeli che il celebrante rispettino le relative norme della celebrazione con diligenza e senza confondere le une con le altre.

Anche su questo punto posso esser in accordo con Lei, quindi concedo. Ma, di nuovo, distinguo. Vi sono infatti modifiche arbitrarie alle rubriche che non inficiano la validità del rito: cambiare una lettura o omettere una genuflessione, per quando operazioni in sé censurabili, non sono di per sé causa di invalidità né del rito antico né del nuovo. Altra cosa è mutare sostanzialmente le parole della Consacrazione – come avviene indicativamente solo nel rito riformato, per via dell’uso della lingua vernacolare – cosa che rende la Messa invalida, e ciò è vero per entrambe le forme liturgiche.

Ma nella Messa tridentina non è permesso ai laici toccare le Sacre Specie, né ricevere la Comunione nella mano o stando in piedi. Viceversa, questo è ammesso, ed anzi ormai divenuta prassi abituale, nel rito riformato. Ora, è evidente che non stiamo parlando di diversa sensibilità liturgica, o dell’altezza del pizzo di un camice: il rispetto che i gesti di adorazione della Messa antica esprimevano sono stati sostituiti da gesti di irriverenza nella Messa nuova. E questo non per richiesta dei fedeli, ma per ordine dell’Autorità Ecclesiastica. 
Né si dica che questa prassi è indifferente: il rischio di profanazione del Ss.mo Sacramento è certo, al punto che molti Vescovi e moltissimi sacerdoti hanno espresso una forte critica a questa prassi imposta dall’alto. Lo stesso Benedetto XVI soleva amministrare la Comunione sulla lingua, ai fedeli inginocchiati; ma allo stesso tempo permetteva che tutti gli altri la prendessero in mano, spargendo frammenti del Corpo di Cristo, poi calpestati. 
Se Ella pensa che nel rito antico, quando un’Ostia cade accidentalmente per terra, si devono raccogliere i frammenti con il purificatoio e versare l’acqua nel sacrario; o quando dopo la Consacrazione, nell’antico rito il celebrante tiene il pollice e l’indice uniti, per non disperdere il più piccolo frammento, mentre nel nuovo la disinvoltura è d’obbligo, al punto che non vi sono particolari prescrizioni nemmeno in merito alla purificazione dei vasi sacri dopo la Comunione, c’è oggettivamente una differenza; e questa differenza non è meramente rubricistica, perché è dogma di fede che fracto demum Sacramento, ne vacilles sed memento, tantum esse sub fragmento quantum toto tegitur.

Le rubriche dell’antico rito prescrivono che le azioni sacre siano compiute dai Sacri Ministri, mentre nel nuovo i laici e addirittura le donne entrano ed escono dal presbiterio – che si chiama così perché vi stanno i presbyteri – e vi proclamano le letture, distribuiscono la Comunione. Non sono abusi, sia chiaro: sono tutte cose previste dalla liturgia riformata, proprio in nome di quella actuosa participatio e di quel sacerdozio comune dei fedeli che è insinuato sin dall’art. 7 dell’Institutio Generalis. 
Perché nella Messa cattolica si celebra in forma incruenta il Sacrificio di Cristo sulla croce, mentre quella conciliare è «la sacra sinassi o assemblea del popolo di Dio, presieduta dal sacerdote». Presieduta, ossia in cui con una visione tipica della mentalità moderna il celebrante diventa presidente dell’assemblea, e il suo ruolo di alter Christus è offuscato dal sacerdozio comune dei fedeli, su cui il Vaticano II ha insistito sin troppo a danno del sacerdozio ministeriale, per compiacere ai Protestanti.

Quindi, essendo la proposizione II condizione della proposizione I, ne risulta che l’osservanza delle rubriche è di per sé bastevole per comprendere quanto quelle del rito tridentino siano orientate a significare esteriormente quella fede, che le rubriche del nuovo si adoperano viceversa ad attenuare, se non a cancellare del tutto.

III. Chi segue il Vetus Ordo non deve disprezzare chi sceglie il Novus e viceversa.

Il disprezzo di un comportamento implica una sua valutazione morale. Da ciò deriva che un’azione positiva debba essere valutata positivamente, e quindi lodata; mentre un’azione negativa – o anche solo meno positiva – sia da valutarsi negativamente e quindi da respingere e da disprezzare.

A questo punto, dobbiamo chiederci se il Vetus Ordo sia buono o cattivo; e se sia buono o cattivo il Novus Ordo. Stabilito questo, si danno quattro possibilità: 1. che il primo sia buono, e quindi che il secondo non lo sia o lo sia meno dell’altro; 2. oppure che il rito riformato sia buono, e quindi che il rito antico non lo sia o lo sia meno dell’altro; 3. che siano buoni entrambi; 4. che siano cattivi entrambi.

L’ultima possibilità va evidentemente scartata, perché non è possibile che la Chiesa sia privata sin dalla sua fondazione del Santo Sacrificio, o che esso sia imperfetto rispetto al fine che si prefigge, voluto da Nostro Signore.

Va anche scartata la terza opzione, perché è evidente che il rito riformato è stato redatto sulla falsariga del rito antico, ma privato di parti importantissime. Quindi, o quelle parti sono erronee, e per questa ragione da espungere; o quelle parti sono buone. Nel primo caso si ricade nella quarta ipotesi, che è inammissibile nell’economia della salvezza. Nel secondo caso, il rito riformato si dimostra lacunoso ed omissorio rispetto all’antico, e questo lo rende de facto meno buono del Vetus Ordo, ricadendo nella prima ipotesi: che cioè la liturgia tridentina sia migliore di quella conciliare. 
Quale delle prime due ipotesi sia vera, si dimostra nella confutazione della proposizione IV.


IV. La Messa è sostanzialmente la stessa di sempre in entrambi casi. Cambiano solo le forme cerimoniali e le rubriche.

Questa affermazione, reverendo padre Cavalcoli, va precisata. Quindi: distinguo. 
Essa è vera se Ella intende che la Messa del Novus Ordo è valida, e che realmente vi si rinnova il Sacrificio di Cristo e vi si consacra validamente il Corpo e il Sangue di Nostro Signore. In questo senso, entrambe le forme sono sostanzialmente identiche. 
Gli elementi essenziali per la validità della Messa sono il ministro ordinato, l’intenzione del ministro, la materia (pane e vino), la formula della Consacrazione. I sacerdoti prigionieri nei lager o nei gulag celebravano validamente, usando briciole di pane e un po’ di vino ottenuto fermentando pochi acini d’uva. Ma quel ch’è lecito in condizioni di grave necessità non fa parte, come è evidente, della norma ordinaria. E ciò che è parte essenziale del rito ai fini della sua validità non rende qualsiasi Messa identica ad un’altra. 
Anche una messa nera è valida, se la celebra un sacerdote che, per quanto apostata, intende consacrare il pane e il vino: eppure a nessuno di noi verrebbe in mente di affermare che i fedeli assolvono debitamente il precetto festivo o sono santificati dall’assistere ad un rito satanico. 
E tanto per esser chiari; lungi da me affermare che il Novus Ordo sia equiparabile ad una messa nera.

Se invece Ella sostiene che la Messa tridentina e la Messa riformata siano uguali quanto al loro contenuto – che in certo qual modo ne costituisce anche l’essenza – allora devo respingere la Sua affermazione. Quindi: nego. 
Come ho scritto a commento della proposizione III, la Messa riformata è stata inventata a tavolino da una Commissione di teologi e liturgisti, tra cui un gruppo di pastori luterani e calvinisti, sulla falsariga del rito tridentino. Solo una persona inesperta e completamente a digiuno dei rudimenti di teologia e di liturgia può sostenere che la differenza tra i due riti consista solo nelle forme cerimoniali e nelle rubriche: anzitutto perché non è vero che l’unica differenza consista nelle cerimonie, essendo evidentissimo anche ad una semplice lettura cursoria dei due testi che moltissime parti del Vetus Ordo sono state cancellate dal Novus. 
Cade qui anche la pia credenza secondo la quale la nuova Messa sia soltanto una traduzione in lingua vernacolare del rito latino: semmai è vero che il testo latino del Novus Ordo è stato ulteriormente imbastardito e tradito dalle traduzioni, ma i due testi latini sono diversi in molti punti.

Comprendo che Ella, avendo ricevuto l’Ordinazione del 1976, non abbia avuto modo di conoscere e studiare l’antica liturgia. Ma forse ricorderà quando, sin dal 1965, vi fu tutto un susseguirsi di Messe di transizione, in cui il rito di Giovanni XXIII era via via mutilato di cerimonie e parti che nessuno fino ad allora considerava accessorie. Si iniziò col Salmo XLII, lasciandone l’antifona. Salirò all’altare di Dio. A Dio, che allieta la mia giovinezza. E poi il doppio Confiteor, tradotto esattamente dal latino, con tutte le sue preghiere. Ma tanto l’Offertorio antico quanto il Canone Romano erano da recitarsi submissa voce in latino, in obbedienza ai Canoni del Concilio di Trento. 
Nel frattempo spariva il manipolo, veniva sdoganato l’uso della casula gotica, gli altari erano definitivamente rivolti al popolo, cosa che peraltro era già iniziata sin dagli anni Venti, col Movimento Liturgico.

Poi venne promulgata la Messa di Paolo VI: sparite le preghiere ai piedi dell’altare, il Confiteor era recitato dal sacerdote e dai fedeli insieme, con una bella sforbiciata a San Michele Arcangelo, al Beato Giovanni Battista, ai Santi Apostoli Pietro e Paolo. Confesso aDio onnipotente e a voi, fratelli. Proprio come fecero, guarda un po’, i primi Luterani e i riformatori di Cranmer. 
I riti d’introduzione tolsero l’antichissimo uso della triplice invocazione del Kyrie, ridotti a due per mera comodità di risposta coi fedeli. E l’Offertorio scomparve del tutto, per far posto ad una preghiera giudaica di sapore panteistico. Venne tolta anche l’invocazione Veni, Sanctificator, con la quale il celebrante invocava la discesa dello Spirito Santo su questosacrificio, preparato per il Tuo santo nome. 
Rimase provvisoriamente l’Orate, fratres, che oggi prevede varie risposte, alcune più omissorie delle altre. 
Il Canone Romano fu mantenuto, ma privato di tutti i segni antichissimi con i quali il celebrante designava le Sacre Specie, si inchinava, genufletteva, alzava gli occhi al cielo ecc. 
L’elenco dei Santi venne reso facoltativo: et pour cause, essendo la loro intercessione negata dai Protestanti e dai Novatori. 
Le parole della Consacrazione furono mutate, spostando il Mysterium fidei dalle parole sul Calice a dopo l’Elevazione, come se la transustanziazione si compisse solo dopo l’ostensione ai fedeli; tant’è vero che anche la genuflessione del sacerdote prima dell’Elevazione fu abolita. 
Studiosi più versati di me nelle discipline liturgiche e teologiche hanno avuto modo di dimostrare l’adulterazione impressionante del nuovo rito, che mantiene solo parte dell’aspetto esteriore della Messa, proprio come fecero Lutero ed altri eresiarchi. I quali, dovendo imporre la loro liturgia eretica ai fedeli ancora cattolici, raccomandavano di suonar i campanelli all’Elevazione, o di comunicarli in ginocchio, per non scandalizzarli. Peccato che a quelle celebrazioni non si consacrasse più il Corpo e il Sangue di Cristo e che i ministri fossero dei laici.

Parlare di rito latino del Novus Ordo è una presa in giro: quel rito non esiste, non è mai esistito, e chi lo ha celebrato all’inizio è stato immediatamente redarguito perché adottasse la traduzione in lingua volgare. Casomai, esso doveva servire come traccia per la redazione delle traduzioni da parte delle Conferenze Episcopali, le quali aggiunsero altri tradimenti a quelli già perpetrati dall’Editio typica vaticana.
Anche le funzioni papali sono una babele di lingue, in cui il latino appare timidamente più per ostinazione dei Cerimonieri che per convinzione dell’augusto celebrante.

O Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa, ma di’ soltanto una parola ed io sarò salvato. Questa dovrebbe esser la traduzione di: Domine, non sum dignus ut intres subtectum meum; sed tantum dic verbo, et sanabitur anima mea. Eppure non di traduzione si tratta, giacché si sarebbe dovuta rendere: O Signore, non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, ma di’ soltanto una parola e l’anima mia sarà guarita. 
Ed anche nella formula consacratoria, quel pro vobis et pro multis è diventato per voi e pertutti, e non per molti. 
E gli esempii potrebbero continuare all’infinito. Oggi che si presta tanta attenzione a cambiare il Padre nostro sofisticando sul non indurci in tentazione, si passa oltre il per molti, confermando una coerenza d’intenti che può esser negata solo da chi ostinatamente non vuol vedere.

Quindi, caro padre, affermare che tra il Vetus ed il Novus Ordo vi sia una differenza meramente cerimoniale è falso e contraddetto dall’evidenza. 
Contra factum non fit argumentum.

Ella mi ammonisce: «Non è proprio il caso di litigare o di dare in escandescenze là dove Cristo ci vuole uniti, seppur nella diversità». Non mi pare di aver dato in escandescenze; semmai ho espresso il mio sdegno nel vedere che su una questione tanto importante e vitale per le anime si possa pensare di metter insieme vero e falso, fedeltà e tradimento. O anche solo un rito venerando e perfetto com’è quello custodito per millenni dalla Chiesa, con la sua grottesca parodia, la sua deminutio fatta per favorire quel dialogo interreligioso che costituisce l’anima del Vaticano II e che rappresenta la pietra tombale della missione apostolica della Sposa di Cristo. Al punto che lo stesso Bergoglio può affermare che l’apostolato è «una solenne sciocchezza».

E poi, chi ha mai detto che «Cristo ci vuole uniti, seppur nella diversità»? La diversità nella fede è eresia.

Dice bene, padre Cavalcoli, quando Ella afferma che «In rapporto alla dottrina cápita però che nel linguaggio Francesco non sia sempre limpido, leale ed onesto, ma avviene purtroppo che sia confuso, improprio, evasivo, ambiguo e doppio. Inoltre egli fa male a non rispondere e non illuminare chi gli chiede spiegazioni o a non smentire le false interpretazioni. È segno di un’astuzia o reticenza che non si addicono ad un Vicario di Cristo». 
Ella ha espresso ciò che qualsiasi persona dotata di un minimo di onestà intellettuale non può non condividere. Ma, se mi permette, io credo che simile atteggiamento si sia visto anche nei Predecessori di Bergoglio, ad iniziare da Paolo VI, se non già da Giovanni XXIII. Anche Montini era «un figlio di Adamo come tutti noi, quindi soggetto alla colpa e bisognoso di essere perdonato da Dio». Forse più di noi, visto che ha la responsabilità di aver voluto abrogare la Messa apostolica per sostituirla con un rito composto da Prelati notoriamente progressisti e massoni.

Rimane da comprendere come a un Papa sia concesso di peccare contro tutte le virtù, ad eccezione della fede: mi par di ricordare che il Concilio Vaticano – il primo, ovviamente – avesse definito che l’infallibilità dei Romani Pontefici è garantita dallo Spirito Santo solo quando essi parlano ex cathedra, nel solo ambito di questioni inerenti la fede e i costumi, e con l’intenzione esplicita di impartire un insegnamento vincolante per i fedeli. Poiché se un Papa potesse essere infallibile in materia di fede anche quando è interpellato da un giornalista o fa una delle sue esternazioni a braccio, si aprirebbero questioni molto delicate.

Di eresie ne abbiamo sentite parecchie, dette non solo da Bergoglio ma anche dai suoi Predecessori: per grazia di Dio, questi errori dottrinali erano espressi come dottori privati, e non imposti a credersi da tutti i fedeli in forza della loro Autorità Apostolica né tantomeno sotto l’assistenza dello Spirito Santo. Tuttavia, reverendo padre, sentir affermare una cosa del genere da un Domenicano mi lascia a dir poco sgomento. Se l’avessi fatto io col mio professore di Dogmatica, mi avrebbe rispedito al Seminario Minore.
 

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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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