Joker: Folie à Deux è già un flop, ciò che i giornalisti non dicono... Vieni a parlarne su Voci nel web!

A tutti voi che passate da qui: BENVENUTI
Se avete desiderio di capire che cosa insegna la Bibbia che il Magistero della Santa Chiesa, con il Sommo Pontefice ci insegna, questo Gruppo fa per voi. Non siamo "esperti" del settore, ma siamo Laici impegnati nella Chiesa che qui si sono incontrati da diverse parti d'Italia per essere testimoni anche nella rete della Verità che tentiamo di vivere nel quotidiano, come lo stesso amato Giovanni Paolo II suggeriva.
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ILLUSTRISSIMI Lettere del Patriarca Albino Luciani Giovanni Paolo I

Last Update: 11/7/2017 10:21 AM
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11/7/2017 9:19 AM
 
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ILLUSTRISSIMI
lettere del Patriarca di Venezia, Albino Luciani 
 

L’iniziativa di inserire nel sito del Centro Papa Luciani il libro “Illustrissimi” è stata decisa per dare l’opportunità al maggior numero possibile di persone di attingere alla ricchezza inestimabile contenuta in testi scritti negli anni ’70 dal Cardinale Albino Luciani, Patriarca di Venezia.

Sono testi ricchissimi di spunti, attuali nelle riflessioni, illuminanti nelle scelte concrete che ogni cristiano è chiamato quotidianamente a fare.

Queste Lettere immaginarie di Luciani mettono anche in bella evidenza la sua straordinaria cultura e la sua spiritualità limpida e genuina; una spiritualità “montanara” per la sua essenzialità e semplicità,ma ben radicata nelle virtù della fede vissuta come sereno abbandono in Dio, della speranza fondata sulla misericordia e provvidenza di Dio, della carità che è l’anima vera della vita di ogni discepolo di Cristo.

Con questa iniziativa noi speriamo di contribuire a rendere presente nel tempo il messaggio pastorale di Albino Luciani, osando sentirci, in questo, un po’ collaboratori della Provvidenza di Dio che ci ha dato il sorriso di Giovanni Paolo I per trentatrè giorni, affinché – ripensando a Lui – anche il mondo possa ricominciare a sorridere.

Mons. Giorgio Lise
Vice Postulatore della causa di Canonizzazione

Lettere a... 

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Casella
Chesterton
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Gesù Cristo
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Goldoni
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Santa Teresa d'Avila
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Teresa d'Austria
Trilussa
Twain




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Scrivo trepidando 

    
Caro Gesù, Mi sono preso delle critiche. "E’ vescovo, è cardinale; è stato detto, si è sbracciato a scrivere lettere in tutte le direzioni: a M. Twain, a Péguy, a Casella, a Penelope, a Dickens, a Marlowe, a Goldoni e non si sa a quanti altri. E neppure una riga a Gesù Cristo!". Tu lo sai. Con Te io mi sforzo di tenere un colloquio continuo. Tradurlo in epistolario, però, è difficile: sono cose personali. E poi, così piccole! E poi, cosa scrivere a Te, di Te, dopo tutti i libri che su Te sono stati scritti? E poi, c’è già il Vangelo. Come la folgore supera tutti i fuochi e il radio tutti i metalli; come il missile batte in velocità la freccia del povero selvaggio, così il Vangelo supera tutti i libri. Tuttavia, ecco qui la lettera. La scrivo trepidando, nella condizione di un povero sordomuto, che si sforza di farsi capire, nello stato d’animo di Geremia che, inviato a predicare, Ti diceva, pieno di riluttanza: "Non sono che un bambino, Signore, non so parlare!".

***

Pilato, presentandoti al popolo. ha detto: Ecco l’uomo! Credeva di conoscerti, ma non conosceva neppure un briciolo del tuo cuore, che hai mostrato tenero e misericordioso cento volte in cento modi. Tua madre. In croce, non hai voluto partire da questo mondo senza trovarle un secondo figlio che avesse cura di lei e hai detto a Giovanni: ecco tua madre. Gli Apostoli. Hai vissuto notte e giorno con essi, trattandoli da veri amici, sopportandoli nei loro difetti. Li hai istruiti con pazienza inesauribile. La madre di due di loro chiede un posto privilegiato per i figli e Tu: "Con me non si tratta di onori, ma di patimenti". Anelano ai primi posti anche gli altri e Tu: "Bisogna invece farsi piccoli, mettersi all’ultimo posto, servire!". Nel Cenacolo li hai messi in guardia: "Avrete paura, scapperete!". Protestano, prima e più di tutti Pietro, che poi, viceversa, Ti rinnega tre volte. Tu perdoni a Pietro e tre volte gli dici: Pasci le mie pecore. 

Quanto agli altri Apostoli il tuo perdono rifulge soprattutto al capo 21 di Giovanni. Essi sono in barca, da tutta la notte Tu, il Risorto, sei là sulla riva del lago prima dell’albeggiare, fai loro da cuoco, da servitore, accendendo il fuoco, cucinando e preparando loro, col pane, del pesce arrostito. I peccatori. Il pastore che corre in cerca della pecora smarrita, e gode nel ritrovarla, e fa festa quando la riporta all’ovile, sei Tu. Sei Tu quel padre buono, che, al ritorno del figlio prodigo, si getta al suo collo, abbracciandolo a lungo. Scena di ogni pagina nel Vangelo: Tu infatti avvicini peccatori e peccatrici, mangi alla loro tavola, ti inviti Tu stesso, se essi non osano invitarti. Hai tutta l’aria, questa è impressione mia,di preoccuparti più delle sofferenze che il peccato produce ai peccatori, che non dell’offesa che reca a Dio. Infondendo la speranza del perdono, sembra che Tu dica: Voi non immaginate neppure il piacere che mi procurate con la conversione! Insieme al cuore, brilla in Te l’intelligenza pratica. Hai puntato all’interno, intanto.

C’erano le facce dei Farisei smunte per i prolungati digiuni religiosi e Tu: "Non mi piacciono quelle facce; il cuore di quegli uomini è lontano da Dio; è l’interno che preme, il cuore è metro per giudicare; dal di dentro, dal cuore degli uomini escono i cattivi pensieri: dissolutezze, latrocini, assassinii, adulteri, cupidigie, orgoglio, stoltezza". 
Avevi orrore delle parole inutili: Sia il vostro parlare: sì, sì; no, no; quello che c’è di più deriva dal male. Quando pregate, non moltiplicate le parole". Volevi la concretezza e il riserbo: "Se digiuni, profumati la testa e lavati il volto. Se fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra quello che fa la destra". Al lebbroso guarito hai raccomandato: "Non dirlo a nessuno".

Ai genitori della ragazza risuscitata hai comandato con forza che non andassero a suonare la tromba sul miracolo avvenuto. Solevi dire: "Non cerco la mia gloria. Cibo, per me, è fare la volontà del Padre mio". 
Dalla Croce, concludendo la tua vita, hai detto: "Tutto è compiuto", ma sempre avevi tenuto a che le cose non fossero fatte a mezzo. Gli apostoli Ti avevano suggerito: "La gente ci segue da tempo, rimandiamola a mangiare a casa sua", ma Tu: "No, diamole noi da mangiare". Finito il pasto dei pani e dei pesci moltiplicati, hai aggiunto: "Raccogliete gli avanzi, non è giusto che vadano a male". Il bene lo volevi fatto fino al dettaglio. Risuscitata la figlia di Giairo, hai raccomandato: "Adesso date da mangiare a questa figliuola". La gente proclamava di te: "Ha fatto bene tutte le cose!".

***

Quanta luce di intelligenza spirava dal Tuo predicare! Gli avversari mandano dal Tempio le guardie per arrestarti e se le vedono ritornare a mani vuote. "Perché non l’avete condotto?". Risposta delle guardie: "Nessun uomo ha mai parlato come lui!".Incantavi dunque la gente, la quale sin dai primi giorni osservò di Te: "Questi si che parla con autorità! Altro che gli scribi! ".





Semo veci, semo in tochi? Dedicata ad Alvise Cornaro

    Caro veneziano ultranovantenne, 
Perché vi scrivo? Perché siete stato un simpatico veneziano di quattrocento anni fa. Perché, attraverso un libretto - lettissimo per la sua deliziosa ingenuità - avete fatto propaganda alla vita sobria. E, soprattutto, perché siete stato un modello di sereno vecchietto. Fino a quarant’anni avevate sofferto di stomaco "freddissimo e umidissimo", di "dolore di fianco", di "principio di gotta" e di cent’altri mali. Un bel giorno buttaste via tutte le medicine. Avevate scoperto che "chi vuol mangiare assai, bisogna che mangi poco" e vi deste alla sobrietà. Riacquistata la salute, poteste così dedicarvi allo studio, alla "santa agricoltura", all’idraulica, alla bonifica, al mecenatismo, all’architettura, sempre pieno di buon umore e con buona cera, scrivendo, tra gli ottanta e i novant’anni, i vostri "Discorsi intorno alla vita sobria", adatti a infondere coraggio e a persuadere che anche per noi anziani la vita può essere serena e utilmente impiegata.
Ai vostri tempi non molti potevano arrivare alla vecchiaia. Si conoscevano poche norme igieniche; non c’erano gli agi e le comodità odierne; non erano pressoché debellate, come sono oggi, certe malattie; non esisteva la chirurgia dai mezzi potenti e dai risultati prodigiosi, che abbiamo noi;la gente non arrivava alla media di settant’anni di vita, come invece arriva oggi in alcuni Stati. Oggi noi vecchi stiamo avanzando in numero su tutta la linea. In Italia, noi dai sessanta anni in su, siamo quasi la quinta parte dell’intera popolazione. Ci chiamano quelli della "terza età". Col solo contarci dovremmo farci coraggio. Invece? Invece ci lasciamo talvolta prendere da sgomento. Ci pare di essere lasciati in disparte come rotelle ormai usate, come ciclisti ormai abbandonati dal gruppo. Se andiamo in pensione, se i figli, sposandosi, sono andati ad abitare altrove, sentiamo il vuoto affettivo sotto i piedi e non sappiamo dove aggrapparci. Quando vengono avanti gli acciacchi e i segni del decadimento fisico, facciamo loro il viso dell’arme.

Invece di pensare soprattutto alle cose liete, che Dio ancora ci concede, cediamo alla malinconia del detto veneziano, che voi mai avete voluto fatto vostro: "Semo veci, semo in tochi... questo xe de mal! ". Il fenomeno si aggrava se, più in su dei sessanta, ci tocca abbandonare la casa, che era stata la nostra, con la quale ormai ci identificavamo, per diventare gli ospiti di una "Casa di riposo". Molti vi si adattano e vi si trovano bene; qualcuno invece si sente come un pesce fuor d’acqua. "Non mi lasciano mancar niente - mi diceva uno - potrebb’essere l’anticamera del Paradiso, ma per me è un Purgatorio anticipato! ".

***

I problemi degli anziani sono oggi più complicati che ai vostri tempi e, forse, più profondamente umani, ma il rimedio principe, caro Cornaro, resta ancora il vostro: reagire ad ogni pessimismo o egoismo. "Mi restano forse intere decine d’anni di vita: le utilizzerò per guadagnare il tempo perduto, per aiutare gli altri; voglio fare della vita che mi resta una gran fiammata d’amore per Dio e per il prossimo. Le forze sono poche? Posso almeno pregare. Sono cristiano, credo all’efficacia delle orazioni che le monache claustrali innalzano a Dio nei loro conventi, credo anche con Donoso Cortés che il mondo ha più bisogno di preghiere che di battaglie. Ebbene, anche noi anziani, offrendo a Dio le nostre pene e sforzandoci di sopportarle serenamente, possiamo avere una grande incidenza sui problemi degli uomini che lottano nel mondo". Questo è un discorso.

Se poi ci rimangono ancora energie e disponibilità di tempo, se ne può fare anche un altro. E cioè: perché non metterci a disposizione delle opere buone? In certe parrocchie delle maestre in pensione e degli impiegati anziani costituiscono un aiuto preziosissimo. Ma in Francia, per non lasciarsi tagliare fuori dalla vita, gli anziani si sono addirittura organizzati. "Dappertutto - si sono detti - sorgono gruppi spontanei di giovani. Facciamo i gruppi spontanei di noi anziani!". Ne venne un movimento davvero considerevole, che ha un vescovo per assistente, che promuove l’amicizia e la spiritualità degli iscritti, l’assistenza e l’apostolato a favore di altri anziani, che strappa molti di essi all’isolamento e alla sfiducia e fa talora esplodere energie sopite e insospettate. Voi non siete stato, infatti, l’unico a scrivere libri dopo gli ottanta, caro Alvise Cornaro. Goethe ha terminato il suo Faust a ottantun anni. Tiziano ha dipinto il suo autoritratto dopo i novanta. Del resto, noi siamo vecchi per quelli che vengono dopo di noi; per quelli, invece, che invecchiano insieme a noi, siamo sempre giovani! E poi, con un pizzico di malizia, si può dire che il computo degli anni si fa un po’ a fisarmonica. Quando Gounod - a quarant’anni -"compose il Faust, gli domandarono: "Con precisione che età dovrebbe avere il vostro Faust al primo atto?". "Dio mio, rispose Gounod, l’età normale della vecchiaia: i sessant’an­ni". Vent’anni dopo Gounod aveva lui i sessant’anni; gli fecero la stessa domanda ed egli candidamente, rispose: "Mio Dio, Faust deve avere l’età normale della vecchiaia: gli ottant’anni!".

***

A questo punto mi è facile fare una profezia. E cioè: questa lettera scritta a Voi, ma per essere letta da altri, non interesserà i lettori giovani, che, seccati, diranno: "Roba per vecchi!". Ma non diventeranno anziani anch’essi? E se davvero esiste un’arte, una metodologia per essere "bravi anziani", non converrà loro impararla per tempo? Da giovane studente m’è capitato che l’insegnante di diritto canonico, arrivato ai canoni del Codice che spiegano i doveri dei cardinali, dei metropoliti e dei vescovi, dicesse: "Queste sono cose poco ordinarie, le saltiamo; se qualcuno di voi per caso arriverà a quest’ufficio, se le studierà per conto suo!". E fu così che, diventato vescovo e metropolita, io ho dovuto cominciare da zero. Ora, se pochi tra i giovani teologi diventano cardinali, quasi tutti, invece, i giovani di oggi arriveranno domani alla vecchiaia col dovere di imparar per strada l’arte e di metterla da parte. Uno, nella primaverile età di vent’anni, è brontolone al venti per cento? A sessant’anni è certo che brontolerà al sessanta per cento, se non si corregge! Meglio, dunque, che si raddolcisca per tempo.

A parte questo, non è male che i giovani sappiano che, oltre i propri, ci sono i problemi delicati e sofferti degli altri, coi quali vivono fianco a fianco. A Timoteo, un giovane vescovo, San Paolo raccomandava: "Non riprendere con asprezza un vecchio, ma pregalo come si prega un padre". E’ tuttavia vero che, scrivendo, ho pensato soprattutto a noi anziani, che abbiamo bisogno di comprensione e di incoraggiamento. In linea, - caro nobiluomo Cornaro, - con quanto scriveste Voi. Ed in linea con quanto il direttore di un quotidiano soleva raccomandare ai suoi collaboratori. Diceva: "Scrivete spesso qualcosa per gli anziani! Se vi imbattete in qualche caso di longevità (per esempio, un uomo che si avvicini ai cento anni in piena lucidità di mente e con forze ancora vegete e fresche) non vi lasciate scappare la bella notizia; inseritela, datele spazio in cronaca bianca! C’è un pubblico di vecchi, cui essa farà piacere e che esclamerà: Ecco un giornale che èbene informato!". Come sarò contento anch’io, se si dirà: "Come è bene informato il Messaggero di S. Antonio!". 

  Ottobre 1973




[Edited by Caterina63 11/7/2017 9:38 AM]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Figaro Barbiere

La rivoluzione per la rivoluzione 

    
Caro Figaro, Siete ritornato! Sul piccolo schermo ho visto il vostro Matrimonio. Eravate il figlio del popolo, che coi privilegiati di una volta tratta ormai da pari a pari e col cappello in testa. Insieme alla vostra Susanna, rappresentavate la gioventù, che lotta perché le venga riconosciuto il diritto alla vita, all’amore, alla famiglia, alla giusta libertà. Di fronte alla vostra intraprendente "aria d’artista", al vostro brio aggressivamente e giovanilmente indiavolato, la nobiltà faceva la figura molto magra di classe frivola, decrepita e in via di disfacimento! Ho riudito il vostro celebre monologo. Dal palcoscenico dicevate pressapoco: "Ebbene, chi e che cosa sono io, per esempio, io Figaro, al cospetto di tutti questi nobili blasonati, di questi borghesi togati, che sono e fanno tutto, mentre in sostanza, non sono né migliori né peggiori di me? Barbiere, sensale di matrimoni, consigliere di pseudo-diplomatici, sissignori, tutto quel che volete! Ma io sono anche, e sento di essere, davanti a tutti costoro, qualcosa di nuovo, di forte. Essi pretendono ch’io solo sia onesto in un mondo di bari e di furfanti. Non accetto, mi ribello; sono un cittadino!"Quella sera, a Parigi, il teatro fu un subbuglio. La platea applaudì, ma la nobiltà, scandalizzata, si turò le orecchie. A sua volta, il Re turò a voi la bocca, mettendovi in prigione. Invano; dal palcoscenico e dalla prigione, voi siete saltato in piazza, gridando: "Signori! La commedia è finita, e la rivoluzione si mette in marcia!". E aprivate davvero Ia Rivoluzione francese.

***

Ritornando adesso, scoprirete che milioni di giovani fanno, su per giù, quello che avete fatto voi due secoli fa; si confrontano colla società e, trovandola decrepita, si ribellano e saltano in piazza. Lassù, a Liverpool in uno scantinato, è scritto: "Qui sono nati i Beatles! Qui tutto è cominciato!". Se non lo sapete, si tratta di quattro scapigliati e canori giovanotti, che avevano la vostra stessa "aria di artista" ed ai quali la Regina d'Inghilterra non solo non ha turato la bocca, ma ha conferito un’alta onorificenza. Essi hanno venduto milioni di dischi e fatto un sacco di soldi. Si sono fatti applaudire da platee ben più vaste della vostra: hanno determinato in tutto il mondo il sorgere di "complessi" nei quali, accompagnati da batterie e chitarre elettriche, giovani cantanti si agitano sotto la luce violentissima di lampade potenti, eccitano gli spettatori, surriscaldandoli psicologicamente e portandoli a gesti collettivi di parossistica partecipazione.

***

Guardatevi attorno! Parecchi di questi ragazzi portano il codino come voi e curano la chioma con impegno quasi femminile: con "shampoo" di tutti i tipi, con "onde", riccioli e perfino "messa in piega" presso parrucchiere per signora. E quante barbe! E basette e basettoni! E varietà di vestiti! Una vera miscela di vecchio e di nuovo, di femminile e di maschile, di oriente e di occidente! A volte, solo un paio di blue-ieans con una maglietta o maglione o giaccone di pelle. A volte calzettoni rinascimentali, giacché arieggianti a quelle degli ufficiali napoleonici con merletti settecenteschi e scarpe con fibbie ecclesiastiche. A volte calzoni e camicie a colori sgargianti, a fantasie floreali, ed in più "palandrane" zingaresche. A volte vesti volutamente lacere, che fanno pensare ad una mitica città di Barbonia. Per le ragazze, minigonna, short con maxi e midi cappotto ed altri aggeggi. Come li giudicate questi fenomeni? Per me, essi mi trovano incompetente e profano e, tuttavia, un tantino divertito e incuriosito, ma anche critico. La chiamano "musica dei giovani"; osservo, però, che il mercato discografico procura palate di milioni a furbi anziani! Si invocano spontaneità, anticonformismo e originalità in realtà scaltri "industriali dell’abbigliamento" manovrano il settore indisturbati e sovrani! Ci si dichiara rivoluzionari, ma le cure troppo minute dedicate alla chioma e all’abito rischiano di fare soltanto degli effeminati. Le ragazze, vestendo molto succinte, pensano all’eleganza e alla moda; io non voglio essere né manicheo né giansenista, ma penso mestamente ch’esse non aiutano affatto la virtù dei giovani. Naturalmente, questi giovani simpatizzano per la "rivoluzione", intesa come mezzo per far cessare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Alcuni ritengono inadeguate e controproducenti le riforme e giustificano la rivoluzione come unico mezzo per la giustizia sociale. Altri vogliono invece riforme sociali coraggiose e rapide; solo come mezzo estremo, ed in soli casi gravissimi ed eccezionali, accettano la violenza. Altri buttano via ogni scrupolo. "La violenza - dicono - si giustifica da sola e si deve fare Ia rivoluzione per Ia rivoluzione!". Mao-Tse-Tung ha detto ai cinesi: "Piantiamo la rivoluzione culturale, facendo piazza pulita dell’ideologia borghese rimasta nel marxismo!". Il francese Regis Debray ha detto ai sudamericani: "La vostra rivoluzione non può essere quella praticata altrove, con in testa un partito; la guerrilla di tutto il popolo, questa è la rivoluzione vera!". Da Mao e da Debray si è passati a Fidel Castro, a Giap e agli studenti del maggio francese: "Scopo della rivoluzione studentesca- diceva Cohn-Bendit - non è di trasformare la società, ma di rovesciarla". Evidentemente, caro Figaro, vanno più in là di voi e seguono i vostri epigoni: Castro, Che Guevara, Ho-Ci-Min, Giap e sognano di diventare dei guerrilleros ydesesperados. Con buone intenzioni, intendiamoci; ma, intanto, vengono strumentalizzati da altri; intanto, non avvertono che è utopia dividere radicalmente e senz’appello i buoni dai cattivi, la lealtà dal sopruso, il "progresso" dalla "conservazione"; non percepiscono che il disordine, in forza della "spirale della violenza", il più delle volte ritarda il progresso, seminando malcontento e odio.

***

E tuttavia, sia da voi che da essi qualche insegnamento discende. Questo, per esempio, che genitori, educatori, datori di lavoro, autorità, sacerdoti, dobbiamo ammettere di non essere stati perfetti nel metodo e nell’impegno con i giovani. Che s’ha da ricominciare con spirito di umiltà e di vero servizio, preparandoci a un lavoro minuto, lungo, non appariscente. Un mezzo matto aveva spaccato a colpi di bastone la vetrina ed altri oggetti di un negozio. La strada fu subito tutta piena di curiosi, che guardavano e commentavano. Poco dopo al negozio arrivò un vecchietto con una scatola sotto il braccio: si levò la giacca, estrasse dalla scatola colla, spago, arnesi e con pazienza infinita si mise a raccozzare cocci e vetri rotti. Finì dopo ore e ore. Ma, stavolta, nessuno si fermò in strada, a nessun curioso interessò il lavoro. Qualcosa di simile avviene coi giovani. Fanno chiassate e dimostrazioni, tutti guardano e parlano. Piano, piano, con fatica e pazienza, genitori ed educatori mettono a posto, colmano lacune, rettificano idee; nessuno vede o applaude.

***

Converrà che ci dimostriamo molto aperti e comprensivi verso i giovani e verso i loro sbagli. Gli sbagli, però, bisognerà chiamarli sbagli; e il Vangelo, presentarlo "sine glossa", senza cincischiarlo per amore di popolarità. Certe approvazioni non fanno piacere: "Guai a voi - dice il Signore - quando tutti gli uomini diranno bene di voi, perché così i vostri padri trattavano i falsi profeti" (Lc. 6, 26). I giovani, del resto, amano che si dica loro la verità e intuiscono l’amore dietro la parola amorosamente franca e ammonitrice. Dovremo anche accettare che i giovani siano diversi da noi anziani nel modo di giudicare, di comportarsi, di amare e di pregare. Anch’essi hanno - come l’avete avuta, Figaro, voi - una parola degna di ascolto e di rispetto da dire al mondo. Converrà accettare di dividere con essi il compito di fare avanzare la società. Con un’avvertenza: che essi premono di più sull’acceleratore e noi, invece, più sul freno; che in ogni caso, il problema dei giovani non va staccato dal problema della società; la loro crisi è, in parte, crisi della società.

***

Figaro! Voi siete stato acutissimo nel colpire abusi e debolezze; non altrettanto acuto nel proporre rimedi. Accurata, se pur con esagerazioni, la vostra diagnosi sulla società; ma carente la terapia. Eppure, per i giovani d’oggi e di tutti i tempi, la terapia esiste: far ora intravvedere che la risposta giusta ai quesiti che li assillano, più che Marcuse o Debray o Mao, l’ha data Cristo. Vogliono la fraternità? Cristo ha detto: Voi siete tutti fratelli! Hanno sete di autenticità? Cristo ha bollato con forza ogni ipocrisia. Sono contro l’autoritarismo e il dispotismo? Cristo ha detto che l’autorità è servizio. Contestano il formalismo? Cristo ha contestato le preghiere recitate solo meccanicamente, l’elemosina fatta per farsi vedere, la carità interessata. Vogliono la libertà religiosa? Cristo, da una parte ha voluto che "tutti gli uomini... giungessero alla conoscenza della verità", dall’altra non ha imposto nulla con la forza, non ha impedito la propaganda contraria, ha permesso l’abbandono degli Apostoli, il rinnegamento di Pietro, il dubbiodi Tommaso. Ha chiesto e chiede di essere accettato e come uomo e come Dio, è vero, ma non prima che avessimo controllato e visto ch’Egli era da accettare, non senza una scelta libera!

***

Che ne dite? La protesta di Figaro, più la proposta di Cristo, non potranno, unite, aiutare sia i giovani che la società? Lo credo con fiducia. 
Aprile 1972




Casella

La musica della riconciliazione 

    
Caro musico e amico di Dante, Quello che hai raccontato a Dante alle falde della montagna del Purgatorio sta per rinnovarsi. Vedendoti sbarcare alla spiaggia dell’Antipurgatorio, nella Pasqua del 1300, Dante si meraviglia forte: "Casella mio, è un pezzo che sei morto: come mai sei ancora qui, non ancora ammesso a quel Purgatorio, cui pure sei stato assegnato?".E tu: "E’ una storia lunga. Devi sapere che le anime purganti, appena staccate dal corpo, si radunano tutte in una specie di stazione ‘Prepurgatorio’ cioè ad Ostia, alla foce del Tevere. Là, un angelo nocchiero approda colla barca e carica chi gli piace e quando gli piace, conforme ai decreti di Dio. Io mi son presentato a lui più volte, ma invano. Per fortuna, da tre mesi,da quando cioè papa Bonifacio VIII ha proclamato il Giubileo, l’Angelo imbarca tutti quelli che vogliono salire; è una bazza, un tempo di larghezza e di gran misericordia; ne ho approfittato anch’io e son qui".

***

Al posto di papa Bonifacio c’è oggi papa Paolo VI. Anch’egli, caro Casella, indice un Giubileo, sia pure in condizioni un po’ diverse da quelle del 1300. Il tuo papa Bonifacio aveva alle spalle una tradizione piuttosto incerta; aveva si sentito dire di altri passati Giubilei, ma le investigazioni da lui promosse in proposito non avevano approdato a gran che.Un vecchio savoiardo di 107 anni raccontò che, fanciullo settenne, era venuto a Roma nel 1200 con il proprio padre e che questi si era fatto promettere dal figlio di tornare nella città eterna, per beneficiare di indulgenze straordinarie, se fosse ancor vivo tra cent’anni (!); altri due vegliardi di Beauvais dissero che un secolo prima era stata largita un’indulgenza plenaria.Tradizione o non tradizione, papa Bonifacio, rispondendo al desiderio di molti, si decise, firmò Ia sua famosa Bolla e si ebbe un Giubileo clamoroso: l’Europa intera nell’anno 1300 sembrò darsi convegno a Roma.Vi si confluì in folla, a piedi, a cavallo, trascinando sui carri i vecchi e gli infermi. Le basiliche dei santi Pietro e Paolo rimasero aperte di notte e di giorno. Gli stessi Cardinali, di buon mattino facevano le trenta visite prescritte per i romani di Roma; le ragazze, che a quei tempi rimanevano sempre chiuse in casa, compivano le visite di notte, sotto scorta fidata.Tra i pellegrini illustri, caro Casella, ci furono i tuoi conterranei toscani Dante, Giotto e Giovanni Villani. Quest’ultimo trasse dal pellegrinaggio, ce lo confida lui stesso, l’ispirazione a scrivere la storia della sua Firenze e tornò a casa con la fantasia piena degli spettacoli contemplati a Roma. "Fu, scrive, la più mirabile cosa che mai si vedesse, che al continuo in tutto l’anno durante, aveva in Roma oltre al popolo romano, duecentomila pellegrini, senza quegli ch’erano per gli cammini andando e tornando, e tutti erano forniti e contenti di vettovaglia giustamente, così i cavalli come le persone, e con molta pazienza e senza rumori o zuffe; ed io l posso testimoniare che vi fui presente e vidi. E dell’offerta fatta per gli pellegrini motto tesoro ne crebbe alla Chiesa, e i Romani per le loro derrate furono fatti ricchi" (Cronaca VIII, 36).A differenza di Bonifacio VIII, Paolo VI ha alle spalle una "tradizione giubilare" ormai lunga. La scadenza stabilita da Bonifacio e fissata nel motto "Annus centenus - Romae semper est jubilenus" (a Roma l’anno centesimo è sempre giubilare), fu presto cambiata: Giubileo ogni cinquant’anni e poi ogni venticinque, affinché, chi volesse, almeno una volta in vita potesse approfittare di questa grande grazia.E man mano che si venne avanti nei secoli, si progredì sia per i mezzi di trasporto, sia per il numero dei romei: treni, automobili, aerei poterono portare a Roma ben altro che i due milioni di pellegrini del 1300.Tuttavia, lo crederesti?, anche nel Giubileo del 1950 furono ben diecimila i pellegrini isolati venuti a Roma, in bicicletta, a cavallo, in canoa, su carrozzelle per invalidi o trascinate da cani, su barelle da infermi muniti di ruote.Silvio Negro cita il giovane Kurt Herming Drake, studente finlandese, partito da Helsinki in luglio e arrivato a Roma in novembre. Il barone Tritz don Gumpenberg, di 29 anni, quasi cieco, venne da solo a piedi dal suo castello di Poltmes, presso Monaco, e fece a piedi anche il ritorno, passando questa volta per Padova per devozione a sant’Antonio.Al suddetto Giubileo Pio XII aveva fissato un tema: "Gran perdono - gran ritorno". Paolo VI, invece, lancia il Giubileo col motto: "Riconciliazione!". Riconciliazione tra noi e Dio, tra noi e i nostri fratelli, sul piano personale e sui piano sociale.Un tema, un motto, che è tutto una musica e che tu Casella, se fossi qui, canteresti dolcemente come cantasti a Dante, che serbava del tuo canto un ricordo nostalgico si che, diceva, "la dolcezza ancor dentro mi suona".

***

Vera musica è il riconciliarsi con Dio e l’abbandonare la strada storta, larga e spaziosa, che conduce alla perdizione. Su questa strada passano a galoppo tutte le passioni umane cavalcate da quei cavalli d’Apocalisse, che hanno nome: brama e ingordigia esagerata, mai sazia di piaceri, di denaro e di onori. Chi cammina su di essa non può trovarsi bene.Il grande Tolstoi ha scritto di un cavallo, che, a mezzo della discesa, s’impunta e si ribella, dicendo: "Sono stufo di tirare la carrozza e di obbedire al cocchiere; mi fermo!". Padronissimo di farlo, ma pagherà salato. Da quel momento, infatti, tutti si mettono contro di lui: il cocchiere che lo frusta, la carrozza che va a sbattergli nelle gambe, i passeggeri che, nella carrozza, urlano ed imprecano.E’ così. Quando ci mettiamo nella strada storta e ci impuntiamo contro Dio, rovesciamo l’ordine, rompiamo il patto di alleanza col Signore, rinunciamo al suo amore, ci irritiamo contro noi stessi, scontenti di ciò che abbiamo combinato e rosicchiati dal rimorso.Caro Casella, è vero, qualcuno dice che le musiche si cantano e suonano benissimo anche sulla strada storta, respinge sdegnosamente la storiella di Tolstoi e afferma che nel peccato egli si sente più libero che mai. Io mi permetto di contraddirlo con due sole parole: “padrone” e “malattia”.Sì, il peccato diventa, volere o no, il padrone del peccatore. Può darsi che dapprima gli faccia complimenti e carezze, ma il peccatore resta suo schiavo e presto o tardi assaggerà il suo bastone.Quanto a “malattia”, ce n’è di due specie: ignote e palesi. Una piaga viva e lancinante fa male, ma almeno si sa che esiste e si cerca di curarla. Metti invece un tumore nascosto: ingrandisce, si propaga, tu non sai, tu ti illudi e assicuri gli amici di star benone: improvvisamente ecco la metastasi, l’irreparabile. E’ il caso di chi è carico di peccati e afferma di non averli e di non sentirli. Invece: avere un proprio bagaglio di peccati, ma sentirne il peso, decidere di cambiar strada sul serio, capovolgersi sul serio, gettarsi sul serio nelle braccia di Dio, quale musica, Casella mio!

***

Musica è anche la riconciliazione di noi coi fratelli.Ai tuoi tempi c’erano le lotte tra Guelfi e Ghibellini, tra Bianchi e Neri, tra Montecchi e Cappelletti, Monaldi e Filippeschi e non so quante altre fazioni. Il tuo amico Dante, sconsolato e amaro, scriveva:"Vieni a veder Montecchi e Cappelletti, Monaldi e Filippeschi...vieni a veder la gente quanto s’ama!... Chè le città d’Italia tutte pieneson di tiranni, e un Marcel diventaogni villan che parteggiando viene".Oggi, caro Casella, succede lo stesso: tiranni esclusi, si vedono blocchi contro blocchi, nazioni contro nazioni, partiti contro partiti, correnti contro correnti, privati contro privati.Spesso si legge di attentati, di aerei dirottati, di banche assaltate, di bombe lanciate a bella posta per fare strage di inermi e di innocenti. Focolai di disordine sorgono un po’ dappertutto; si proclama la rivoluzione come unico rimedio ai mali della società e si educa la gioventù alla violenza.In mezzo a tutta questa confusione anarcoide e dissennata, davvero che la riconciliazione reinstaurata tra gli uomini sarebbe la musica la più desiderata e necessaria. Ad essa il Giubileo vuole portare un forte contributo con questa dinamica: "Riconciliatevi prima con Dio, rinnovando il vostro cuore, mettendo amore dove c’è odio, serenità dove c’è ira, desideri moderati ed onesti dove c’è cupidigia sfrenata.Una volta rinnovati e cambiati al di dentro guardate fuori con altro occhio e troverete un mondo diverso".E’ curioso infatti, caro Casella, come lo stesso mondo, con le stessissime cose, con gli stessi ambienti e con gli stessi abitanti possa diventare completamente diverso solo che, colla riconciliazione, vi si introduca l’amore e la pace, che dianzi mancavano.Lo dice il caso di quel generale coreano, che tu, esperto di armonie, capisci benissimo. Morto e giudicato, egli era stato assegnato al paradiso, ma, capitato davanti a san Pietro, gli venne un desiderio e lo espresse: metter prima, per pochi minuti, il naso dentro la porta dell’inferno, così, solo per farsi un’idea di quel triste luogo. “Accontentato!” rispose san Pietro.Si affacciò dunque alla porta dell’inferno e vide un’immensa sala con tante, lunghe tavole. Su di queste erano posate tante scodelle di riso cotto, ben condito, profumato, invitante. I convitati eran lì seduti, pieni di fame, due davanti ad ogni scodella, uno di fronte all’altro. Ma che? Per portare il riso alla bocca disponevano, alla maniera cinese, di due bastoncini, ma talmente lunghi che, per quanti sforzi facessero, neppure un grano di riso arrivava alla bocca. Qui era il supplizio, qui l’inferno. "Ho visto, mi basta!" disse il generale, ritornò alla porta del paradiso ed entrò.Stessa sala, stesse tavole, stesso riso, stessi bastoncini lunghi, ma i convitati erano allegri, si sorridevano e mangiavano. Perché? Perché ciascuno, colto il cibo coi bastoncini, lo porgeva alla bocca del compagno che gli stava di fronte e ci arrivava benissimo.Il pensare agli altri, invece che a sé, risolveva il problema, trasformava l’inferno in paradiso.Favola vera, caro Casella. Più che a star bene, diceva Manzoni, bisognerebbe pensare a far bene chè allora si starebbe tutti meglio!
Settembre 1973







[Edited by Caterina63 11/7/2017 9:22 AM]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Chesterton

In che razza di mondo... 


    
Caro Chesterton, Sul video della televisione italiana è apparso nei passati mesi Padre Brown, imprevedibile prete-poliziotto, creatura tipicamente tua. Peccato che non siano anche apparsi il professor Lucifero e il monaco Michele. Li avrei visti volentieri, come tu li hai descritti ne "La s/era e la croce", viaggianti in aeroplano, seduti l’uno accanto all’altro, Quaresima accanto a Carnevale. Quando l’aereo è sopra la cattedrale di Londra, il professore scaglia una bestemmia all’indirizzo della Croce. - Sto pensando se questa bestemmia ti giovi - gli dice il monaco. - Senti questa storia: io ho conosciuto un uomo come te; anche lui odiava il crocifisso; lo bandì da casa sua, dal collo della sua donna, perfino dai quadri; diceva che era brutto, simbolo di barbarie, contrario alla gioia e alla vita.

Diventò più furioso ancora: un giorno s’arrampicò sul campanile di una chiesa, ne strappò la croce e la scagliò dall’alto. 
Andò a finire che questo odio si trasformò in delirio prima e poi in furiosa pazzia. Una sera d’estate s’era fermato, fumando la pipa, davanti ad una lunghissima palizzata; non brillava una luce, non si muoveva una foglia, ma egli credette di vedere la lunga palizzata tramutata in un esercito di croci, legate l’una all’altra su per la collina, giù per la valle.

Allora, roteando il bastone, mosse contro la palizzata, come contro una schiera di nemici; per quanto era lunga la strada, strappò, spezzò, sradicò tutti i pali che incontrava. Odiava la croce ed ogni palo era per lui una croce. Arrivato a casa, continuò a veder croci dappertutto, pestò i mobili, appiccò il fuoco e l’indomani lo trovarono cadavere nel fiume. 

A questo punto, il professore Lucifero guarda il vecchio monaco mordendosi le labbra e dice: "Questa storia te la sei inventata!". "Sì, risponde Michele, l’ho inventata adesso; ma essa esprime bene quello che state facendo tu ed i tuoi amici increduli. Voi cominciate con lo spezzare la croce e finite col distruggere il mondo abitabile. La conclusione del monaco, che è poi la tua, caro Chesterton, è giusta. Togliete Dio, cosa resta, cosa diventano gli uomini? In che razza di mondo ci riduciamo a vivere? - Ma è il mondo del progresso, sento dire, il mondo del benessere! - Sì; ma questo famoso progresso non è tutto quel che si sperava: esso porta con sé anche i missili, le armi batteriologiche e atomiche, l’attuale processo di inquinamento, tutte cose che - se non si provvede in tempo - minacciano di portare l’umanità intera a una catastrofe. In altre parole il progresso con uomini che si amino, ritenendosi fratelli e figli dell’unico Padre Dio, può essere una cosa magnifica. Il progresso con uomini che non riconoscono in Dio un unico Padre, diventa un pericolo continuo: senza un parallelo processo morale, interiore e personale, esso - quel progresso - sviluppa, infatti, i più selvaggi fondacci dell’uomo, fa di lui una macchina posseduta da macchine, un numero maneggiatore di numeri, un barbaro in delirio - direbbe Papini - che invece della clava può servirsi delle immense forze della natura e della meccanica per soddisfare i suoi istinti predaci, distruttori ed orgiastici". 

Lo so: molti pensano a rovescio di te e di me. Pensano che la Religione sia un sogno consolatore: l’avrebbero inventata gli oppressi, immaginando un altro mondo inesistente, dove trovare più tardi ciò che oggi rubano loro gli oppressori; l’avrebbero organizzata, tutta a loro favore, gli oppressori, per tenere ancora sotto i piedi gli oppressi e addormentare in essi quell’istinto di classe, che, senza la Religione, il spingerebbe alla lotta. Inutile ricordar che proprio la Religione cristiana ha favorito il risveglio della coscienza proletaria, esaltando i poveri e annunciando una giustizia futura. - Sì, rispondono, il Cristianesimo risveglia la coscienza dei poveri, ma poi la paralizza, predicando la pazienza e sostituendo alla lotta classista la fiducia in Dio e le riforme graduali della società! Molti pensano anche che Dio e la Religione, incanalando speranze e sforzi verso un paradiso futuro e lontano, alienino l’uomo, lo distolgano dall’impegnarsi per un paradiso vicino, da realizzare qui in terra. 

Inutile ricordar loro che, secondo il recente Concilo, un cristiano, proprio perché cristiano, deve sentirsi più che mai impegnato nel favorire un progresso, che è bene per tutti e una promozione sociale, che sia di tutti. - Resta, dicono, che voi pensate al progresso per un mondo transitorio, in attesa di un paradiso definitivo, che non verrà. Noi, il paradiso lo vogliamo qui, sbocco di tutte le nostre lotte. Di esso già intravediamo il sorgere, mentre il vostro Dio dai teologi della secolarizzazione viene chiamato "morto". Noi siamo con Heine, che scrisse: "Senti la campanella? In ginocchio! Po­tano gli ultimi sacramenti a Dio che muore"! Caro Chesterton, tu ed io ci mettiamo bensì in ginocchio, ma davanti a un Dio più attuale che mai. Lui solo, infatti, può dare una risposta soddisfacente a questi tre problemi, che sono per tutti i più importanti: - Chi sono io? Donde vengo? Dove vado? Quanto al paradiso, che si godrà sulla terra e sulla terra soltanto, e in un futuro prossimo a conclusione delle famose "lotte", vorrei fosse sentito uno che è più bravo di me e - senza offuscare i tuoi meriti - anche di te: Dostoevskij. Tu ricordi il dostoevskijano Ivan Karamazov. E’ un ateo, pur amico del diavolo. Ebbene, egli protesta, con tutta la sua veemenza di ateo contro un paradiso ottenuto mercé gli sforzi, le fatiche, i patimenti, il martirio d’innumerevoli generazioni. I nostri posteri felici grazie all’infelicità dei loro antecessori!

Questi antecessori che "lottano" senza ricevere il loro acconto di gioia, senza, spesso, neppure il conforto d’intravedere il Paradiso uscito dall’Inferno che attraversano! Sterminate moltitudini di piagati, di sacrificati che sono, semplicemente, il terriccio che serve a far crescere i futuri alberi della vita! E’ impossibile!, dice Ivan, sarebbe un’ingiustizia spietata e mostruosa. 
Ed ha ragione. Il senso di giustizia che è in ogni uomo, di qualunque fede, esige che il bene fatto, il male sofferto siano premiati, che la fame di vita in tutti insita sia soddisfatta. Dove e come, se non in un’altra vita? E da chi se non da Dio? E da quale Dio, se non da quello, di cui Francesco di Sales scriveva: "Non temete punto Dio, che non vuole farvi del male, ma amatelo molto, perché vi vuol fare molto bene"? Quello che molti combattono non è il vero Dio, ma la falsa idea che di Dio si sonofatta: un Dio che protegga i ricchi, che solo chieda e pretenda, che sia invidioso del nostro avanzamento nel benessere, che dall’alto spii continuamente i nostri peccati per procurarsi il piacere di castigarli! 

Caro Chesterton, tu lo sai, Dio non è così: ma giusto e buono insieme; padre anche dei figli prodighi, che vuole non meschini e miseri, ma grandi, liberi, creatori del proprio destino. Il nostro Dio è talmente poco rivale dell’uomo che l’ha voluto suo amico, chiamandolo a partecipare alla propria natura divina e alla propria eterna felicità. E non è vero che Egli pretenda da noi esageratamente: sicontenta invece di poco, perché sa bene che non abbiamo molto. Caro Chesterton, io sono convinto con te: questo Dio si farà conoscere e amare sempre più, da tutti, compresi coloro che oggi Lo respingono non perché siano cattivi (sono forse più buoni di noi due!), ma perché Lo guardano da un punto di vista sbagliato! Essi continuano a non credere in Lui? E Lui risponde: -Sono ben io che credo in voi! 
Giugno 1971


Cicikov

Il tempo degli impostori 

    
Signor Cìcikov,   Il biglietto da visita che, scendendo all’albergo, avete rilasciato al domestico, vi qualifica per "Consigliere di Collegio", grado pari a quello di colonnello dell’esercito zarista. Non bello, vi descrive il Gogol, ma neppure brutto; né troppo grasso né troppo magro; non vecchio, ma nemmeno molto giovane. Invece, questo sì, avete in testa un capolavoro di progetto da attuare. Vi siete detto: "Il governo concede terre da colonizzare laggiù nel Cherson a chi dimostri di avere un buon numero di servi della gleba, o “anime”. Poco fa c’è stata un’epidemia e servi ne son morti, grazie a Dio, parecchi e figurano ancor vivi sui registri.
Approfitterò di quest’ultima circostanza: li compererò dai loro padroni come “anime vive”, anche se in realtà sono “anime morte”, presenterò al governo la loro lista; così ottengo i terreni e divento ricco sfondato". 
Deposti all’albergo i bagagli, cominciate subito le visite in città. Al Governatore accennate, oh! di sfuggita!, che nel suo Governatorato ci sientra come in un paradiso, che le strade qui sono di velluto, che ai governi, che mandano funzionari così intelligenti, s’ha da fare un monumento. Al Capo della polizia dite qualcosa di molto lusinghiero sulle guardie di città. Parlando col Vice-Governatore e col Presidente del Tribunale vi lasciate sfuggire il titolo di Eccellenza: è un errore, ma ai due piace moltissimo. Conclusione: il Governatore vi invita entro oggi a una seratina in famiglia mentre gli altri funzionari vi aspettano nei prossimi giorni chi per il pranzo, chi per una partitina di carte, chi per una tazza di tè. Siete già sulla cresta dell’onda, Cìcikov, la vostra maiuscola bugia promette bene, state per fare affari d’oro a spese - naturalmente - degli altri. 

Qui è il punto dolente. Voi siete certo un bel tipo, la vostra trovata è originale, ma... imbrogliate! E quel che è peggio, poiché siete un ladro in guanti gialli e con bugie spiritose, la società vi fa i complimenti e vi presenta le armi! Foste il solo! I casi sono invece infiniti! Da Talleyrand, che dichiara la parola regalo di Dio per "nascondere il proprio pensiero"; da Byron, che chiama la bugia "nient’altro che verità in maschera"; da Ibsen, che ne L’anitra selvatica difende la "menzogna vitale", asserendo che gli uomini comuni hanno bisogno della menzogna per vivere; da Andreev, che in Menzogna afferma dolorosamente non esserci più verità, arriviamo all’apprezzamento pratico di tanta gente, che considera la truffa e l’inganno come prova di intelligenza e di abilità negli affari.

***

Ohimé! Arriviamo oggi a casi ancora più macroscopici, resi possibili da tecniche nuove di comunicazione, che voi, Cìcikov, neppure potevate immaginare e che sono oggi sfruttate da pochi a danno di molti. Gilbert Cesbron ha appena sfornato un nuovo romanzo psicologico. Può interessare a voi, grande impostore, il sapere che l’ha intitolato: Ecco il tempo degli impostori! Impostori sarebbero -secondo Cesbron - quei della grande stampa, che, divulgando indiscrezioni scandalistiche e insinuazioni calunniose, fanno leva sugli istinti deteriori della gente e ne sfaldano un po’ alla volta il senso morale. Alla "grande stampa", Cesbron potrebbe aggiungere il cinema, la radio, la televisione. Questi strumenti nuovi, di per sé utilissimi, se manovrati da gente astuta, a furia di bombardare i ricettori con colori sonorizzati e persuasione tanto più efficace quanto più occulta, sono capaci un po’ alla volta di fare odiare dai figli il più buono dei padri, di far vedere bianco dov’è nero e viceversa. 

Le bugie vostre, con relativi sorrisi e complimenti seducenti, Cìcikov, possono oggi essere potenziate al mille per uno e diventare bugia corale, nazionale, internazionale e cosmica, facendo del nostro "il tempo per eccellenza degli impostori". Appunto come ha scritto Cesbron. C’è di più. Attraverso la stampa, la radio, la televisione, non si viene a contatto con i fatti in sé, ma con la versione dei fatti, interpretati da diversi in modo diverso. E allora si insinua nelle menti l’idea perniciosa che non si può arrivare mai alla verità, ma solo all’opinione. "Una volta c’erano certezze - si dice - adesso non siamo più nell’èra della credenza, ma dell’opinabile". I filosofi soffiano sul fuoco: "Il linguaggio - dicono - non è atto ad esprimere il pensiero. La verità è relativa, cioè cambia secondo i tempi e gli uomini". Di qui la sfiducia di molti nella verità, nella ragione umana, nella forza della logica; di qui l’accontentansi e l’abbandonarsi alle sole impressioni alogiche e acritiche. Ciò che è falso per l’uno è vero per l’altro, bugia e verità sono accettate con diritto eguale di cittadinanza. Un autentico schiaffo alla dignità dell’uomo e alla bontà di Dio, che ha creato l’uomo capace di certezze. E pazienza ci si fermasse al campo naturale. Si passa al campo religioso-divino. Si dice: "Siamo tutti storpi davanti alla verità.

Una volta c’era nella Chiesa la docenza autoritativa; adesso siamo tutti alla ricerca; è l’èra del pluralismo nella fede". 
Senonché la fede non è pluralista: si può ammettere un sano pluralismo nella teologia, nella liturgia, in altre cose, mai nella fede. Appena consta che Dio ha rivelato una verità, la risposta è sì per tutti, in tutti i tempi: sì con convinzione e coraggio, senza dubbi e tentennamenti. E va respinta con tutte le forze l’idea che le verità della fede siano solo espressione di un momento della coscienza e della vita della Chiesa. Esse valgono sempre anche se è possibile capirle sempre meglio ed esprimerle con formule nuove, più indovinate e più adatte ai tempi nuovi. Quanto alla docenza autoritativa c’era - entro debiti limiti - ieri e c’è oggi. Altrimenti, la Chiesa cesserebbe di essere “apostolica” e non sarebbe più vero che "Cristo è il medesimo ieri, oggi e per i secoli" (Ebrei 13, 8). Al contrario di questi dubitosi e scettici, voi, Cìcikov, vi mantenete sicuro nella conduzione del vostro affare; senza batter ciglio "sparate" cifre, date assicurazioni, togliete ostacoli.

C’è chi vi assomiglia nella imperterrita sicurezza: quelli che, credendosi investiti dal vento della profezia, puntano il dito e denunciano continuamente uomini e istituzioni. 
La "denuncia profetica" è il genere letterario da certuni oggi propagandato nella Chiesa cattolica.Non si nega che chi l’usa abbia spesso retta intenzione e amore alla Chiesa; lo scandalo provocato dalla denuncia è spesso perfino voluto a bella posta: "E’ necessario il tuono, il colpo di cannone per svegliare certa gente!",si dice. San Paolo preferiva dire: "Se un cibo scandalizza un mio fratello, non mangerò carne in vita mia". I Santi, anche quelli generati nella vostra Russia come San Nicola, procedevano, in genere, per altra strada: contestavano se stessi più che gli altri, sempre timorosi di offendere la carità. Maddalena di Lamoignon, nobile, colta e suora di Carità del seicento, lette le satire del poeta Boileau, le trovò troppo velenose e lo disse francamente all’autore. - "Vedrò di tener conto dell’osservazione un’altra volta - rispose Boileau - ma permettetemi almeno di scrivere contro il Gran Turco, nemico acerrimo della Chiesa!". - "Oh, no - rispose la suora - si tratta di un sovrano e va rispettato per l’autorità che riveste".- "Mi lascerete almeno fare una satira contro il diavolo!, sorrise Boileau, non negherete che se la meriti! ". - E la pia suora: "Il diavolo è già punito abbastanza.

Cerchiamo di non dir male di nessuno, per non correre il rischio di andarlo a trovare!". 
Sarà forse per non correre il suddetto rischio che tutti vi hanno dato piena fiducia, Cìcikov? Altri non hanno la vostra fortuna: non sono creduti neanche quando dicono il vero! Toccò a quel soldato che, ferito ad una gamba, pregò il commilitone vicino di portarlo al posto di medicazione. Accadde, però, che, nel tragitto, una palla di cannone portò via netta la testa al ferito senza che se n’accorgesse il pietoso soccorritore, che, arrivato col carico dal chirurgo, si sentì dire: "E che vuoi che faccia a un uomo, cui manca la testa?". Solo allora egli guardò il corpo ed esclamò: "Brutto bugiardo! E pensare che m’aveva dato da intendere di essere ferito a una gamba!". La via di mezzo sarebbe da scegliere: non la fiducia cieca e illimitata ad ogni parola od azione della gente, né la diffidenza esagerata, che senza motivi sospetta menzogne in tutti. Evitò la fiducia cieca l’ispettore di polizia, che fece arrestare due individui, i quali, in tuta, caricavano su un camion dei tubi di piombo. "Da che cosa avete arguito che fossero ladri e non operai?" gli fu chiesto. Risposta: "Lavoravano con troppa fretta per essere operai".

Non evitò, invece, la diffidenza esagerata il medico, che disse al collega: "Non ti faccio il prestito, perché io non mi fido di nessuno. Venisse dal Cielo San Pietro a chiedermi diecimila lire, fornendomi come cauzione la firma della Santissima Trinità, non gli darei un centesimo!". Diffidente pure Mark Twain, che, in seguito a noiose insistenze, scrisse sull’album di quella signorina: "Non dire mai bugie!" e aggiunse dopo riflessione: "eccetto che non sia per mantenerti in esercizio!".

***

Consigliere Cìcikov! Scrive Gogol, che non vi siete accinto ad attuare la vostra macroscopica finzione senza prima farvi il segno di croce secondo l’uso russo. Prima di iniziare la bugia avete dunque invocato Colui che è "venuto a rendere testimonianza alla verità" (Giov. 18, 37), che è la Verità, che ha detto: "Il vostro linguaggio sia: sì, sì; no, no" (Mi. 5, 37). Avete messo insieme verità e bugia con una incongruenza inconcepibile. Qui sta l’aspetto più doloroso del vostro mentire. Ricercatore di un cristianesimo autentico, noi cercheremo di fare il rovescio di quanto Voi avete fatto. Noi siamo per una vita senza infingimenti e doppiezze. Sia detto senza alcun rancore! 

Gennaio 1973


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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Circolo Pickwick

Le cantonate e la scala di Mohs 

    
Mi siete sempre stati simpatici, cari signori! Voi, presidente Pickwick, cavalleresco come un Don Chisciotte, con sempre alle costole quell’allegro e fedele ragazzo di Sam Weller, pieno di trovate e saggio come un Sancio Panza. E voi, Snodgrass, Tupman e Winkle con le vostre spassose bizzarrie! Tutti mi siete stati simpatici! Mentre leggevo, le vostre figure balzavano su vive dalle pagine di Dickens a farmi sorridere e, fino a un certo punto, capivo come fosse potuto accadere che un lettore morente avesse chiesto a Dio, per grazia, dieci giorni ancora di vita, tanti quanti occorrevano per avere e leggere l’ultima puntata del libro che vi immortala. Ma eccovi, presidente Pickwick, in ginocchio davanti ad una pietra scheggiata, emergente da terra vicino all’uscio di una casa. - Santo cielo!, esclamate voi, e strofinate la pietra col fazzoletto; intravedete sulla superficie alcune lettere, avete immediata e precisa Ia sensazione che debba trattarsi di un pezzo archeologico antichissimo, comperate dal padrone di casa la pietra per dieci scellini e ve la portate come una reliquia alla locanda presso i vostri tre amici. Posta sulla tavola, la pietra viene "mangiata", da tutti con sguardi brillanti di gioia Portata religiosamente alla sede del Circolo, su di essa, davanti l’Assemblea generale appositamente convocata, aprono la bocca diversi oracoli, facendo sulla iscrizione le più ingegnose e sottili congetture. 

Voi stesso, presidente, con la erudizione che vi distingue, scrivete un opuscolo con ventisette possibili interpretazioni dell’iscrizione! Fatica meritatamente premiata: sedici società scientifiche, nazionali e straniere, vi nominano membro onorario, a riconoscimento della scoperta. Ma che? Non salta fuori un antagonista invidioso nella persona del socio Blotton? Questi effettua un sopralluogo, interroga l’uomo che v’aveva venduta la pietra e riferisce al Circolo: "La pietra è sì antichissima, ma l’iscrizione è recente, eseguita dall’uomo stesso che ce l’ha venduta: egli asserisce che ha inteso scrivere questo e solo questo: BILL STUMP MIA FIRMA: tutti possono vedere!". La reazione del Circolo è immediata: espulsione di Blotton come denigratore e presuntuoso; occhiali d’oro votati e offerti al presidente Pickwick, in segno di approvazione e stima; mozione di biasimo delle sedici società nei confronti di Blotton. Adesso, però, fra di noi, possiamo dircelo: non si trattava di un "pezzo archeologico" ma di un banale, comune "sasso"; avevate preso una solenne "cantonata", presidente; e, in buona fede, l’avete fatta prendere ai tre amici, al Circolo intero e alle sedici società. Succede. E appunto perché succede, e affinché succeda il meno possibile, San Tommaso, un dottore della Chiesa, ha scritto un opuscolo apposito sulle "cantonate", intitolandolo "De fallacils". Mi permettete di delibarne con voi qualche punto? Sì? Grazie!

***  

La vostra cantonata, presidente, San Tommaso la chiamerebbe "paralogismo", ossia argomentazione falsa, ma formulata in buona fede. Ce n’è anche oggi: capita, per esempio, a me di sentire spesso i paralogismi di coloro che combattono in buona fede la Chiesa. Da una parte, ci soffro per amore di verità: la Chiesa, infatti, è tutt’altra cosa da quella che essi pensano. D’altra parte, un po’ mi consolo: vedo che essi, spesso, più che alla Chiesa, sono contrari all’idea ch’essi si sono fatti della Chiesa. Di solito, queste cantonate in buona fede o "paralogismi" si prendono in forza di pregiudizi, che sono nell’aria e sono fatti circolare dalla propaganda con slogans incisivi.

Esempio: "Chiesa dei poveri", "tesori del Vaticano", "Chiesa alleata col potere" sono concetti che rendono oggi ostile alla Chiesa parecchia gente, che fino a ieri l’amava e stimava senza riserve. Richiesta, questa gente, cosa intenda per "Chiesa dei poveri", magari non lo sa dire bene; sentito che i famosi "tesori" non hanno prezzo commerciale, che un reddito annuo anche cospicuo è fatto necessario per una S. Sede, che deve provvedere a mille problemi e bisogni anche e soprattutto dei poveri, la stessa gente si arrende in parte e conviene. Ma tant’è: la propaganda continua, i pregiudizi incidono, le "cantonate" non si evitano. Dio, per fortuna, giudicherà un giorno gli uomini dopo aver pesato le loro teste e li salverà - spero - nonostante le loro involontarie idee storte!

***  

Non tutti però, argomentando falsamente, hanno la vostra buona fede, presidente; c’è chi si propone volutamente di ingannare colle sue parole: allora non abbiamo più il paralogismo, ma il "sofisma" ed entrano in gioco brutte passioni umane. Quali? Metto per primo lo spirito di contraddizione, caratteristico del cosiddetto "Bastian contrario". Tu affermi; egli sente il bisogno di negare. Tu neghi, bisogna ch’egli affermi. Dialoghi con lui; mentre parli, pensa solo a come contraddirti, confutarti e affermarsi. Sul ponte stretto, gettato tra le sponde di un torrentello, un mulo si era fermato e aveva saldamente puntato gli zoccoli. Provarono a tirarlo per la cavezza, a spianargli le costole con un bastone, non c’era verso che si muovesse. Di qua e di là del ponte la gente aspettava impaziente. - Ci penso io! - disse uno, che meritava di essere del Circolo Pickwick. S’avvicinò, prese la coda del mulo e diede uno strattone: sentendo che lo volevano indietro, la bestia partì come una freccia in avanti e lasciò libero il passaggio. Così siamo noi, a volte, caro presidente! Facciamo quel che gli altri non vorrebbero facessimo; non facciamo quel che gli altri desiderano da noi: così comportandoci, non siamo sereni e retti nel pensare e nel parlare.

***

Avete mai sentito parlare di Mohs, presidente? Era uno scienziato, morto nel 1839, due anni giusti dopo la pubblicazione dei "verbali" del vostro Circolo. Egli è autore della "Scala di Mohs", che segna, su dieci scalini ascensionali, la durezza dei minerali; dal talco e dal gesso esso porta, di durezza in durezza, su su fino al diamante. Ebbene, presidente, dovreste dire a Mohs che certe teste sembrano più dure del diamante: non cedono mai, si incaponiscono in un’opinione sbagliata in barba ad ogni evidenza contraria. "Date un chiodo ad un ostinato - dice il proverbio - egli lo conficcherà con la sua testa!" In altre teste, è entrata l’ipercritica; uomini che trovano il pelo nell’uovo, rivedono le bucce a tutti, non si accontentano di niente e di nessuno.

Altri sono dogmatisti: per aver letto qualche rivista o viaggiato o fatto qualche esperienza, pensano di poter insegnare a tutti e mettono la punta del proprio naso al centro dell’universo. Diceva uno di costoro: Il Municipio? Io lo principio. Il Parlamento? Io lo sostengo. Domeneddio? L'ho fatto io!  E’ chiaro: ostinati, ipercritici e dogmatisti sono più che esposti e inclinati al sofisma. Viceversa, il modesto sentire di sé, il desiderio di ascoltare anche gli altri inclina a dire la verità. Si trovava in queste buone disposizioni d’animo il Mochi, nostro etnologo fiorentino e vostro contemporaneo, presidente, il quale aveva viaggiato moltissimo e soleva dire: "Parigi? Sì, l’ho vista: è come una Firenze più grande. Appena finita Firenze, comincia un’altra Firenze, poi un’altra... Parecchie Firenze, insieme, fanno Parigi. Massaua? Sì, l’ho vista: è come una Firenze più piccola, senza monumenti, senza il Viale dei Colli e senza il ‘Nuovo Giornale’". Molto modesto, come vedete e bene, perché meno superbi si è, più s’è garantiti contro l’insincerità e l’errore.

***  

Senonché, oltre la superbia personale, interviene anche la superbia di gruppo a causare sofismi. Prendete il partito, la classe, il paese: si va a rischio di abbracciare quella data idea non perché la si è riconosciuta vera, ma perché è l’idea del gruppo, del partito. Gli errori del razzismo, del nazionalismo, del campanilismo, dell’imperialismo, abbracciati da milioni di persone, vengono da qui. Da qui anche i sofismi prodotti dall’opportunismo. Per pigrizia, per interesse, si va senza reagire dove vanno gli altri, piume portate dal vento, travicelli in balia della corrente.

Ci siete cascato anche voi, presidente, nei famosi comizi elettorali in cui si fronteggiavano candidati ed elettori "azzurri" e "gialli" della cittadina di "Mangia e bevi". Sbarcato dalla diligenza cogli amici, vi trovaste circondato da un gruppo eccitato di "azzurri", che chiesero subito che simpatizzaste per il loro candidato Slunkey. Trascrivo dai "Verbali del Circolo": - Urrà per Slunkey! - ruggirono gli "azzurri". - Urrà per Slunkey! - fece eco il Signor Pickwick, togliendosi il cappello. - Abbasso Fizkin! - ruggirono gli "azzurri". - Abbasso! - ripeté il signor Pickwick. - Urrà! - E qui si ebbe un boato simile a quello di tutto un serraglio, quando l’elefante fa suonare la campana del rancio. - Chi è Slunkey? - sussurrò a questo punto Tupman. - Non so, - rispose Pickwick, nello stesso tono. - Ma zitto, non interrompere. In certi casi è meglio fare quello che fa la folla. - Ma se ci fossero due folle? - suggerì il Signor Snodgrass. - Allora bisogna gridare con quella più numerosa, - replicò Pickwick. Ahimé! presidente, avete detto più con questa frase che con un intero volume. Ahimé! Quando si arriva al punto di gridare con chi grida più forte, tutti gli errori possono capitare. E non sempre facilmente riparabili. Voi lo sapete: basta un matto per scagliare nel pozzo un braccialetto prezioso: venti savi, forse, non bastano per estrarvelo. Voi sapete e volesse Iddio che tutti ne fossero persuasi e nessuno facesse il "matto"!
Maggio 1972




Dickens

Siamo agli sgoccioli... 

    
Caro Dickens, Sono un vescovo, che ha preso lo strano impegno di scrivere ogni mese (1) per il Messaggero di S. Antonio una lettera a qualche illustre personaggio. A corto di tempo, sotto Natale, non sapevo proprio chi scegliere. Quand’ecco, trovo su un giornale la réclame dei vostri cinque famosi Libri natalizi. Mi son subito detto: li ho letti da ragazzo, mi sono immensamente piaciuti perché tutti pervasi da un senso di amore ai poveri e di rigenerazione sociale, tutti caldi di fantasia e umanità; scriverò a lui. E son qui a disturbarvi.

***

Ho ricordato dianzi il vostro amore ai poveri. L’avete sentito ed espresso magnificamente, perché tra i poveri eravate vissuto bambino. A dieci anni, col papà in prigione per debiti, al fine di aiutare la mamma ed i fratellini, andaste a lavorare in una fabbrica di vernici. Dalla mattina alla sera le vostre piccole mani imballavano scatole di lucido da scarpe sotto gli occhi di un padrone impietoso; la notte dormivate in una soffitta; la domenica, per far compagnia al padre, la trascorrevate con tutta la famiglia in prigione, dove i vostri occhi di fanciullo s’aprivano sbalorditi, commossi e attentissimi, su decine e decine di casi pietosi. Per questo tutti i vostri romanzi sono popolati da povera gente, che vive in una miseria impressionante: donne e bambini arruolati in fabbrica o in bottega indiscriminatamente anche sotto i sei anni; nessun sindacato che il difenda; nessuna proiezione contro malattie e infortuni; salari da fame; lavoro prolungato fino a quindici ore giornaliere, che, con desolante monotonia, lega fragilissime creature alla macchina potente e fragorosa, all’ambiente fisicamente e moralmente malsano e spesso spinge a cercare oblìo nell’alcool o a tentare un’evasione mediante la prostituzione. Sono gli oppressi: su di essi si riversa tutta la vostra simpatia. Di fronte, stanno gli oppressori, che Voi stigmatizzate con penna maneggiata dal genio della collera e dell’ironia capace di scolpire quasi su bronzo figure da maschera.

***

Una di queste figure è l’usuraio Scrooge, protagonista del vostro Canto di Natale in prosa.   Due signori, capitati nel suo studio, notes e penna alla mano, lo interpellano: "E’ Natale, migliaia di persone mancano del necessario, signore!". Risposta di Scrooge: "E non ci sono le prigioni? E gli ospizi di mendicità non funzionano ancora?". "Ci sono, funzionano, ma ben poco possono fare per rallegrare spiriti e corpi in occasione del Natale. Abbiamo pensato di raccogliere fondi per offrire ai poveri cibi, bevande e combustibili. Per che cifra posso iscrivervi?". "Per nessuna. Desidero essere lasciato in pace. Io non festeggio il Natale e non mi permetto il lusso di farlo festeggiare a dei fannulloni. Pagando la tassa sui poveri, do il mio aiuto alle carceri, agli istituti di mendicità; chi è nella miseria può rivolgersi là". "Molti non possono andarci, e molti preferirebbero piuttosto morire?". "Se preferiscono morire, meglio lo facciano in fretta per diminuire la sovrabbondanza della popolazione.
E poi, scusatemi, queste cose non mi riguardano". 
Così avete descritto l’usuraio Scrooge: preoccupato solo di soldi e di affari. Ma quando di affari parla allo spettro del suo "spirito gemello", il defunto socio usuraio Marley, questi lamenta dolorosamente: "Gli affari! Avere umanità avrebbe dovuto essere il mio affare. Il benessere generale avrebbe dovuto essere il mio affare: carità, clemenza e benevolenza, tutto questo avrebbe dovuto essere il mio affare. Perché ho camminato tra la folla dei miei simili cogli occhi rivolti a terra, senza mai alzarli su quella stella benedetta che condusse i magi ad una capanna? Non c’erano forse altre povere case verso cui la sua luce avrebbe potuto guidarmi?".    

***

Da quando scriveste queste parole (1843) sono passati più di centotrent’anni. Sarete curioso di sapere se e come è stato portato un rimedio alle situazioni di miseria e di ingiustizia che voi denunciaste. Ve lo dico subito. Nella vostra Inghilterra e nell’Europa industrializzata, i lavoratori hanno migliorato di molto la loro posizione. Avevano a loro disposizione come unica forza il numero. L’hanno valorizzato. Dissero i vecchi oratori socialisti: "Il cammello passava attraverso il deserto; le sue zampe calpestavano i granellini di sabbia ed egli, superbo e trionfante, diceva: “Vi schiaccio, vi schiaccio!" I granellini si lasciavano schiacciare.
Ma si alzò il vento, il terribile simoun. "Su, granellini, disse, unitevi, fate corpo insieme a me, flagelleremo insieme il bestione e lo seppelliremo sotto montagne di sabbia! ". 
I lavoratori da granellini divisi e sparsi sono diventati nube unita nei sindacati e nei vari socialismi, che hanno il merito innegabile di essere stati quasi dappertutto la causa principale dell’avvenuta promozione dei lavoratori. Questi, dai vostri tempi in qua, hanno realizzato avanzamenti e conquiste sul piano dell’economia, della sicurezza sociale, della cultura. Oggi poi, attraverso i sindacati, riescono spesso a farsi sentire anche lassù, nelle alte sfere dello Stato, dove in realtà si decidono le loro sorti. Tutto ciò, a prezzo di gravissimi sacrifici, superando opposizioni e ostacoli. L’unione dei lavoratori per la difesa dei propri diritti, infatti, fu dapprima dichiarata illegale, poi tollerata, poi riconosciuta giuridicamente. Lo Stato dapprima fu "Stato carabiniere", dichiarò il contratto di lavoro affare del tutto privato, proibì i contratti collettivi; il padrone teneva il coltello per il manico; imperava senza freni la "libera concorrenza". "Due padroni corrono dietro a un operaio? Il salario dell’operaio crescerà.
Due operai tirano per la giacca un padrone? Il salario calerà". Questa è la legge, si diceva, tale, che porta automaticamente all’equilibrio delle forze! Invece portava agli abusi di un capitalismo, che fu, ed in certi casi ancora è, "sistema nefasto". 
E adesso? Ahimé! Ai vostri tempi le ingiustizie sociali erano a senso unico: di operai, che dovevano puntare il dito contro i padroni. Oggi, a puntare il dito è uno sterminio di gente: i lavoratori dei campi, che lamentano di trovarsi molto peggio dei lavoratori dell’industria; qui in Italia, il Sud contro il Nord; in Africa, in Asia, in America Latina le nazioni del "Terzo Mondo" contro le nazioni del benessere. Ma pure in queste ultime nazioni ci sono numerose sacche di miseria e di insicurezza.

Molti lavoratori sono disoccupati o insicuri del posto, non dappertutto sono protetti a sufficienza contro gli incidenti, spesso si sentono trattati solo da strumenti di produzione e non da protagonisti. 
Per di più la corsa frenetica al benessere, l’uso esagerato e pazzo di cose non necessarie ha compromesso i beni indispensabili: l’aria e l’acqua pura, il silenzio, la pace interiore, il riposo. Si credeva che i pozzi di petrolio fossero come il pozzo di san Patrizio, senza fondo; improvvisamente ci si accorge che siamo quasi agli sgoccioli. Si confidava che, esaurito in tempi lontani il petrolio, si potesse contare sull’energia nucleare, ma ci vengono a dire che nella produzione di questa esiste il pericolo di scorie radioattive dannose all’uomo e al suo ambiente. Il timore e la preoccupazione sono grandi. Per molti il bestione del deserto da aggredire e seppellire non è più soltanto il capitalismo, ma anche il "sistema" attuale, da abbattere con rivoluzione capovolgitrice. Per altri il capovolgimento sta già cominciando. 

Il povero Terzo Mondo di oggi, dicono, sarà presto ricco, grazie ai pozzi di petrolio, che sfrutterà solo per se; il mondo del benessere consumistico, avendo il petrolio solo col contagocce, dovrà limitare le sue industrie, i suoi consumi e sottomettersi ad una recessione. Tra questo infittirsi di problemi, di preoccupazioni e di tensioni, valgono ancora, allargati e adattati, i principi da Voi, caro Dickens, caldeggiati sia pure un po’ sentimentalmente. Amore al povero, e non tanto al povero singolo, quanto ai poveri, che respinti, sia come individui sia come popoli, si sono sentiti classe e solidarizzano tra loro. Ad essi, senza titubanza, sull’esempio di Cristo, va data la preferenza sincera e aperta del cristiani. Solidarietà: siamo un’unica barca piena di popoli ormai ravvicinati nello spazio e nel costume, ma in un mare molto mosso. Se non vogliamo andare incontro a gravi dissesti, la regola è questa: tutti per uno e uno per tutti; insistere su quello che unisce, lasciar perdere quello che divide. Fiducia in Dio: per bocca del vostro Marley, Voi auspicavate che la stella dei Magi illuminasse le case povere. Oggi casa povera è il mondo intero, che ha tanto bisogno di Dio! 
  Febbraio 1974






Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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11/7/2017 9:35 AM
 
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Dupanloup

Il testo c'è, ma le teste? 

    
Caro Vescovo e Accademico di Francia,   "Carbone acceso, sul quale soffia ora la natura, ora la grazia". Cosi vi hanno definito. Io trovo, invece, che in Voi “soffiò” molto più la grazia che la natura. Anche quando combatteste sui giornali o all’Assemblea nazionale francese o al Senato o al Concilio Vaticano I le vostre grandi battaglie, vi guidò e animò sempre un profondo senso religioso, un cuore entusiasta sì, ma retto e leale. Dirigeste un Seminario; e perfino Renan, vostro ex alunno, vi dichiarò "educatore ineguagliabile". Ci fu una campagna per la scuola libera; e Lacordaire, Montalembert e Falloux Vi ebbero al loro fianco nella lotta e nella vittoria. Uscì il Sillabo di Pio IX, suscitando reazioni penose e vaste; e Voi ne faceste un commento così moderato e giudizioso da placare in parte la tempesta, riscuotendo il plauso di ben seicento vescovi e l’approvazione dello stesso Pio IX. Talleyrand, quel grosso peccatore e apostata, era ritenuto irrecuperabile da tutti; Dio lo recuperò, ma si servì di Voi, del vostro tatto, della vostra comprensione e pazienza. Insomma, grande vescovo, grande letterato, mattatore in tutti i movimenti di idee e opinioni del vostro secolo. Per me però l’aspetto più interessante della vostra persona e della vostra opera è la passione per il catechismo. Avete cominciato a istruire i piccoli ancora chierico a san Sulpizio; avete continuato giovanissimo prete all’Assunta e alla Maddalena; tutta Parigi accorreva ad ascoltarvi. Anche da vescovo, il catechismo fu in cima ai vostri pensieri, invase la maggior parte dei vostri libri. Avete scritto nel vostro diario: "Appena assegnatami la classe dei piccoli, presi subito fuoco: da allora, ciò che non è catechismo, azione pura della grazia sulle anime, è niente ai miei occhi; il piccolo letterato, ch’era in me, cedette il posto e si pose a! completo servizio del catechista". Scriveste ancora: "Il più bello dei ministeri è il ministero pastorale. Ma il catechismo è più bello ancora. E’ il bell’ideale del cuore di Dio. Niente gli si può paragonare. E’ il ministero più puro, il più disinteressato, il più distaccato da pretese".

***

M’è venuto di pensare a Voi e a queste vostre appassionate convinzioni, perché ho sottocchio il testo del "Catechismo dei fanciulli" che sarà sperimentato in Italia dal prossimo ottobre in poi. Buon testo, mi pare. Ma che vale il testo, se poi non ci sono le teste ei cuori dei catechisti? A me, pretino, dicevano: "Il testo è appena un sussidio, uno stimolo, non una comoda poltrona, in cui il catechista si adagia per riposarsi". "Il testo, per quanto ben fatto, resta cosa morta: tocca al catechista renderla viva". "Tanto vale la lezione quanto la preparazione! ". "Ai piccoli non si insegna tanto quello che si sa, quanto quello che si è: poco giovano le belle parole uscite dalla bocca del catechista, se altre parole escono dalla sua condotta a smentirle". Mi si raccontava di Pietro Ribadeneira, un ragazzo tempesta, un "Giamburrasca" ante litteram, che sant’Ignazio aveva condotto con sé a Roma dalla Spagna. "Fatti con più garbo il segno della croce!", gli dice un giorno sant’Ignazio. "Padre Ignazio, ma io lo faccio tale e quale i vostri gesuiti!". "Cosa dici! I miei gesuiti fanno il segno di croce come si deve!". Ilragazzo non replica, ma ne pensa una. Igesuiti al mattino si alzavano per tempissimo, e andavano in cappella attraverso i corridoi bui in veste nera e cotta bianca. Pietro riempie la pila dell’acqua santa con inchiostro nero. I gesuiti, passando, intingono le dita, si segnano, vanno ai banchi per la meditazione, finita la quale, depongono le cotte in sacrestia. Pierino, svelto, fa un bottino di tutte quelle cotte, le porta a Sant’Ignazio: "Venga, Padre, e verifichi i segni di croce dei suoi cari gesuiti!" Ahimè! Le macchie d’inchiostro dicono chiaro che anche i gesuiti talvolta fanno il segno di croce “come Dio vuole”, o meglio come Dio non vorrebbe! E qui, davanti alla mia fantasia, passa la schiera dei catechisti laici. Igenitori anzitutto. Essi sono "i primi predicatori della parola", ha detto il Concilio. Per le immagini sacre, che sono in casa, per la preghiera che vi si fa, per i discorsi che vi si tengono, per il rispetto mostrato verso i sacerdoti e le cose sacre, i figli possono trovarsi immersi in un caldo e naturale ambiente di religiosità. Ma si deve far qualcosa di più. Windhorst, uomo di stato tedesco, richiesto da una signora di come dovesse posare davanti a! fotografo, rispose: "Col catechismo in mano, signora, in atto d’insegnarlo ai vostri figli!". In realtà, il primo libro di religione, che i figli leggono, sono i genitori stessi. Buona cosa, se il papà dice al ragazzo: "C’è in chiesa un frate confessore: non credi che potresti approfittarne?". Cosa migliore se dice: "Vado in chiesa a confessarmi; vuoi venire anche tu?".  

***

Qui però trovo oggi degli obiettori: genitori che si dicono cristiani, e che rimandano perfino il Battesimo dei loro bambini. "Nessuna pressione su mio figlio! A vent’anni sceglierà!". Voi, collega Dupanloup, avete già risposto a questa obiezione come segue: A vent’anni! L’età di tutte le passioni! L’età nella quale soprattutto suo figlio avrebbe bisogno di una fede penetrata fin nell’intimo del suo essere per averne aiuto! E come farà questo ragazzo ventenne a scegliere fra le tante religioni esistenti, se prima non le ha studiate tutte? E come studiarle tutte, preso com’è dalla scuola, dallo sport, dai divertimenti, dalle amicizie? Uno, per diventare l’erede di un ricchissimo patrimonio, basta che sia nato. Ereditare ricchezze, infatti, è una fortuna e si pensa, si interpreta che, anche se per ora è inconscio, il bambino sarà, a suo tempo, arcicontento e ultraconsenziente per la fortuna toccatagli. Se un papà è cristiano sul serio, deve pensare che divenire col Battesimo figlio di Dio e fratello di Cristo, è una fortuna immensa; perché dovrebbe privarne suo figlio? "Sì - riprese l’obiettore - ma a questa fortuna sono legati impegni morali pesanti! Questi non devono essere accollati a mio figlio senza il suo permesso!"Voi, Dupanloup, avete risposto anche a questo: Quante cose si impongono ai figli senza il loro permesso! Senza chiedere permesso, intanto, li avete messi al mondo! Il nome, la famiglia, l’ambiente e la situazione sociale, i vestiti, la scuola dei primi anni, tutto avviene senza chiedere permesso agli interessati. Ma è poi una disgrazia che il figlio abbia le buone leggi cristiane da osservare? Dio ha forse dato agli uomini le sue leggi per un capriccio trionfalistico o in vista di un proprio vantaggio? Non diventa moralmente grande e felice l’uomo, se accetta di avere dei doveri e dei limiti? La libertà? Sì, d’accordo, ma essa non consiste nel fare tutto quello che pare e piace, bensì nel poter fare ciò che si deve fare!  

***

Dopo i genitori, sono catechisti i maestri delle elementari. Voi avete scritto cose finissime sui vostri primi maestri. A mia volta, io penso con tenerezza ai miei e condivido le parole di Otto Ernst: "Per me non c’è niente di più grande di un maestro elementare". Mi rivedo fanciullo sui banchi della mia scuola di Canale coi sentimenti degli scolari, di cui parla Goldsmith in “Villaggio abbandonato”: stupiti, a bocca aperta, davanti al maestro e tutti a chiedersi come mai da una testa cosi piccola potessero venir fuori cose così grandi e meravigliose! Intendiamoci: non sono così ingenuo da mitizzare fanciulli e maestri. C’è anche il rovescio della medaglia, lo so. Innocenti come angeli, i fanciulli; ma spesso orgogliosi come prìncipi, arditi come eroi, sfrenati come puledri, testardi come asinelli, volubili come i fiori del girasole, con una gola lunga come il collo delle gru; sempre però di una età preziosa, confidente e plasmabile. Quanto ai maestri, ce n’è che sanno prendere gli alunni dal loro verso e cioè dal bisogno di avere un capo, che si imponga con la bravura e la simpatia; ce n’è che sono domati e dominati, invece che domatori e dominatori. E "domata" sembra la maestra di prima, ricordata dal nostro Mosca. Passando nei corridoi, egli scrive, si sentiva la sua voce: - I cavalli hanno quindici gambe? - No, si sentivano rispondere in coro gli scolaretti. - Ne hanno forse dodici? - Nemmeno. E, calando sempre il numero delle gambe, arrivava, finalmente al numero vero. -Ne hanno quattro? - No, rispondevano con entusiasmo gli scolari! Povera maestra! Il citato Mosca, invece, era di un’altra pasta. Come arrivò a "conquistare" la terribile “Quinta C”? Semplice: acquistandosi la simpatia dei suoi quaranta ragazzi. Ma come si conquistò la simpatia? Ce lo dice: "Un moscone fu la mia salvezza". Un moscone, che, entrato in classe, col suo ronzio attirò l’attenzione di tutta la scolaresca.

Un altro maestro avrebbe forse detto: "Attenzione a me e non al moscone! ". Mosca invece dice a uno: "Ti sentiresti capace, con un colpo di fionda, di abbattere quel moscone?". "E’ il mio mestiere", fa il ragazzo, che esce subito dal banco colla fonda in mano, prende di mira il moscone e tira, ma sbaglia il bersaglio. "A me la fonda!", dice Mosca e, a sua volta, prende di mira il moscone, tira e lo fa cadere morto ai suoi piedi. Colpo superlativo di bravura, che gli assicura l’immediata ammirazione dei ragazzi prima in atteggiamento di minaccia e sfida. "Se lei avesse almeno i baffi!", gli aveva detto il direttore, diffidente per l’età troppo giovanile del maestro. Più dei baffi però contano, si vede, altre doti! E’ incalcolabile il bene che, insegnando religione, possono fare ai fanciulli, con il loro ascendente, i maestri. Ad un patto: che essi espongano con fedeltà l’autentica parola di Dio e non le proprie personali opinioni. A volte succede: si scambia la verità col progressismo; si disprezza ciò che il Magistero della Chiesa insegna, perché si vogliono sostituire cose nuove alle cose vecchie. Ma la sostituzione, legittima, opportuna e fin necessaria, se si tratta di aspetti secondari e sorpassati dalla Chiesa, è pericolosissima in altri casi. I maestri raccontano ai loro alunni la fiaba di Aladino e della sua lampada meravigliosa sottratta al mago. Questi, a un certo punto, vuole la rivincita.
Passa per le strade gridando: "Baratto lampade nuove con lampade vecchie!". Pare un ottimo affare, ed invece è una truffa. La moglie credulona di Aladino ci casca. Assente il marito, va in soffitta, prende la lampada, di cui non conosce la virtù portentosa, la consegna al mago. Il briffaldo se la porta via, lasciandole in cambio tutte le sue lucerne di latta luccicante, ma di nessun valore. Il trucco si ripete: ogni tanto passa un mago, mistico, filosofo o politico che sia, e’ offre di barattare mercanzia. Attenzione! Le idee offerte da certi "maghi", anche se luccicano, sono latta, cosa umana, di un giorno! Quelle che essi chiamano idee vecchie e sorpassate, sono spesso idee di Dio, delle quali è scritto che non passerà neppure una virgola! Ahimè, caro Dupanloup, io Vi ho quasi dimenticato, scrivendo di catechisti e maestri. Ma proprio a questi catechisti e maestri, Voi avete qualcosa da dire. E cioè: unire, come avete fatto Voi, la fedeltà a Dio con la fiducia nei veri valori della civiltà moderna e nella perpetua giovinezza della Chiesa. 
Agosto 1974





Gioacchino Belli

Parole, parole, parole... 

    
Caro poeta, Avete trattato piuttosto male nei vostri versi il mio concittadino Papa Gregorio XVI, bellunese. Questo non m’impedisce di riconoscere che negli oltre duemila sonetti in romanesco, che ci avete lasciato, avete talvolta ritratto con vivacissima verità il popolo romano, la sua lingua, l’indole, il costume, gli usi, le credenze, i pregiudizi, le virtù ed anche i difetti. Qualche volta, a dire il vero, siete scivolato nello scrivere; la vostra vita è stata quella di un galantuomo e ci teneste a dirlo: "Scatagnàmo ar parlà, ma aràmo dritto" (pecchiamo nel parlare, ma righiamo diritto). Quante battute felici, però! Questa per esempio: "Non faccio per vantarmi, ma oggi è una bellissima giornata". Alcuni dei vostri sonetti sono poi dei veri quadretti di genere, da cui balzano fuori vivi e parlanti artigiani, donne del popolo, cospiratori, commercianti, prelati e semplici preti. Fra questi ultimi, l’abate Francesco Cancellieri. Lo descriveste in versi famosi, che poi voi stesso commentaste in prosa cosi: Cancellieri "cominciava a parlare di ravanelli, e poi, di ravanelli in carota e di carota in melanzana, finiva con l’incendio di Troia"!

***

Dispiace che, con la sua logorrea sconclusionata ed affliggente, il buon abate abbia fatto cattiva propaganda alla conversazione, la quale, se si svolge nei modi dovuti, è invece una gran bella cosa per la nostra vita di poveri uomini. La conversazione, infatti, ci mette vicino agli altri e ci dà un profondo senso di noi stessi; ci riposa dalle nostre fatiche, ci distrae dalle preoccupazioni, sviluppa la nostra personalità, rinfresca i nostri pensieri. Sono triste? La simpatia di chi conversa con me mi conforta. Mi sento solo? La conversazione fa cessare la solitudine: se si tratta di conversazione familiare, sono felice di essere ammesso nella intimità altrui; se si tratta di conversazione importante, mi sento onorato di venire trattato come una "intelligenza". E’ la prima volta che converso con la tal persona? Mi pare di viaggiare piacevolmente attraverso un paese sconosciuto. E’ la seconda, la terza, la quarta volta? Mi pare di tornare a vedere luoghi già visti, di cui, però, non avevo ancora approfondito tutte le bellezze paesaggistiche. Trovo anche che, conversando, mi arricchisco. Possedere infatti salde convinzioni, è bello; possederle in modo tale da poterle comunicare e vederle condivise e apprezzate, è più bello ancora. La chiarezza della cosa da me detta aumenta la chiarezza della cosa pensata. Se percepisco che il mio sentimento fa vibrare l’animo altrui, me lo sento ritornare ripercosso e accresciuto in me. Nella conversazione ha trovato sollievo anche Gesù; per toccarlo con mano, basta leggere in San Giovanni le confidenze fatte ai suoi apostoli durante l’ultima Cena. Della conversazione Gesù ha fatto spessissimo il veicolo del suo apostolato: parlava, camminando lungo le strade, passeggiando sotto i portici di Salomone; parlava nelle case, con le persone attorno come Maria seduta ai suoi piedi, come Giovanni che reclinava la testa sul suo petto. Più volte mi sono chiesto: perché il Signore ha esposto spesso a tavola le più alte verità? Forse perché nel tempo del pasto la gente depone ogni sussiego e assume un atteggiamento calmo, modesto, disteso. A tavola sono minori o nulle le sollecitudini e le irrequietezze; le persone vi si siedono senza animo polemico, disposte all’accoglienza ed alla simpatia.

***

E fu appunto conversando a tavola che l’altrieri mi venne quasi fatto di persuadere un ospite. Questi si dichiarava - tra un boccone e l’altro, tra un sorriso e l’altro - gran fautore del pluralismo nella fede. "Per me è chiaro, - diceva - nessuno ha in tasca tutta la verità cristiana. Ognuno di noi ne ha solo un pezzetto e bisogna lasciarglielo godere in pace. L’unità la fa solo Dio dall’Alto, mettendo insieme i vari pezzetti e facendone la sintesi". "Ohimé! - risposi - scusa, ma la tua idea di Dio e di verità sembra a me quella degli orbi dell’India". "Quali orbi?", dice lui. "Aspetta!". Mi alzo, esco e torno con in mano "I quattro libri di lettura" di Lev Tolstoi. "Lascia che te ne legga una sola pagina". E leggo. Gli elefanti del re(favola). Un re indiano ordinò di radunare tutti i ciechi e, quando ciò fu fatto, disse di mostrar loro i suoi elefanti. Uno tastò la gamba, un altro la coda; un terzo la radice della coda, un quarto il ventre, un quinto il dorso, un sesto le orecchie, un settimo i denti e un ottavo la proboscide. Poi il re fece venire i ciechi al suo cospetto e domandò: "A che somigliano i miei elefanti?". Il primo cieco rispose: "I tuoi elefanti somigliano alle colonne". Era quello che aveva tastato le gambe. Il secondo disse: "Somigliano ad una scopa". Era quello che aveva tastato la coda. Il terzo disse: "Somigliano ad un ramo". Era quello che aveva tastato la radice della coda. Quello che aveva tastato il ventre, disse: "I tuoi elefanti somi­gliano ad un mucchio di terra". Quello che aveva tastato i fianchi, disse: "Somigliano ad un muro". Quello che aveva tastato il dorso, disse: "Somigliano ad una montagna". Quello che aveva tastato le orecchie, disse: "Somigliano ad un ariete". Quello che aveva tastato i denti, disse: "Somigliano alle corna". Quello che aveva tastato la proboscide, disse: "Somigliano ad una grossa corda". E tutti i ciechi cominciarono a disputare tra loro e a litigare. Deponendo il libro, dico: "Senti, a me ripugna pensare che Dio abbia mandato suo Figlio a dirci 'Io sono la via, la verità e la vita' con il bel risultato di farci poi trovare tutti nella situazione di quei ciechi, con in mano ciascuno una misera particella di vera, diversa dalla particella degli altri. Che noi si conosca le verità della fede solo per analogia, sì; ma orbi fino a questo punto, no; mi pare indegno sia di Dio sia della nostra ragione!". L’inaspettata teologia fatta a base di code e schiere di elefante, non convinse del tutto l’ospite, ma lo scosse, facendogli dire: "Toh! questo nessuno me lo aveva detto! ". "Non lo sai? - risposi - a volte sono i paperi, che menano le oche a bere. Dove Rahner non riesce coi suoi volumoni di teologia, può sottentrare Tolstoi colla favoletta! ".

***

Da Rahner e da Tolstoi, illustre Belli, torno a Voi, riconoscendo che - nella conversazione - c’è anche il rovescio della medaglia: lo sproloquiare del vostro abate Cancellieri è appena uno dei tanti difetti. Ce n’è altri, e lo sappiamo noi a Venezia, dove il Goldoni ha descritto i guai combinati dal con­ersare ne "I pettegolezzi delle donne"; ne "La bottega da caffè" con quel don Marzio così maldicente e piantagrane; ne "Il bugiardo" con quel Lelio, che aggiunge bugie a bugie, spacciandole come "spiritose invenzioni"; ne "Le baruffe chiozzotte" e ne "Il campiello" con quelle donne, che sembrano chiedere all’amica di custodire un segreto solo per diffondere una notizia. Ma anche Voi ne sapete qualcosa: lo dimostra il delizioso quadretto, che trascrivo con qualche modifica nella grafia.Eccote qua sì ccome l’ho saputa. Nanna s’è con fidata con Vincenza; questa l’ha detto a Nina, a la Sapienza; Nina l’ha detto in confidenza a Tuta. Cussì è andato a l’orecchia de Clemenza, ch’è corsa a racontallo a la baffuta: e lei, ch’è amica mia, oggi è venuta a dimmelo a quattr’occhi in confidenza. E s’io l’ho detto a te, so de raggione che tu sei donna ch’el segreto mio l’hai sentito in sigill de confessione. Comare, abbada per l’amor de Dio, se te pijasse mai la tentazione de dillo, non lo dì che l’ho detto io! Conversare, dunque, sì, ma non a scapito della carità, della verità, del lavoro, dello studio: della misura, insomma. Che non ci capiti di avere anche noi sulla nostra tomba scolpita la seguente epigrafe: E’ qui sepolto il gran ciarlon Soemo: Ora un poco anche noi parlar potremo!

***

Altro è conversare, altro è chiacchierare inconsideratamente infilzando una dopo l’altra notizie inutili, nascondendo la propria anima invece di rivelarla, tagliando la strada ad altri interlocutori, stordendo la gente e lasciandola prostrata di forze! Ho letto che a Tommaso Moro, in un suo viaggio in Olanda, capitò di far strada con un uomo dal parlare molto piacevole per lo spazio che lasciava all’interlocutore, per le cose che diceva e per il brio con cui le diceva. Ad un certo punto, ammirato per una nuova risposta quanto mai spiritosa ed azzeccata del compagno, Tommaso esclamò: "Ma voi, o siete il diavolo o siete Erasmo di Rotterdam! ". "Diavolo non sono - rispose l’altro - ma Erasmo sì". L’episodio dice che la conversazione ci rivela tali quali siamo e che in essa dobbiamo cercare di dire qualcosa di utile, di interessante e di piacevole, senza predicozzi, senza pose, senza parole scelte o altisonanti. Queste ultime, caro Belli, non piacevano neanche a Voi e lo diceste chiaro, prendendo di mira una innocente congiunzione, che usata oggi, farebbe ridere, ma che ai vostri tempi, era di gran moda. Conciossiacosaché l’è una parola, che i nostri padri udivano la prima, al primo ingresso nella prima scuola. E tale e tanta ne facevan stima che sempre ne tenean piena la gola da sputarla dovunque e in prosa e in rima. Se veniste oggi, il conciossiacosaché non l’udireste più. Dovreste, invece, far l’orecchio ad altre frasi: "confrontarsi con la parola di Dio", "discorsi e gesti profetici", "istanze sociali", "mediazione fra fede e storia", "strutturalismo", "comunione", "liberazione", "inchiestare", "verificare", "leggere in chiave di questo, essere a livello di quest’altro". Sono tutte parole che esprimono concetti elevati, intendiamoci, ma è un po’ buffo vedere persone dichiaratamente anticonformiste "conformarsi" allegramente a queste parole solo perché sono quelle usate da alcuni alti papaveri. Io me ne meraviglio pressappoco come vi meravigliaste Voi di fronte ad altre frasi: Io non posso capi da che ne naschi che sentendo la gente gli starnuti abbiano da infilzà tanti saluti e gnente per la tosse e pe’ li raschi. "Prosit, buon pro, evviva, Iddio v’aiuti, bezzi, felicità, pieni gli fiaschi et iterum salute, e figli maschi"...  Voi non potevate capire allora il perché. Io non son capace di capire adesso. Che la colpa sia della moda? Essa è stata definita "orrore del Passato Prossimo", "non madre, ma suocera e tiranna del buon senso". Quanto meglio se, almeno in conversazione, al posto delle difficili parole di moda, usassimo parole semplici e facili, magari prese a prestito dalle favole di Tolstoi o dai vostri sonetti, ovviamente selezionati e purgati! 
Luglio 1974





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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11/7/2017 9:41 AM
 
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Goethe

Nobiltà fa' obbligo 

    
Illustre poeta, L’ultima Mostra del Cinema (1971), chiacchierata cento volte e in cento modi, mi ha fatto pensare, non so perché, a Voi. Si tratta forse di impressioni, che emergono dal mio subcosciente su provocazione di parole lette sui giornali di quei giorni e vi evocano come esteta, artista, critico d’arte. Voi foste grande esteta, perché capace di percepire subito, intensamente e ad enormi bracciate il "bello naturale" ch’è sparso nel mondo, dai fenomeni della natura alle passioni intense dell’animo umano. Foste grande artista, perché capace di esprimere potentemente per gli altri sia il bello percepito, sia gli stati d’animo, con cui l’avevate percepito. Foste insigne critico d’arte, perché vi chinaste con intendimento e passione sulle creazioni artistiche altrui. La Germania non vi ammirò direttore per venticinque anni del teatro di Weimar? Non chiamaste vostro "secondo giorno di nascita" quello in cui metteste piede nella Roma dei monumenti antichi? Non sveniste quasi di felicità nel contemplare l’Apollo del Belvedere? Peccato che non abbiate potuto invece "contemplare" i films della Mostra, né io osservare le vostre reazioni; cerco, dunque, di intuirle.

***

Come esteta avreste trovato alla Mostra un sacco di cose belle, per voi nuove. Il cinema stesso, fatto com’è di luce, di movimento, colori, musica e azione, è una cosa bella. Vi sedete davanti allo schermo. Se il montaggio del film è stato accorto, un ritmo rapido vi trascinerà insieme agli avvenimenti e le ore vi sembreranno minuti. I "primissimi piani", riempiendo gli schermi con un solo volto, avvicineranno a voi straordinariamente le figure, mostrando anime sconvolte da profonde emozioni e creando tra voi e gli attori una grande intimità. Gli scorci potenti, che avete ammirato nel Mantegna e nel Caravaggio, li potrete vedere ingigantiti, grazie all’ "angolazione" che riprendendo, mettiamo, un farabutto dal basso, lo deforma con ombre sinistre e ve lo fa apparire minacciosissimo e terrificante. Questo, tanto per accennare a qualche dato. Troverete al cinema anche il "bello artistico"? Credo di sì. Il "critico d’arte", ch’è in voi, si prepari però a delle sorprese. Eravate abituato alle trascendenti contemplazioni, ai fervori classici, ad ascoltare un linguaggio che saliva a voi da architetture, da marmi ed affreschi, da miniature di codici. Giudicavate, in singolo, l’architetto, il pittore, l’attore-interprete. Nel cinema gli artisti possono invece essere parecchi: produttore, sceneggiatore, regista, attore, ciascuno agendo d’intesa e in armonia con gli altri per produrre un unico film. Difficile, però, individuare qual è stato il vero "momento creativo" dell’opera: ciò varia da un film all’altro. L’arte ci può essere, ripeto, e altissima, ma, se c’è, non si lascia includere in questo o quello scomparto, ama invece vagare e scorribandare attraverso tutti gli scomparti. Arte sui generis: la chiamano "Decima Musa". In chiave di influenza, poi, diventa "Quinto potere" dopo il Parlamento, il Consiglio dei Ministri, la Magistratura e la Stampa.

Quanto ad estensione, però, essa può talora chiamarsi "Primo potere": è stato infatti calcolato che qualche film, nel giro di anni, abbia influenzato miliardi di spettatori. Tanto esso può condizionare! 
Ma, a sua volta, viene condizionato, perché legato all’industria, al commercio e quindi al denaro. Il regista, gli attori desiderano spesso di produrre opere ad alto livello artistico, che permettano loro di rivelarsi. Ma il produttore, che deve mettere fuori i soldi, ragiona in modo diverso e vuole films di successo o di "cassetta". Se esistesse uno stregone, mettiamo il Vostro dottor Faust o addirittura Mefistofele in persona, che, a colpi di bacchetta magica o con filtri ed incantesimi, garantisse a priori il successo del film artistico, il produttore farebbe il film artistico. Non essendoci lo stregone, il produttore cerca di ingegnarsi per altre vie. Quali? Terenzio ebbe, ai suoi tempi, l’amara sorpresa di vedere gli spettatori lasciare le sue commedie artistiche per andare a ridere a crepapelle dai saltimbanchi e dai mimi, che erano venuti a prodursi nei pressi del teatro. Il fenomeno si ripete: i produttori tendono a sfornare films che assecondino le tendenze meno nobili degli spettatori, che alle sale cinematografiche vanno di solito non per elevarsi, ma per sollazzarsi. 

Ecco, allora, una cosa che forse avrebbe rattristato alla Mostra Goethe critico d’arte: constatare che c’erano i mezzi e le persone per realizzare dei capolavori e trovare talvolta nelle opere realizzate soltanto delle cose mediocri per colpa delle prevalenti preoccupazioni economiche. Un altro fenomeno vi sarebbe potuto succedere: di trovare in qualche film dell’arte autentica, mescolata però ad immoralità altrettanto autentica. Qui, forse, Vi stupisce ch’io ammetta l'esistenza di opere immorali e, insieme, artisticamente belle. Gli è che l’aggettivo "artistico" si riferisce all’opera; l’aggettivo "immorale", invece, si riferisce all’agire dell’artista-uomo e cristiano. Certe novelle immorali del Boccaccio sono artisticamente belle; il Boccaccio, però, ha commesso, scrivendole, una azione moralmente brutta, che si ripercuote con danno in alcune categorie di lettori. Ne sapete qualche cosa anche Voi, che, dopo aver scritto I dolori del giovane Werther, vi sentiste inquieto e turbato, constatando l’azione corrosiva che il libro aveva avuto sui più fiacchi e sui più esaltati tra i giovani tedeschi.

***

Ma io sto osando critiche nei confronti di quel Goethe, che scrisse, a proposito di uno tra i suoi critici: Come ogni rosa così ogni artista ha il suo insetto: io ho Tieck!". Ebbene, adesso avete anche me, che ammiro il Vostro genio, ma non accetto qualcuna delle vostre idee. Questa, per esempio: che, avendo l’arte per suo campo tutta la realtà, l’artista possa legittimamente e liberissimamente narrare, dipingere, descrivere tutto, anche il male. L’artista può sì rappresentare il male, ma in modo che il male appaia male da fuggire, non sia creduto bene, non venga abbellito, non spinga altri a ripeterlo e imitarlo. Nell’EdipoRe, di Sofocle, tema centrale è l'incesto: questo vi è descritto con frasi crudamente potenti, ma ne è talmente evidente, dal principio alla fine, la riprovazione, sono così terribili i castighi piombati sui colpevoli, che il lettore, a lettura finita, resta tutt’altro che entusiasta dell'incesto. Ho scritto: "dal principio alla fine". Pour cause: ci sono, infatti, registi e critici, che credono di poter redimere tutto un film pornografico con una sequenza a battuta moralistica finale, messa come spruzzatina d'acqua santa a esorcismo e scaramanzia. Ci vuol altro!

***

Altra idea da respingere: che l’uomo di genio sia quasi un semidio, "divo"!, al di sopra della morale comune. Voi avete espresso questo pensiero specialmente nel tempo in cui, studiando Spinoza colla signora von Stein, cercavate Dio nel "Gran Tutto", opinando che l’uomo intelligente potesse, elevandosi sempre più con la cultura, venire un po' alla volta assorbito da Dio, confondersi in Lui ed essere legge a se stesso. Oggi più d’uno condivide questa idea, almeno in pratica. Male! Grandi sono, infatti, il destino e le possibilità dell’uomo, ma di ogni uomo, anche di quello povero, ignorante e sofferente. Dio ha voluto che fossimo tutti suoi figli e avessimo tutti in un certo senso il suo stesso destino. Ma si tratta di una elevazione che si realizza col suo aiuto e con l’osservanza della sua Legge, la quale obbliga tutti, grandi e piccoli, artisti compresi. Voi, grande poeta, gli artisti presenti coi loro lavori alla Mostra e noi, gente della strada, meno dotata di doni naturali, davanti a Dio siamo eguali, sotto questo aspetto. Se qualcuno ha avuto il dono dell’arte, della notorietà e della ricchezza, questi ha, semmai, un obbligo di più di manifestare la sua gratitudine a Dio con una vita buona. Essere dei "grandi" è anche dono di Dio, che deve non "scaldar la testa", ma piuttosto spingere a modestia e virtù. Ancora una volta, noblesse oblige! Nobiltà fa obbligo! 
Dicembre 1971



Carlo Goldoni

Le femministe e la barba di Santa Vilgefortis 

    
Caro Goldoni, Ho avuto occasione di vedere a fine agosto di quest’ anno (1974) i vostri "Rusteghi" e, a poca distanza, "La bisbetica domata" di Shakespeare. Senza che ci pensassi, spontaneamente mi s’è imposto il contrasto: "antifemminista" Shakespeare, "femminista" Voi. La "bisbetica" è Caterina, figlia di un riccone di Padova. Iraconda, stizzosa, insofferente di tutto e di tutti, manda all’aria i mobili delle stanze, fa scappare la gente di casa, ha perfino la gentile usanza di mordere, nessuno la vuole in sposa. Ma sopravviene da Verona Petruccio, cui fa gola la ricchissima dote di Caterina. Eccolo pretendente alla sua mano: essa lo sdegna, ma lui, furbo e imperturbabile, le fa una corte sapiente: quanto più essa lo maltratta, tanto più egli dichiara di trovarla dolce e gentile. Si fa il matrimonio, Petruccio porta la sposa a Verona, ma qui le parti si invertono. Petruccio, col pretesto che i cibi ed il letto non sono degni della sposa, in mezzo a mille moine e proteste di affetto, non permette che essa mangi né che dorma. 

Senza cibo e senza sonno Caterina è "domata"; quando al marito piaccia, essa è disposta a chiamare sole la luna e viceversa, a dire che è sereno quando piove e viceversa; al padre, alla sorella, al cognato e al pubblico dichiara che i doveri di una moglie sono: obbedire, servire il marito e dichiararsi sempre del suo parere. Ne "I Rusteghi" il procedimento è inverso: quattro mariti partono "domatori" e arrivano piuttosto "domati". Le loro spose? "Che le staga in casa, che no le veda nissun, che no le sappia gnente!". La figlia di Lunardo, uno dei quattro? Il giorno del matrimonio né sa di aver un fidanzato né l’ ha mai visto: tutto è combinato in gran segreto dai padri degli sposi. La sposina si lamenta colla matrigna: "E mi, poverazza, che no vago mai fora de la porta? E nol vol mo gnanca che vaga un fià al balcon"!Ma ecco le mogli partire alla riscossa, con in testa l’ intraprendente "sora Felice", la quale, dopo aver scoperto e propalato il segreto dell’imminente matrimonio e aver procurato ai "rusteghi" una grossa sorpresa, vince le loro ultime resistenze con una arringa degna di un avvocato, che li fa sbalordire. I quattro, vinti più che convinti, devono confessare che le mogli e le figlie non vanno "domate", ma ascoltate: la parola, in ogni caso, se i mariti non gliela danno, se la prendono le mogli stesse.

***

Fra la tesi di Shakespeare e la vostra, caro Goldoni, preferisco la vostra: più umana, più giusta, più vicina alla realtà di allora e di oggi, anche se oggi il vostro "femminismo" appare palliduccio: dai vostri tempi in qua la donna, infatti, ne ha fatto delle conquiste! Conquiste in gran parte positive. Ne "Le femmine puntigliose" voi avete riso sui salotti, "ove ghe xé donne co i cavalieri serventi che le sta dure impetrie a farse adorar: chi ghe sospira intorno da una banda, chi se ghe inzenocchia dall’ altra, chi ghe sporze la sotto coppa, chi ghe tol su da terra el fazzoletto, chi ghe basa la man, chi le serve de brazzo, chi ghe fa da segretario, chi da camerier...". Ebbene, oggi tutto questo non solo è scomparso, ma è scomparsa quasi del tutto anche la differenza tra le "signore" e le "popolane". Il tempo e specialmente due guerre formidabili con susseguente formidabile "rimescolamento di carte" hanno cambiato la mentalità e la posizione sociale delle donne. Le ragazze non stanno più chiuse in casa: anche le più agiate studiano o si preparano in vista di un lavoro con cui guadagnarsi la vita.

Ricevono magari ancora inchini e baciamano, ma in fretta: sanno che, in generale, devono contare solo su se stesse, bastare a se stesse come gli uomini e portare il proprio contributo di lavoro e di denaro alla famiglia. 
Come ai vostri tempi, esse possiedono tesori di intuizione e di sentimento, ma oggi li devono orientare metà per farsi una famiglia, metà per farsi una posizione sociale e mantenerla. Nelle vostre commedie le categorie femminili stanno sulle dita di una mano: nobildonne, "parone" borghesi, "massere", "locandiere", "cameriere". Oggi non basta un vocabolario intero: commesse, studentesse, operaie, vetriniste, maestre, hostess, professoresse, infermiere, impiegate, medichesse, poliziotte, assistenti sociali, avvocatesse e su su in una schiera interminabile fino alle deputatesse e alle ministro di stato. "La sa far de tuto" fate dire con orgoglio a Lunardo a proposito della figlia Lucietta. E intendete: calza, rammendi, ricamini, pietanzette, suonatine. 

Oggi il lavoro della donna si estende a tutte le forme, anche a quelle che nei vostri tempi erano riservate ai soli uomini; oggi trovate le donne nelle competizioni politiche, nelle gare sportive e, spesso, in atteggiamento forte e scanzonato, che sdegna, o finge di sdegnare, ogni manifestazione esterna di sentimento. Sotto, magari, il cuore sogna e piange come quello delle vostre Rosaure, Marine, Luciette e Colombine, ma fuori c’è per lo più la maschera dell’ indifferenza. A questo punto chiederete: "Ma tutto questo lo giudicate un bene o un male? ". In sé è bene, caro Goldoni; il male, semmai, risiede nel deterioramento in peggio dell’ ambiente in cui le donne oggi si muovono e che insidia fortemente le loro sane convinzioni e la loro vita religiosa e morale. Il 26 luglio, ad esempio, i quotidiani italiani riferivano: ieri in una conferenza stampa, la deputatessa N., propugnando la liberalizzazione dell’ aborto, ha dichiarato: "Il diritto a vivere la propria sessualità è oggi limitato dal senso del peccato... c’è il diritto della donna a vivere la propria sessualità non solo nell’ ambito di una famiglia e in vista di una famiglia". Caro Goldoni, Voi non siete stato quel che dicono un "bigotto", avete parlato poco di Dio e avete sparso perfino qualche pizzico d’ ironia su certo clero; avvocato - drammaturgo, avete conosciuto il mondo e la vita. E quale vita! quella dei teatranti, della Venezia Settecento, della Corte di Luigi XVI. 

Alla famiglia però, all’ amore e fedeltà coniugale, alla dignità della donna, nonostante la innata vostra galanteria e la confessata attrattiva verso il "bel sesso", ci credevate. La vostra "putta onorata"; la "buona madre", la "figlia obbediente", la stessa "vedova scaltra" (scaltra si, ma in vista di un onesto secondo matrimonio) sarebbero arrossite, ascoltando la deputatessa succitata. Era inaudito al vostro tempo che l’ esercizio di una sessualità femminile extrafamiliare venisse reclamato come diritto a nome di tutte le donne, sotto gli occhi di tutti, senza veli e reticenze. Inaudito anche che il peccato passasse come pura invenzione del "potere" per fare rigar diritta la gente e toglierela libertà. Le donne del vostro tempo, anche se peccavano, ammettevano quasi tutte che, fuori di noi, un Dio, a nostro e non a suo vantaggio, poteva mettere leggi alle azioni umane. Oggi? Mi domando quante donne consentono alle tesi della deputatessa. Spero che non siano numerose, ma non lo so: se fossero numerose, allora, più che un’ avanzata del "femminismo", avremmo un crollo della femminilità e dell’ umanità.

***

Avete sentito la deputatessa: aborto liberalizzato e regolamentato per la promozione della donna. Ma sarà vera promozione? Inchieste di medici giapponesi, inglesi e ungheresi su aborti, pur eseguiti sotto il patrocinio della legge e in cliniche specializzate, rivelano che tali aborti sono sempre un trauma per la salute della donna, per i parti e i figli successivi. Psicologi e psichiatri, a loro volta, segnalano altre cattive conseguenze: queste, dicono, magari sonnecchiano abitualmente nel subcosciente della donna che ha abortito, ma riemergono in seguito in tempo di crisi. Non parliamo dell’ aspetto morale: l’ aborto, oltre che violare le leggi di Dio, va contro le aspirazioni più profonde della donna, turbandola fortemente. In molti casi poi l’ aborto, più che la donna, libera in realtà il suo partner, marito o no, da noie e seccature, permettendogli di dare corso ai suoi desideri sessuali senza assumere i relativi doveri: è un retrocedere, più che un avanzare, della donna nei confronti dell’ uomo.

***

In materia di aborto, caro Goldoni, la deputatessa e le femministe hanno oggi dei potenti alleati. "L’ aborto regolamentato, dicono alcuni, è un male minore; impedirà gli aborti clandestini e la morte di parecchie giovani donne, vittime sinora delle "praticone". Ma l’ esperienza di altri paesi assicura che gli aborti clandestini non diminuiscono affatto col sopravvenire della legalizzazione, a meno che questa non permetta qualunqueaborto. Il numero poi delle giovani vittime della clandestinità è spesso gonfiato a scopo di propaganda. "Posseggono l’ aborto legalizzato altre nazioni civili; perché non l’ Italia?" Ribatto: se legalizzare l’ aborto è un errore, perché errare anche noi? una malattia importata da fuori in Italia, per il fatto che è importata, non diventa salute, ma infezione o epidemia. In difesa dell’ aborto comincia a correre un motivo anche più specioso: "Importante, dicono, è la 12a settimana. Si perché quello è il momento delle due vite del feto nel seno materno. La prima vita è umana, ancora vegeto-animale; l seconda è umanizzata, ma umanizzata a una condizione. A condizione, cioè, che i genitori, percepita appena la presenza del nuovo esserino, lo “chiamino a nascere”, lo vogliano, lo riconoscano, intreccino con lui un legame di amore, conferendogli così il diritto ad esistere". E soggiungono: di solito, i genitori devono fare questa chiamata; se però (bruttissimo però) è in vista un motivo, i genitori possono, senza peccato, rifiutare il figlio ed espellerlo.

Tutt’ al più, ad evitare abusi, perché non si sia troppo facili a espellere, si dovranno sentire dei medici o dei magistrati prima di decidere. 
Ahimé! caro Goldoni, quelle "due vite" esistono soltanto nella testa di alcuni teologi: fuori delle teste, nel seno della madre, in concreto, c’è una sola vita a lanciare il suo implorante appello ai genitori e alla società. Si suppone che spetti ai genitori, dopo la famosa 12a settimana, creare dei diritti nella creatura. E’ vero il contrario: è la creatura, fin dall’ inizio del suo sviluppo, che pone dei doveri nei genitori. E oltre la creatura c’è Dio, che ha intimato: "Non ammazzare! ". "La vita, ha scritto il Concilio Vaticano II,dev’ essere protetta con la massima cura fin dal momento della concezione: l’ aborto come l’ infanticidio sono abominevoli delitti" (GS., n. 51).

*** 

Caro Goldoni, ci sarebbero altri "femminismi" poco delicati da segnalare, ma lasciamoli lì. Auguro, invece, che le donne possano realizzare conquiste nuove, ma giuste ed elevanti, a sviluppo di quanto il Signore ha rivelato circa la vera grandezza della donna. Un aiuto, caro Goldoni, lo potrebbero recare le vostre commedie, così piene di buon senso, popolate di fanciulle che trepidano in attesa della vita coniugale, di spose che desiderano si una vita più lieta ed hanno si dei difetti, ma che sono oneste, attente ai propri doveri e gelose della propria virtù. Alcune femministe trovano invece tutto questo antiquato e sorpassato, tentando di gabbare come "schiavitù imposte dal maschio" perfino alcune leggi di Dio. Vuol dire che esse stanno scegliendo modelli di vita non cristiani. 

Se dovessimo raccomandarle a una santa, questa potrebbe essere Vilgifortis dal nome strano e dalle vicende più strane ancora. Nata infatti in Portogallo da genitori pagani e battezzata a loro insaputa, essa, secondo la leggenda, aveva fatto voto di verginità. Promessa da suo padre in matrimonio a un re di Sicilia, chiese ed ottenne dal Signore un miracolo e cioè una folta e orrida barba, che di fatto spuntò sul suo virgineo mento. Le nozze naturalmente caddero; la vergine fu libera dallo sposo, anche se poi martirizzata dal padre. Il riferimento è senza malizia: scherzosamente si può dire, tuttavia, che una santa barbuta, liberata da un marito, ci vorrebbe proprio per le femministe, che partono con propositi feroci contro i barbuti uomini. Dopo "La vedova scaltra", "La donna di garbo", "Le massere", "Le morbinose", "La putta onorata", "Il cavaliere e la dama", "Le femmine puntigliose", "I pettegolezzi delle donne", "La moglie saggia", "La castalda", "La sposa persiana", "Donne de casa soa" e tante altre, "La donna barbuta" darebbe all’ immenso quadro femminile goldoniano l’ ultimo personaggio! 
Novembre 1974



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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11/7/2017 9:44 AM
 
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Don Gonzalo

Le campane del guerrigliere 

    
Caro don Gonzalo, So di voi solo quel tanto che ne scrive il Manzoni ne I Promessi Sposi. Siete stato Governatore spagnolo dello Stato di Milano; quello della guerra di Casale, quello della peste del 1630. Nel vostro stemma spiccava un re moro incatenato per la gola. Fu davanti a quello stemma che Renzo, all’osteria della luna piena, sbottò a dire: "So cosa vuol dire quella faccia d’ariano con la corda al collo. Vuol dire, quella faccia: comanda chi può e obbedisce chi vuole". Povero Renzo! Mal gliene incolse: poche ore dopo i birri gli mettevano sopra le mani e poiché riuscì a fuggire, voi lo faceste ricercare con gran fracasso come malandrino, ladrone pubblico, promotore di saccheggio, in una parola, come sedizioso e rivoluzionario! Oggi sarebbe diverso. Per quella frase Renzo sarebbe promosso profeta, carismatico, teologo. Voi, caro don Gonzalo, per il solo fatto di volere emanare delle gride, sareste un repressore, invaso dalla libidine del potere e calpestatore della dignità e libertà umana. La sedizione milanese contro il vostro Vicario di provvigione sarebbe detta un insignificante aborto di rivoluzione, un nulla in confronto della rivoluzione vera, che vuole rovesciare tutto il sistema. Le campane di certa "filosofia" e "teologia" sembrano oggi suonare a morto per l’autorità, a festa per la libertà e la rivoluzione. Esse farebbero dire a Bossuet, un genio, che vi era quasi contemporaneo: "Dove tutti fanno quel che vogliono, nessuno fa quello che vuole; dove nessuno comanda, tutti comandano; dove tutti comandano, nessuno comanda"!

***  

Ma chi si cura di Bossuet? Il luminare, cui guardano specialmente folti gruppi di studenti, è Mao, che ha loro detto: "Cancellare tutto ciò che è borghese con la rivoluzione culturale! La cultura di una volta serve solo a creare divisioni: ‘fare la rivoluzione’ è invece l’unica cultura degna di questo nome". E’ stato preso in parola anche in casa nostra. I "nuovi studenti" proclamano: "Siamo noi la miccia che farà saltare la società attuale. Non più scuola selettiva o di classe, che favorisce solo chi è borghese, chi ha già avuto in famiglia un certo tipo di educazione! Basta con la meritocrazia classista, che pretende misurare a scuola con lo stesso metro chi può andare in macchina e chi deve andare a piedi!" E fanno sul serio: occupano le scuole, negano che ci sia differenza fra Dante Alighieri e Bertoldino, hanno imparato il metodo della guerillaurbana, l'analisi marxista della società borghese, l’uso della droga, paralizzano col ridicolo i non rivoluzionari, dominano col terrorismo le maggioranze studentesche silenziose e penetrano negli stessi ambienti studenteschi cattolici. Curioso fenomeno, queste "quinte colonne" accettate, applaudite e teologizzate. Mao è il nuovo Mosè, che introduce i popoli in una nuova Terra Promessa. La democrazia cosiddetta occidentale è ormai un rudere inutile. Lo stesso comunismo sovietico è sorpassato. La terza via, quella di Mao, è quella che libererà il mondo, perché, dicono, è quella del Vangelo. Come mai? E’ da sapere, dicono, che la Palestina, ai tempi di Gesù, era teatro di guerriglia: i guerriglieri, zeloti, si battevano a sangue contro Roma: rappresaglia contro di essi era la crocifissione, sicché, la croce, ancora prima di diventare simbolo cristiano, fu segno legato alla guerilla. Gesù, privato dei suoi diritti di cittadino dai dominatori bianchi di Roma, ebreo offeso, non poté trovarsi che fra i rivoluzionari. Ciò non appare bene dai Vangeli, continuano a dire, che sono stati scritti quando la rivolta contro Roma era ormai terminata. San Marco, inoltre, scrivendo per i romani, annacquò a loro favore il contenuto del suo Vangelo; anche san Paolo, cittadino romano, si lasciò influenzare da Roma. I Vangeli e Paolo, così come sono, non sono dunque attendibili, bisogna reinterpretarli. E’ scritto: "Rendete a Cesare ciò che è di Cesare". Si deve sostituire: "Proibito dare a Cesare qualcosa, perché in Palestina tutto appartiene a Dio". E’ scritto: "Beati i facitori di pace"; "Va’ a riconciliarti col tuo fratello"; "perdonate"; "chi usa la spada, di spada perisce"; "porgi la guancia destra"; "ama i tuoi nemici". Sembrerebbero testi pacifisti, invece no: intesi in senso pacifista, essi suonano assurdi e codardi a gente sotto l’oppressione romana, anelante a indipendenza politica. Vanno, dunque, "reinterpretati" come segue: "Tu non devi avere nemici: questo è possibile solo quando avrai rovesciato il potere con la rivoluzione e avrai distrutto i demoni della non dignità umana, della disparità economica, della disparità di potere, che significa oppressione". Il vero Cristo, concludono, è rivoluzionario e guerrigliero; quello che ha armato la sua mano contro i mercanti del tempio, che è entrato in conflitto colla Sinagoga. Per seguirlo, bisogna farsi rivoluzionari nei confronti del potere sia statale che ecclesiastico in nome della libertà, della corresponsabilità, del dialogo, dei carismi.

***  

Che dire? Cristo, pur non essendo inferiore a nessuno, neppure al Padre, è modello di rispetto verso l’autorità umana. A Nazareth "è sottomesso" a Maria e Giuseppe; a Cafarnao opera addirittura una piccola pesca miracolosa onde avere lo statere necessario a pagare Ia tassa del tempio (Mt. 17). La posizione di Cristo di fronte alla Sinagoga non si può minimamente paragonare a quella di qualcuno di noi di fronte all’autorità civile o ecclesiastica. Cristo era "il padrone della Legge" e il Figlio del Padre, superiore alla Legge; la Sinagoga era appena destinataria della Legge. Scontrandosi poi colla Sinagoga, Cristo non si appellò a un suo diritto a ribellarsi, ma, viceversa, al suo dovere di obbedire al Padre. La stessa cacciata dei mercanti dal tempio è atto religioso ben calcolato e meditato. Cristo, infatti, nel tempio non ferisce e uccide nessuno, non incendia il tempio; solo rovescia le tavole dei cambiavalute e disperde gli animali dei mercanti, ai quali, più che danno, causa disagio momentaneo in vista di un fine da lui preinteso: insegnare il rispetto alla casa del Padre. Il Concilio ha sottolineato che Ia Chiesa è popolo di Dio e comunitaria prima ancora che gerarchica. Fondandola, Cristo aveva in cima ai suoi pensieri il popolo, le anime da salvare. A servizio del popolo ha voluto Apostoli e vescovi muniti di poteri speciali. Per tener uniti i vescovi ha voluto il Papa. Papa e vescovi non sono dunque sopra, ma dentro e al servizio del popolo di Dio. Il servizio, però, lo possono prestare solo esercitando i poteri ricevuti. I quali, dunque, non si possono cancellare. Dice il Concilio: "I vescovi governano le chiese particolari loro affidate come vicari o legati di Cristo col consiglio la persuasione, l’esempio, ma anche con l’autorità e la sacra potestà... in virtù della quale hanno il sacro diritto e davanti al Signore il dovere di dare leggi ai loro sudditi, di giudicare e di regolare tutto quanto appartiene a! culto e all’apostolato" (LG 127).

Che sia difficile esercitare quest’autorità nella maniera giusta, è vero. Che si sia mancato e che si possa anche ora mancare da parte della Gerarchia, è pure vero. Quando i Padri parlano di una "Chiesa lebbrosa" e di "Chiesa zoppicante", toccano una piaga viva. Ma è piaga legata alla finitezza umana; essa può essere curata, guarita in parte, ma non eliminata del tutto. I laici ed i sacerdoti che talora, per sincero amore verso la Chiesa, contestano, dovrebbero tenerlo presente. Bisogna saper edificare su quella che esiste: spesso è saggio accontentarsi di quello che si ha, mirando bensì a ulteriori conquiste, ma senza distruggere colla contestazione i germi esistenti di una evoluzione futura. - Rispetto alle persone? Certo, ma non possono i vescovi per rispetto alle persone singole trascurare il bene comune, permettendo che s’instauri l’indisciplina e l’anarchia. Diceva Sant’Agostino: "Noi vescovi presediamo, ma solo se serviamo". E soggiungeva: "Il vescovo che non serve il pubblico è solo uno spaventapasseri messo nei vigneti perché gli uccelli non becchino le uve". - Più spirito, più carismi e meno istituzione? Ma alcune istituzioni risalgono a Cristo e non si possono toccare senza che cambi l’essenza stessa della Chiesa: così il Primato del Papa, il Collegio episcopale, l’episcopato, il sacerdozio ministeriale. Altre istituzioni sono umane, si devono cambiare quando si rivelano superate e controproducenti, ma seguendo la legge della storia. Questa dice ai vescovi: niente di umano è immutabile, neppure il modo di ubbidire dei cattolici. Ma soggiunge: non pensino i sudditi che il corso della storia si possa affrettare con una impaziente ribellione! Anche Bertoldino aveva fretta che nascessero i pulcini: cacciò Ia chioccia e la sostituì, covando personalmente le uova, ‘ma ne venne solo una frittata nel fondo dei calzoni! - Più libertà, meno legalismo?

Giusto. Cristo proclamò l’interiorità, condannò il legalismo farisaico. Anche San Paolo esalta la libertà dello spirito e il codice dell’amore. C’è, però, anche il rovescio della medaglia: Cristo diede prescrizioni, obbligando i suoi seguaci a osservarle e volle nella Chiesa l’autorità. Paolo poi, ammonì: "Siete stati chiamati a libertà; solamente, che questa libertà non diventi un pretesto per la carne". - Corresponsabilità? I Pastori ricordino: essi non sono stati "istituiti da Cristo per assumere da soli il peso della missione salvifica della Chiesa: "Nelle battaglie decisive è spesso dal fronte che partono le iniziative più indovinate". A loro volta, i laici vedano di non limitare la loro corresponsabilità alla troppo comoda protesta: aggiungano le proposte attuabili e pratiche, e soprattutto collaborino all’effettuazione delle proposte. Non solo: ricordino che il loro concorso ai bene della Chiesa deve avvenire non scompostamente, ma "sotto la guida del sacro magistero", cui spetta riconoscere e autenticare gli stessi carismi. - Dialogo? I documenti conciliari ne parlano una cinquantina di volte. Dev’ essere dunque attuato con buona volontà da una parte e dall’altra. I vescovi non ascoltino solo se stessi; consultino, esaminino insieme ad altri prima di decidere. E i fedeli parlino "con quella libertà e fiducia, che si addice ai figli di Dio e a fratelli in Cristo... sempre con verità, fortezza e prudenza, con reverenza e carità". Neppure il dialogo, però, opererà come una bacchetta magica, che tutto sana, risolve e mette a posto. Il dialogo in tanto è utile in quanto i dialoganti hanno fiducia in esso e ne osservano le giuste regole.

***  

Caro don Gonzalo! Questa gente, che dice di interpretare il Vangelo, va in cerca di libertà. Purtroppo, non è la libertà che intendeva Cristo, quando ci insegnò a dire: "Padre... liberaci dal male! ". Non è neppure l’altra, di cui parlava Sant’Agostino: "Sarai libero, se ti farai servo; libero dal peccato, servo della giustizia! ".
  Agosto 1972





Andreas Hofer

Il richiamo dell'Iselberg 

    
Caro Hofer,Un mese fa, passando per Innsbruck, ho visitato la Hofkirche, chiesa già francescana, costruita nella Rinascenza, su disegno del nostro Andrea Crivelli. E’ stato là, a sinistra della porta principale, che mi sono imbattuto nella vostra tomba. Vicino a Voi sono sepolti Giuseppe Speckbacher e il cappuccino Gioacchino Haspinger, ambedue compagni delle vostre battaglie. In realtà Voi, l’albergatore di S. Leonardo in Val Passiria, avete combattuto due sorta di battaglie: prima siete stato soldato regolare nella guerra contro i francesi nel 1796 e nel 1805; partigiano, siete poi stato il capo e l’anima dell’insurrezione popolare tirolese contro i bavaresi e i francesi del 1809. Ed è la conduzione incredibilmente abile e coraggiosa di questa guerriglia, che ha strappato ammirazione agli stessi generali napoleonici e vi ha fatto entrare per sempre come eroe nel cuore del popolo tirolese. Tutto cominciò quando il marchese di Montgelas, ministro del re di Baviera, senza preavviso e motivo, nel 1809 soppresse di colpo tutte le cerimonie del culto cattolico: niente più processioni, matrimoni e funerali religiosi, niente più suono di campane. Montgelas non immaginava fin dove potesse arrivare il sentimento religioso del cattolicissimo popolo tirolese. Questi inoltrò al re di Baviera rispettose istanze, perché fosse ritirato il "decreto empio e liberticida". Invano. Allora fu l’insurrezione in massa. Mentre le campane suonavano a stormo e il loro suono si ripercuoteva di valle in valle, si videro i contadini accorrere da ogni "maso", da ogni villaggio, armati chi di falce, chi di forche, chi di vecchi fucili: li dominavano la vostra statura gigantesca, la voce possente e decisa, la imponente barba nera. Due volte l’esercito bavarese fu sconfitto: quando vennero in rinforzo, a decine di migliaia, i francesi ed i sassoni, fu giocoforza, per i vostri, sciogliersi e darsi alla guerriglia. Anche allora, come nella Resistenza italiana, si "andò in montagna". Purtroppo, due miserabili Vi tradirono per i soliti "trenta denari". Scovato dai francesi nella capanna che vi nascondeva, diceste: "Fate di me quel che vi piace, soltanto rispettate l’innocenza della mia sposa e dei miei figli". Il Vicerè Eugenio voleva graziarvi; Napoleone ordinò la fucilazione. A Mantova, prima del supplizio, benediceste, come un patriarca, i compagni inginocchiati intorno a Voi e, ricusata la benda agli occhi, attendeste in piedi la scarica. Sulla spianata dell’Iselberg, presso Innsbruck, vi hanno eretto una statua. Sul piedestallo è scritto: Per Dio, per l’Imperatore, per la Patria. 

***

Imperatore a parte, dentro e fuori il Tirolo, vorrei che il vostro eroismo, gentile e cristiano insieme, ispirasse qualcuno. Intendiamoci: non auspico nessuna guerriglia; sono convinto che, specialmente nell’Italia democratica, non ce ne sarà bisogno. Ma la Vostra fede cristiana, tutta d’un pezzo, la compattezza di popolo, che, con Haspinger, avete saputo realizzare nell’ora del pericolo, queste sì le desidererei con tutto il cuore. Elia profeta diceva alla gente: "Fino a quando zoppicherete con i due piedi? Se il Signore è Dio, seguitelo! Se invece lo è Baal, seguite lui!". Voleva che si facesse una scelta seria; insinuava che non si può andare a Dio senza staccarsi dal male, stando seduti su due sedie o tentennando. Il nostro Trilussa ha detto la stessa cosa: Credo in Dio Padre onnipotente. Ma... Ciai qualche dubbio? Tiettelo per te. La fede è bella senza li "chissà", Senza li "come" e senza li "perché". "Chissà", "come" e "perché" non erano pane per i denti dei vostri Tirolesi. Lassù, nella modesta trattoria "am Sand" che Voi gestivate, essi giocavano, bevevano, si divertivano, discutevano. Ma tornati alle loro case, recitavano la preghiera della sera con la famiglia; andando alla Messa domenicale, usavano sostare sulla tomba dei loro morti nel piccolo cimitero tutto stretto attorno alla chiesa. L’ambiente, le pie tradizioni, il tempo disponibile favorivano la riflessione: la riflessione sviluppava quella convinzione, che il pittore Egger Lienz ha efficacemente espresso, dipingendo i partigiani tirolesi inquadrati e pronti alla lotta con in testa Haspinger che impugna il crocifisso. A noi oggi, travolti come siamo da un ritmo frenetico di vita, mancano il silenzio e la possibilità di riflettere; questa forse è una delle cause del tentennare di parecchi. L’Haspinger, il predicatore vecchia maniera, che ci richiami rudemente alle verità eterne, non si accetta oggi: occorrerebbe meglio una voce suasiva e discreta. Il campanone, che suona a distesa, non lo sopportiamo; forse accettiamo il campanello di casa. Voce discreta e campanello era, per esempio, Fratel Candido delle Scuole Cristiane.

Vissuto un secolo circa dopo di Voi, Hofer, egli viaggiava un giorno in treno con sulle ginocchia un indicatore ferroviario, che stava consultando. Un fanciullo lì presso sbirciò incuriosito il volume e l’armeggiare del Fratello. "Conosci questo libro?", gli fa Fratel Candido. "No?. Vuoi vedere a cosa serve? Come si usa?". E gli spiega, e lo addestra a trovare gli orari, a scoprire i tragitti più rapidi tra una città e l’altra. Il fanciullo si interessa, prova anche lui, impara presto e ci gongola; i passeggeri nello scompartimento seguono il dialogo dei due con divertito interesse. A un certo punto, senza parere, Fratel Candido continua: "Vuoi che ti insegni anche a viaggiare sulla Ferrovia del Paradiso?". Meraviglia del fanciullo e dei passeggeri. Fratel Candido trae dalla borsa di viaggio un foglietto illustrato e spiega: "Ecco qui la Ferrovia del Paradiso. Stazione di partenza: da qualsiasi punto del globo. Tempo di partenza: ad ogni momento. Tempo di arrivo: non c’è ora prevedibile per il viaggiatore. Biglietto: essere in grazia di Dio. Controllore: l’esame di coscienza. Avvisi: 1) tenere sempre pronti i bagagli delle buone opere; 2) c’è modo di recuperare i bagagli perduti per mezzo della Confessione. Eccetera". Finito di spiegare, amabile e sorridente, offrì al fanciullo e ai presenti il curioso e prezioso itinerario, che a qualcuno, forse, avrà ispirato un pentimento e un proposito. Direte: "Questo vostro Fratello è un’edizione striminzita e molto ridotta del mio possente Haspinger!" Che volete! L’epoca attuale, religiosamente debole, va presa con metodo adatto. Importante non è il modo, ma il successo finale: far riflettere!

***

Più importante ancora è tenere uniti tra di loro sia i cattolici che i cittadini. Siamo cristiani, ma è buona anche per noi la predica del console pagano Publio Rutilio. Era molto grasso. Un giorno, per sedare una tremenda baruffa, che non finiva più, tra due parti contendenti, disse: Amici cari, come vedete, io sono molto grasso e mia moglie è ancora più grassa di me. Eppure, quando andiamo d’accordo, un piccolo letto basta per tutti e due; quando litighiamo invece, tutta la casa ci pare piccola e non ci basta più. Qui mi viene un dubbio: l’esempio di Rutilio è calzante, se i contendenti sono due; ma, ahimé!, nella nazione, nei partiti oggi le correnti non sono due, ma quattro, sei, sette, venti! Non si può più parlare di letto matrimoniale! Se la considerazione del bene comune non è sufficiente a riportarci all’unità, dalle discordie dovrebbe trattenerci almeno la paura dei danni cui esse conducono. Diceva Voltaire: due volte mi trovai sull’orlo della rovina: la prima, quando perdetti una lite, la seconda, quando la vinsi. Nazioni e fazioni politiche e religiose che abbiamo sottocchio, possono applicare a sél’epifonema volterriano. In più conviene che esse dedichino un pensiero al "terzo" sempre in agguato: quello che "gode" tra i due litiganti. Bulwer, l’autore di Ultimi giorni di Pompei, ha scritto: "L’avvocato è un uomo che, quando due litigano per un’ostrica, l’apre, ne succhia il contenuto, poi dà le due valve ai contendenti: una per ciascuno!" E' un po’ crudo: è vero tuttavia da sempre e in ogni campo che la forza del nostro avversario è la nostra debolezza causata dalle divisioni. Queste considerazioni valgono, in parte, anche per la Chiesa Cattolica. Il suo fondatore, Cristo, ha temuto le divisioni e ha posto un saldo fondamento per l’unità. Ha detto: desidero che i miei seguaci "siano una sola cosa", che facciano "un solo ovile". Per ottenere lo scopo, ha scelto dalla folla i Dodici, dei quali ha detto: "Chi ascolta voi, ascolta me". Prevedendo divisioni tra i Dodici e i successori, ha voluto che uno fra loro facesse da capo o da fratello maggiore, dicendo a Pietro: "Pasci i miei agnelli", "conferma i tuoi fratelli". Il rimedio dunque c’è: basta che fedeli, sacerdoti, religiosi e vescovi si stringano attorno al Papa: nessuno spezzerà la Chiesa. Il Vostro cappuccino Haspinger, caro Hofer, sapeva queste cose, anzi le ha toccate con mano. Al tempo della Vostra insurrezione tirolese parecchi vescovi, per timore od interesse, passavano dalla parte di Napoleone strapotente. Voi invece dal Tiroloresistevate a Napoleone e ai suoi amici, stando dalla parte del Papa Pio VII, che, proprio in quel 1809, lanciava contro Napoleone la scomunica e, arrestato dai francesi, da Roma veniva tradotto in esilio a Savona. Sono tutte cose da ricordare. Da attuare. Per mettere fine alle innumerevoli risse che stancano e scandalizzano. Per restaurare l’unione degli animi, l’unità della Chiesa e del Paese. Für Gott... für Vaterland. Per Dio... per il Paese, come sta scritto sull’Iselberg!
Dicembre 1974



 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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11/7/2017 9:47 AM
 
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Ippocrate

I quattro temperamenti

    
Signor Ippocrate, Siete stato contemporaneo di Socrate, filosofo anche voi e medico. Avete, però, acquisito molti più meriti nel campo della medicina che in quello della filosofia. Primo merito: dopo aver girato mezzo mondo, osservando e annotando con somma accuratezza, avete scritto un mucchio di libri, che hanno stimolato la medicina per molti secoli. Secondo merito: siete l’autore del famoso "giuramento di Ippocrate", codice morale di valore intramontabile. Su di esso i medici dovevano giurare di prescrivere ai malati la dieta conveniente, difendendoli da ogni cosa ingiusta o nociva; di non interrompere alcuna gravidanza; di avere la sola mira — entrando in casa — di curare l’infermo, astenendosi da ogni corruzione verso uomini e donne, fossero anche schiavi; di conservare come cosa sacra il segreto professionale. Terzo merito: avete per primo classificato i quattro temperamenti fondamentali degli uomini: impulsivo, flemmatico, irascibile e melanconico. Lo so, dopo di voi Nicola Pende e altri hanno tentato e proposto nuove classifiche, più scientiflche, ma anche piü complicate. La classifica vostra, temperata e corretta, resiste però ancora dopo venticinque secoli.

***

Ma vediamo i quattro temperamenti alla prova. E prova sia una parete di roccia proposta alla scalata. Viene, primo, l’impulsivo. Dà un’occhiata e dice: "E’ una cosa da nulla! Mi ci metto subito!". E difatti attacca subito la parete con ardore ed entusiasmo. Ma non ha previsto quasi nulla, non s’è provvisto degli attrezzi più elementari. Cominciano presto difficoltà notevoli, davanti alle quali il nostro impetuoso alpinista constata che non bastano l’ardore e la forza muscolare. Allora passa dal grande entusiasmoall’estremoopposto: "Smetto tutto: la roccia non è pane per i miei denti!". Simile a Tartarino di Tarascona, che passa dai furori cavallereschi alla Don Chisciotte al piatto borghesismo alla Sancio Panza: "Parto, diceva, per l’Africa dei leoni e delle pantere!". Ma una mezz’ora dopo: "Ah no, resto, chi me la fa fare l’Africa?". "Copriti di gloria, Tartarino!", ma più tardi: "Che gloria d’Egitto! Copriti di buona flanella!". "Viva la caccia d’Africa! A me, voi, carabine a doppio colpo, voi, daghe e lazos e mocassini!". Subito dopo: "Venga, invece, il panciotto di flanella, vengano le ginocchiere ben calde e il soffice berretto col paraorecchie! E venga Giovannina col cioccolato!". Suonava il campanello e Giovannina compariva con il cioccolato caldo, scuro, fumante, coi biscotti, che facevano ridere il Tartarino-Panza, soffocando il pianto del Tartarino­Chisciotte! Così è l’impulsivo: facile all’entusiasmo, ma incostante; ottimista, quando si tratta di sé e delle proprie capacità, ma irriflessivo, troppo in braccio al sentimento e all’immaginazione. Ha del buono, ma, se vuol concludere di più nella vita, deve abituarsi a riflettere, a fare dei piani dettagliati e meditati, a seguire il consiglio di quel vescovo, che diceva al parroco novello: "Va’! Prima di tutto, vedere! Poi, prevedere! Finalmente, provvedere!".

***

Arriva adesso alla parete il flemmatico. Guarda in su una, due, tante volte; fa i suoi calcoli: "Qui c’è da prevedere un’arrampicata su spigolo, poi una discesa in corda doppia, poi una salita su ghiaccio". Consulta carte, prende appunti, prepara l’elenco degli oggetti che gli occorrono e se li procura: corda e cordino, piccozza e martello da ghiaccio, chiodi da roccia e da ghiaccio, cuneo di legno e martello, sacco da montagna e scarponi con ramponi. Il tutto, senza perdere tempo, ma anche senza fretta. E mentre lavora e prepara, mastica gomma americana e va dicendosi: "Forse ce la faccio!". Ebbene, ce la fa davvero, nonostante tutti gli ostacoli. Questo è stato lo stile del generale De Gaulle, freddo e glaciale fin da bambino, tanto che i fratelli dicevano di lui: "Carlo dev’essere caduto in una ghiacciaia!". Durante una battaglia, un sottotenente, latore di un messaggio, cercava il generale De Gaulle, ma non lo trovava. "Andate nei campi, gli disse un autista, se non lo vedete subito, guardate per terra, lo troverete seguendo la traccia delle sue cicche". Così fece il sottotenente, e arrivò al generale che, calmo e seduto sotto un albero, fumava come una locomotiva. Letto il messaggio, diede qualche ordine agli ufficiali, che gli stavano vicino e, senza perdere la calma, continuò a fumare, dicendo soltanto: "Vedrete che le cose adesso andranno meglio! ". Il che avvenne. Temperamento felice, da un lato. Dall’altro, però, rischia di rendere le persone apatiche, insensibili, poco socievoli e poco comunicative. Un po’ più di entusiasmo, un maggiore e manifestato interesse alle cose altrui le renderebbe più amabili e simpatiche.

***

Ma ecco il collerico-irascibile. Sbuffa. "Ostacoli su questa parete? Ma gli ostacoli sono fatti apposta per essere superati, per Bacco! ", e va alla parete con veemenza, come incontro a un nemico. Non si risparmia, impegna tutte le sue energie combattive; spesso raggiunge brillanti risultati parziali, non sempre arriva alla vetta. Il collerico ha sensibilità viva e profonda, è rapido nelle decisioni, tenace nell’esecuzione; gli occorrerebbe però maggior riflessione e calma, dovrebbe difendersi sia dall’entusiasmo che dal pessimismo eccessivo. A lui l’abissino Ras Tafari direbbe: "E’ vero che hai due gambe, ma puoi arrampicarti solo su un albero per volta! ". Se si badasse a lui, invece, egli scalerebbe un’intera foresta per volta! Anche in lui, pertanto, accanto al buono c’è della zavorra, da cui liberarsi. Tra l’altro, il collerico va a rischio, mentre col suo impeto elimina ostacoli, di crearne altri, attirandosi inimicizie sopra inimicizie. Ammenoché, pur essendo un’iradiddio come Santippe, non abbia la fortuna di incontrare soltanto gente fornita della pazienza di Socrate. Questi, marito della sullodata Santippe, diceva: "L’ho sposata apposta, aspra com’è, perché, una volta sopportata lei, son sicuro che saprò sopportare chiunque altro! ". Ma un giorno, per non sentirla più brontolare, uscì di casa e si sedette sulla soglia. Irritata, la donna gli versò addosso dalla finestra un secchio d’acqua. "Dovevo immaginarmelo, disse placido Socrate, dopo tanto tuonare è venuta la pioggia!".

***

Il melanconico, al contrario dell’iracondo, si deprime e sottovaluta. "Ma non vedete ch’è impossibile scalare una parete di questo genere? Ma volete che vada a farmi sfracellare?". Si lascia spaventare dalle difficoltà fin dal bel principio, pessimista nato. Lui è di quelli che, davanti a una mezza bottiglia di vino, piagnucola: "Ecco, è la prima volta in vita mia che m’è venuta la voglia di bere, e trovo una bottiglia mezzo vuota! E’ proprio una jettatura!". Dovrebbe, invece, dire: "Come! C’è ancora una mezza bottiglia da bere! E chi se lo sarebbe mai immaginato? Che cuccagna!". Lo sforzo di vedere le cose dal lato migliore dovrebbe caratterizzare il cristiano; se è vero che Evangelo vuol dire lieta novella, cristiano significa uomo lieto e distributore di letizia. "Le grinte fosche, diceva san Filippo Neri, non sono fatte per la gaia casa del Paradiso!" .

***

Come vedete, illustre Ippocrate, dalla biotipologia io sono saltato al Paradiso. Gli è che lassù dobbiamo cercare di andarci, accettando il temperamento trasmessoci dai genitori, sia pur migliorandolo e cercando di cavarne, a furia di sforzi, un bel carattere. Lassù c’è San Tommaso d’Aquino, santo così flemmatico che, se un bue fosse entrato nella sua stanza, avrebbe continuato a studiare; e c’è anche San Giovanni Eudes, che si sentiva bollire d’ira al solo vedere un eretico. C’è Francesco di Sales, il santo delle belle maniere, artista nel parlare e nello scrivere; e c’è il Curato d’Ars, campione dei colpi di disciplina sulla propria schiena e delle patate mangiate colla muffa dopo una settimana dalla cottura. E San Pietro, il gran portinaio, nel soppesare i nostri meriti, terrà conto certo delle opere buone da noi fatte, ma dovrà pur mettere sulla bilancia le difficoltà, le remore, gli intoppi, che sono provenuti dal nostro temperamento più o meno felice! Se poi egli adotti la classifica vostra o quella di Pende, oppure si basi sulla caratteriologia scientifica di Spranger, o di Kretschmer, o di Jung, o di Künkel; o non piuttosto, invece, segua il testdi Don Cojazzi, non lo so. Quest’ultimo test, non essendo scientifico, ma tutto empirico, forse non lo conoscete. Ve lo spiego subito, come l’ho sentito raccontare da Don Cojazzi stesso. Diceva dunque Cojazzi che ottimo posto per conoscere i temperamenti è la trattoria. Più precisamente, una trattoria, dove un galantuomo assetato, ordinato un boccale di birra, se lo vede portare con una grossa mosca, che vi si dibatte dentro. Il detto galantuomo è un Inglese? Flemmatico, depone sulla tavola il bicchiere; con calma suona il campanello; con calma comanda: "Un altro boccale di birra fresca e pulita, prego!". Bevuto, paga ed esce per nulla commosso o turbato. Se un turbato c’è, questi è il cameriere per via non della mosca, ma della mancia volatilizzata! Il boccale colla birra è in mano a un Francese? Vede e trascolora. D’impeto depone il bicchiere, inveisce, urlando, contro padroni e camerieri; esce sbattendo la porta e continua a urlare contro la trattoria, la birra e le mosche. Viene l’Italiano, guarda Ia mosca, la caccia, sorridendo, fuori dall’orlo a piccoli colpi di dito medio e scherza col cameriere: "Per esempio, ho chiesto da bere e tu mi porti da mangiare". Però, beve lo stesso e se ne va, dimenticando di pagare il conto! Indietro e, disciplinatissimo, manda giù d’un fiato sia la birra che la mosca!E’ la volta del Tedesco: vista la mosca, tiene il boccale alzato all’altezza del naso, corruga la fronte, chiude gli occhi, rovescia la testa un po’ e, sommamente disciplinato, tira fuori da un soffio, birra e mosca! Si fa avanti il Danese: lo diverte molto l’annaspare della mosca nella schiuma della birra; tira fuori la lente, è tutto preso dal bello spettacolo; si dimenticherebbe perfino di bere, se il cameriere, accortosi dell’insetto, non gli cambiasse, in mezzo a mille scuse, il primo boccale di birra con un secondo! Ultimo venuto è l’Esquimese. Non ha mai visto mosche; pensa che quella, che ha davanti, sia un boccone prelibato, una specialità locale; si mangia la mosca e butta via la birra! ***E adesso, scusatemi, illustre Ippocrate. Può sembrare profanazione l’accostare all’alta scienza, di cui siete esponente, queste bazzecole. Ma se serve? Se ciò dimostra che perfino il buon senso popolare coglie e flagella il ridicolo, ch’è in un temperamento primitivo, non controllato e non migliorato?
Maggio 1973


Lèmuel

Re Lèmuel e la donna ideale 

    Caro Lemuèl, La Bibbia vi nomina come autore del celebre poema in lode della donna ideale. Nient’altro si sa di voi. Posso dire, però, che fate da rimpettaio a Cornelia, madre dei Gracchi. Questa infatti mostrava alle amiche i propri figli e diceva: "Ecco i miei gioielli!". Voi rovesciate la posizione e mostrate vostra madre, affermando: "Si levano i suoi figli a chiamarla beata e suo marito ad encomiarla". Un’altra cosa è certa: che il magnifico vostro carme alfabetico viene opportunamente a proposito ai nostri giorni, in cui la promozione della donna costituisce problema sentitissimo. Volete sentirne una? L’altro giorno una fanciulla di quinta elementare mi ha posto in imbarazzo, affermando: "E’ giusto che Gesù abbia istituito sette sacramenti e poi solo sei di essi siano messi a disposizione di noi donne?". Si riferiva, evidentemente, all’Ordine sacro, cui per prassi di sempre vengono ammessi solo i maschi. Cosa potevo rispondere? Dopo essermi guardato attorno, ho detto: "In questa classe vedo ragazzi e ragazze. Voi, ragazzi, potete dire: "Uno fra tutti i maschi del mondo è padre di Gesù"? Risposta dei ragazzi: “No, perché san Giuseppe era solo padre putativo”. Ma voi, ragazze - ripresi io - potete dire: "Una di noi donne è Madre di Gesù?" Risposta: "Sì". Ed io: "Avete detto bene, ma riflettete: se nessuna donna è papessa o vescovessa o sacerdotessa, ciò è mille volte compensato dalla maternità divina, che onora straordinariamente sia la donna sia la maternità"". La piccola contestatrice parve persuasa.

***

Alle magnifiche lodi del vostro carme, oppongono alcuni la "grettezza" di San Paolo, che comandò: "Le donne stiano zitte nelle adunanze" (1 Cor. 14,34). Io opino che San Paolo quella proibizione di parlare l’abbia data soltanto alle donne di Corinto e solo per quel dato momento. Succedeva infatti a Corinto che ci fosse un fiorire straordinario di carismi e di carismatici; molti, uomini e donne, durante le riunioni, si alzavano a parlare o a pregare investiti dallo Spirito del Signore: qualche donna si alzava forse senza un vero carisma, portando confusione e disagio. Perché l’inconveniente non si ripetesse, Paolo giudicò - per quell’assemblea - di togliere la parola a tutte. Poco sopra, nella stessa lettera ai Corinti, egli aveva riconosciuto che le donne possono "profetare", purché lo facciano a capo coperto. Una volta, trovandosi a Cesarea, era andato per più giorni con San Luca in casa di Filippo, diacono e missionario, e non aveva mosso difficoltà alcuna sul fatto che le quattro figlie di Filippo "profetassero" (Atti 2 1, 8-9). Negli ultimi suoi anni, infine, egli raccomandava a Tito di istruire donne anziane, perché "fossero maestre nel bene e... sapessero insegnare alle giovani" (Tit. 2, 3-4). D’altronde, non aveva il profeta Gioele annunciato solennemente che nel tempo messianico avrebbero profetato sia i figli che le figlie d’Israele? (Gioele 2, 28-29). E non aveva San Pietro, nel giorno della Pentecoste, dichiarato che la profezia di Gioele stava avverandosi e che il Signore spandeva il Suo spirito sui suoi servi e sulle sue ancelle (Atti 2, 18)? Anche prima della venuta di Cristo non era mancato un profetismo di donne: sacerdoti erano stati sempre ed esclusivamente i maschi, ma il manto profetico s’era poggiato talvolta su spalle femminili. Maria, sorella di Mosè e Aronne, timpano in mano, durante una funzione religiosa dirige con il titolo di profetessa i cantici delle donne (Es. 15, 20) e, più tardi, chiama a testimone il popolo che "Dio aveva parlato con lei" (Num. 12, 2). Debora, al tempo del Giudice Baraq, è una specie di Giovanna d’Arco o, meglio, un Pierre l’Ermite in sottana, che predica la guerra santa e predice l’immancabile vittoria; essa dà udienza sul monte Ephraim, sotto la "palma di Debora", e vengono a lei "i figlioli d’Israele per tutte le loro liti" (Giudici 4, 4-5). Il sommo sacerdote Helchia, 621 anni prima di Cristo, per ordine del re Giosia, va, con altri insigni personaggi, a consultare "la profetessa Hulda... che abitava a Gerusalemme nel quartiere nuovo". E la profetessa apre bocca proprio alla maniera dei profeti: "Così dice il Signore!" (2 Re 22, 14-20). Anche Anna, la vedova di 84 anni, che si fa incontro a Gesù portato al Tempio e dappertutto va parlando di Lui, è chiamata profetessa (Luca 2, 36-39).

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La vostra donna ideale è laboriosa, un’ape instancabile, una vera Marta: "Si cinge i fianchi con energia e si rafforza le braccia... Si leva ch’è ancor notte... e non si spegne neppur di notte la sua lucerna". E il suo lavoro lo intride di letizia: "Si procura lino e lana e li lavora volentieri..., vede con gusto che va bene il suo traffico..., ridente va incontro all’avvenire". Rivela così un’altra qualità: la gaiezza, data come sorella alla bontà, alla tenerezza, al lavoro e all’amore. Suo marito ha bisogno di quella gaia serenità, quando torna stanco dal lavoro; anche i figli ne hanno bisogno, essendo la letizia il clima necessario di ogni sistema efficace di educazione. Mantenere questa gaiezza ad ogni costo, anche nelle giornate critiche; mostrarla anche quando le fatiche materiali ininterrotte, minute, monotone, sembrano rompere la schiena, svegliando rimpianti e richiamando agli occhi lacrime, è grande virtù; è fortezza cristiana; è penitenza che - a certe condizioni - può equivalere alle rinunce e alle preghiere prolungate di suore e monache. Essa però non impedisce di vedere acuto e lontano: "Adocchiato un podere, lo compra, col frutto del suo lavoro pianta una vigna..., lavora una bella camicia e la vende e dà una fascia al mercante". Davvero non si può dire della sua casa: "casa senza amministrazione, nave senza timone"! E si capisce come suo marito le abbia messo fiduciosamente in mano le chiavi della cantina, degli armadi, sicuro che tutto sarebbe andato bene! Marito simile a re Malcom di Scozia, che, illetterato, baciava il libro di preghiere della sposa Santa Margherita: il libro, diceva, in grazia del quale Margherita è tanto saggia e tanto brava!

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La vostra donna ideale è anche socialmente aperta: "Allarga il pugno all’infelice e stende la mano al povero"; fa lavorare servi e ancelle, ma li precede nella fatica e non lascia loro mancare niente; anche in caso di rigido inverno, tira fuori dalle casse vesti calde, perché "tutti i suoi di casa hanno doppio vestito". Oggi, illustre re Lemuèl, la giustizia e la carità sociale vanno coltivate in altra maniera: le nostre donne sono più spesso impiegate e lavoratrici dipendenti che padrone. Per esse, lanciate ormai a tutti i posti della politica, dell’amministrazione e del lavoro, non è più elogio il "domi mansit, lanam fecit". Ai tempi vostri, i figli e la famiglia venivano difesi dalla donna sulla porta di casa: oggi vengono difesi anche lontano da casa: nella cabina elettorale, nei sindacati, nelle organizzazioni. Le suore stesse devono saper sfruttare fino all’ultimo le nuove libertà civiche e le signore, che occupano posti pubblici, devono saper assolvere il loro compito come gli uomini, mettendo in più la diligenza, il tatto, la finezza, la finitezza, che son proprie della donna. Se il piccolo generale Bonaparte risentenziasse oggi - come allora, in pieno Terrore - che non gli piace sentir le donne parlare di politica, si troverebbero non una, ma mille donne, che lo rimbeccherebbero colle parole di Madama de Stäel: "Generale! La Repubblica oggi taglia la testa anche alle donne; è dunque giusto che le donne si chiedano almeno il perché di quel taglio!".

***

Il vostro carme - è stato osservato - concede appena un’allusione all’amore coniugale. Certi scrittori cattolici odierni, parlando di donna ideale, darebbero spazio ben più largo a questo discorso! E’ da preferirsi, però, il vostro metodo, che è quello della prudenza cristiana, di cui ci ha dato bell’esempio il Manzoni. L’amore di Renzo e Lucia, fidanzati, è puro, legittimo, virtuoso, ma di quale delicatezza intessuto! Lucia, in casa di donna Prassede, rifugge dal parlare dei propri guai, perché in essi "c’era mescolato per tutto un sentimento, una parola, che non le pareva possibile di proferire parlando di sé; e alla quale non avrebbe mai trovato da sostituire una perifrasi che non le paresse sfacciata: l’amore! ". La stessa Lucia "stupisce e arrossisce" e prova un "confuso spavento" davanti alle domande investigatrici della monaca Gertrude; arrossisce in altri casi e il suo fidanzato nella capanna del Lazzaretto cerca invano i suoi occhi. Lo stesso Renzo, la notte della fuga, nello scendere a terra dalla barca, dà bensì la mano ad Agnese, ma, per pudore, non la dà a Lucia. Poco prima, camminando fuor di strada, aveva offerto, nei passi malagevoli, aiuto alla fidanzata, ma questa l’aveva scansato "dolcemente e con destrezza…vergognosa in sé, anche in tal turbamento; d’essere stata già tanto sola con lui, e tanto familiarmente, quando s’aspettava di diventar sua moglie, tra pochi momenti". Simile delicata prudenza si riscontra anche nei romanzi del protestante Walter Scott. Il fidanzato di Caterina di Perth, ad esempio, lamenta col futuro suocero l’estremo riserbo dell’amata. "Quella lì - dice - si figura che tutto il mondo sia un gran monastero e che tutti gli abitanti del mondo debbano stare come se assistessero ad una eterna messa cantata"! La "bella fanciulla di Perth" esagerava forse un pochino. Ma la nostra "società permissiva" esagera dall’altra parte. E quanto!

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La vostra donna ideale è tutta dedita alla famiglia, respira e diffonde bontà: "Saggezza apre la bocca a lei e nella sua lingua sono i dettami della bontà; a lei si affida il cuore del suo consorte"; in grazia sua "bella figura fa suo marito alle porte, quando siede cogli anziani del luogo". Mi viene in mente Sisto V, papa, che avrebbe detto: "Datemi una donna, di cui il marito non si è mai lamentato in nessuna cosa, ed io ve la Canonizzo subito! ". Tale donna non solo si santifica nella famiglia, ma insieme alla famiglia, elevando con sé il marito e i figli. Quando ho sentito ch’era introdotta la causa di beatificazione dei genitori di santa Teresa del Bambino Gesù, ho detto: "Finalmente una causa a due! San Luigi IX è santo senza la sua Margherita, Santa Monica senza il suo Patrizio; Zelia Guérin, invece, sarà santa con Luigi Martin suo sposo e con Teresa sua figliola"!

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La donna ideale - voi lo dite - tiene all’eleganza, alla grazia e alla comodità: "Ella si fa coperte; bisso e porpora è il suo vestire... di vigore e decoro si abbiglia". Ma soggiungete subito: "...è un soffio la bellezza, la donna timorata di Dio, quella è da lodare". La bellezza è un dono di Dio anch’essa; l’arte di vestire con buon gusto ed eleganza è lodevole, specialmente nella donna; la stessa cosmesi in molti casi non è riprovevole. Ma si tratta di cose passeggere; trovarsi amici di Dio, legati a Lui con vita buona e sincera pietà, è cosa più sicura e duratura; da coltivare quindi insieme alle altre sopra ricordate e più delle altre. Lo diceva Maria Cristina di Savoia, giovane, graziosa e colta regina di Napoli, in una sua poesiola: "Bench’io sia sana, ricca e bella.. E poi?E che possegga oro ed argento... E poi? E sia da fortuna in alto posta... E poi? Unica quasi per spirito e sapere... E poi?Se pur ,godessi il mondo per mill’anni... E poi? Presto si muore e nulla resta: Servi il tuo Dio e tutto avrai dappoi! ". Potrà sembrare, quello della giovane regina, pensiero un po’ mesto. Ma è invincibilmente vero, re Lemuèl. 
Febbraio 1973



Aldo Manuzio

 

Dai tempi del "Gobo de Rialto" 

    
Illustre umanista tipografo, Ritorno da una rapida visita alla Mostra "Venezia città del libro". Mi hanno fatto vedere cose assai interessanti, ma con piacere ho indugiato davanti alla bacheca riservata a libri usciti dalla vostra celeberrima stamperia agli inizi del Cinquecento. Ho ammirato ancora una volta i vostri caratteri stretti, chiari, inchinati verso destra. Ho rivisto il vostro stemma con l’ancora, il delfino e il motto "festina lente" ("affrettati, ma lentamente"). Nella Venezia del Cinquecento, tra Rialto e San Marco erano centocinquanta le stamperie e librerie, ma la vostra le ha superate tutte. Lavorando per amore di cultura e di arte siete morto quasi povero, mentre i vostri colleghi facevano fortuna, come quel Nicolò Janson, di cui scrive Marin Sanudo, che "vadagnò col stampar assai denari". Mi spiacque vedere fianco a fianco un libro vostro e un libro "pirata" dello stampatore fiorentino Giunta, che a Lione vi copiava rozzamente, arrecandovi danno col plagio e con la disonesta concorrenza. Anche esaminando libri di quattrocento anni fa, saltano dunque agli occhi affari poco puliti e la deprecata fame dell’oro. Si notano pure le tendenze dei lettori antichi. Mentre, infatti, passavo a visitare i libri settecenteschi di altro celebre tipografo, il Remondini, la guida mi spiegò: questo qui ha stampato una traduzione di Gil Bias, romanzo del Lesage, che andò a ruba in un battibaleno: ha stampato il Nuovo fior di virtù e la Giornata del cristianoe i librai gli scrissero: "nessuno ne piglia". Pare di essere nel Novecento! E’ proprio vero che gli uomini e i cristiani fanno fatica a cambiare!

 

***

 

Caro Manuzio, pagherei qualcosa per vedervi in una tipografia di oggi. Il vostro torchio stampava trecento fogli in una giornata; le rotative di oggi buttano fuori decine di migliaia di giornali in un’ora. Al vostro tempo i libri erano tanto preziosi che si fissavano con catenelle agli scaffali delle biblioteche, pochi potevano acquistarli, i papi comminavano scomuniche contro chi avesse osato rubarli. Oggi i giornali letti si buttano via a tonnellate; in America i giovani lettori sdegnano conservare i libri: li comperano e, a mano a mano che avanzano nella lettura, strappano le pagine lette e le gettano via; arrivati alla fine, rimane del libro solo la copertina e viene gettata anche quella. Direte: "Allora, son libri che valgono poco!". Vi rispondo: ce n’è di contenuto buono, ce n’è di vuoti, ce n’è di pessimi, davanti ai quali il Polifilo, editorialmente il più bel libro del mondo, da voi stampato, fa la figura di un libro di preghiere per monache. Umanista qual siete, ricordate senza dubbio il capitolo 3° del libro 80 de "La Repubblica" di Platone. Vi sono enumerati i segni della decadenza democratica: i governanti sono sopportati dai sudditi solo a patto che autorizzino i peggiori eccessi; chi obbedisce alle leggi è chiamato stupido; i padri hanno paura di correggere i figli; i figli oltraggiano i loro genitori ("per essere liberi" scrive ironicamente Platone); il maestro ha paura dello scolaro e lo scolaro disprezza il maestro; i giovani si danno aria di essere anziani e gli anziani si rimpinzano di barzellette per imitare i giovani. Le donne appaiono uomini al vestito, eccetera, il capitolo lo conoscete. Ebbene: in certi nostri libri quel che Platone scriveva rimproverando e ironizzando, viene scritto sul serio, talora addirittura come tesi di teologia. I ragazzi sono impazienti di sviluppare la loro vita sessuale? Si afferma che la castità è repressione favorevole al capitalismo, medievalismo superato e che bisogna fare la "rivoluzione sessuale". Nel corpo di una donna sta spuntando "per mala ventura" una vita? Premessa una brava distinzione teologica tra "vita umana" e "vita umanizzata", si afferma: la vita umana, ma non ancora umanizzata, si può interrompere senza scrupolo. I figli non obbediscono? Ebbene, i genitori facciano a meno di dare ordini e di tormentare questi cari piccini! A scuola gli alunni non imparano più le lezioni? Semplice: si sopprimano le lezioni; basta la scuola che impartisce la società, senza la mediazione dei maestri, perché non si tratta tanto di far imparare le materie, quanto di far discutere dai ragazzi problemi sociali. Gli studenti sono seccati per i voti e le classifiche? Via le classifiche: sono discriminanti e indegne di una società egualitaria. Uno vuol esercitare la medicina? Chi glielo impedirà, se è stato iscritto, esami o non esami, studio o non studio,per sei anni all’Università? Non dico di altre bellissime affermazioni che a un umanista come voi farebbero rizzare i capelli.

 

***

 

Vorrei invece che vedeste un po' i giornali, i rotocalchi, tutta roba che ai vostri tempi esisteva solo in germe. Esisteva, infatti, ed esiste tuttora, in campiello San Giacometo, il "Gobo de Rialto", statua di nano, alla quale venivano appesi foglietti volanti pieni di frizzi e di notiziole, che la gente andava a leggere con curiosità. Giornale in miniatura con mini-lettori! Vedeste oggi le processioni, che s’incolonnano verso le edicole dei giornali. Se leggeste qualcuno dei settimanali illustrati, talora pieni di indecenze, e se vi impratichiste alla lettura dei quotidiani, vedreste che ne abbiamo fatta della strada dai tempi del "Gobo de Rialto"! Non più rari foglietti; le notizie vengono rovesciate a valanga sulla gente ogni giorno, senza farsi aspettare. La Repubblica di Venezia si vantava di poter conoscere entro tre mesi i fatti di tutto il Mediterraneo: noi vediamo gli astronauti nell’attimo stesso in cui sbarcano sulla Luna, a un metro di distanza. Purtroppo, le notizie quasi ci sommergono con la loro frequenza e abbondanza, non ci lasciano il tempo di riflettere; a furia poi di venir sbalorditi, un po' alla volta finiamo per non meravigliarci più di niente e per non gustare cose anche belle. Dobbiamo anche fare i conti con le pressioni. Tento di darvene un’idea. Funzionano in America cattedre universitarie di "pubblicità"; insegnano a prender di mira la psicologia dei consumatori, agendo direttamente sul sistema nervoso dell’individuo e sul suo complesso di inferiorità, fino a portarlo al dilemma seguente: o io acquisto il tal prodotto, o sono senza appello condannato all’infelicità. Sul rotocalco, ad esempio, vi fanno vedere la simpatica signorina Rachele. E’ bella ed attraente, ma, nelle feste, nessuno la invita a ballare. Perché? Lo scopre essa stessa, ascoltando casualmente una conversazione: "Rachele dovrebbe consultare un dentista per il suo alito!". E il dentista, subito consultato, sentenzia: "Il suo, signorina, non è un problema, basta usare il dentifricio tal dei tali". Rachele lo usa, ed eccola tornata felice, corteggiata e ammirata! Il caso è tipico della civiltà consumistica: si riferisce alla pubblicità, ma potrei citare altri casi presi dalla politica e dal sindacalismo, dove opera la propaganda ideologica e il persuasore occulto.

 

***

 

Sicché, caro Manuzio, noi oggi guardiamo meno agli stampatori e più ai responsabili della stampa periodica. Se questi avessero la vostra delicatezza professionale! Il "culto della notizia" non dovrebbe far loro dimenticare il dovere della carità e della giustizia verso i privati ordinariamente indifesi davanti alla stampa e verso la società. Non tutti sono in grado di reagire davanti al giornale, che attacca, come lo statista Thiers, che diceva: "Lasciate che scrivano! Sono un vecchio ombrello, sul quale piovono ingiurie da più di quaranta anni. Goccia più goccia meno fa lo stesso!". Voi, a Venezia, avevate la censura, che controllava i vostri libri. Oggi la censura non c'è, si può dire. Se funzionasse almeno un po’ di autocensura! E’ vero però che molto dipende anche dai lettori: se questi manifestassero gusti più seri, l’autocensura funzionerebbe subito e anche i giornali diventerebbero più seri, perché è risaputo che la gente ha i giornali che si merita e che desidera. Succederà? Speriamolo. Per il momento, se foste qui, vi stringerebbe il cuore nel vedere una enorme montagna di stampa cattiva di fronte a un modesto mucchietto di stampa buona. E’ un problema che i cattolici, se sono tali, dovrebbero risolvere con sforzi sinceri. Dicono i tedeschi: "La mucca è magra e volete che dia latte abbondante? Datele più fieno!". Mark Twain, ai tempi in cui dirigeva un giornale, non si limitava a scrivere e far scrivere, ma ne faceva propaganda con tutti i mezzi possibili: un giorno apparve in prima pagina una vignetta con un asino in fondo a un pozzo. La “legenda” chiedeva: "Chi sa dire perché questo povero somaro è morto in fondo a! pozzo?". Pochi giorni dopo la vignetta era riproposta e la “legenda” diceva: "Il povero somaro è morto, perché non ha chiamato aiuto!". Caro Manuzio! Sono io quel somarello. Chiamo aiuto per la stampa buona! 
  Novembre 1973


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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Manzoni

L' unica aristocrazia

    Caro don Lisander,
  Quando moriste, un secolo fa, i vostri amici, accorsi nell’umile stanza del trapasso, dissero in coro: "Oggi è asceso in Cielo un nuovo santo". Più tardi, per la causa della vostra santità ufficialmente proclamata dalla Chiesa, scrisse e si batté il candido e generoso Antonio Cojazzi. Costoro esagerarono un po’. A rovescio esagerarono di recente Maria Luisa Astaldi e altri, che, in pagine romanzate e dissacranti, con grande leggerezza, vi presentarono come un contagiato da male ereditario, un nevrotico inguaribile e in preda a tormentosi, allucinanti dubbi sulla fede. La verità è un’altra. Pur condizionato da qualche complesso, dal temperamento e da dolorose vicende familiari, foste un sincero, convinto e grande cattolico. Anche vecchio, vi accostavate ogni giorno all’altare per ricevere l’Eucaristia. Quale fosse la vostra vita, lo lasciano intravedere i pensieri tutti evangelici di cui sono pieni i vostri scritti. Questi, per esempio: "La vita non è già destinata a essere un peso per molti e una festa per alcuni, ma per tutti un impiego, del quale ognuno renderà conto"; "la disgrazia non è il patire, e l’essere poveri; la disgrazia è il far del male"; "il solo pensiero di provocar dispute, mi contrista"; "Dio non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande". Dovunque la vostra penna toccava, sprizzavano scintille di fede religiosa, il che non poteva succedere, se la mente e il cuore, che dirigevano la vostra mano nello scrivere, di religione non fossero stati pieni. "I Promessi Sposi" testimoniano in questo senso dal principio alla fine; è infatti sintomatico che di essi, di un romanzo, di una storia d’amore, Ludovico da Casoria, frate santo, abbia potuto dire: "E’ un libro, che potrebbe essere letto in un coro di vergini presieduto dalla Madonna".

***

"Storia di povera gente" il vostro romanzo. Povero l’ambiente principale: montagna, campagna, lago. Poveri i protagonisti: Renzo e Lucia, due bravi e buoni giovani, che chiedono solo di volersi bene. Renzo ha preparato un nido per colei che ama e che, a sua volta, a quel nido, passando, sogguarda spesso, alla sfuggita e non senza rossore, pregustandovi un lieto e perpetuo soggiorno di sposa. Sul nido, ecco, invece, la tempesta, che separa e disperde i due fidanzati. "Ma il Signore sa che ci sono!", dice Lucia nel momento più difficile. "Quel che Dio vuole!" dice Renzo, pur senza rinunciare ad un’onesta e ardita rivalsa. Intorno ai due, si muove gente altrettanto semplice e onesta. Una Agnese illetterata, ma pratica della vita, che consiglia decisa: "Conviene fare così". "Ma non è male imporre al curato un matrimonio-sorpresa?", obietta Lucia. "E’ come lasciar andare un pugno a un cristiano - risponde Agnese -; non istà bene; ma dato che gliel’abbiate, né anche il papa non glielo può levare".

E con Agnese tanti, tanti altri: un curato pusillanime, egoista, timido, che si preoccupa soprattutto della propria pelle; Perpetua, la serva-padrona, che dà buoni "pareri" al curato; Ambrogio sacrestano; un oste molto pratico; "Paolin dei morti" sepoltore; "un certo Tonio" con quel sempliciotto di Gervaso suo fratello e con una moglie con la quale è in debito di bugie; la fanciulla scarna, che contende l’erba alla vaccherella magra; Bettina, la piccola che grida giuliva: "Lo sposo,lo sposo!"; Menico, ragazzo bravissimo a fare a rimbalzello ed il Console del villaggio. Ma chi picchietta all’uscio e dice: "Deo gratias"? E’ fra Galdino, che, bisaccia pendente alla spalla sinistra, viene alla cerca delle noci e, tra una chiacchiera e l’altra, racconta un gran miracolo avvenuto laggiù, in un convento di Romagna. E quest’altro cappuccino, che si affaccia all’uscio di Agnese e si ferma ritto sulla soglia, chi è? "Un religioso - dice Renzo - che, senza farvi torto, val più un pelo della sua barba che tutta la vostra", un nemico aperto dei tiranni in parole e, dove poteva, in opere. E’ fra Cristoforo, padre spirituale di Lucia, della quale ha temprato la coscienza, facendo di una povera contadina, sola al mondo con la madre, una donna pura e forte, piena di fede e di speranza.

***

Tutti costoro si muovono nel villaggio. Ma dentro e fuori villaggio Voi avete creato ben duecentocinquantacinque personaggi, tutti delineati al vivo, magari con poche parole, come la donna "pentolaccia a due manichi", come il grassotto che sta ritto sulla soglia della sua bottega con l’aria più di voler fare domande che di dar risposte, come il trombettiere di Don Gonzalo, come Don Pedro, cocchiere di Ferrer, che in mezzo alla folla tumultuante sorride alla moltitudine con grazia ineffabile, pregando mellifluo: "Di grazia... un pochino di posto"; una volta diradata Ia gente, invece, gli torna in petto il cuore antico, smette ogni cerimonia, sferza con brio i cavalli e grida: "Ohé, ohé!". Ma i grandi di questo mondo? Nel vostro romanzo Voi li fate pure entrare, ma a servizio degli umili oppure in contrapposizione agli umili, in modo che questi facciano più bella figura.

Aristocratico di nascita, Voi ammettete un’unica aristocrazia: il servizio ai poveri. Per voi "non c’è superiorità d’uomo sopra altri uomini se non in loro servizio". Il Cardinal Federigo, padre Cristoforo, l’innominato convertito, il marchese erede di Don Rodrigo, la mercantessa agiata appartengono all’aristocrazia delle anime, perché si chinano nelle miserie dei poveri. Gli altri personaggi d’alto affare, specialmente i violenti e i sopraffattori, non vi piacciono e come lo fate capire! "Sono di quelli che hanno sempre ragione". "Sono della costola di Adamo". Spediscono i figli cadetti al chiostro, per lasciar intatta la sostanza al primogenito, "destinato a procreare dei figlioli per tormentarsi e tormentarli". Don Rodrigo è un prepotente, non teme Dio ma teme il mondo e il disprezzo dei villani tra cui vive; è capace di insultare e cacciare di casa sua un povero frate, ma è pieno di paura di fronte all’Ordine ("volevate ch’io mi tirassi addosso tutti i Cappuccini d’Italia?"). Del principe, che monaca per forza la figlia, Voi dite: "Non ci regge il cuore di dargli il titolo di padre".

Bollato senza indulgenza il Conte Zio del consiglio segreto, borioso e ipocrita ("un parlar ambiguo, un tacere significativo, un restare a mezzo, un restringer d’occhi, un lusingare senza promettere"). Bollato il Conte Attilio, gran sostenitore della metodologia delle bastonate da infliggere sia ai portatori di sfide ("il bastone non isporca le mani a nessuno"...) sia ai frati cappuccini ("bisogna saper raddoppiare a tempo le gentilezze a tutto un corpo, e allora si può impunemente dare un carico di bastonate a un membro"). Bollato anche il dottor Azzeccagarbugli, ("quel signor dottor delle cause perse"), opportunista calcolatore, "giocatore di bussolotti" ossia ciarlatano, fantoccio in mano ai potenti e alleato delle ribalderie da loro tramate contro i poveri.

***

Per dire tutto, nessuna violenza Vi piace, neppure quella che tentano i poveri quando sono ingiustamente calpestati. Renzo, deciso a farsi giustizia da sé stesso, esclama: "A questo mondo c’è giustizia finalmente", frase da Voi crudamente folgorata con questo commento: "Tant’è vero che un uomo sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica". E al posto della violenza cosa consigliate contro la violenza? Il perdono. Perdono domanda fra Cristoforo al fratello dell’uomo da lui ucciso e per tutto il resto della sua vita fa propaganda di perdono. Tiene nella borsa il famoso "pane del perdono", che, prima di morire, consegna, come eredità, a Renzo e Lucia, con queste parole: "Fatelo vedere ai vostri figlioli... dite loro che perdonino sempre, sempre! tutto, tutto!".

Un anno prima, a Renzo sconvolto e arrabbiato, aveva detto: "Ho odiato anch’io... l’uomo, che odiavo cordialmente, che odiavo da gran tempo, io l’ho ucciso... credi tu che se ci fosse una buona ragione, io non l’avrei trovata in trent’anni? Ah, s’io potessi ora metterti in cuore il sentimento che dopo ho avuto sempre... per l’uomo ch’io odiavo! ". La lezione non è vana. Renzo concede il perdono a Don Rodrigo: un perdono intercalato con risvegli di rabbia e ritorni di vendetta nella fuga da Monza a Milano, nella quale "ebbe ammazzato in cuor suo Don Rodrigo, e risuscitatolo, almeno venti volte"; un perdono "proprio di cuore" dopo i nuovi rimproveri di fra Cristoforo al Lazzaretto; perdono ripetuto nella capanna di Lucia e di nuovo, all’annuncio della morte di Don Rodrigo, sempre con questa qualifica: "di cuore, di cuore".

***

Un altro sentimento di non violenza pervade tutto il vostro romanzo: la fiducia nella Provvidenza. Lucia, dando l’addio ai suoi monti, piange nel fondo della barca, ma il pensiero ultimo che le si ferma nell’animo è questo: "Dio che dava già tanta giocondità è dappertutto". Riluttante al matrimonio di sorpresa, aveva detto: "...tiriamo avanti con fede, e Dio ci aiuterà... lasciamo fare a Quello lassù. Non volete che sappia trovar Lui il bandolo di aiutarci, meglio che non possiamo fare noi, con tutte codeste furberie?". Renzo, nella boscaglia, "prima di sdraiarsi su quel letto che la Provvidenza gli aveva preparato, vi si inginocchia a ringraziarla di quel benefizio, e di tutta l’assistenza avuta da essa in quella terribile giornata". Chiusi poi gli occhi, i pensieri premono tumultuosi alla sua mente, ma finisce per predominare quest’ultimo: "Dio sa quel che fa: c’è anche per noi. Vada tutto in isconto dei miei peccati. Lucia è tanto buona! non vorrà poi farla patire un pezzo, un pezzo, un pezzo!".

Ancora mezzo affranto e tutto sossopra dopo la corsa e il salto, col quale s’è salvato sul carro dei monatti, "ringrazia intanto alla meglio in cuor suo la Provvidenza, d’essere uscito d’un tal frangente, senza ricevere male, né farne". E si tiene sempre in questo clima di fiducia. "La c’è la Provvidenza!" dice, prima di spogliarsi a favore dei poverelli degli ultimi denari, alle porte di Bergamo. "L’ho detto io della Provvidenza!", esclama, quando il cugino Bortolo gli assicura aiuto. "Devo ringraziare la Madonna fin che campo!", dice all’amico, di ritorno dal Lazzaretto. Ed alla fine, cercando con Lucia, trova il sugo di tutta questa storia e lo riassume così: i guai, "quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende utili per una Vita migliore". D’accordo, in questo, col cardinal Federigo: "far quel che si può, industriarsi, aiutarsi, e poi essere contenti". D’accordo anche, caro Don Lisander, con tutti i veri seguaci del Vangelo.
   
Luglio 1973




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Ne vedreste delle belle! 

    
Illustre Marconi Stiamo celebrando i cent’anni dalla vostra nascita (1874 - 1974). Con l’ingegno che avevate, è stata una grande fortuna per il mondo che vi siate dedicato fin da fanciullo ai problemi, per Voi affascinanti, della fisica moderna. A 21 anni,senza laurea, senza neppure una licenza liceale, avevate già scoperto la radiotelegrafia, trasmettendo segnali elettrici a distanza. Vennero negli anni successivi, a valanga, studi nuovi con nuove scoperte. Nel 1924 riusciste a perfezionare la radiofonia, facendo pervenire la voce umana dall’Inghilterra all’Australia. Con la scoperta delle onde corte e delle microonde assicuraste nuovi sviluppi alla televisione. Ricordo con quale interesse il mondo intero Vi seguiva: ero un povero ragazzo, ma sapevo che nel 1912, proprio in grazia delle vostre invenzioni, s’era potuta salvare la maggior parte dei passeggeri del Titanic ch’era affondato in pochissime ore per aver urtato contro un iceberg; sentivo parlare della vostra Elettra, nave-laboratorio, come di un Vascello fantasma; faceva impressione vedervi in fotografia accanto a Pio XI e sentire che ad un semplice vostro segnale s’erano accese simultaneamente le migliaia di lampade a Sidney; che avevate attraversato ben 87 volte l’Oceano per le vostre sperimentazioni. Pareva che più avanti di così non si potesse andare. Invece? 

Invece s’è continuato a progredire rapidamente. Se tornaste al mondo ne trovereste delle cose nuove, dal 1937, anno della vostra morte! Funzionano la televisione a colori, le videocassette, il transistor, il satellite artificiale, il radar, la penicillina, la stanza di rianimazione. Negli stabilimenti ci sono macchine a integrazione, che sfornano gli oggetti dopo esserseli lavorati dal principio alla fine senza che i vari pezzi siano stati nemmeno toccati dalla mano dell’uomo. Le macchine a controreazione controllano i prodotti in modo che eventuali difetti vengano automaticamente scoperti e corretti. Cervelli elettronici registrano informazioni ed eseguiscono le più varie operazioni in brevissimo tempo. Gli uomini sono andati più volte sulla Luna e stanno progettando viaggi su altri pianeti. Siamo in piena era tecnologica, post-industriale e interplanetaria!

***

Allora va tutto bene!, direte, essendo Voi stato anche imprenditore e realizzatore economico, oltre che grande scopritore. Distinguo. Molte cose vanno benissimo, ma stanno portando delle conseguenze gravide di problemi e di pericoli. Abbisognerebbero pertanto di venire corrette e meglio incanalate. Paolo VI, per esempio, ha parlato di "popoli della fame, che interpellano oggi in modo drammatico i popoli dell’opulenza" e di "collera dei poveri dalle conseguenze imprevedibili". Succede infatti questo: in un terzo del mondo, c’è abbondanza straordinaria di tutto e uno spreco sfacciato; in due terzi del mondo c’è una miseria, che va aumentando sempre più. Basterebbe annullare le pazze spese degli armamenti e diminuire certi lussi: entro breve tempo la tecnologia potrebbe portare tutta la famiglia umana a un livello economico, sociale e culturale assai elevato.
Questo è risaputo, e questo soprattutto irrita i poveri. 
Ho parlato di "famiglia umana"... Mai come oggi si è sentito che il mondo è piccolo: abbiamo fame e sete di unità, ma veniamo continuamente stiracchiati da forze opposte. Fanno unità: la rete prodigiosa di comunicazioni, che fascia ormai la terra in cento maniere; l’aspirazione universale alla pace; l’esistenza dell’ONU e di altre organizzazioni soprannazionali; gli scritti e l’opera di una elite di pensatori e di politici. Fanno disunione: le vampate di nazionalismo esagerato, che s’accendono ogni tanto qua e là, sia nei popoli vecchi che nei nuovi; la divisione del mondo in blocchi opposti guidati da superpotenze; le tensioni sociali, che ormai non sono più solo tra classe e classe, ma tra regione e regione, tra stati ricchi e stati poveri.

***

Direte ancora: Ma io sono stato anche un credente. Perché la Chiesa non sfrutta la immensa carica rinnovatrice che è nel Vangelo, rinnovandosi essa stessa e camminando coi tempi nuovi? Desiderio giustissimo. E l’ha già fatto suo il Messaggio del Concilio agli uomini di pensiero e di scienza. "Il vostro cammino, ha detto, è il nostro... Noi siamo gli amici della vostra vocazione di ricercatori, gli alleati delle vostre fatiche, gli ammiratori delle vostre conquiste e, se occorre, i consolatori del vostro scoraggiamento e del vostro insuccesso". Parole che, sono sicuro, vi sarebbero piaciute molto; ad esse sono seguiti i fatti: è in atto nella Chiesa un rinnovamento interno e un dialogo colle forze esterne. Si incontrano però delle difficoltà. Io, che sono vescovo, mi sento a volte nei panni del figlio di Giovanni II, re di Francia. Questi nel 1356, alla battaglia di Poitiers, menava gran colpi di spada; accanto a lui combatteva pure il figlio, ma vegliava sul padre e gli gridava ogni tanto: "Papa, guàrdati da destra! Papà, guàrdati da sinistra!". E’ il mestiere che devo fare io continuamente.

La Chiesa desidera, per esempio, applicare l’invito di Rosmini "sentire altamente di Dio" con celebrazioni liturgiche degne, spogliando il concetto di Dio dai modi, talvolta ingenui e caricaturali, di cui l’aveva rivestito una civiltà agricola e pre­scientifica. 
Ma è lavoro difficile. Da destra si grida all’empietà e al sacrilegio ogni volta che si abbandona un rito vecchio per uno nuovo. A sinistra, viceversa, si attua indiscriminatamente la novità per la novità, si smantella allegramente tutto l’edificio passato, si mandano in soffitta quadri e statue, si vede idolatria e superstizione dappertutto, si arriva a dire che, per salvare la dignità di Dio, occorre parlare di Dio in termini sceltissimi o tacere addirittura.

***  

Illustre Marconi! Nel campo della scienza, Voi esigevate giustamente la certezza fisica e matematica. In altri campi però vi siete accontentato della certezza del buon senso e del senso comune, ch’è pure una certezza. Io so benissimo che di Dio non posso parlare nel modo che Egli merita, ma bisogna pure che ne parli in qualche modo. Faccio come quella madre che, rinchiusa in una prigione senza finestre, partorì un figlio, il quale crebbe con lei senza mai vedere il sole. Per dargliene un’idea, quando aveva sei anni, la madre gli mostrò la lucerna accesa dal carceriere. "Ecco, disse, il sole è come quella fiamma: fa luce, riscalda, ma il sole è molto, molto più grande!". Era poco, era un’analogia, ma era meglio che niente. Nel campo sociale ed economico la Chiesa trova pure difficoltà nel portare il suo contributo. Come Chiesa, intanto, dichiara che non ha né mandato né competenza né mezzi per risolvere i problemi strettamente tecnici. I fedeli, che sono anche cittadini, devono essi agire nel mondo sindacale, politico e imprenditoriale, ispirandosi alla propria fede religiosa. 

La Gerarchia propone ad essi e a tutti un insegnamento sociale ricavato dai principi del Vangelo, che oggi deve farsi strada tra le opposte ideologie del capitalismo e del marxismo. Ilprimo ha il merito di aver promosso lo sviluppo industriale e di difendere la libertà personale; gli si rimprovera però di aver causato le gra­vissime sofferenze dei poveri nel secolo scorso e gli squilibri odierni. Il marxismo conculca la libertà personale e spazza via tutti i valori religiosi; non gli si può, tuttavia, negare il merito di aver fatto aprire gli occhi a molti sulle sofferenze dei lavoratori e sul dovere della solidarietà. Il capitalismo, secondo l’insegnamento della Chiesa, per essere a posto, dovrebbe essere profondamente modificato. E’ buona la ricchezza prodotta; a patto che non vi si attacchi troppo il cuore, che ad essa partecipi quanta più gente è possibile, che non dia più origine ai gravi squilibri di oggi. Il guadagno è buono solo se raggiunto con mezzi giusti cioè senza sacrificare la dignità di alcuna persona umana. Anche la concorrenza può essere buona, a patto che non degeneri in lotta feroce, senza risparmio di colpi. La Chiesa, ad esempio di Cristo, deve amare tutti, circondando però del suo amore preferenziale i poveri e i più sfortunati. Quanto al marxismo, esso sta oggi cercando di penetrare nelle file dei cattolici attraverso una sottile distinzione. "Altro, si dice, è l’analisi che Marx ha fatto della società, altro è l’ideologia che ha guidato Marx. L’analisi è cosa rigorosamente scientifica, illuminante, utile per risolvere i problemi e noi l’accettiamo; l’ideologia materialista la respingiamo".

***

Il contributo della Chiesa per l’unità del mondo è espresso così da Paolo VI: "Esperta in umanità... senza pretendere di intromettersi nella politica... la Chiesa offre ciò che possiede in proprio: una visione globale dell’uomo e dell’umanità". Questa visione affonda le sue radici nella Bibbia, che mostra tutti gli uomini avviati al medesimo destino, redenti da un Salvatore, che è e si professa solidale con tutto il genere umano, investito della missione di riconciliare con sé tutto ciò che esiste sulla terra e nei cieli" (Col. 1, 20). Il Giona del Vecchio Testamento non ritiene di dover spartire con altri popoli i privilegi del suo popolo. Mandato a predicare a Ninive, in Oriente, tenta di fuggire verso Occidente, perché i Niniviti non sono ebrei. Dio, attraverso un suo sistema di tempeste scatenate e di fauci di balene spalancate, lo riporta in Oriente. Predicando ai Niniviti, egli si augura che essi non si convertano. Succede il contrario: si convertono, Dio li perdona e Giona, con animo di ragazzo viziato, si lamenta con Dio: "Lo sapevo, Signore! Ti lasci sempre impietosire, tu perdoni anche a questa gentaglia". Ma Dio gli imparte una lezione di universalismo con fine umorismo, ma con altrettanta fermezza. Uscito di città, Giona si prepara un riparo di frasche contro il caldo e Dio gli dà una mano, facendo crescere in tutta fretta una pianta di ricino, che gli fa ombra sul capo. Giona si addormenta contento, ma la mattina trova la pianta seccata e sente il sole dardeggiare sulla sua testa.

Si lamenta di nuovo, ma Dio gli risponde: "Come? Tu ti commuovi per il ricino, che non ti è costato nulla, che in una notte è cresciuto e in una notte è perito; e io non dovrei commuovermi per Ninive, una città di centoventimila abitanti, che non sanno distinguere la loro destra dalla loro sinistra?". 
Questo discorso universalistico, chiarissimo anche nelle profezie di Isaia, di Michea e in alcuni Salmi, è ripreso in pieno da Gesù. Al presepio, con i pastori, vengono anche i Magi non ebrei: beneficati e lodati da lui sono anche la donna Cananea e il Centurione romano; la missione affidata da Cristo agli Apostoli è in questi precisi termini: "Andate e fatevi discepole tutte le genti (Mt. 28, 19)", sicché San Paolo può esporre il piano divino della salvezza nella seguente frase: "Ricapitolare nel Cristo tutte le cose, quelle celesti e quelle terrestri" (Col. 1, 10). 

In linea colla Bibbia, gli ultimi Papi hanno calorosamente perorato la causa dell’unità e della pace. Paolo VI, in modo speciale, ha tentato anche vie inedite, parlando all’ONU, inviando telegrammi perfino ai capi degli Stati comunisti, offrendo la sua mediazione. Direte: con quali risultati? Come minimo c’è il risultato della convinzione propagandata e diffusa, di un nuovo clima indotto, di una mutazione, che sta avvenendo. Usando un richiamo classico, direi che dalla mentalità di Gian Galeazzo Visconti stiamo passando a quella del Petrarca. Il primo, secondo lo stile dei signori rinascimentali, nemmeno concepiva un governo senza guerre guerreggiate e arrivò al punto di proibire ai preti di dire nella Messa le parole "dona nobis pacem". Il secondo era di parere diametralmente opposto e raccontava un dialogo tra lui e un pazzo. Questi, veduti dei soldati in marcia, aveva chiesto al poeta: "Dove vanno?". "Alla guerra!" aveva risposto il Petrarca. "Ma, osservò il pazzo, questa guerra dovrà pur un bel giorno terminare colla pace, sì o no?". "Certo!", replicò il poeta. "Ma allora, replicò il pazzo,  perché non fare subito la pace, prima di cominciare la guerra?". "Io, concludeva malinconicamente il Petrarca, io la penso come quel pazzo!" . Se Dio vuole, pare che un po’ di questa pazzia buona stia diffondendosi anche per merito della Chiesa in tutti i cervelli.

***  

Illustre Marconi! La vostra vita intensissima, vissuta per la ricerca e per la realizzazione fino all’ultimo giorno, si riassume in questa frase: Poche parole, tanti fatti. Sotto questo aspetto insegnate qualcosa anche a noi, che sembriamo oggi inclinati alla tendenza contraria delle molte parole (scritte o parlate) e degli scarsi frutti pratici. 
Giugno1974



Christopher Marlowe

La più riuscita beffa del diavolo


    
Illustre poeta, Vi ho incontrato la prima volta, leggendo il poeta Carducci. Questi si finge in carrozza, viaggiante lungo il Chiarone, fiumiciattolo della Maremma toscana: le "smunte cavalle" corrono, il buio cresce, cade una pioggia leggera e il poeta sta leggendo proprio un Vostro libro. Deve ricavar dalla lettura visioni allucinanti, perché scrive: "dal reo verso bieco, simile a sogno d’uomo, cui molta birra gravi... esala un vapore acre d’orrida tristizia".   Ad un certo punto non ne può più e butta addirittura il Vostro libro: "Via, tu, Marlowe, a l’acque!"   Ero un ragazzo, allora. Naturale che mi chiedessi: "Che cosa avrà contenuto di orrido quel libro? Non posso ripescarlo dalle acque del Chiarone; chissà se lo pesco in biblioteca?". L’ho pescato: la "Storia tragica del dottor Faust".

Davvero tragica e fosca. Nelle prime pagine vi trovai i termini del contratto tra Faust e il diavolo: "Primo: il dottor Faust potrà essere uno spirito in forma e sostanza. Secondo: Mefistofele diavolo sarà suo servo ai suoi ordini. Terzo: Mefistofele farà o recherà a Faust qualsiasi cosa. Quarto: Mefistofele sarà nella camera o nella casa di Faust, invisibile. Quinto: egli apparirà al detto Giovanni Faust in qualsiasi momento, nella forma o nell’aspetto che egli vorrà". "Io, Giovanni Faust di Wittemberg, dottore, col presente atto cedo anima e corpo a Lucifero, principe dell’Est, e al suo ministro Mefistofele e, inoltre, concedo loro pieno diritto, dopo trascorsi 24 anni, di portare il suddetto Giovanni Faust, corpo e anima, carne, sangue e beni nella loro dimora, dovunque sia. Di mia mano. Giovanni Faust". Arrivato alla fine del dramma, io chiedevo a me stesso: "Bravissimo il Marlowe come poeta dell’orrido, ma non è stupido il diavolo e non è pazzo il dottore nel condurre avanti un contratto di questo genere?".

Oggi sono in grado di rispondere: "Sì, stupido il diavolo, pazzo il dottore e fortuna che il contratto non sia mai esistito!". Ma ecco, sento altri, che intervenendo, dicono: "La fortuna è invece che il diavolo non esiste!". A Voi, Marlowe, questa moderna negazione del diavolo interessa poco, penso; verso di essa inclinavate, se V’ho capito bene, già 450 anni fa. A me, invece, essa dispiace moltissimo. Con Carlo Baudelaire, come Voi poeta e come Voi tutt’altro che farina da far ostie, penso che "la più riuscita beffa del diavolo sia questa: far credere agli uomini che egli non esiste". Lui, uno dei protagonisti della storia, cerca di passare in grande incognito nel mondo e di farsi negare dagli uomini per portarli a promuovere contro Dio la rivolta che fu già sua, e in parte c’è riuscito. Una prova s’è avuta, quando, alcuni mesi fa, il Papa fece un severo richiamo sul diavolo, dicendo che esso esiste non soltanto come male impersonale, ma come persona vera, invisibile sì, ma operosamente attiva ai danni dell’uomo.

Ci furono delle grosse reazioni. Alcuni, dall’alto di giornali e riviste, improvvisandosi teologi, sentenziarono sussiegosamente non essere discorso serio quello d’un papa, che risuscita miti medievali e interrompe il "progresso" di una teologia, che stava ormai confinando il diavolo in un minimo cantuccio imposto dalla "cultura". Uscì perfino un libro: "Il papa e il diavolo". Voi, Marlowe, l’avreste definito "malignantis naturae": in quel libro, infatti, il diavolo è solo un pretesto: il servizio di Paolo VI alla Chiesa e al mondo è il tema vero, trattato con l’apparente severo armamentario dei dati e della ricerca obiettiva: sotto, invece, c’è ora congenita incapacità di capire cose di Chiesa, ora ingenuità di orecchiante, ora spiacevole tendenziosità. Più positiva, la reazione di alcuni teologi di "manica larga". Interpellati, essi, magari a denti stretti, risposero che un cattolico non può decentemente negare l’esistenza del diavolo, tanto apertamente ne parla la Bibbia. 
Qui sta il punto: la Bibbia e la giusta lettura della medesima. Sorprende una cosa: mentre le religioni dell’antico Oriente avevano una demonologia sviluppatissima e pittoresca, il Vecchio Testamento fa al demonio un posto ristretto. Timore di intaccare il monoteismo, di far torto al culto ebraico ufficiale, di falsare il problema del male spiegano forse questo riserbo degli scrittori sacri.

Nel Nuovo Testamento c’è più abbondanza. Vi si incontrano spesso questi nomi: "demoni", "spiriti, "spiriti maligni", "spiriti impuri, "il maligno", "il tentatore". Questi "spiriti" , secondo il Vangelo, cercano di opporsi alla venuta del Regno, possono tentare gli uomini come hanno tentato Gesù nel deserto. Per San Giovanni la passione di Gesù è una lotta contro il demonio; negli Atti è detto che la predicazione degli Apostoli sarà la continuazione della lotta tra Regno di Dio e regno del demonio. Più volte sia Gesù che i suoi ascoltatori danno al demonio la colpa di malattie: cecità, mutismo, sordità, convulsioni, disfunzioni mentali. Gesù guarisce quelle malattie, mai però attraverso formule magiche o esorcismi, bensì impartendo un ordine, facendo un semplice gesto. San Paolo parla spesso della potenza del diavolo e della tentazione che dichiara frequente, varia, dannosa: il diavolo si trasforma perfino in angelo di luce per meglio ingannare i cristiani. Paolo stesso si sente schiaffeggiato da un "angelo di Satana" con attacchi non meglio specificati. Non se ne spaventa però: la potenza delle tenebre non sarà capace di separarlo dalla carità di Cristo. Gesù, dice, ci ha liberati dalla potenza del demonio e sono i cristiani che, alla fine, giudicheranno gli angeli. Più colorito, il libro dell’Apocalisse.

Per la verità, la sua demonologia, a sfondo di lotte e di vittorie di angeli su demoni, non è facile da interpretare. Dall’Apocalisse è influenzata la demonologia dei primi secoli cristiani. Vi è frequente il "tema dell’astuzia". Dio avrebbe nascosto la divinità sotto la natura umana di Cristo. Il diavolo vi si sarebbe gettato sopra sprovvedutamente. Preso come uno stupido pesce all’amo, dice san Gregorio papa. Imprigionato come un sorcio goloso alla trappola della croce, dice sant’Agostino. San Cirillo di Gerusalemme parla invece di veleno, che, inghiottito, obbliga il diavolo a sputar fuori le anime, che teneva prigioniere. Questo tema del diavolo ingannatore ingannato, abbandonato in seguito dai teologi, fu ripreso dagli artisti. Non piacque a Voi, Marlowe, che faceste finire per sempre il povero Faust sotto le sgrinfie di Mefistofele, ma piacque a Dante, piacque a Goethe.

In Dante abbiamo Buonconte di Montefeltro, scomunicato e vittima sicura del diavolo, il quale sta già aspettandolo come sua preda. Ma Buonconte, prima di morire, ha la buona idea di invocare la Madonna. L’angelo di Dio ne piglia per diritto l’anima, e al diavolo, beffato e deluso, non resta che prendersela con Lui, gridandogli dietro: 
O tu del Ciel, perché ne prive? In Goethe il povero Mefistofele, dopo essersi affaticato lunghi anni per soddisfare tutte le voglie di Faust giovane e vecchio, resta pure con un palmo di naso. All’ultimo momento, infatti, scendono dal Cielo interi cori di Angeli a sconfiggere le milizie diaboliche e a salvare Faust. Dispettoso, Mefistofele grida: L’anima promessa... me l’han frodata con raggiro!   Ma Dio non raggira nessuno, checché ne dica Mefistofele.

Questi, invece, con tutti i suoi, e raggiratore. E questo è il tema dominante della demonologia dei Padri, che si rifugiarono nel deserto nei primi secoli della Chiesa. Questo deserto non è da essi concepito come rifugio opposto alla corruzione del mondo e luogo dove Dio nella solitudine parla in modo privilegiato al cuore dell’uomo. Viceversa, è il campo di battaglia, dove i solitari vanno a misurarsi col diavolo e a sbaragliarlo come già aveva fatto Gesù. I diavoli, secondo quei Padri, considerano il deserto dominio proprio. "Via da casa nostra!", gridano a Sant’Antonio e gli fanno trovare sulla strada cento trabocchetti, perch’egli non debba passare e non venga a disturbare l’ultimo loro rifugio, riempiendolo di monaci. Sono famosi i brutti tiri, che essi gli hanno giocato e che diventano pane quotidiano per tutti gli anacoreti: pii pellegrini, che vanno a visitare i Padri del deserto, se li sentono raccontare con stupore. San Pacomio piega le ginocchia per pregare, il diavolo gli scava davanti un buco; sta lavorando, il diavolo si drizza improvvisamente davanti a lui sotto forma di gallo, che gli grida sotto il naso; sta pregando, e un lupo o una volpe gli saltano addosso urlando. San Macario, in viaggio a un tempio idolatrico, lungo il cammino ha piantato nella sabbia delle piccole canne per ritrovare la strada al ritorno; si addormenta, ma intanto il diavolo strappa tutte le canne e Macario se le trova in fascio, a mo’ di cuscino, sotto la testa.

Insomma: diavoli tentatori, dispettosi, disturbatori, invidiosi, sui quali tuttavia il monaco, se vigila e prega, riporterà completa vittoria. Più che di fronte a storie vere, si capisce, ci troviamo di fronte a libri didattici o moralistici. Eppure furono letti e creduti come storia, impressionando i fedeli semplici e dando origine ad altri libri e ad altre credenze. Nel Medio Evo si crede ancora che il diavolo venga a tormentare specialmente i più buoni sotto apparenze ora spaventose ora conturbanti. La povera monachella desidera un cesto di insalata? In quel cesto c’è Satana. Il frate si compiace di un uccellino che canta nella sua celia solinga? In quel canto c’è Satana. Anche nelle miniature del libro di preghiere può essere annidato Satana, anche nell’ immagine dipinta sopra l’altare, perfino nella stessa corda, che cinge il saio del frate. Peggio: è Satana, che, incube, violenta le vergini e procrea nel loro seno figli maledetti. Ahimé! La religione medievale sconfina spessissimo nella superstizione in questa materia. Roberto, duca di Normandia, fu soprannominato il Diavolo, perché creduto generato dal Diavolo.

Alla demonologia si unì e alleò, spesso, nonostante gli sforzi della Chiesa, la magia. La fattucchiera, la donna malefica, l’avvelenatrice trova credito perfino nei secoli XVI e XVII. Si crede che essa possa utilizzare forze infernali contro un nemico. Si pretende che donne ossesse si involino di notte per andare a partecipare ai festini sabbatici di Satana. Come spiegare tutto questo? Non con la sola cattiveria, perché spesso c’è stata ignoranza e buona fede. Diciamo allora: ingenuità di scrittori, che hanno accettato fatti senza la debita verifica; creduloneria facilona, che mescolò imprudentemente parola di Dio e manifestazioni superstiziose; fenomeni psicologici e patologici, che furono guardati con occhio superficialmente religioso invece che con occhio scientifico.

Rigettare queste esagerazioni e questi errori non vuol dire però rigettare tutto. Che esista il diavolo, puro spirito invisibile, non può fare più problema dell’esistenza di Dio e degli Angeli. Ammettere la sua potenza sull’umanità non può far paura, se si crede alla vittoria riportata da Cristo. Questi sulla croce pareva vinto. Invece era il vincitore e lo si vide nella Risurrezione. Noi ci troviamo nella stessa situazione: soggetti a tante tentazioni, prove e pene, sembriamo vinti: con la grazia del Signore saremo dei vincitori! 

   Gennaio 1974



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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Paolo Diacono

Le smanie delle vacanze 

    
Illustre scrittore e storico,L’imminente Congresso Eucaristico Nazionale che si terrà nel Friuli (agosto 1972), mi ha fatto pensare a Voi, che, pur di stirpe longobarda, nel Friuli siete nato e che della vostra gente avete scritto con affetto di figlio.I Longobardi che vengono, son trascorsi ormai dodici secoli, in Italia ammontano a qualche centomila. Voi li descrivete avanzare lungo la via Postumia e vi paiono un formicaio in marcia.Se ritornaste adesso? Se un sabato o una domenica di luglio o agosto, seduto a passo Fadalto, vi metteste a contare le macchine, straniere e italiane, che scendono verso Caorle, Jesolo e Venezia, o che salgono verso il Cadore? Oppure, se vi sedeste al Brennero o su altri passi alpini ancora più congestionati di turisti?Se vi dicessi che nei soli giorni di ferragosto saranno un milione i milanesi che lasciano Milano, un milione i romani che lasciano Roma, una processione interminabile gli automezzi che procedono in tutti i sensi, a tutte le ore, su tutte le strade d’Italia?

Prevedo la vostra meraviglia e la domanda: "Ma dove va tutta questa gente?""Va al mare, ai monti, a visitare monumenti, curiosità naturali; va in cerca di fresco, di verde, di sabbia, di aria iodica o resinosa, di evasione!""E dove li alloggeranno?"Un po’ dappertutto: negli alberghi, nelle pensioni, nelle tendopoli o villaggi turistici, nelle “case per ferie”, nei motels, nei campings. Lo vedete quel coso a quattro ruote, rimorchiato dall’auto? E’ una roulotte, piccola casa viaggiante.Ai vostri tempi voi fermavate il cavallo e lo legavate a un albero; ai nostri, fermano l’auto e la roulotte, dove c’è un ciuffo d’alberi e scorre un ruscello; lì tirano fuori una bombola a gas con fornello e frigorifero portatile, preparano i cibi, consumano la cena seduti sull’erba, gustando il fruscio delle foglie mosse dal vento, il ronzare delle api e dei mosconi, il profumo dell’erba e dei fiori, il colore del cielo, il contatto immediato con la natura, che li inebria e placa nel medesimo tempo; nella roulotte, tra le altre cento cose, sono pronti i lettini pieghevoli con materassi di gommapiuma; la sera li stendono, vi dormono sopra tutta la notte, aspettando di venir svegliati dal canto degli uccelli; insomma vogliono, almeno per breve tempo, far un bagno nella natura, affogandovi le loro pene solite e dimenticando la città di cemento e di mattoni che li ha inghiottiti e li inghiottirà per lunghi mesi.Pare di vedervi, testa fra le mani, e mi pare di ascoltarvi: "Qui cambia tutto! C’è più frastuono che nelle antiche invasioni!
Gli uomini sono diventati come le chiocciole e si trascinano dietro la casa ed ora è la casa su ruote; ora è il piccolo telo bianco prima arrotolato dietro il seggiolino della moto, poi svolto, spiegato e alzato a mo’ di stanza; ora è quell’altra tenda azzurra, enorme, panoramica, illuminata di luce elettrica, fornita di radio e televisione ed allineata con altre tende, abitate da gente di ogni razza e di ogni lingua. E’ un’altra Babele! Rinuncio a scrivere!Voi fortunato! Io, pastore d’anime, invece, non posso rinunciare a scrivere; devo dire una parola almeno su qualcuno dei problemi di coscienza racchiusi in questo muoversi, vagabondare o andare in giro che chiamano, secondo i casi, weekend, ferie brevi, ferie, vacanze, turismo, villeggiatura. Abbiate la bontà di seguirmi con la coda dell’occhio mentre mi rivolgo ai lettori.

***

Per noi italiani un caso antico e classico di turista è il Petrarca, che fu anche alpinista e viaggiò il viaggiabile di quei tempi, dentro e fuori d’Italia, "in cerca di cari luoghi, di cari amici, di cari libri". Il viaggiare andava bene per la sua curiosità e sete di conoscenze, non per le sue finanze, tanto che il suo castaldo, Monte, brontolava spesso e gli diceva: "Tu non fai che andare in giro, ma ne avrai sempre le tasche vuote".Ecco una prima riflessione da fare: non c’è, talvolta, anche uno sperpero ingiustificato di denaro nel viaggiare in una determinata maniera, senza i dovuti limiti? Non si tratta di casi rari; le "smanie per la villeggiatura", che fanno fare il passo più lungo della gamba, si verificano oggi come ai tempi del Goldoni; ne vanno spesso di mezzo doveri di coscienza e virtù familiari come il senso di economia, il sapersi limitare, il risparmio.

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Altra riflessione. Si dice che si viaggia per imparare, per estendere la propria cultura, per poter sostenere asuo tempo una conversazione con onore, per allargarsi l’anima con le bellezze artistico-naturali straniere. Tutte cose vere, a patto che il viaggio sia fatto con calma, con soste opportune, con la preparazione necessaria, con l’occhio aperto a indagare su elementi utili, essenziali. C’è anzi modo di migliorare moralmente, di sentirsi più piccoli in un mondo cosi vasto e bello, di essere più grati e vicini a Dio, più uniti ai nostri fratelli uomini.C’è però chi nei viaggi si infatua per cose da nulla, come quelli che, tornati da Roma, sanno raccontare solo di un certo vino dei Castelli e di certi piatti della cucina di Trastevere...C’è chi alla storia dei luoghi sembra negato, come la guida che aveva accompagnato il Fucini a veder Sorrento. "E adesso, disse lo scrittore, mentre mangio un boccone, andate un po’ ad informarvi dove sia la casa di Tasso!". La guida andò, tornò e riferì: "Signurì, quel signore non ce ne sta chiù!". C’è anche il turista fanfarone, che gonfia, inventa, fa strabiliare, descrivendo incidenti o meraviglie come fosse un Marco Polo, un Pigafetta o un Caboto...

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Vacanza vuol dire riposo, distensione. Ma il riposo c’è chi lo sa prendere e chi non lo sa. E’ come lo spolverare: qualche donna di casa crede di spolverare, ed invece trasporta soltanto la polvere da un luogo a un altro.La famiglia che, per seguire la moda, arriva in un centro frequentatissimo di soggiorno in pieno ferragosto, quando gli alberghi sono zeppi, e deve alloggiarsi in una stanza o su letti di fortuna che possono essere anche un biliardo o una sedia a sdraio, non riposa affatto, ma cambia fatica con fatica, noia con noia.Quel signore percorre di domenica centocinquanta chilometri per raggiungere Cortina o Jesolo su una strada intasata di macchine; dopo la Messa una passeggiatina, il pranzo e quattro chiacchiere; poi torna indietro, alla guida della macchina, inserendosi in una fila interminabile di altre macchine, tentando o effettuando continuamente sorpassi complicati, schivando parafanghi, girando cu­ve difficili; se arriva sano e salvo a casa sua, ringrazi il Signore e dica che ha fatto gran movimento diverso dal solito, non dica che ha riposato.

Quanti tornano dalle ferie stanchi e annoiati, perché hanno scelto un posto troppo mondano o rumoroso o non hanno saputo misurarsi nelle gite o sono entrati nel "giro" di gente, che li ha trascinati a divertimenti, discorsi e discussioni eccitanti e stancanti!Ho accennato a strade intasate e macchine, a curve e sorpassi. E’ un grosso problema d’anima anche questo. Curioso, nessun guidatore che, in confessionale, mai dica: "Padre, ho messo in pericolo la vita mia e degli altri! ". Nessuno che dica: "Sono stato imprudente, sono stato ambizioso nel guidare".Eppure son molti quelli che, avvistata appena una macchina da lontano, dicono immediatamente e quasi giurano a se stessi: "La sorpasserò! ". Anche se è una spider, in salita! Loro devono sorpassare sempre, tutti, passare alla storia per i sorpassi. Oppure prendono in mano il volante dopo aver bevuto in abbondanza o quando sono troppo stanchi, depressi e con gravi preoccupazioni di famiglia o personali. E’ in gioco il quinto comandamento; non si sottolinea mai abbastanza la grave responsabilità di chi guida le potenti macchine di oggi sulle povere, strette, tortuose e battutissime strade di ieri.Il quinto comandamento non contempla solo i danni recati al corpo, ma anche quelli recati all’anima Col cattivo esempio. Il villeggiante o turista è osservato con occhio ammirato o almeno curioso specialmente dai più poveri e dai più giovani.

Di solito egli ragiona: "Ora, che sono fuori del mio ambiente, mi prenderò più libertà morali".Deve capovolgere il ragionamento: "Fuori, sono più osservato e pertanto starò ancora più a posto che a casa mia".E che gli occhi della gente siano aperti sui turisti, lo ebbe a sperimentare Renato Fucini, turista a Sorrento. La guida, che ho già citato sopra, si vantava con lui di sapere individuare il paese di provenienza dei forestieri. "Lei per esempio, disse, ho capito che è piemontese". "Ma no, io sono toscano, come mai non te ne sei accorto?". "Eccellenza, non avete detto brutte parole e non avete bestemmiato il nome santo di Dio. Come potevo pensare che foste toscano?".Ecco, sotto questo aspetto, i turisti li desidererei "piemontesi". E, viceversa, i paesi di soggiorno estivo, mi auguro che li scelgano così cristiani, di spirito, di tradizioni, di vita vissuta, da poter pressappoco dire di essi quello che scrisse la prima santa nordamericana, Elisabetta Seton, di un paesino toscano, in cui aveva soggiornato per breve tempo: "Vi assicuro che l’essere io diventata cattolica (prima era protestante) fu una semplice conseguenza dell’essere andata in un paese cattolico".Oltre il quinto, è in gioco anche il sesto comandamento del Signore. Mi riferisco al modo di vestire, al turismo giovanile misto, ai divertimenti sconvenienti di parecchi centri di villeggiatura, alle lunghe gite in automobile a due, fidanzati o non fidanzati che siano.Dicono, pei vestiti: "Ormai tutti fanno così!". Non è vero, non tutti fanno così, pur dovendosi ammettere con amarezza che famiglie buone all’apparenza stanno inspiegabilmente cedendo su questo punto. Fosse anche vero che molti o tutti fanno così, una cosa cattiva resta cattiva anche se la fanno tutti.

Dicono anche: "E’ caldo!".Ma ci sono sul mercato tipi di stoffa così leggeri che permettono di difendersi benissimo dal caldo, anche se l’abito è prolungato di qualche palmo. Quanto alle compagnie, alle gite solitarie in auto, non è un mistero per nessuno ch’esse sono occasioni di male. "La mia figliola è buona, sa stare a posto!", mi diceva una signora. "La sua figliola, signora, è debole come siamo tutti e dev’essere difesa contro la sua propria debolezza e inesperienza, tenendola lontana dal pericolo. Il peccato originale, purtroppo, non è un mito, ma una realtà dolorosa!".Dopo il sesto, viene il settimo comandamento. Un vescovo tedesco, alcuni anni fa, raccomandava di non sfruttare ingiustamente i turisti. La raccomandazione non è fuori luogo. M’è stato detto che una "Pro-loco" di montagna ha completato il paesaggio con una mucca di gomma gonfiata. Vista da lontano, bianca su un prato verde, con un grosso campano, finto anche quello, la mucca dà una nota di colore e serve di richiamo.Ilfatto, se vero, sarebbe ingenuità, più che truffa. E’ vero, invece, che in certi centri turistici, i prezzi salgono alle stelle nei momenti di punta. E’ vero che da qualcuno i villeggianti ospiti vengono considerati soltanto sotto l’aspetto commerciale: sono quelli che "portano soldi", che "hanno soldi" e "possono dar soldi". Non sempre invece si ricorda che sono gente che ha lavorato tutto l’anno, nelle fabbriche, negli uffici, nelle città umide e nebbiose; gente che ha appena quindici-venti giorni di pausa, con vero bisogno di riposo, di aria, di sole. Non sempre e non abbastanza si ricorda che sono fratelli, verso cui incombe l’obbligo di carità sentita e di ospitalità cordiale.A noi cristiani San Pietro raccomanda forte di essere "hospitales invicem" e aggiunge: "sine murmuratione": "Siate ospitali tra voi, senza brontolare!". Si potrebbe, in questa occasione, completare così: "Senza brontolare e senza... pelare!".

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Ultimo pensiero: se andiamo in vacanza noi, il Signore non fa vacanza.Il suo giorno, la domenica, Egli lo vuole salvo, non profanato, in ogni caso, sia per il proprio onore esterno sia per il nostro interesse. Quando dico il "Suo giorno", non intendo solo quel pezzettino di giorno, che corrisponde alla messa ascoltata. La domenica cristiana è un giorno intero, che racchiude un complesso di cose: è Messa o Sacrificio divino partecipato attivamente (non solo ascoltato passivamente); è cura della propria anima nella quiete, nella riflessione, nell’accostarsi ai sacramenti; è istruzione religiosa, fatta ascoltando la parola del sacerdote e leggendo il Vangelo o altro buon libro; è presa di contatto con tutta la famiglia parrocchiale; è esercizio di carità verso i poveri, ammalati o bambini; è buon esempio dato e ricevuto; è il premio e la garanzia della nostra vita buona.Se siamo capaci di vivere bene la domenica è quasi certo, infatti, che vivremo bene nel resto della settimana. Per questo il Signore ci tiene tanto, per questo dobbiamo far di tutto per non lasciar scadere la domenica. Turismo o non turismo, in ferie o fuori ferie, la nostra anima soprattutto e prima di tutto!

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Torno ancora a Voi, Paolo Diacono. Che vi pare della mia conclusione? E’ vecchia? E’ vecchia, ma vera e saggia, ci aiuta a diventare o a conservarci buoni; questo è quello che importa!
Agosto 1972



Risultati immagini per peguy charlesCharles Peguy

Noi siamo lo stupore di Dio!

    
Caro Péguy,  Il tuo spirito entusiastico, la passione di suscitatore e condottiero d’anime, mi sono sempre piaciute; meno certe tue ridondanze letterarie ora amare, ora ironiche, ora eccessivamente appassionate nella battaglia condotta contro gli uomini erranti del tuo tempo. Nelle tue pagine religiose c’è qualche tratto poeticamente (non dico teologicamente) felice: là, dove introduci Dio a parlare della speranza, per esempio. La fede degli uomini non mi stupisce, dice Dio, non è cosa sorprendente: io risplendo talmente nella mia creazione, che per non vedermi, questa povera gente dovrebb’ esser cieca. La carità degli uomini non mi stupisce, dice Dio, non è cosa sorprendente: queste povere creature sono cosI infelici, che, se non hanno un cuore di sasso, non possono che aver amore le une per le altre. La speranza, ecco quello che mi stupisce!D’accordo con te, caro Péguy, che la speranza stupisce. D’accordo con Dante ch’essa è uno attender certo. D’accordo su ciò che la Bibbia racconta di coloro che sperano.

Abramo non sapeva proprio perché Dio gli avesse ordinato di uccidere l’unico figlio; non vedeva da dove, morto Isacco, potesse venire la posterità numerosa che gli era stata promessa, eppure attendeva con certezza. Davide, avanzando contro Golia, sapeva benissimo che cinque sassi, pur lanciati da una mano espertissima di fonda, erano troppo poco di fronte ad un gigante bardato di ferro. Eppure attendeva con certezza e intimava al colosso blindato: Vengo da parte di Dio. Tra poco ti spiccherò la testa dal busto! Pregando con i Salmi, anch’io, caro Péguy, mi sento trasformato in uomo che attende con certezza: Dio è la mia luce e la mia salvezza, di chi temerà?... Anche se si accampa contro di me un esercito, non temerà il mio cuore. Anche se si leva contro di me la battaglia, anche allora io sono fiducioso!  

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Come sbagliano, Péguy, quelli che non sperano! Giuda ha fatto un grosso sproposito il giorno in cui vendette Cristo per trenta denari, ma ne ha fatto uno molto più grosso quando pensò che il suo peccato fosse troppo grande per essere perdonato. Nessun peccato è troppo grande: una miseria finita, per quanto enorme, potrà sempre essere coperta da una misericordia infinita. E non è mai troppo tardi: Dio non solo si chiama Padre, ma Padre del figliol prodigo, che ci scorge quando siamo ancora lontano, che si intenerisce e, correndo, viene a gettarsi al nostro collo e a baciarci teneramente. E non deve spaventare un eventuale passato burrascoso. Le burrasche, che furono male nel passato, diventano bene nel presente se spingono a rimediare, a cambiare; diventano gioiello, se donate a Dio per procurargli la consolazione di perdonarle. Il Vangelo ricorda tra gli antenati di Gesù quattro donne, di cui tre non del tutto commendabili: Rahab aveva fatto la cortigiana; Thamar aveva avuto il figlio Phares da suo suocero Giuda e Betsabea era stata adultera con Davide.

Mistero di umiltà che queste parenti siano state accettate da Cristo, che siano incluse nella sua genealogia, ma anche, opino, in mano di Dio, mezzo per poterci assicurare: voi potete diventare dei santi, qualunque siano la storia della vostra famiglia, il temperamento e il sangue ereditato, la vostra situazione passata! Caro Péguy, sarebbe però sbagliato attendere, rimandare di continuo. Chi si mette sulla strada del poi sbocca nella strada del mai. Conosco qualcuno, che sembra fare della vita una perpetua "sala d’aspetto". Vengono e partono i treni e lui: "Partirò un’altra volta! Mi confesserò in fin di vita! ". Del "prode Anselmo" diceva il Visconti-Venosta:  "Passa un giorno, passa l’altro mai non torna il prode Anselmo". Qui abbiamo il rovescio: un Anselmo che mai non parte. La cosa non è senza rischio. Supponi, caro Péguy, che i Cinesi stiano invadendo l’Italia e avanzino distruggendo e ammazzando. Tutti scappano: gli aerei, le auto, i treni sono presi d’assalto. "Vieni!, grido io all’Anselmo, c’è ancora un posto sul treno, sali subito!". E lui: "Ma è proprio certo che i Cinesi mi faranno fuori, se resto qui?". "Certo no, potrebbero risparmiarti, potrebbe anche darsi che, prima del loro arrivo, passasse un altro treno. Ma sono possibilità lontane e si tratta della vita. Aspettare ancora è imperdonabile imprudenza! ". "Non mi potrò convertire anche più tardi?". "Certo, ma sarà forse più difficile di adesso: i peccati ripetuti diventano abitudini e catene, ch’è più difficile rompere. Adesso, subito, per favore! ". 

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Tu lo sai, Péguy. L’attendere si basa sulla bontà di Dio, che traluce specialmente nel comportamento di Cristo, chiamato nel Vangelo "amico dei peccatori". Quale sia la dimensione di questa amicizia è noto: perduta una pecora, il Signore va in cerca fin che la trova: trovatala, se la pone tutto lieto sulle spalle, la riporta a casa e dice a tutti: Vi sarà più grande gioia in cielo per un solo peccatore che si pente che per novantanove giusti che non hanno bisogno di penitenza. La Samaritana, l’adultera, Zaccheo, il ladrone crocifisso a destra, il paralitico e noi stessi siamo stati cercati, ritrovati, trattati così. E questo è un altro stupore!

***

Ma ce n’è un altro ancora: l’attender certo della gloria futura, come dice ancora Dante. Fa stupore quella certezza messa accanto alla futurità, cioè alla lontananza sfumata. Eppure questa è, Péguy, la situazione di noi speranti. Ci troviamo sulla linea di Abramo, che, avuta da Dio la promessa di un paese fertilissimo, obbedì e "partì, dice la Bibbia, senza sapere dove andasse", ma sicuro lo stesso e abbandonato a Dio. Ci troviamo nello stato descritto da Giovanni Evangelista: "Già da adesso noi siamo figli di Dio, ma ciò che noi saremo non è stato ancora manifestato". Ci troviamo, come il Napoleone manzoniano, "avviati pei floridi sentier de la speranza", anche se non conosciamo bene la regione in cui i sentieri sboccano. La conosciamo almeno vagamente? O farneticava Dante, quando tentò di descriverla come luce, amore e letizia? "Luce intellettuale", perché la nostra mente vedrà lassù chiarissimamente quello che quaggiù aveva intravisto appena: Dio. "Amor di vero bene", perché i beni che amiamo qui sono un bene, goccioline, briciole, frammenti di bene, mentre Dio è il bene. "Letizia che trascende ogni dolore", perché non c’è paragone tra quella e le dolcezze di questo mondo. Concorda Agostino, che chiama Dio "bellezza sempre antica e sempre nuova". Concorda Manzoni: lassù... "è silenzio e tenebra la gloria che passò". Concorda Isaia nel famoso dialogo: "Grida! - Che cosa griderò? - Grida così: Ogni uomo è come erba e tutta la sua gloria è come fiore del campo. Si secca l’erba ed appassisce il fiore! ". Con questi grandi concordiamo anche noi, caro Péguy. Qualcuno ci chiamerà "alienati" poetizzanti e non pratici? Noi risponderemo: Siamo i figli della speranza, lo stupore di Dio! 
Agosto 1971





Penelope

Nella buona e nella mala sorte 

    
Principessa, La televisione ha fatto rivivere le vicende di Didone, che regnò a Cartagine negli anni in cui l’Altezza Vostra era sposa di Ulisse, re della petrosa Itaca. Vicende pateticamente umane. Sant’Agostino, che era vescovo proprio vicino a Cartagine, da ragazzo ci aveva pianto sopra e noi non le abbiamo risentite senza commozione. Povera Didone! Giura fedeltà alle ceneri di Sicheo, si sforza di contrastare l’insorgente inclinazione verso Enea, poi si abbandona fiduciosamente all’amore. Ma viene la tragedia: l’innamorata intravede che Enea si prepara a partire da Cartagine; inutilmente scongiura l’amato eroe di rimanere, inutilmente lo accusa di ingratitudine e di tradimento, Enea parte e l’abbandonata non sa resistere al dolore. Le fiamme del rogo, su cui si fa ardere, sono viste dalle navi troiane in rotta verso l’Italia. Più fortunata ed esemplare l’Altezza Vostra!

Il sagace Ulisse dal multiforme ingegno vi portò nella sua reggia dopo che ebbe solidamente impiantato il letto matrimoniale sul più vegeto ulivo. Aveste da lui Telemaco, un tesoro di figlio. 
E’ vero che Ulisse partì quasi subito per la lunga guerra di Troia, finita la quale (in grazia specialmente del famoso cavallo da lui fabbricato), fu costretto ad errare per i mari di mezzo mondo. Ma, nonostante le infinite peripezie, ebbe la ventura di tornare alla sua Itaca e al vostro amore. Il quale, frattanto, s’era serbato profumato e intatto. Quei noiosi pretendenti dei Proci, insediati in casa vostra e banchettando allegramente a vostre spese, vi incitavano bensì a scegliere fra essi un nuovo marito, ma Voi, dura! Loro banchettavano di sotto e Voi, nelle stanze superiori, colle vostre ancelle, facevate di giorno e disfacevate di notte quella famosa vostra tela per tenerli a bada e per difendere la fedeltà del vostro amore. Il cuore, i sogni di ogni notte vi dicevano che il marito sarebbe ritornato. Chi, allora, poteva mai essere l’audace, che pretendesse dormire sul guanciale di Ulisse, bere nella sua tazza, comandare al suo figliolo ormai cresciuto, cavalcare il suo cavallo, chiamare il suo cane? I Proci furono tutti saettati, la fedeltà fu ricompensata, la famiglia riunita, l’amore coniugale rinverdito.

***

Un amore, Principessa, che, sacro per voi, è ancora più sacro per noi cattolici. E fa male che ci si scherzi sopra. Montaigne, per esempio, presentava il matrimonio come una specie di gabbia dipinta e dorata: gli uccelli di fuori smanierebbero per entrarvi, quelli di dentro farebbero di tutto per uscirne. Il Concilio Vaticano II, invece, prende atto con piacere che "molti uomini alla nostra epoca danno grande valore al vero amore tra marito e moglie". Tra i passi biblici, ch’esso cita in calce, c’è il seguente, che pare scritto apposta per il vostro Ulisse ritornato: "Trova la gioia nella donna della tua gioventù: cerva amabile, gazzella graziosa!" (Prov. 5, 18), e non pensare più alla maga Circe, che nel suo palazzo ti ha irretito un anno intero con feste e pranzi; non pensare più alle grazie di Nausicaa, la ragazza appena vista sulle rive del fiume; se poi occorresse, fatti legare ancora una volta al fondo della nave per non lasciarti affascinare dal canto delle sirene! A Vostra Altezza s’addice invece il passo del Concilio, che parla di un amore coniugale "indissolubilmente fedele nella prospera e cattiva sorte, sul piano del corpo e dello spirito, alieno da ogni adulterio e divorzio". Una meta, cui siete arrivata, praticando "la virtù fuori del comune", "la grandezza d’animo e lo spirito di sacrificio" accennate dal Concilio e superando i non pochi ostacoli, che si frappongono all’amore coniugale. 

E, primo, questo nostro povero cuore, così mobile e imprevedibile! Il coniuge prudente sa che bisogna tenerlo sotto controllo. Può succedere tuttavia che ci si illuda di poter talvolta allentare la sorveglianza, permettendo qualche "distrazione". E si dice: "E’ per un istante solo! Non uscirò dal mio recinto; darò solo un’occhiatina dal di sopra dei cancelli chiusi, così, per osservare come va la vita fuori! ". Si dà, invece, che i cancelli per caso si trovano aperti, che l’istante diventa un’ora e l’ora diventa tradimento. "Che pensate di fare?, scriveva San Francesco di Sales, eccitare amore, non è vero? Ma nessuno ne eccita volontariamente senza rimanerne, di necessità, preso; in questo gioco, chi prende è preso... Voglio prenderne, mi dirà qualcuno, ma non troppo. Ahimè... il fuoco d’amore è più attivo e invadente di quanto sembra; credete di riceverne solo una scintilla e rimarrete stupefatti, vedendo che in un lampo vi avrà incendiato il cuore, avrà ridotto in cenere i vostri proponimenti e in fumo la vostra reputazione".

***

Secondo ostacolo, la monotonia. Ogni giorno i coniugi sono presi dalle necessità prosaiche della casa e del lavoro. Lui teme che i suoi amici lo dicano debole se rinuncia alla partita per far compagnia alla sposa; lei crede di perdere tempo se sospende le sue faccende per chiacchierare un po’ con lui; e così arrivano ad ammettere che nella loro vita affettiva, tutto, press’a poco, sia stato detto, che il loro amore basta rimandi al passato e ai ricordi le proprie manifestazioni. In questa situazione, si corrono dei rischi: quelli degli anni quaranta, che Paul Bourget ha così profondamente analizzato nel romanzo "Il Démone meridiano". Venere o Adone vengono nella persona del collega o della collega d’ufficio, con cui ci si trova ad avere in comune più punti di vista che con il coniuge. Oppure sopravviene una curiosità vanesia: "Voglio provare se il fascino di una volta funziona ancora"; appurato che funziona, è quasi impossibile non lasciarsi trascinare. Oppure, mentre le sane convinzioni cadono a brandelli, ci si lascia prendere dalle mode del giorno: "Fanno tutti così! ". "Tradire una moglie, un marito? sono parole da melodramma; la cosa è molto più semplice: si tratta solo di cogliere una occasione, di spiccare una rosa! ". "Vocazione di coniuge alla fedeltà? Sì, ma a una multifedeltà: l’andare con questa, non mi fadiminuire la mia tenerezza per colei che è la madre dei miei bambini, che me li educa, mi tiene la casa, facendo ogni giorno la spesa, la cucina ecc.". Ci sono dei rimedi contro questo genere di pericoli?

Sì: il senso della nostra dipendenza da Dio, la preghiera che ottiene ciò che manca alla nostra debolezza e l’arte di rinnovare il proprio amore: il marito continui sempre a fare un po’ la corte alla moglie; la moglie cerca sempre di lusingare il marito, usando attenzioni e gentilezze. 
Scrive Francesco di Sales: "L’amore e la fedeltà, congiunte insieme, generano sempre l’intimità e la confidenza; per questo i santi e le sante sposati si sono scambiati molte reciproche carezze nello stato coniugale. Così Isacco e Rebecca (la più casta coppia di coniugi del tempo antico) furono scorti attraverso la finestra accarezzarsi in modo tale che, quantunque non ci fosse nulla di indecente, Abimelech si accorse che non potevano essere se non marito e moglie. l grande re San Luigi venne quasi rimproverato di eccedere in tali... piccole attenzioni richieste per ha conservazione dell’amore coniugale".

***

Terzo ostacolo, la gelosia, la quale non nobilita l’amore, come talvolta si crede, ma lo umilia e lo corrompe. "E’ un modo sciocco di vantare l’amore, il volerlo esaltare con la gelosia; la gelosia, è, si, indice della grandezza e forza dell’affetto, ma non della sua bontà, purezza e perfezione. Infatti, chi ha perfetto amore è sicuro che la persona amata è virtuosa e fedele; chi è geloso dubita della fedeltà della persona amata". Così San Francesco di Sales, che continua: "la gelosia finisce col guastare la sostanza dell’amore, perché produce contrasti e dissensi". I quali contrasti e dissensi rappresentano un quarto ostacolo dell’amore coniugale. Anche i migliori tra i coniugi hanno i loro momenti di stanchezza e di malumore, cui bisogna trovar rimedio senza rompere la pace. Lui è corrucciato e scuro? E’ il momento per lei di illuminarsi di dolcezza. Lei è nervosa e stanca? E’ la volta di lui di tenersi calmo, aspettando la schiarita. L’importante è che il nervosismo di lui e di lei non coincidano nel tempo e si sovrappongano, altrimenti si determina corto circuito, sprizzano lampi, sfuggono parole, certe volte troppo vere, di quella verità triste, che produce delusioni, rancori, ferite segrete. 

Giustizia vorrebbe, se proprio i brutti momenti non si possono evitare, che ciascuno dei due avesse il suo turno di brutto carattere. Purtroppo succede talora che uno dei due ne ha il monopolio! In questo caso... all’altro non resta che prendere il coraggio a due mani e cercare di avere il monopolio della pazienza!  ***Principessa, mi accorgo di avere accostato e fatto coincidere prassi e teoria, sovrapponendo ciò che voi, non cristiana, realizzaste con innato senso di onestà e delicatezza con quanto insegnò il vescovo Francesco di Sales illuminato dalla Bibbia e sorretto da grande introspezione psicologica. Potrà tutto ciò essere di qualche utilità ai coniugi di oggi, che si trovano in mezzo ad innegabili difficoltà? Lo spero. 
Marzo 1972





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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11/7/2017 10:01 AM
 
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Francesco Petrarca

La confessione 600 anni dopo

    
Illustre poeta,In Italia e fuori viene celebrato quest’anno il sesto centenario della vostra morte (1374 - 1974). Congressi, studi, pubblicazioni mettono in risalto la vostra figura, questo o quell’aspetto della vostra figura, questo o quell’aspetto della vostra personalità o della immensa vostra opera letteraria. Morto da tanto tempo, vi rivelate più vivo che mai, eccitando la curiosità e attirando l’attenzione degli uomini d’oggi sul letterato, sub psicologo finissimo, sull’uomo politico, sul turista appassionato, sul cristiano sincero e insieme critico che siete stato e su cent’altri aspetti. Qualcuno parlerà anche di Voi, peccatore pentito, ma recidivo, cristiano assetato spesso di santità, ma incapace di fare un taglio veramente netto dal peccato e di rinunciare a passioni e passioncelle che vi erano care? Non lo so. Se sì, bisognerà parlare anche del vostro atteggiamento di fronte alla Confessione. 

Perché Voi andavate a confessarvi, illustre Petrarca! Scrivendo da Roma al vostro amico Giovanni Boccaccio, gli raccontaste la disavventura toccatavi: un maiuscolo calcio di cavallo sferrato al vostro prezioso ginocchio, con quindici giorni di dolori acutissimi: "Ma accetto tutto in sconto dei miei peccati - scriveste - e in sostituzione di quella penitenza, che il confessore, troppo buono, non m’ha imposto". Quale impegno abbiate messo nell’esaminare la vostra anima fino nelle sue pieghe più riposte, appare dai vostri libri. Quando scrivete di esservi troppo compiaciuto dell’ingegno, dell’eloquenza, della cultura acquisita e perfino della prestanza corporea. Quando vi rimproverate di essere assetato di onori, comodità, ricchezza e di avere troppo spesso ceduto alla lussuria. Voi gemete sui legami della passione, che non riusciste a spezzare, sulla forza della "perversa abitudine", sull’"amarissimo gusto" delle ricadute. Scrivendo al fratello monaco, deplorate il vostro "desiderio di elegantissime vesti", il "timore che un capello vada fuori posto e un lieve vento scomponga la laboriosa acconciatura delle chiome". Il ferro usato ad acconciare i capelli, vi procura sonno interrotto e dolori più atroci di quelli che infligge "un crudele pirata", ma non ve la sentite per questo di smettere.

E ponete a Sant’Agostino - interlocutore immaginario - dei problemi inquietanti: "Il cadere è stato mio, ma il giacere, il non rialzarmi non dipende da me". "Dipende anche da te" risponde Agostino. Voi replicate: "Ma vedete bene che io piango sulle mie miserie! ". E Agostino: "Non si tratta di piangere, ma di vole­re!". 
Per fortuna, il principio giusto non vi è mai venuto meno: "Dio può salvarmi, nonostante la mia debolezza. La misericordia di Dio fuga i timori, risolve molti problemi.  

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A seicento anni di distanza, noi, penitenti di oggi, siamo migliori o peggiori di Voi? Ecco una questione che mi incuriosisce. Minore, mi sembra, da parte nostra, la disposizione a riconoscere le commesse mancanze. Diciamo spesso: "Santa Maria.. prega per noi peccatori", "Padre... rimetti i nostri debiti", "Agnello di Dio... abbi pietà di noi", ma molto superficialmente. In pratica, ci giustifichiamo coi pretesti più strani ("siamo liberi, autonomi, maturi"); ci appelliamo alle "esigenze della natura, dell’istinto, della cultura, della moda". La Bibbia, nel libro dei Proverbi, presenta così il caso di una donna adultera: "Mangia e sipulisce la bocca e dice: "Non ho fatto nulla di male"! ". Quella donna, caro Petrarca, è una figura emblematica: dipinge tale e quale buona parte della nostra cristiana civiltà permissiva. Come già a Voi, le lagrime non mancano neppure a noi: è il volere che difetta.

O meglio: arriviamo, spesso, a disvolere quello che avevamo voluto col peccato, a disapprovare ciò che s’era approvato, ma non arriviamo a quello che è più pratico: fuggire le occasioni. Voi che, perfino nell’ascensione al monte Ventoux, vi siete portato dietro il libro delle Confessioni di Agostino, avete presente il caso di Alipio. 
Uomo forte, capace di tener testa a senatori potentissimi, venuto a Roma dall’Africa, aveva concepito "disgusto e odio" per i combattimenti dei gladiatori, che si uccidevano l’un l’altro per dare spettacolo al popolo. Alcuni amici gli proposero di assistere, almeno una volta, al combattimento. Alipio rispose di no, poi disse: "Vi sarò, ma come un assente, e avrò vittoria di voi e dello spettacolo". Andò dunque per sfida; messosi difatti a sedere nell’anfiteatro, chiuse gli occhi per neppur vedere. Purtroppo non chiuse le orecchie: ad un certo punto un immenso urlo di popolo lo fece sussultare. Aprì gli occhi per pura curiosità, ma "vedere quel sangue e imbeversi di crudeltà, fu tutt’uno: non solo non distolse gli occhi dallo spettacolo, ma ve li fissò; respirava furore senza accorgersene, prendeva gusto a quella lotta, ebbro di sanguinario piacere. Non era più quello che era venuto: guardò, gridò, si entusiasmò", se ne venne via, portando seco una febbre, che lo spinse a tornarci, trascinatore di altri. Si corresse in seguito, ma solo molto tempo dopo (Confessioni cap. VIII). 

Sulla linea della straordinaria debolezza di Alipio (poi vescovo e santo) ci troviamo, purtroppo, un po’ tutti. Per questo, in ogni confessione, siamo esortati a pregare: "propongo... di fuggire le occasioni prossime di peccato", ma... Temo che noi siamo più incompleti di Voi per quanto riguarda la fiducia in Dio. D’accordo, Dio è il padre del figliol prodigo; Gesù è il buon pastore, che riporta all’ovile la pecorella smarrita, che ha perdonato l’adultera, Zaccheo, il buon ladrone. Fin qua ci arrivano tutti o quasi. Alcuni però concludono: "Io me la intenderò con Lui direttamente" e non vi seguono fino al discorso del confessore, che media tra Dio e il peccatore in grazia delle parole di Gesù agli Apostoli: "A chi rimetterete i peccati saranno rimessi". Essi non capiscono che al confessore non tocca solo dichiarare la remissione dei peccati già avvenuta, ma di fare Ia remissione con una sentenza. E tale sentenza non può essere lasciata al puro capriccio ("Tu mi sei simpatico, ti assolvo!"), ma deve basarsi su elementi certi e ben vagliati, che solo il penitente può fornire, appunto con la propria confessione.

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Voi avete trovato "troppo buono" il vostro confessore. Ai nostri tempi, chi si confessa bene cerca confessori buoni, ma non "troppo buoni". Augusto Conti, illustre filosofo, ha dedicato un intero capitolo pieno di affettuosa riconoscenza nel libro "Le sveglie dell’anima" ai suoi confessori. Santa Giovanna di Chantal e altri penitenti si sono dichiarati contentissimi di San Francesco di Sales, che nella confessione fu padre e medico abile soprattutto a infondere coraggio. "La santità - diceva - consiste nel combattere i difetti, ma come combatterli, se non ci sono? Come vincerli, se non li incontriamo? Essere feriti qualche volta in questa battaglia non vuol dire essere vinti. E’ vinto solo chi perde la vita o il coraggio, è vincitore chiunque decida di continuare a combattere". E’ il tipo di confessore che la gente oggi aspetta: fermo, ma delicato; amante di Dio, ma che conosca i problemi degli uomini. 

E’ vero però che oggi, per desiderio della Chiesa, l’accento, più che sull’accusa dei peccati, viene messo sulla conversione presentata biblicamente come allontanamento dal peccato, ma più ancora come avvicinamento a Dio e abbraccio amoroso con Lui. "Lasciatevi riconciliare a Dio", diceva San Paolo: oggi lo si ripete e si auspica che la riconciliazione sia preceduta dalla parola di Dio stesso letta e meditata. Noi infatti andiamo a Dio, se Lui prima ci chiama e ci parla. Si desidera anche che tale parola, possibilmente, non ci investa ad uno ad uno, ma radunati in comunità. Voi del Medioevo, caro Petrarca, avete fatto della Confessione una cosa molto personale e segreta. Oggi si pensa con nostalgia ai tempi antichi, quando, finita la Quaresima, il vescovo dava la mano al primo dei penitenti e questo alla lunga catena di tutti gli altri, che venivano cosi introdotti in chiesa per la riconciliazione solenne.

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Non so con quale frequenza siate andato a confessarvi. Nel vostro Medioevo si usava molta confessione e poca comunione. Oggi pare succeda l’inverso: anche anime pie, si rivelano un po’ allergiche alla confessione frequente e di devozione. Esse mi fanno pensare al domestico di Gionatan Swift. Questi, dopo aver pernottato in un’osteria,, aveva chiesto, al mattino, gli stivali e se il era visti portare ancora coperti di polvere. "Come mai non il avete puliti?" aveva chiesto. "Ho pensato che era inutile, aveva risposto il domestico; tanto, dopo pochi chilometri di viaggio, si impolverano di nuovo!". "Giusto, ma ora va a preparare i cavalli per la partenza". Poco dopo i cavalli scalpitavano fuori dalla scuderia ed anche Swift era in pieno assetto di viaggio. "Ma non possiamo partire senza colazione!", osservò il servo. "E’ inutile, rispose Swift, tanto, dopo pochi chilometri di viaggio, avresti fame di nuovo!".

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Caro Petrarca, né Voi né io, penso, seguiamo la logica del servo di Swift. L’anima si sporcherà di nuovo dopo la Confessione? E’ molto probabile. Tenerla adesso pulita però, non può fare che bene. Anche perché la Confessione non solo toglie la polvere dei peccati, ma infonde una forza speciale per evitarli e rinsalda l’amicizia con Dio. 
Settembre 1974




Pinocchio

Quando ti prenderai la cotta 

    
Caro Pinocchio, Avevo sette anni; quando lessi la prima volta le tue Avventure. Non ti so dire quanto mi son piaciute e quante volte poi le ho rilette. In te fanciullo riconoscevo me stesso, nel tuo ambiente il mio ambiente. Quante volte correvi in mezzo al bosco, attraverso i campi, sulla spiaggia, sulle strade! E con te correvano la Volpe e il Gatto, il cane Medoro, i ragazzi della battaglia dei libri. Parevano le mie corse, i miei compagni, le strade ed i campi del mio paese. Andavi a vedere i carrozzoni arrivati in piazza; anch’io. Nicchiavi, torcevi la bocca, mettevi la testa sotto le coperte prima di prendere il bicchiere colla medicina amara; anch’io. La fetta di pane imburrata da tutte e due le parti; il confetto con dentro il rosolio; la "pallina di zucchero" e, in certe occasioni, perfino un uovo, perfino una pera, perfino le bucce della pera, rappresentavano un "tetto" radioso per te, goloso e pieno di fame; lo stesso era di me. 

Anch’io, andando e tornando da scuola, venivo coinvolto nelle "battaglie": a base di palle di neve nella stagione invernale; a base di "cazzotti" e generi affini in tutte le stagioni dell’anno; un po’ "incassavo", un po’ davo, cercando di pareggiare entrate e uscite e di non piagnucolare con quelli di casa, che, se mi fossi lagnato, mi avrebbero, forse, dato "il resto"! Adesso tu sei ritornato. Non hai parlato più dalle pagine del libro, ma dal teleschermo; sei, però, rimasto il fanciullo di una volta. Io, invece, sono invecchiato; mi trovo ormai, se è lecito dir così, dall’altra parte della barricata: non più in te mi riconosco, ma nei tuoi consiglieri: mastro Geppetto, il Grillo parlante, il Merlo, il Pappagallo, la Lucciola, il Granchio, la Marmottina. Essi hanno tentato, ahimé, non ascoltati, eccettuato il caso del Tonno, di darti dei suggerimenti per la tua vita di fanciullo. Io tento di darteli per il tuo futuro di ragazzo e di giovanotto. Bada, non tentare neppure di scagliarmi il solito martello, non son disposto a fare la fine del povero Grillo parlante.

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Hai notato che non ho enumerato tra i "consiglieri" la Fata? Non mi piace il suo sistema. Inseguito dagli assassini, tu batti disperato alla porta di casa sua; essa si affaccia, viso bianco come immagine di cera, alla finestra, non ti apre e ti lascia impiccare. Ti libera, è vero, dalla quercia più tardi, ma poi ti gioca il brutto tiro di far entrare nella tua stanza di malato quei quattro conigli neri come l’inchiostro, che portano sulle spalle una piccola bara da morto. Non basta. Sfuggito per miracolo alla padella del Pescatore verde, tu torni a casa intirizzito, ch’è notte buia e l’acqua viene giù a catinelle. La Fata ti fa trovare la porta chiusa e, dopo tanto tuo disperato battere, ti manda la Lumaca, che impiega nove ore a scendere dal quarto piano e a portarti, mezzo morto che sei di fame, un pane di gesso, un pollastro di cartone e quattro albicocche di alabastro dipinte al naturale. 

Ebbene, non si agisce così coi ragazzi che sbagliano, specialmente se essi stanno entrando o sono entrati nell’età detta preziosa oppure, alla pari, età difficile, che va dai 13 ai 16 anni e che sarà d’or’innanzi la tua età, Pinocchio. La proverai: età difficile sia per te che per i tuoi educatori. Non più fanciullo, sdegnerai, infatti, la compagnia, le letture, i giochi dei piccoli; non ancora uomo, ti sentirai incompreso e quasi respinto dagli adulti. In preda alla fatica del rapido crescere fisico, ti sembrerà di trovarti improvvisamente addosso gambe chilometriche, braccia da Briareo e voce stranamente cambiata e inaudita. Sentirai, prepotente, la necessità di affermare il tuo io: da una parte, verrai in contrasto con l’ambiente della famiglia e della scuola; dall’altra, entrerai a vele spiegate nella solidarietà delle "bande". Da una parte, esigi indipendenza dalla famiglia; dall’altra, hai fame e sete di essere "accettato" dai coetanei e di dipendere da loro. Quanta paura di essere diverso dagli altri! Dove va la banda, tu vuoi andare. Dove la banda si ferma, tu vuoi fermarti. Gli scherzi, il linguaggio, i passatempi degli altri, li fai tuoi.

Quel che essi indossano, tu indossi: un mese tutti i ragazzi vanno in maglione e blue-jeans; il mese dopo tutti portano giacconi di cuoio, calzoni colorati, lacci bianchi per scarpe nere. In certe cose, anticonformisti; in altre cose, senza che nemmeno vi accorgiate, conformisti al cento per cento. 
E di umore mutevole! Oggi sereno e docile com’eri a dieci anni; domani aspro come un fegatoso di settant’anni. Oggi orientato a far l’aviatore, domani deciso a diventar artista di teatro. Oggi audace e spregiudicato, domani timido e quasi ansioso. Quanta pazienza e indulgenza e amore e comprensione dovrà avere con te mastro Geppetto! C’è di più: diventerai introspettivo, comincerai cioè a guardare dentro te stesso e scoprirai cose nuove: spunterà in te la malinconia, il bisogno di sognare a occhi aperti, il sentimento ed anche il sentimentalismo. Può darsi che, già in terza media o in quarta ginnasio, tu "prenda una cotta", non quella dei chierichetti, ma quella del giovane David Copperfield, che dice: "Io adoro Miss Shepherd. E’ una ragazzina con un giubbettino corto, un viso tondo e i capelli ricciuti: in chiesa non posso guardare il mio libro, perché devo guardare Miss Shepherd; metto Miss Shepherd tra i membri della famiglia reale... in camera mia sono talvolta spinto ad esclamare: “Oh, Miss Shepherd! Perché regalo segretamente a Miss Shepherd dodici noci del Brasile, vorrei sapere? Non sono un simbolo d’affetto... eppure sento che si addicono a Miss Shepherd.

Anche flosci e insipidi biscotti elargisco a Miss Shepherd; e innumerevoli aranci... Miss Shepherd è l’unica visione che pervade la mia vita. 
"Come mai avviene, dopo qualche settimana, ch’io rompa con lei? Si mormora ch’essa preferisca il signorino Jones... un giorno Miss Shepherd fa una smorfia nel passarmi accanto e ride con la propria compagna. Tutto è finito. La devozione di una vita intera è scomparsa. Miss Shepherd esce dalle funzioni religiose del mattino domenicale e la famiglia reale non la riconosce più! ". E’ successo a Copperfield, succede a tutti, succederà anche a te, Pinocchio!

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Ma come ti assisteranno i "consiglieri"? Per il "fenomeno crescita", tuo nuovo Grillo­parlante dovrebb’essere il vecchio Vittorino da Feltre, un pedagogo, che ha tanto amato i ragazzi della tua età e ha dato, nell’educare, enorme importanza agli esercizi fatti all’aria aperta. L’equitazione, il nuoto, il salto, la scherma, la caccia, la pesca, la corsa, il tirar d’arco, il canto. Egli intendeva, anche con questi mezzi,creare il clima sereno della sua "Casa gioiosa" e dare uno sbocco utile all’esuberanza fisica dei suoi giovani alunni. Egli avrebbe detto volentieri come disse più tardi il Parini: "Che non può un’alma ardita se in forti membra ha vita?".  Il tuo amico Tonno poi, che sul suo groppone ti ha portato sano e salvo alla riva appena uscito dal ventre del pescecane, ti potrebbe aiutare, pacato e suasivo com’è, nella prossima, sovraccennata crisi per l’autoaffermazione. 

Oggi il sogno di voi giovani non è solo l' automobile: voi sognate tutto un parcheggio di auto morali: autoscelta, autodecisione, autogoverno, autonomia; di recente, dei ragazzi hanno fin tentato, a Bolzano, un’autoscuola a conduzione in proprio! "Giusto, direbbe nella sua pacatezza il saggio Tonno, arrivare all’autodecisione. Ma un po’ alla volta, per scalini. Non si può passare bruscamente dalla obbedienza totale di fanciullo alla piena autonomia di adulto. Nè si può usare oggi in tutto il metodo forte di una volta. Man mano che crescerai in età, Pinocchio, crescerà in te il desiderio di autonomia. Ebbene, fa’ che cresca, con l’aiuto esterno di bravi educatori, la giusta coscienza dei tuoi diritti e doveri; cresca il senso di responsabilità per usare bene della tanto desiderata autonomia. Senti come, più di un secolo fa, venivano educati i fratelli Visconti-Venosta, uno, Giovanni, letterato, e l’altro, Emilio, uomo politico del nostro Risorgimento: "Uno dei modi di educazione di mio padre era quello di stare coi suoi figli più che poteva, di esigere da noi una confidenza illimitata, ricambiandocene molta, e di considerarci come persone un po’ superiori alla nostra età; così ispirava in noi il sentimento della responsabilità e del dovere. Eravamo trattati da piccoli uomini, cosa che ci lusingava assai; per cui era grande il nostro impegno per tenerci a quel livello".

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Nel viaggio verso l’autonomia, come quasi tutti i giovani sui 17-20 anni, caro Pinocchio, urterai forse anche tu contro un duro scoglio: il problema della fede. Respirerai, infatti, obiezioni antireligiose come si respira l’aria a scuola, in fabbrica, al cinema, ecc. Se la tua fede è un mucchio di buon frumento, ci sarà tutto un esercito di topi a prenderlo d’assalto. Se è un vestito, cento mani tenteranno di lacerartelo. Se è una casa, il piccone la vorrà smantellare pezzo per pezzo. Bisognerà difendersi: oggi, della fede si conserva solo ciò che si difende. Per molte obiezioni c’è una risposta persuasiva. Per altre, una risposta esauriente non è ancora stata trovata. Che fare? Non gettar via la fede! "Diecimila difficoltà, diceva Newman, non formano ancora un dubbio". E tieni presenti due cose. Prima: si deve avere stima di ogni certezza, anche se non è quella matematica evidentissima. Che siano esistiti Napoleone, Cesare, Carlo Magno non è certo come 2+2=4, ma è certo di certezza umana, storica.

In questo modo è certo che è esistito il Cristo, che gli Apostoli lo hanno visto morto e poi risuscitato. 
Seconda cosa: all’uomo è necessario il senso del mistero. Di nulla noi sappiamo il tutto, diceva Pascal. So molte cose di me, ma non tutto; non so di preciso, cosa sia la mia vita, la mia intelligenza, il grado della mia salute, ecc.; come posso pretendere di comprendere e sapere tutto di Dio? Le obiezioni più frequenti le sentirai circa la Chiesa. Ti può forse aiutare una battuta, riferita da Pitigrilli. A Londra, ad Hyde Park, un predicatore predica all’aria aperta, ma è interrotto ogni tanto da un individuo mal pettinato e sporco. - Sono duemila anni che esiste la Chiesa, sbotta ad un tratto l’individuo, e il mondo è ancora pieno di ladri, di adulteri, di assassini! " Avete ragione, rispose il predicatore, sono due milioni di secoli che c’è l’acqua al mondo, e guardate in che stato è il vostro collo!" In altre parole: ci sono stati dei cattivi papi, dei cattivi preti, dei cattivi cattolici. Ma questo che significa? Che è stato applicato il Vangelo? No, che viceversa, in quei casi, il Vangelo non è stato applicato! Pinocchio mio, sui giovanotti ci sono due frasi famose. Ti raccomando la prima di Lacordaire: "Abbiate un’opinione e fatela valere!" La seconda è di Clemenceau e non te la raccomando affatto: "Non ha idee, ma le difende con ardore! ".

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Posso tornare a David Copperfield? Il ricordo di Miss Shepherd è lontano in lui di qualche anno, ed egli, ormai diciassettenne, si innamora di nuovo; adora questa volta la signorina Larkins. Si sente felice anche se le può fare solo un inchino nella giornata. Non ha sollievo se non indossando gli abiti migliori, facendosi lustrare continuamente le scarpe. Sogna: "Oh!, se domattina Larkins padre venisse e mi dicesse: “Mia figlia mi ha detto tutto. Eccole ventimila sterline. Siate felici! “". Sogna la zia che s’intenerisce e benedice il suo matrimonio, ma, mentr’egli sogna, la Larkins sposa un coltivatore di luppolo. Ecco David a terra per due settimane: si toglie l’anello, indossa gli abiti peggiori, non usa più la brillantina, non fa più lucidare le scarpe! Più tardi è il colpo di folgore con Dora: "Era un essere sovrumano, per me. Era una fata, una Silfide... non so cos’era... tutto quello che nessuno ha mai visto... Fui inghiottito in un abisso d’amore in un solo istante... precipitato, a capofitto, prima di averle potuto dire una sola parola!" . Sono citazioni trasparenti: attraverso ad esse si intravedono i problemi dell’amore e del fidanzamento, al quale bisognerà pure che ti prepari, caro Pinocchio. 

In materia, qualcuno propugna oggi una morale largamente permissiva. Pur ammettendo che in passato si è stati un po’ troppo rigidi su certi punti, i giovani non devono accettare quella permissività; il loro amore dev’essere con l’A maiuscola, bello come un fiore, prezioso come una gemma e non volgare come un fondo di bicchiere. E’ opportuno che accettino di imporsi qualche sacrificio e di tenersi lontano da persone, luoghi e divertimenti, che sono ad essi occasioni di male. "Non avete fiducia in me!", tu dici. "Sì, abbiamo fiducia, ma non è sfiducia ricordare che tutti siamo esposti a tentazioni; ed è amore togliere dalla tua strada almeno le tentazioni non necessarie!" Guarda gli automobilsti: trovano il vigile, il semaforo, le strisce bianche, il senso vietato, il divieto di sosta, tutte cose che sembrano, a prima vista, seccature e limiti contro l’automobilista e invece sono a favore dell’automobilsta, perché lo aiutano a guidare con più sicurezza e piacere!. E se avessi una fidanzata, Shepherd o Larkins o Dora che sia, un giorno, rispettala! Difendila contro te stesso! Pretendi ch’essa si serbi intatta per te? È giusto, ma tu fa’ altrettanto per lei e non badare a certi amici, che raccontano le loro "prodezze", vantandosi e credendo di essere "brillanti" per le loro avventure donnesche. "Brillante" e forte è l’uomo, che sa conquistare se stesso e s’inserisce nella schiera dei giovani, che sono l’aristocrazia delle anime. Finché si è fidanzati, l’amore deve procurare non tanto il piacere sensuale quanto la gioia spirituale e sensibile, perché manifestato in maniera affettuosa sì, ma corretta e degna! 

Consigli paralleli vengono impartiti aIl’altra parte, supposto che sappia sopportare "prediche". "Cara Dora (o signorina Larkins o Shepherd che sia), le dice sua madre,lascia che ti ricordi una legge biologica. La ragazza, di solito, ha maggiore dominio su sé che il ragazzo nel settore sessuale. Se l’uomo è più forte fisicamente, la donna lo è spiritualmente. Parrebbe perfino che Dio abbia deciso di fare dipendere la bontà degli uomini da quella della donna: domani dipenderanno un po’ da te. L'anima del marito e dei figli; oggi quella dei tuoi amici e del tuo innamorato. Devi pertanto avere buonsenso per due e saper in certe cose dire di no, anche quando tutto parrebbe invitare a dire di sì. Il fidanzato stesso, se è buono, nei suoi migliori momenti, te ne sarà grato e dirà a se stesso: “La mia Dora ha avuto ragione: essa ha una coscienza e le obbedisce: domani mi sarà fedele!". La fidanzata troppo facile, invece, non dà la stessa garanzia e corre il rischio di gettare sin d’ora, con una acquiescenza troppo spregiudicata, semi pericolosi, da cui spunteranno in avvenire gelosie e sospetti da parte del marito". Qui mi fermo, Pinocchio, ma non dire adesso che era fuor di posto parlar di Dora. Fanciullo, hai avuto la Fata, prima come sorella poi come mamma. Adolescente e giovanotto, una Fata accanto a te, non può essere che una fidanzata e una sposa. A meno che tu non ti faccia frate! Ma non te ne vedo la vocazione! 
Giugno 1972




Pittore del Castello

Quattro quadri nel vecchio castello 

    
Ignoto pittore, Non m’è stato dato di sapere il vostro nome. I vostri quattro quadri, però, appesi in quella sala d’angolo, illuminata da piccole finestre gotiche, in quel vecchio castello, mi sono piaciuti. La loro fattura artistica m’è sembrata modesta; suasivo, invece, il significato morale, che mi ha fatto riflettere. Il primo quadro rappresenta l’infanzia. Una barca a vela è appena uscita dal porto. In mezzo siede un fanciullo e guarda, spensierato, il gioco delle onde. Può sedere, può esser spensierato, perché davanti, saldo al timone, è un Angelo; di dietro, a poppa, ci sta, è vero, una figura oscura, ma dorme profondamente e non accenna a svegliarsi. Il secondo quadro rappresenta l’adolescenza. Il bambino del primo quadro è ora un giovanetto; in piedi, spinge dalla barca il suo sguardo curioso verso lontananze sconosciute, dove immagina siano bellezze senza fine. Il timone è ancora in mano all’Angelo, ma le onde sono fortemente increspate e la figura oscura non dorme più: gli occhi torvi non promettono niente di buono; agognano il timone ed annunciano assalti. Il terzo quadro rappresenta l’età matura. Nella barca, adesso, c’è un uomo, il quale sta lottando con tutte le sue forze contro l’uragano, che infuria su sfondo di tregenda; il cielo è oscuro; l’uomo è oscuro; il timone sta in mano della figura oscura; l’Angelo è stato relegato in fondo. Nel quarto quadro siede nella barca un vecchio. La tempesta s’è placata, il porto è in vista, il sole indora le onde. Guida l’Angelo e Ia figura oscura è saldamente incatenata. 

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Sono d’accordo con Voi, caro pittore, che la nostra vita è un viaggio con un punto di partenza e uno di arrivo: il nostro 20°, 50°, 60°anno non è che un tratto intermedio tra quei due estremi. Ma ecco: mentre conosciamo la distanza precisa dal punto di partenza, ci è completamente ignota la distanza dal punto di arrivo. Quanti anni ancora? Noi conosciamo molte brave persone; sanno disegno e meccanica, inglese e trigonometria; ma questa piccola nozione, questo dettaglio insignificante degli anni che ci restano, nessuno lo sa. L’animo si sente sfiorato da un brivido ed emette un proposito: "Gli anni possono essere pochissimi, può trattarsi solo di mesi o di giorni. Signore, non butterò via neppure un minuto!". C’è un problema ancora più preoccupante. I porti di approdo son due: Paradiso e Inferno; il primo solo è desiderabile, rappresenta la fortuna delle fortune. Ci arriveremo? Ecco il problema. Tutti gli altri, al confronto di questo, sono niente. "Sono stato ricco, sono stato famoso, ho fatto una magnifica carriera. Tutto ciò non è che un disastro, se non ci arrivo. Intendo a quel prima, benedetto porto"!

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Sono d’accordo con Voi che per essere buoni si deve lottare, specialmente in certi momenti più aspri. E’ vero che due forze opposte si contendono il timone ossia il governo della nostra vita. E’ vero che la santità è frutto di conquista e di vittorie riportate giorno per giorno sulla punta della spada. E’ vero. Paolo ha scritto: "Non siamo in lotta con deboli e fragili esseri umani, ma contro... i dominatori cosmici di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male vaganti nello spazio". Il papa, di recente, ci ha richiamato alla memoria anche questa verità. Sono d’accordo con Voi che una tattica viene usata: la tattica delle passioni umane. Dante la descrive, quando, all’inizio del suo viaggio, trova la strada sbarrata dalle tre fiere: la lonza, il leone e la lupa. La lonza che, leggera e svelta, non dà tregua, è la sensualità: essa approfitta di tutto per spegnere in noi i gusti e le gioie dello spirito e per accendere i desideri non buoni; ce la sentiamo alle calcagna dappertutto e sarebbe in grado di scoraggiarci e avvilirci, se non avessimo per noi l’aiuto e la protezione di Dio. 

Il leone "con la test’alta" rappresenta l’orgoglio, il quale mira proprio alle teste, che si vedono andar via alte e diritte, mentre, sotto, la persona si erge impettita, la pancia, nel camminare, tende in avanti. Ma non c’è motivo di essere tanto fieri. Ai tempi di Giuseppe Giusti c’era un presidente; gongolava nel presiedere, portava la tuba e la posava su una poltrona, durante le sedute. Ma un giorno qualcuno, per sbaglio, vi si sedette sopra ed ecco il poeta scoccare lo strale: "Han rotto la tuba ad un Presidente; fortunatamente dentro c’era niente!".  Oh! certi tipi, che marciano tuba in testa, anche di fronte a Dio e son tutto, e san tutto, autonomi, anticonformisti, autosufficienti, contestatori! Ma poi? Ma sotto? In che si risolve tutta la loro bravura? La lupa, magra e carica di brame, può essere la mondanità, che ci divora coi suoi impegni a getto continuo: visite, esami, concorsi, affari, competizioni sportive, spettacoli. Noi ci lasciamo inghiottire da queste cose come da un abisso. E Dio? E la nostra anima? Diventano due cosette secondarie, che intravediamo ogni tanto come puntini lontani e a cui concediamo pochi istanti, raramente e di sfuggita, con improvviso e assurdo capovolgimento di valori. Sono d’accordo con Voi che le forze del bene sferrano la controffensiva con tattica opposta a quella delle fiere. Per fortuna! Per la sensualità vale la tattica del vuoto.

Sì, ci sono dei momenti in cui Dio fa il vuoto in noi. Si sente che certe cose non son degne di noi, non bastano, non saziano. 
Questo 1973 è l’anno centesimo dalla nascita di Trilussa. Egli ha scritto: "C’è un’Ape che se posa su un bottone de rosa: lo succhia e se ne va... Tutto sommato, Ia felicità è una piccola cosa".  Spessissimo poi non di felicità si tratta, ma di piacere passeggero. Spesso, di dispiacere. Si prova una specie di mal di denti, mentre una voce grida: "Va’ dal dentista!". Sant’Agostino, riferendosi ai diciassette anni di sua vita sregolata, confessa: "rodebar, cruciabar", ero rosicchiato, mi torturavo in quegli anni; quella non era una vita, Signore! "Talis vita, nunquid vita erat"? San Camillo ammoniva sé e gli altri così: "A fare il male si prova piacere, ma il piacere passa subito e il male resta; fare il bene, costa fatica, ma la fatica passa subito e il bene resta". Per la superbia ci vuole il Vangelo, che è chiarissimo al proposito: "Mettiti all’ultimo posto": il Signore è stato in mezzo ai suoi Apostoli "come uno che serve"; e ha insegnato: "Dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri... e beati voi se lo mettete in pratica". Per la mondanità, può bastare questo piccolo pensiero, sempre del Vangelo: "Che giova guadagnare il mondo intero, se poi si perde l’anima? Che cosa può dare l’uomo in cambio della propria anima?".

***

Amico pittore, siete riuscito, colle vostre pitture, a toccare qualche fibra del mio animo. E’ stato un piacere per me. Peccato che adesso cominci un dispiacere. Quale? - direte. Ve lo dico in confidenza: è il dubbio di aver urtato i lettori. Alcuni mi avranno trovato romantico, ingenuo e sorpassato rievocatore di castelli; altri avranno troncato la lettura appena fiutato odore di "moralismo". Uno dei tanti infortuni del lavoro. 
Aprile 1973





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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11/7/2017 10:04 AM
 
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Quintiliano

Altri tempi, altra scuola... 

    Illustre Quintiliano, Siete stato grande avvocato, grande maestro di eloquenza, ma, soprattutto, grande ed appassionato educatore di ragazzi! Plinio il Giovane fu uno dei vostri alunni. L’imperatore Domiziano vi affidò l’educazione dei suoi nipoti, figli di sua sorella, Flavia Domitilla. Il primo dei 12 libri della principale vostra opera, l’Institutio, ha fatto testo dal Medio Evo fino a pochi anni fa. L’ho scorso di recente; ho riletto alcune vostre massime. 1)  Non pretenda il maestro da un fanciullo ciò che solo l’adolescente può dare né da un adolescente quanto ci si aspetta da un adulto. Gli dica, quando ha bene imparato: sei già qualcuno! E aggiunga: il meglio di te è di là da venire! Così lo incoraggia, lo stimola e gli spalanca le vie della speranza. 2)Non è bene che ci sia un solo maestro per un solo alunno. Se non si paragona agli altri, lo scolaro rischia di gonfiarsi troppo; posto davanti ad un solo scolaro, il maestro non dà il meglio di sé. Se si è parecchi in classe, c’è emulazione, c’è gara, e questa spesso stimola allo studio più che l’esortazione dei maestri e le preghiere dei genitori. 3)Lo spirito critico non è adatto ai giovanetti, non va in loro fatto prevalere sulla fantasia e sulla creatività. 4) Il maestro non sia troppo severo nel correggere; altrimenti, i timidi si scoraggiano, temono tutto e non tentano nulla; i più vivaci si arrabbiano e oppongono tacita resistenza. Sia paterno, non abbia vizi né li tolleri. Austero, ma non rigido; benevolo, ma non privo di energia; né si faccia odiare per il rigore né si faccia disprezzare per la mancanza di energia; parli spessissimo di ciò che è buono e onesto...

***

Ripassare queste massime mi ha fatto tenerezza e mestizia insieme, tanto esse sono lontane dalle massime che leggo adesso su certi moderni trattati di pedagogia e che vedo, qua e là, approvate. 1)Se vi dicessi, illustre Quintiliano, che ci sono dei maestri che già in quarta elementare indugiano, ritornandovi sopra continuamente, sul Vietnam, sul Cile, sui Palestinesi? Quel che conta - dicono - non è che ai fanciulli siano trasmesse cognizioni acquisite da altri nel passato, ma che essi imparino a discutere i grandi problemi del presente. 2)Emulazione, gara? Oggi sono parole proibite; favorirebbero l’individualismo, lo spirito di classe, la meritocrazia, il capitalismo. Il voto non andrebbe dato al singolo, ma soltanto al gruppo. 3)Quanto allo spirito critico, è una delle cose di cui soprattutto ci si preoccupa. La società viene mostrata agli alunni nei suoi aspetti deteriori, a volte a bella posta gonfiati, poi vien detto: "Ragazzi, ecco il vostro bersaglio, sparate contro"! Voi temevate la "tacitaresistenza". Oggi abbiamo la contestazione scolastica attiva e tutt’altro che tacita! 4)Maestro paterno? Non fatevi neppur sentire! Oggi si dà la caccia al "paternalismo", lo si cerca in tutti gli angoli, lo si teme, è sinonimo di oppressione, repressione e autoritarismo. Oggi sono invece parole di gran moda: lavoro di gruppo, scuola non nozionistica, a gestione sociale e democratica, arricchita di assemblee e dimostrazioni. Se tornaste a insegnare dopo 19 secoli, caro Quintiliano, ne avreste degli aggiornamenti da fare! E non che sia tutto male. I quattro punti che ho contrapposto, insieme con gli altri slogans, ai quattro vostri, contengono colorazioni e soluzioni di estremisti. Ci sono, però, posizioni intermedie, che anche a voi, forse, non dispiacerebbero e con le quali, adattandosi un po’, potrebbero benissimo sposarsi le vostre massime.

***

Buono, per esempio, il lavoro di gruppo, che Voi non conosceste. Nel gruppo, supposto che funzioni bene, non c’è solo il fenomeno di tre, quattro, cinque intelligenze che si assommano quantitativamente, ma agisce e opera uno stimolo nuovo nell’intelligenza di ognuno. Io, infatti, cerco di capire ciò che l’altro ha già capito: la luce sua accende in me un’altra luce, che, a sua volta, aiuta lui o un terzo o un quarto. D’altra parte il "lavoro di gruppo" mi stimola ad essere "attivo", oltre che "ricettivo", ad essere me stesso nel mio imparare, a manifestare il mio pensiero agli altri ed a manifestarlo in modo originale. Non solo: viene attuato uno scambio di esperienze, che arricchisce gli altri e me, viene favorita la lealtà nello scambio e l’attenzione cortese verso gli altri. Questo però non esclude, ma suppone l'insegnamento del maestro. E difatti: - il dipendere è naturale per la mente, che non crea la verità, ma deve solo inchinarsi davanti ad essa, da qualunque parte essa venga; - se non si approfitta dell’insegnamento altrui, si perde molto tempo a cercare verità, che sono già acquisite; -non è possibile sempre fare scoperte originali; spesso basta essere criticamente certi delle scoperte già fatte; - infine, la docilità è pure una utile virtù. Se ne accorse quel professore universitario, cui la domestica chiese di poter prendere dalla stufa un po’ di carboni accesi per il ferro da stiro. -Fate pure, rispose, ma dov’è il recipiente in cui mettere i carboni? - Qui! rispose la serva, e mostrò il palmo della mano. Vi pose uno strato di cenere fredda, sopra la cenere pose i carboni e se ne andò, ringraziando. - Toh! disse il professore, con tutta la mia scienza, questo non lo sapevo! Né si creda che, ascoltando un maestro, si resti puramente passivi o ricettivi. Gli scolari, che siano veri discepoli della verità, non sono a guisa di scodelle spalancate a ricevere il fagiolame che il maestro vi versa, dimenando a tutto spiano il mestolo della sua erudizione. Dante, Leonardo, Galileo, stando ai piedi della cattedra, non sono rimasti a "sedere" soltanto e San Tommaso mostra di voler gli alunni ben "in piedi" quando dice: Il maestro si limita a "muovere", a stimolare il discepolo e il discepolo solo se risponde a questo stimolo - sia durante sia dopo l’esposizione del maestro - arriva ad un vero apprendimento. D’altra parte: è meglio essere i confidenti di grandi idee o gli autori originali di idee mediocri? Diceva Pascal: Colui che è salito sulle spalle di un altro, vedrà più lontano dell’altro, anche se è più piccolo di lui!

***

Bella e positiva l’attenzione ai più deboli della scuola. Essa però può realizzarsi anche conservando qualche competizione. La scuola prepara alla vita, che è fatta anche di disuguaglianze. Lo stesso sport, che tanto piace ai giovani, cosa sarebbe, se non fosse gara ed emulazione! Una scuola senza nessun primo e nessun ultimo non è realistica né piacevole: rassomiglia troppo ad un gregge di pecore. Don Bosco vedeva in modo diverso l’amore ai giovani. "Credo scriveva - sia dovere di ogni professore tenere conto dei più meschini della classe; interrogarli più spesso degli altri; per essi fermarsi più a lungo nelle spiegazioni; ripetere, ripetere fin che non abbiano capito, adattare i compiti e le lezioni alla loro capacità. Per occupare convenientemente gli alunni di ingegno più svegliato, si assegnino compiti e lezioni di supererogazione, premiandoli con punti di diligenza. Piuttostoché trascurare i più tardi, si dispensino da cose accessorie, ma le materie principali si adattino interamente a loro". Forse siete d’accordo anche Voi che nel passato la scuola ha esagerato con le nozioni. A me viene a mente qualche nome: Zenoni (grammatica latina e greca), Campanini-Carboni (vocabolario latino), Sanesi (vocabolario greco). Legati ad essi vedo declinazioni, paradigmi, regole, eccezioni, esercizi, versioni in un numero che non finiva più. La storia come riportata sui testi, mi pareva una "distillazione del rumore" (Carlyle), fatta tutta di date, di guerre, paci e trattati. Nello studiare un po’ di scienze, ho mandato a memoria serie di nomi come Neurotteri, Lepidotteri, Coleotteri, Ditteri, ecc., mentre non fui mai sicuro se la mosca e la zanzara appartenessero all’ordine dei Ditteri e mai capace di riconoscere degli Imenotteri nelle formiche rosse, che mi pungevano dolorosamente le gambe, quando mi sedevo sui prati. Molto meglio la scuola viva. Che offre ai ragazzi centri di interesse; che, accanto ai vocabolari, usi i dischi parlanti e le "cassette" per le lingue; che nella storia faccia risaltare il progresso della cultura e le condizioni sociali; che, per la fisica e le scienze naturali, proceda a base di esperienze in laboratorio; che abitui moderatamente gli alunni a prendere interesse e parte alla vita e agli avvenimenti del proprio paese e del mondo. Dico "moderatamente". Sono infatti convinto che gli alunni possano utilmente discutere in classe; non mi va proprio che possano mancare di rispetto all’insegnante e abbandonarsi al turpiloquio e a gesti osceni in sua presenza. So che sia la Costituzione Italiana sia il Concilio Vaticano II riconoscono il diritto di sciopero; non sono capace di vedere questo diritto in certi scioperi degli alunni, che finiscono magari nella sassaiola contro i vetri della scuola o in peggiori devastazioni.

***

Per una gestione sociale della scuola materna, elementare, secondaria ed artistica dello Stato italiano sarà applicata col prossimo anno scolastico la legge 477. Per essa (art. 6) i genitori vengono considerati parte integrante e fondamentale nel mondo della scuola. Sara istituito un Consiglio di Istituto o di Circolo. Lo formeranno rappresentanze del personale insegnante, del personale non insegnante, dei genitori degli allievi ed il direttore didattico o preside. Lo presiederà uno dei genitori eletto tra i membri del Consiglio stesso. I genitori, inoltre, faranno parte del Consiglio di disciplina degli alunni e dei Consigli di classe e interclasse. E’ una vera conquista, illustre Quintiliano: i genitori diventano corresponsabili all’interno della scuola per via ufficiale. Ma sono tutti preparati ad affrontare i problemi scolastici? E saranno capaci di farsi guidare dai soli interessi dei figli, lasciando fuori della scuola ogni preoccupazione di partito, oggi che la politica s’infiltra come polvere finissima dappertutto, fin nei polmoni? E gli ampi poteri deliberativi riconosciuti dall’art. 6 ai genitori non saranno poi vanificati dalla libertà di insegnamento, che alcuni professori già van reclamando, appellandosi all’art. 4? Se professori e maestri hanno libertà troppo ampia di insegnare quel che loro pare e piace, addio libertà dei genitori! La scuola italiana è davanti ad una svolta storica. Se le famiglie non lo capiscono e non aprono bene gli occhi può essere un vero guaio.

***

Illustre Quintiliano! Molti secoli ci separano. Dopo di Voi sono venuti tanti filosofi e tanti, tanti pedagogisti. La cultura umanistica, che fu vostra, è oggi oscurata dalle scienze sul mondo e sull’uomo, che imperano nell’èra dell’atomo e della tecnica. Eppure un secolo fa Teodoro Mommsen, romanista protestante, Vi definiva ancora "ispirato a buon gusto e retto giudizio, istruttivo senza pedanteria". Cinquant’anni fa Concetto Marchesi, un comunista, riconosceva la vostra cultura come "formatrice dello spirito". Faccio voti che non tutto cada nella scuola della cultura umanistica e che continuino ad influire sugli educatori le vostre massime più celebri. Basterebbe la seguente: Non multa, sed multum. E cioè: A scuola, non molte cose, ma profondamente. Don Bosco la riprese a modo suo, quando scrisse: "Fa molto chi fa poco, ma fa quello che deve fare; fa nulla chi fa molto, ma non fa quello che deve fare". Molto dunque e a fondo, senza complicate esagerazioni all’Anatole France. Questi, perché una oliva venisse gustata alla perfezione, suggeriva il procedimento seguente: metterla in un’allodola, chiudere questa in un piccione, il piccione in un pollo, il pollo in un porcellino d’India, questo in un vitellino, il tutto rosolarlo allo spiedo. I succhi migliori del vitello sarebbero così colati con quelli del porcellino, del pollo, del piccione e dell’allodola sull’oliva e l’avrebbero fatta superlativamente squisita. Ma, grazie! Il prezzo di quella squisitezza era un’ecatombe! Non è un’ecatombe di valori che - con il multum - Voi intendevate e che noi auguriamo alla nostra scuola. 
Aprile 1974





Re David

Requescat alla superbia

    
Illustre Sovrano, nonché poeta e musico! La gente vi vede sotto mille aspetti diversi. Gli artisti, da secoli, vi presentano ora con la cetra, ora con la fionda di fronte a Golia, ora con lo scettro sul trono, ora nella grotta di Engaddi, nell’atto di tagliare il mantello di Saul. I ragazzi amano il vostro combattimento con Golia e le vostre imprese di capobanda ardito e generoso. La Liturgia vi ricorda soprattutto come antenato di Cristo. La Bibbia presenta le varie componenti della vostra personalità: poeta e musico; brillante ufficiale; re avveduto, implicato, ahimé! non sempre felicemente, in storie di donne e intrighi di harem con conseguenti tragedie familiari; e, ciononostante, amico di Dio, grazie alla insigne pietà, che vi mantenne sempre conscio della vostra piccolezza davanti a Dio. Quest’ultima nota mi è particolarmente simpatica e sono felice, quando la incontro ad esempio nel breve Salmo 131 da voi composto. Voi dite in quel Salmo: Signore, non superbo è il mio cuore. lo cerco di seguirvi a ruota, ma devo, purtroppo, limitarmi a pregare: Signore, desidero che il mio cuore non corra dietro a pensieri di superbia!... Troppo poco per un vescovo!, direte. Lo so, ma la verità è che cento volte ho fatto i funerali alla mia superbia, illudendomi di averla messa due metri sotterra con tanto di requiescat, e cento volte l’ ho vista tornare su più vispa di prima: ho sentito che le critiche mi spiacevano ancora, che le lodi, viceversa, mi piacevano, che mi preoccupava il giudizio degli altri su me. Quando mi viene fatto un complimento, ho bisogno di paragonarmi all’ asinello che portava Cristo il giorno delle Palme. E mi dico: quello, se, sentendo gli applausi della folla, si fosse insuperbito e avesse cominciato, somaro com’era, a ringraziare a destra e a sinistra con inchini da prima donna, quanta ilarità avrebbe suscitato! Non fare una figura simile! Quando vengono le critiche, ho invece bisogno di mettermi nella situazione del manzoniano fra Cristoforo, che, oggetto di ironie e sogghignamenti mantiene calmo, dicendosi: "Frate, ricorda che non sei qui per te!". Lo stesso fra Cristoforo, in altro contesto, "dando indietro due passi, mettendo la destra sull’ anca, alza la sinistra con l’indice teso verso don Rodrigo" e gli pianta in faccia due occhi infiammati. Il gesto piace immensamente ai cristiani d’oggi, che reclamano "profezie", denuncie clamorose, "occhi infiammati", "rai fulminei" alla Napoleone. A me piace più come scrivete voi, re David: "altèri non sono i miei occhi". Mi piacerebbe potermi avvicinare al sentire di Francesco di Sales, che scriveva: Se un nemico mi cavasse l’occhio destro, mi sentirei di sorridergli col sinistro e se mi cavasse tutti e due gli occhi, mi resterebbe sempre il cuore per volergli bene! Voi continuate nel vostro Salmo: "Non vado in cerca di cose grandi né di cose troppo alte per me". Posizione d’animo molto nobile, se la confronto con quanto diceva don Abbondio: "Gli uomini sono fatti così: sempre vogliono salire, sempre salire". Purtroppo, temo che abbia ragione don Abbondio: quelli che sono più alti di noi, tenderemmo a raggiungerli; i nostri eguali, a metterli sotto; quelli che sono sotto, a farceli più lontani. E noi? Noi tenderemmo a primeggiare, a grandeggiare per riconoscimenti, avanzamenti e promozioni. Niente di male, finché si tratta di sana emulazione, di desideri modetati e ragionevoli, che stimolano al lavoro, alla ricerca. Ma se diventa una specie di malattia? Se, per andare avanti, calpestiamo gli altri a colpi di ingiustizie e di denigrazioni? Se, sempre per avanzare, ci si raduna in "branco", sotto i pretesti più speciosi, ma in realtà per contrastare il passo ad altri "branchi", pure forniti di "appetiti più avanzati"? E per quali soddisfazioni poi? Un effetto fanno le cariche a distanza, prima di essere raggiunte e un effetto da vicino, dopo il conseguimento. L’ha detto molto bene uno che era più matto di voi, ma poeta come voi: Jacopone da Todi. Quando sentì che frate Pier di Morone era stato fatto papa, scrisse:Che farai Pier di Morone?... Se non sai ben schermire canterai mala canzone! Io me lo dico spesso, in mezzo alle preoccupazioni dell’ufficio episcopale: "Adesso, caro, stai cantando la mala canzone di Jacopone!". Ma anche voi ve lo diceste, nel Salmo 52 "contro le male lingue". Queste, a sentirvi, sono come "rasoi affilati", che, al posto della barba, mozzano il buon nome. Bene. Ma, passato il rasoio, dopo un po’ di tempo, la barba ricresce spontanea e florida. Anche l’onore disturbato e la fama intaccata ricrescono. Per questo può essere a volte saggio tacere, aver pazienza: un po’ alla volta tutto ritorna a posto spontaneamente!

***

Essere ottimisti, nonostante tutto. E’ questo che voi intendete, scrivendo: "Come fanciullo divezzato in braccio a sua madre... è in me l’anima mia". La fiducia in Dio dev’essere il perno dei nostri pensieri e delle nostre azioni. A ben pensarci, infatti, i personaggi principali della nostra vita sono due: Dio e noi. Guardando questi due, vedremo sempre bontà in Dio e miseria in noi. Vedremo la bontà divina ben disposta verso la nostra miseria e la nostra miseria oggetto della bontà divina. I giudizi degli uomini vanno tenuti un po’ fuori gioco: essi né sanano una coscienza colpevole né possono ferire una coscienza retta. Il vostro ottimismo alla fine del piccolo Salmo esplode in grido gioioso: "Spera, Israele, nel Signore, da ora e per sempre". Leggendovi, non mi sembrate affatto un pavido, ma un bravo, un forte, che svuota l’anima della fiducia in se stesso per riempirlo della fiducia e della forza di Dio. L’umiltà, in altre parole, va di pari passo colla magnanimità. Essere buoni, è cosa grande e bella, ma difficile e ardua. Perché l’animo non aspiri a cose grandi in maniera esagerata, ecco l’umiltà; perché non prenda paura davanti alle difficoltà, ecco la magnanimità. Penso a San Paolo: disprezzi, flagelli, pressioni non deprimono questo magnanimo; estasi, rivelazioni, applausi non esaltano questo umile. Umile, quando scrive: "Sono il minimo fra tutti gli Apostoli". Magnanimo e lanciato ad ogni rischio, quando afferma: "Tutto posso in Colui che mi dà forza". Umile, ma, a tempo e luogo, sa essere fiero: "Sono Ebrei? Anch’io... Sono ministri di Cristo? Parlo da folle, di più io!" Si mette al di sotto di tutti, ma, nel dovere, non si lascia piegare da niente e da nessuno. Le onde scagliano contro le scogliere la nave che lo porta; le vipere lo mordono; pagani, giudei, falsi cristiani lo cacciano e perseguitano; viene battuto con le verghe e rimesso in carcere, lo si fa morire ogni giorno, si crede di averlo spaventato, annientato ed egli salta fuori fresco e rugiadoso ad assicurarvi: non angustiamur, non sono disperato e poi si alza in piedi e lancia la sfida della certezza cristiana: "Sono sicuro che né la morte, né la vita... né il presente, né l’avvenire, né altezza, né profondità, né qualsiasi altra creatura mi potranno separare dall’amore d’Iddio che è in Cristo Gesù". E’ lo sbocco dell’umiltà cristiana. Essa non sfocia nella pusillanimità, ma nel coraggio, nel lavoro intraprendente e nell’abbandono in Dio! 
Febbraio 1972


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"Sette regole" che reggono 

    
Caro Santo sorridente, Papa Giovanni apprezzava talmente le tue prediche scritte che voleva proclamarti Dottore della Chiesa. Morì e non se ne fece, sinora, nulla. Peccato! Quelle che il buon Papa apprezzava, non erano però le tue prediche in latino, studiate, limate, ben suddivise, ma bensì le prediche in italiano, raccolte dalla tua voce, tutte sprizzanti vita, fervore religioso, umorismo e saggezza pratica. Egli ti vagheggiava, forse, "Dottore Sorridente" accanto al "Mellifluo" Bernardo, all’"Angelico" Tommaso, al "Serafico" Bonaventura, al "Consolante" Francesco di Sales. Pensava che in tempi in cui parole difficili, irte di ismi nebulosi, sono usate ad esprimere perfino le cose più facili di questo mondo, fosse opportuno mettere in risalto il fraticello, che aveva insegnato: "Parla chiarozzo, acciò che chi ode, ne vada contento e illuminato, e non imbarbagliato"! E tutt’altro che “imbarbagliati” rimasero, davanti alla tua predica, i professori e gli studenti dell’Università di Siena nel giugno del 1427. Tu parlasti loro del "modo di studiare", proponesti "sette regole" e concludesti: "Le quali sette regole se le osservi e vi continui, in poco tempo diventerai valent’uomo o valente donna". Col tuo permesso, abbreviandole e... addomesticandole, io tento ora di richiamare le tue "sette regole" in vista degli studenti di oggi. I quali sono brava e simpatica gente, che non corrono nessunissimo pericolo di venire "imbarbagliati", per il semplice motivo che vogliono fare da sé la propria esperienza delle cose. Né da te né da me gradiscono "modelli di comportamento", che odorino di moralismo a un chilometro di distanza. E probabilmente non leggeranno queste righe, ma io le scrivo lo stesso; scrivo a te. Anche Einaudi ha scritto le "Prediche inutili", che, tuttavia, a qualcuno sono riuscite utili.

***

Prima regola, la estimazione. Uno non arriva a studiare sul serio, se prima non stima lo studio. Non arriva a farsi una cultura, se prima non stima la cultura. Quello studente fa arco della schiena sui libri. Tu scrivi: Bene! così "non ti grilla il cervello come altri zovincelli, che non attendono a studio niuno, ma a forbire le panche!". Ama i libri, sarai a contatto con gli uomini grandi del passato: "parlerai loro ed essi parleranno con te: udiranno te, e tu udirai loro, e gran diletto ne piglierai". Cosa diventa, invece, lo studente scioperato? Diventa "come uno porco in istia che pappa e bee e dorme". Diventa "Messer Zero", che non combinerà nulla di grande e di bello nella vita. Intendiamoci: per una vera cultura, sono da apprezzare, oltre che i libri, anche la discussione, il lavoro a gruppo, lo scambio di esperienze. Tutte queste cose ci stimolano ad essere attivi oltre che ricettivi; ci aiutano a essere noi stessi nell’imparare, a manifestare agli altri il nostro pensiero in modo originale; favoriscono l’attenzione cortese verso il prossimo. Mai però venga meno l’estimazione verso i grandi "maestri"; essere i confidenti di grandi idee vale più che essere gli inventori di idee mediocri. Diceva Pascal: "Colui che è salito sulle spalle di un altro, vedrà più lontano dell’altro, anche se è più piccolo di lui".

***

Seconda regola, la separazione. Separarsi, almeno un pochino! Altrimenti, non si studia sul serio. Gli atleti devono pur astenersi da molte cose. Lo studente è un po’ atleta e tu, caro fra Bernardino, gli hai preparato tutta una lista di cose “proibite”. Ne riporto qui solo due: cattive compagnie, cattive letture. "Uno libertino tutti li guasta. Una mela fracida, accostata alle buone, tutte l’altre corrompe". Occhio, tu scrivi, anche ai libri di Ovidio e "altri libri di innamoramenti". Senza disturbare Ovidio, oggi tu parleresti esplicito di libri, di rotocalchi indecenti, cinema cattivi e droga. Intatta, invece, conserveresti la seguente apostrofe: "Quando tu, padre, hai un figliolo a studio, a Bologna, o dove si sia, e tu senti che egli è innamorato, non gli mandare più denari. Fallo tornare, chè egli non imparerà nulla, se non canzonette e sonetti... e sarà poi Messer Coram-vobis"Efficace quest’ultimo rimedio, di "tagliare i viveri". Ma oggi esso non scatta più: lo Stato, infatti, si sostituisce, se occorre, ai papà, snocciolando agli universitari il presalario. Rimane una speranza: che lo studente si applichi da sé il "rimedio del saltimbanco". Ti è noto: salito su una sedia, il saltimbanco, ai contadini che l’attorniavano attoniti e a bocca aperta in giorno di mercato, mostrava una scatoletta chiusa: "Qui dentro - diceva - c’è il rimedio efficacissimo per i calci dei muli: costa poco, pochissimo, acquistarlo è una fortuna". E di fatto, molti acquistavano. Ma ad uno dei compratori yenne voglia di aprire la scatola: vi trovò nient’altro che due metri di sottile spago. Alzò la voce a protestare: "E’ una truffa!". "Niente truffa - rispose l’imbonitore - tu sta’ distante quanto è lungo lo spago e nessun calcio sprangato da mulo ti potrà raggiungere!". E’ il rimedio classico e radicale suggerito da voi predicatori; vale per tutti, vale specialmente per gli studenti esposti oggi a mille insidie. Separazione! Da tutti i “muli”, che sprangano calci morali!

***

Terza regola, quietazione. "L’anima nostra è fatta come l’acqua. Quando sta quieta, la mente è come un’acqua quieta; ma quando è commossa, s’intorbida". Va dunque fatta riposare e quietare, questa mente, se si vuol imparare, approfondire e ritenere. Com’è possibile riempire la testa di tutti i personaggi dei rotocalchi, del cinema, del “video”, degli sports, così vivaci, invadenti e talvolta avvilenti e inquinanti, e poi pretendere ch’essa ritenga, insieme, le nozioni dei libri di scuola al confronto così scolorite e scialbe? Una fascia di silenzio occorre proprio attorno alla mente di chi studia, perché si conservi quieta e pulita. Tu, piissimo frate, suggerisci di chiederla al Signore; suggerisci perfino la giaculatoria adatta: "Quietaci, messer Domineddio, la mente". Gli studenti nostri, a questo punto, sorrideranno; sono abituati spesso a ben altre giaculatorie! Ma tant’è: un po’ di silenzio e un pizzico di preghiera in mezzo a tanto quotidiano fracasso non guasta in alcun modo! ***Quarta regola, ordinazione, cioè ordine, equilibrio, giusto mezzo, sia nelle cose del corpo che dello spirito. Mangiare? Sì, tu scrivi, ma "non troppo né poco. Tutti gli estremi sono viziosi, la via del mezzo ottima. Non si può portare due some: lo studio e il poco mangiare, il troppo mangiare e lo studio: chè l’uno ti farà intisichire e l’altro ti ingrosserà il cervello". Dormire? Anche, ma "non troppo né poco... più utile è levarsi per tempo... con la mente sobria". Pur lo spirito ha bisogno di ordine e tu continui: "Non mandare il carro davanti ai buoi... impara piuttosto meno scienza e sàppila bene, che assai e male!". Salvator Rosa è d’accordo con te, quando scrive: Se infarinato se’, vatti a far friggere. L’imparaticcio, la semplice infarinatura, la superficialità, il pressappochismo non sono cose serie. Tu consigli anche di avere simpatie personali tra i vari autori o le varie materie: "Fa’ istima in te più d’uno Dottore che d’un altro, o d’un libro che d’un altro... Non ne dispregiare però niuno".

***

Quinta regola, continuazione, ossia perseveranza. La mosca si posa appena sul fiore e passa, volubile e agitata, ad un altro fiore; il calabrone si ferma un po’di più, ma gli preme far rumore; l’ape, invece, silenziosa e operosa, si ferma, succhia a fondo il nettare, porta a casa e ci dà il miele dolcissimo. Così scriveva San Francesco di Sales e mi pare che tu convenga in pieno: niente studenti-mosca, niente studenti-calabrone, ti piace la volitività tenace e realizzatrice ed hai ragione da vendere. Nella scuola e nella vita, non basta desiderare, bisogna volere. Non basta cominciare a volere, ma occorre continuare a volere. E non basta neppure continuare, ma è necessario saper ricominciare a volere da capo tutte le volte che ci s’è fermati o per pigrizia o per insuccessi o per cadute. La sfortuna di un giovane studente, più che la scarsa memoria, è una volontà di stoppa. La fortuna, più che il forte ingegno, è una volontà robusta e tenace. Ma questa si tempra soltanto al sole della grazia di Dio, si scalda al fuoco delle grandi idee e dei grandi esempi!

***

Sesta regola, discrezione. Vuol dire: fare il passo secondo la gamba; non prendere il torcicollo a forza di mirare a mete troppo alte; non mettere mano a troppe cose insieme; non pretendere i risultati dalla sera alla mattina. Settima regola, dilettazione, cioè prendere gusto. Non si può studiare a lungo, se non si prende un po’ di gusto allo studio. E il gusto non capita subito, ma dopo. Nei primi tempi c’è sempre qualche ostacolo: la pigrizia da superare, occupazioni piacevoli che ci attirano di più, la materia difficile. Il gusto viene più tardi, quasi premio per lo sforzo fatto. Tu scrivi: "Senza essere ito a Parigi a studiare, impara dall’animale ch’ha l’unghie fèsse (cioè il bue), che prima mangia e insacca, e poi ruguma, a poco a poco". Ruguma significa rumina, ma per te, caro e saggio santo, vuol dire qualcosa di più, cioè: il bue va assaporandosi il fieno piano piano, quando è saporabile e godibile, e fino in fondo. E così dovrebbe avvenire per i libri di studio, cibo delle nostre menti.

***

Caro San Bernardino! Enea Silvio Piccolomini, tuo concittadino e Papa col nome di Pio II, scrisse che, alla tua morte, i signori più potenti d’Italia si divisero le tue reliquie. Ai poveri senesi, che tanto ti amavano, nulla rimase di te. Restava solo l’asinello, sulla cui groppa eri qualche volta salito, quando ti sentivi stanco dal viaggio negli ultimi anni di tua vita. Le donne di Siena videro un giorno passare la povera bestia, la fermarono, la depilarono tutta e conservarono quei peli come reliquia. Al postodell’asinello, io ho spelacchiato e “spennato”, rovinandola, una delle tue bellissime prediche. Queste “penne” andranno tutte disperse al vento o qualcuna, almeno da qualcuno, sarà raccolta? 
Settembre 1972



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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11/7/2017 10:08 AM
 
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Se governi, sii prudente

    
All’Abate di Chiaravalle. Siete stato un grande monaco e, in maniera del tutto originale, un grande uomo di stato. C’è stato un momento in cui Chiaravalle fu più importante di Roma: ricorrevano a Voi imperatori, papi, re, feudatari e vassalli. Avete lanciato una Crociata: cosa molto discussa oggi, ma allora entrava nel quadro delle cose. Foste, invece, profeticamente contro l’antisemitismo del tempo nella vostra franca difesa degli Ebrei. Senza peli sulla lingua! Avete scritto a un papa: "Non temo per te né ferro né veleno, ma l’orgoglio del dominio". E al re di Francia, che aveva nominato siniscalco, cioè generalissimo, un abate: "Cosa succederà adesso? Il nuovo siniscalco celebrerà la Messa con elmo, corazza e gambali di ferro oppure guiderà le truppe in cotta e stola?". Altri avevano guidato nel Medio Evo l’Europa a colpi di spada. Voi, a colpi di penna, con lettere che partivano in tutte le direzioni e che, purtroppo, ci restano oggi solo in parte: cinquecento circa. Esse trattano, per lo più, argomenti di ascetica. Una ce n’è, tuttavia, la 24a dell’Epistolario, che contiene, in succo, la vostra cristiana visione del governo e divenne testo classico in una circostanza straordinaria. S’era in un conclave. I cardinali ondeggiavano incerti fra tre candidati segnalati uno per la santità, il secondo per l’alta cultura, il terzo per il senso pratico.

All’indecisione pose fine un cardinale, appunto citando la vostra lettera. "Inutile titubare ancora, egli disse, il nostro caso è già contemplato nella Lettera 24a del Dottore Mellifluo. Basta applicare e tutto andrà liscio come l’olio. Il primo candidato è Santo? Ebbene, oret pro nobis, dica qualche Padrenostro per noi poveri peccatori. Il secondo è dotto? Ne abbiamo tanto piacere, doceat nos, scriva qualche libro di erudizione. Il terzo è prudente? Iste regat nos, questi ci governi e diventi Papa". Tutto questo considerato, perché non continuare, caro Abate, l’antico vostro mestiere e scrivere qualche lettera con la carità di utili consigli a me, povero vescovo, e ad altri cristiani alle prese con molteplici difficoltà nel servire il pubblico? Una voce monacale, che dal fondo del Medio Evo si ripercuote nell’intricato dinamismo della vita moderna! E’ una possibilità di bene. La sfrutti, per favore, padre Abate!
Vostro,ALBINO LUCIANI

***

Al Patriarca di Venezia. Accetto e comincio col capovolgere la mia stessa sentenza. "Se è prudente governi!" ho scritto allora. "Se governa, sia prudente!" scrivo adesso. E cioè: abbia ben fissi in testa alcuni princìpi basilari e li sappia adattare alle circostanze della vita. Quali princìpi? Ne dico, a caso, qualcuno. Un successo apparente, anche clamoroso, è in realtà un insuccesso, se raggiunto calpestando la verità, la giustizia, la carità. Chi è sopra è al servizio di chi è sotto: tanti i padroni quanti i sudditi. Quanto maggiore è la responsabilità, tanto più grande è il bisogno di essere aiutati da Dio; lo dice anche il vostro Metastasio: A compir le belle imprese L’arte giova e il senno ha parte, Ma vaneggia il senno e l’arte, Quando amico il ciel non è.  Ma i grandi princìpi vanno calati nella vita degli uomini e gli uomini sono come le foglie di un albero: tutte simili, nessuna perfettamente eguale all’altra. Essi si presentano a noi diversi l’uno dall’altro, secondo la cultura, il temperamento, l’estrazione, le circostanze, lo stato d’animo. Occhio, dunque, alle circostanze, agli stati d’animo: se cambiano, cambiate anche voi, non i princìpi, ma la applicazione dei princìpi alla realtà del momento. Cristo, una volta, si sottrasse con la fuga alla gente che era venuta per "portarlo via a forza per farlo re".

Cambiate le circostanze, alla vigila della Passione, invece, si prepara egli stesso il modesto trionfo dell’entrata a Gerusalemme. Non chiamo però prudenza la soverchia disinvoltura nel cambiare. La tattica buona dei giusti dosaggi e adattamenti non è l’opportunismo, la adulazione, il voltar la schiena a chi è tramontato, il giocar di scherma con la propria anima e coi princìpi. Cade il ministro, cade il sindaco, quante volte si opera attorno, e immediatamente, il vuoto! E quante volte si osserva il volta gabbana! Cito il caso lontano nel tempo, ma classico, del Moniteur, giornale ufficiale francese. Nel 1815 il foglio segnalava come segue ai suoi lettori le vicende di Napoleone: - Il brigante è fuggito dall’Isola d’Elba; - L’usurpatore è arrivato a Grenoble; - Napoleone entra a Lyon; - L’Imperatore arriva stasera a Parigi! Crescendo davvero disinvolto! Da non gabbare per prudenza! Come non è prudenza l’atteggiamento di chi si ostina a non prendere atto delle realtà evidenti e cade nella rigidità eccessiva e nell’integralismo, diventando più realista del re, più papista del papa. Succede.

C’è chi, impadronitosi di un’idea, la sotterra e continua a custodirla, a difenderla gelosamente per tutta la vita, senza più riesaminarla, senza voler verificare cosa sia diventata dopo tante piogge e venti e bufere di avvenimenti e di cambiamenti. Rischiano di non essere prudenti quelli che viaggiano nella stratosfera e, imbottiti di scienza puramente libresca, non sanno staccarsi neppure una volta da ciò ch’è scritto, veri Azzecca-garbugli, sempre intenti ad analizzare, a sottilizzare, in cerca perpetua di capelli da spaccare in quattro. La vita è ben altra cosa. Lord Palmerston osservava giustamente che, a tagliare le pagine di un libro, un tagliacarte d’osso gli serviva molto meglio di un rasoio affilato. Clemenceau, il tigre, era dello stesso parere, quando, nel dare il giudizio su due ministri del Gabinetto, da lui presieduto, affermava: Poincaré sa tutto, ma non capisce niente! Brianel non sa niente, ma capisce tutto! Direi: cercate insieme di sapere e di capire. Come dicevo dianzi: possedere i princìpi e applicarli alla realtà! E’ l’inizio della prudenza! 

Vostro, BERNARDO DI CHIARAVALLE

***

All’Abate di Chiaravalle. Grazie della lettera. Apprezzato soprattutto lo stimolo a verificare, a riesaminare, a non lasciar stagnare le situazioni, a metter mano a necessarie riforme. Vale per la Chiesa, vale per lo Stato e per il Comune. Sa cos’è successo? mi diceva un sindaco. Un assessore comunale, appena nominato, nota che una guardia civica piantona quotidianamente alcuni sedili del giardino pubblico. Uno spreco, pensa. Potrebbe spiegarsi per proteggere la Banca d’Italia, ma per una decina di modesti sedili! Vuol andare a fondo, e trova... che cosa? Anni addietro i sedili del giardino erano stati verniciati a nuovo. Perché qualcuno non avesse danno dalla vernice fresca, una guardia, con tanto d’ordinanza municipale, era stata assegnata a quel posto. Ci si dimenticò poi di ritirare l’ordinanza. La vernice si asciugò e il piantone rimase a sorvegliare... niente!

Tornando alla prudenza di chi governa, non trovate, padre Abate, ch’essa debba essere qualcosa di dinamico? Platone chiamava la prudenza il cocchiere delle virtù; ebbene, il cocchiere cerca di arrivare alla meta, risparmiando la vita del cavallo, se può; ma se occorre, maneggia la frusta e brucia anche il cavallo pur di arrivare e arrivare in tempo. In altre parole: non vorrei si confondesse la prudenza con l’inerzia, la pigrizia, la sonnolenza, la passività. Essa esclude lo zelo cieco e l’audacia pazza, ma vuole l’azione franca, decisa, audace, quando è necessaria. Ora agisce da freno, ora da acceleratore; ora spinge a risparmiarsi, ora a prodigarsi; ora reprime la lingua, le speranze, le collere; ora le lascia, a ragion veduta, esplodere. Negli anni in cui gli emissari di Cavour lavoravano per la Romagna, venne a Torino Paolo Ferrari, il commediografo e gli disse: "Conte, laggiù non sappiamo più a chi credere: il Buoncompagni predica la prudenza, il La Farina predica l’audacia. Chi, dei due, interpreta il vostro pensiero ed è il vostro vero inviato?". Tutti e due, rispose Cavour, perché occorre un’audacia prudente e una prudenza audace! In attesa di precisazioni, 

Vostro, ALBINO LUCIANI

***

Al Patriarca di Venezia. Fatta qualche riserva sulla serietà della risposta di Cavour, trovo giusto che la prudenza sia dinamica e che spinga all’azione. Sono però da considerare tre tempi: il deliberare, il decidere, l’eseguire. Deliberare vuol dire anelare in cerca di mezzi che conducono al fine: si fa a base di riflessione, di consigli chiesti, di attento esame. Pio XI diceva spesso: "Lasciatemi prima pensare". La Bibbia ammonisce: "Figliolo, non fare nulla senza consiglio". I Proverbi popolari danno colore a tutto questo. "Quattro occhi vedono meglio di due". "Chi falla in fretta, piange adagio". "Presto e bene raro avviene". "La gatta frettolosa ha fatto i micini ciechi". Decidere vuol dire: dopo aver studiato i vari mezzi possibili, mettere la mano su uno: "Scelgo questo, è il più adatto o l’unico realizzabile!".

Non è prudenza l’eterno altalenare, che sospende tutto e lacera l’animo con l’incertezza, e neppure è l’aspettare, per decidere, l’ottimo; si dice che la "politica è l’arte del possibile"; in un certo senso è giusto. L’esecuzione è il più importante dei tre tempi; la prudenza qui si associa alla fortezza nel non permettere lo scoraggiamento davanti alle difficoltà e agli impedimenti. E’ il momento in cui uno si rivela capo e guida. A questo momento alludeva Filippo il Macedone, quando asseriva: "Meglio un esercito di timidi cervi guidati da un leone che un esercito di forti leoni guidati da un cervo! ". Monaco qual sono, mi preme far rilevare che la prudenza è soprattutto virtù, quindi serve solo cause nobili e adotta solo mezzi leciti. Stando a Plutarco, Alcibiade era ossessionato dal bisogno di popolarità voleva ad ogni costo che la gente si occupasse di lui. Languendo a un certo momento l’interesse del pubblico sulle cose sue, cosa fece? Aveva un cane bellissimo, pagato la bellezza di settanta mine; gli tagliò la coda.

E così tutta Atene ebbe occasione di parlare di Alcibiade, delle sue ricchezze, delle sue costose singolarità. Ecco un caso non di prudenza, ma di furbizia, che vedo ripetere da voi con altri mezzi: fotografie fatte pubblicare sui giornali, servizi stampa, discorsi abilmente architettati, dicerie fatte correre con arte. Se poi ci si mette l’astuzia con mezzi non onesti, vi vedo anche alla scuola della volpe, di Ulisse e Macchiavelli. L’astuto parla e le sue parole non sono veicolo, ma velo del pensiero, facendo apparire vero il falso e falso il vero. Ottiene, talvolta, dei risultati. Di solito, però, la cosa non dura. In pellicceria vanno più pelli di volpi che di asini. Quando i furbi vanno in processione, è il diavolo che porta la croce davanti! E scusate la franchezza. 

BERNARDO DI CHIARAVALLE

***

All’Abate di Chiaravalle. Stando all’ultima vostra, ci sarebbero delle pseudoprudenze come la furbizia e l’astuzia menzognere, che avete descritto. A volte, però, non si puònegare che la vita degli uomini pubblici sia difficile senza il ricorso a qualche astuzia. Pensate solo ai candidati politici, che devono persuadere gli elettori a eleggerli fra decine di concorrenti; agli eletti, che devono coltivare l’orticello elettorale in vista, a suo tempo, di una rielezione. La sa che, proprio nella vostra Francia, è uscito da poco un volumetto (Piccione vola) per la bisogna? In primo luogo vi si trova dentro un trattato di bla-bla-bla ossia l’arte di parlare, parlare e parlare fin che s’è trovato qualcosa da dire. In secondo luogo v'è spiegata la tecnica di presentare statistiche, percentuali e numeri, utile specialmente a interpretare i risultati delle elezioni. A proposito di numeri, v’è detto: "La democrazia non è comandata soltanto dalla legge del numero, ma anche da quella della cifra"!

In terzo luogo vi si fa l’autopsia delle frasi belle, ma che non significano nulla. Ecco, però, che ad evitare inconvenienti del genere un altro libro è uscito, vero vademecum, per discorsi e allocuzioni di uomini politici. Pensate! Belle e preparate trentadue formule diverse per commemorare uomini scomparsi, diciassette per condoglianze ai familiari, diciotto per cominciare un brindisi e quattordici per concluderlo! Per i brindisi sono suggerite norme: vanno pronunciati bicchiere in mano e la durata del discorsetto deve variare secondo il grado di ispirazione dell’oratore, l’importanza della persona onorata e la qualità del liquore. Norme anche per gli elogi: non lodare troppo, lodare abbastanza, lodare con garbo, non lodare di traverso. Insomma, un manuale che insegna piccole e quasi innocue astuzie simili alle "spiritose invenzioni" del Lelio goldoniano. Bisognerà pur concederle, non trovate? 

Vostro, ALBINO LUCIANI

***

Al Patriarca di Venezia. Trovo che volete scherzare nelle ultime battute. Io sono per la linea corretta e coerente degli uomini pubblici. Anche, perché essi determinano con la loro condotta l’educazione o la diseducazione dei giovani. D’altronde, essi possono aiutarsi con mezzi leciti ben più efficaci di quelli da lei accennati. La sagacia, per esempio. Il sagace non si lascia abbagliare dalle apparenze e dalle adulazioni: indovina il temperamento, le ambizioni altrui dalla fisionomia, dal gestire; lo spingono ad intervenire subito ed egli sente che non è ancora tempo; gli dicono che è meglio attendere ed egli con un sesto senso fiuta che bisogna invece far presto, e i fatti, più tardi, gli danno ragione. Altro aiuto, la metodicità: essa fa sì che mettiamo il fine prima dei mezzi, leghiamo i mezzi tra di loro, ed a ciascun mezzo diamo il risalto che merita. Le norme ch’essa suggerisce sono migliori di quelle di "Piccione vola" da Voi citato. Eccole: 1)Nel deliberare tenete conto solo dei fatti accertati.

Dico fatti e non opinioni, non dicerie; dico accertati e non soltanto certi, perché, se sono pubblico amministratore, non basta che esistano delle prove valide per me; occorrono prove valide per tutti, che domani si possano esibire e tengano a prova di bomba. Gli inglesi dicono: Un fatto è come il Sindaco di Londra; esso solo cioè ha vera, indiscussa dignità. 2)Tenete presente un epifonema molto usato da noi medioevali: Distingue frequenter! Alla Corte del Re Sole una dama era capace di salutare con un solo inchino ben dieci persone; l’inchino era unico, ma lo sguardo mandava lampi vari e molteplici per dare a ciascuno - duca, marchese o conte che fosse - ciò che gli spettava. Distinguendo, si dice: questo affare è importante, gli darò precedenza assoluta; quest’altro è meno importante, gli do un posto secondario. Le famose "scelte prioritarie"! 3)Vi può servire anche il divide et impera dei Romani. Qui, però, si tratta di dividere le azioni in più tempi e non le persone le une dalle altre.

Il motivo? Non si può far bene più di una cosa alla volta! Ildivide, dunque, si deve applicare anche al lavoro; dividere, distribuendo gli incarichi tra i vari collaboratori. Ma poi adoperarli, questi collaboratori! Non succeda come ai tempi della Triplice Alleanza, quando si diceva: La Triplice è la Duplice cioè Bismark! Pare, con l’aria democratica che tira da voi, che i Bismark, oggi, non piacciano gran che! Un altro aiuto ancora? La previdenza. Napoleone, nel 1800, prima di partire da Parigi per l’Italia, aveva puntato uno spillo su un punto della carta geografica tra Alessandria e Tortona, dicendo: Qui, probabilmente, si concentreranno gli Austriaci. Fu profeta, si concentrarono proprio lì, a Marengo.

Non sarà dote di tutti un dito così fatidico; ma tutti dobbiamo cercare di scorgere da lontano gli effetti delle nostre azioni e calcolare in anticipo gli sforzi e le somme che saranno richieste per una data iniziativa. Il vostro ministro Sonnino, faceva testo in materia di prudenza anche col silenzio; incontrato, pensieroso e meditabondo, da un amico, questi gli disse: "Scommetto che stai pensando a quello che dovrai dire domani alla Camera"! "Oh! no!, - rispose -, sto pensando a quello che non dovrò dire! ". Diceva di lui Luzzatti: A Versailles, Orlando parla tutte le lingue che non sa, e Sonnino tace in tutte le lingue che sa! Può avvenire però, che, nonostante tutte le cure poste, l’impresa vada male. L’uomo pubblico si prepara anche a questa eventualità con misure adeguate.

Il contadino pensa che può venire la grandine e si assicura. Il generale dispone tutto per la vittoria; qualcosa, però, lo tiene preparato anche per il caso deprecato di una sconfitta o di una ritirata. Dice Plutarco che Diogene un giorno si mise a chiedere la carità a una statua di marmo. Naturalmente non ebbe un sesterzio solo, ma egli continuava a chiedere. "Non è tempo perso?", gli domandò qualcuno. "Non è tempo perso -, rispose -; sto abituandomi a ricevere rifiuti!". Prudenza anche questa! Un ultimo consiglio. Non scoraggiatevi troppo! "Sono anni che sudo e lavoro per il Comune. Ce l’ho messa tutta, ho trascurato perfino i miei interessi e la famiglia, accorciandomi la vita con preoccupazioni gravi e persistenti. Ebbene? Mi fanno il vuoto attorno, mi scavano il terreno sotto i piedi, mi attaccano e demoliscono. Facciano, dunque, loro, io mi ritiro in buon ordine!". La tentazione è forte, non sempre è prudente cedervi. E’ vero che è necessaria la rotazione, ma è pur vero che il bene pubblico talvolta esige che chi ha cominciato si faccia le ossa, che chi ha doti ed esperienza resti. Se è doveroso tener presenti le giuste critiche (nessuno è infallibile!), bisogna anche ricordare che neppure Cristo è stato capace di accontentare tutti. Quando si lavora per il pubblico, bisogna non sognare troppi riconoscimenti e plausi, ma prepararsi all’indifferenza e alle critiche dei propri amministrati, che hanno una psicologia curiosa. L’ha descritta Aristide Brianel, più volte primo ministro di Francia.

In un negozio - disse - entra un forsennato con un randello in mano; mena colpi da orbi sul vasellame e riduce tutto in pezzi. La gente si ferma, accorre da ogni parte, ammira la prodezza. Qualche ora dopo capita al negozio un vecchietto con una scatola di resina sotto il braccio; si leva il pastrano, inforca gli occhiali e con una pazienza da certosino si mette - in mezzo a tutti quei cocci - a raccomodare i vasi rotti. State pur certi che nessuno dei passanti si fermerà a guardarlo! 

Vostro, BERNARDO DI CHIARAVALLE

   Ottobre 1971




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"Barone" anche lui? 

    
Dottissimo Santo, I vostri frati stanno preparando una grande celebrazione per il settimo Centenario dalla vostra morte (1274-1974). A quali aspetti della vostra personalità daranno rilievo? Siete stato prima studente poi professore a!l’Università di Parigi, generale dell’Ordine francescano, vescovo e cardinale, oratore ascoltatissimo al Concilio ecumenico di Lione, scrittore di cose teologiche e mistiche con grande risonanza anche nei secoli successivi al vostro. Dove metteranno i frati il dito e l’accento? Non lo so. Se dipendesse da me, tra tutti i vostri libri, sceglierei la Vita di San Francesco e la farei conoscere a largo raggio. Si tratta d’un capolavoro anche letterario. L’avete scritta con animo commosso, con stile insieme elevato e pittorescamente immaginoso. Mentre la componevate, il vostro amico San Tommaso ne presagiva già la bellezza, dicendo: "Lasciamo che un Santo scriva di un altro Santo!". Presagiva, amo pensarlo, anche i grandi frutti spirituali. Scommetto, però, che né Voi né lui presagivate minimamente l’interpretazione, che ne ha fatto l’altro giorno uno studente universitario, parlando con me. "Noi, giovani d’oggi - disse - siamo con San Francesco". "Benissimo", risposi io. "Sì - riprese - come San Francesco ha contestato suo padre, buttandogli in faccia i vestiti, così noi buttiamo in faccia a questa società di sporchi consumi tutto quello che ci ha dato o, meglio, imposto!". Nei tempi in cui studiavate, semplice laico, c’erano a Parigi diecimila studenti universitari: discutevano, chiassavano, tumultuavano e spesso contestavano anch’essi, ma con stile diverso. Lo stile e i problemi dei giovani contestatori nostri sono diversi. Permettete che ve ne dica qua!cosa.

***

Anche ai vostri tempi i giovani volevano, innovando, staccarsi dal passato. Ma oggi essi - meglio, parecchi di essi - predicano la rottura completa col passato, rigettando in blocco società, famiglia, matrimonio, scuola, morale e religione. "Voi volete buttar giù tutto - ho detto all’interlocutore di cui sopra - ma dopo? Cosa metterete al posto delle istituzioni fatte crollare?". M’ha risposto: "Questa è una domanda borghese!". Dunque, i nostri giovani fanno la protesta, ma non fanno la proposta. Direte: "Forse, si tratta di giovani poveri, diseredati; per questo ce l’hanno coi borghesi! "Oh no, si tratta proprio dei figli della borghesia, di giovani, cui spesso non manca proprio nulla. Hanno i mezzi di vivere, ma non hanno ideali, per cui vivere. Direte ancora: "Ci saranno almeno delle ragioni, delle scuse per spiegare questa situazione?". Certo, e tento di indicarvene alcune. Oggi le porte delle Scuole Superiori e delle Università sono spalancate: i giovani vi entrano, in Italia, a centinaia di migliaia ogni anno. Non vi si trova, però, tutto quel che vi si dovrebbe trovare e, in più, non c’è proporzione tra porte d’entrata agli studi e porte d’entrata agli impieghi. Giovani forniti di laurea o diploma non trovano posti adeguati di lavoro e il numero degli intellettuali disoccupati sta per aumentare di molto nei prossimi anni.

La società non ha saputo prevedere questo gravissimo disagio e i giovani se la prendono con la società. 
Non basta. In questa stessa società c’è un tremendo vuoto morale e religioso. Tutti sembrano oggi spasmodicamente protesi verso conquiste materiali: guadagnare, investire, circondarsi di nuove comodità, star bene. Pochi pensano anche a "far bene". Dio - che dovrebbe invadere la nostra vita - è invece diventato una stella lontanissima, cui si guarda solo in certi momenti. Si crede di essere religiosi, perché si va in chiesa, pretendendo poi di condurre fuori chiesa una vita eguale a quella di tanti altri, intessuta di piccole o grandi astuzie, di ingiustizie, di colpe contro la carità, mancando assolutamente di coerenza. I giovani, che invece vogliono la coerenza, non ci stanno. Trovano poi incoerenze, vere o apparenti, nella stessa Chiesa, e rigettano anche questa. E, poiché bisogna pur professare qualcosa, aderiscono a pessime ideologie di moda e al culto spasmodico del sesso, che è una religione a rovescio sotto il nome di "liberazione sessuale od erotica". Non basta ancora.

C’è il culto della libertà. Ma non è la libertà classica di poter fare ciò che si deve fare senz’essere disturbati o di poter scegliere tra una cosa o l’altra. No, è l’indipendenza assoluta. "Sono io solo a decidere ciò che è bene e ciò che è male. Voglio realizzare me stesso senza dipendere da alcuna legge che venga dal di fuori. Chi resiste ai miei desideri, attenta alla mia personalità. Ogni autorità è repressione. Ogni struttura è prigione. Ogni superiore è gendarme". 
Voi, dolcissimo e dottissimo santo, avete insegnato parecchi anni e il magistero vi parve servizio alla verità, agli studenti, alle famiglie. Se veniste oggi! Proprio perché maestro, vi guarderebbero come "mandarino" o "barone", che pretende imporre una sua cultura per incatenare gli alunni al "sistema". Sentireste parlare di "descolarizzazione". Se scuola ha da essere, gli alunni non imparino materie, ma vengano abituati a discutere problemi politici attuali". Dovreste accettare una "gestione sociale" della scuola: avreste a che fare non solo con gli alunni e coi loro genitori, ma anche coi partiti politici e coi sindacati; il tempo di preparare le lezioni vi sarebbe in parte mangiato da lunghe assemblee e discussioni. Mica che questo sia tutto male: il dialogo coi giovani è doveroso, è giusto che le varie componenti sociali si interessino della scuola, e che questa sia una cosa viva, rifuggente da esagerato e barboso nozionismo e astrattismo. E’ solo il troppo, che storpia.

***

Impietosi, dunque, questi ragazzi verso i maestri? Direi di sì. Altrettanto, però, essi si mostrano pietosi, ed è un bene, verso i poveri, gli emarginati, gli esclusi. Essi si dichiarano contro tutte le barriere sociali, contro ogni discriminazione di classe o di razza. Questa è bella generosità: purtroppo, anche qui, essi si trovano di fronte a gravissime ingiustizie, cui si ribellano. Sentono parlare di Nazioni che si dicono cristiane e che tollerano ancora casi di tortura per colpire le idee. Vedono famiglie di operai costrette a vivere con centomila lire al mese, mentre alcuni pochi si arricchiscono straordinariamente non si sa in che modo. Una cantante guadagna in una sola serata due milioni di lire e diventa miliardaria, vendendo i dischi delle sue canzoni. Leggono di aiuti concessi al Terzo Mondo; poi si accorgono che si tratta di poche gocce: i soldi sprecati per armamenti sono straordinariamente superiori e intanto nel Terzo Mondo si continua a soffrire e a morire. C’è davvero di che indignarsi; ma ecco, si esaspera a bella posta questo giusto sdegno giovanile, dipingendo con tinte ancora più scure e sinistre certe nostre società e tacendo le enormità mostruose di altre società presentate, invece, come modello e addirittura come "ideali paesi paradisiaci".

***

Ma non vorrei aver io stesso caricato un po’ le tinte. Non sono tutti così i nostri giovani. Molti badano a lavorare sodo, sono rispettosi, si preparano alla vita con serietà: purtroppo, mentre gli altri parlano e scrivono, questi tacciono. Quegli stessi che contestano, spesso si aspettano molto dagli adulti contestati e restano delusi quando si risponde loro vagamente e dicendo che "si sta ricercando". Bisognerebbe far loro delle proposte concrete. Libertà? Certo, ma, senza Dio, quale libertà? Il progresso, le scienze vi fanno conoscere sempre più come è fatto questo mondo; soltanto la dottrina di Cristo vi dice perché siete al mondo. Un modello? Cristo è una scelta valida, per sempre, per tutti. Egli ha battuto una certa strada e ha detto: seguitemi! Strada un po’ stretta, ma strada di lealtà, di amore verso tutti con piccoli e poveri privilegiati e che sbocca nella "gloria del Padre". Sulla croce, Egli s’è offerto al Padre; facendolo risorgere, il Padre ha dichiarato di accettare l’offerta, ha glorificato l’umanità di Lui e di tutti quelli che sono Suoi, annunciando festosamente che il mondo intero sarà un giorno trasformato in "cieli nuovi e terra nuova". Un mondo da migliorare, battendosi per la giustizia, per togliere le cause dei mali? Certo, ma ciascuno cominci a migliorare se stesso.

E vediamo di non cadere in ingenue utopie; imperfezioni ce ne saranno sempre, in qualunque sistema; non giudichiamo gli uomini senza appello; non dividiamo radicalmente: di qua tutti buoni, di là tutti cattivi; di qua solo lealtà, di là solo sopruso; questo è progressista, quello è conservatore. La vita è molto e sempre complessa: anche i buoni hanno mancanze, anche i cattivi hanno virtù. 
Chiesa infedele? Così l’hanno già chiamata anche i Santi Padri, che, però, specificavano: la santa Chiesa infedele. Fatta di peccatori, infatti, per forza anche la Chiesa è peccatrice, ma essa continua a somministrare validi aiuti ed esempi di santità a tutti quelli che hanno fiducia in lei. Bisogna poi vedere se sono tutte vere le infedeltà che le si rimproverano. Altro è la Chiesa che ha in testa il tal scrittore (magari in buona fede), e altro la Chiesa reale, quale veramente è, fuori della testa di quello stesso scrittore.

***

Dolcissimo San Bonaventura! I contemporanei, che ebbero la fortuna di ascoltarvi, rimasero inebriati dalla vostra parola. Scrissero: "parlava con lingua angelica". Desidererei che parlaste come un angelo ancora: soprattutto ai genitori, agli educatori, ai politici, a tutti coloro che hanno, oggi, la responsabilità dei giovani. E vorrei che diceste: "Non temete alcuna fatica, alcuna giusta riforma, alcuna spesa, alcun dialogo, pur di aiutare questi figlioli. Ciò, per il loro bene, ma anche per il vostro bene. Chi infatti teme fatiche e spese oggi, può pagar caro domani". Tolstoi sarebbe disposto a sottolineare queste ultime vostre parole con una sua parabola. Nel piccolo Principato di Monaco i giudici avevano tanti anni fa condannato alla ghigliottina un furfante, ma poi si accorsero di non avere, per la bisogna, né ghigliottina né boia. Era così piccolo il Principato di Monaco! Chiesero in prestito ambedue le cose alla vicina Francia, ma, sentito il prezzo d’affitto, si spaventarono: "Costa troppo!". Fecero un passo analogo presso il Re di Sardegna. Anche là "costava troppo". Lasciarono dunque il furfante in prigione: ma il carceriere, il cuoco, il cibo del prigioniero venivano pure a costare. "Lasciamo aperta la prigione e che se ne vada per i fatti suoi! ", decisero i giudici. Vista la porta aperta, il prigioniero uscì per una passeggiata lungo il mare. Ma a mezzogiorno andò alla cucina del principe a reclamare il suo pasto.

Così un giorno, due, tre, tanti giorni... la cosa minacciava di pesare forte sul bilancio del Principato. I magnati decisero di chiamare l’uomo: "Non hai ancora capito che te ne devi andare?". E lui: "Me ne vado, me ne vado, però pagatemi! ". Dovettero pagarlo. E così, col pretesto che "costava troppo" e col rimandare sempre, un brigante di più fu in giro per il mondo a combinare malefatte. 
Non si dica dunque "costa troppo"!, se non vogliamo che il brigante della contestazione selvaggia e rivoluzionaria continui a viaggiare per il mondo. Non si rimandino soluzione di problemi, spese e dialoghi. Si parli con questi giovani e cerchiamo di aiutarli con aiuti e metodi nuovi, adatti ai tempi, ma con lo stesso amore appassionato con cui, caro santo, li aiutaste voi, ai tempi vostri.
Dicembre 1973







Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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11/7/2017 10:11 AM
 
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Risultati immagini per san francesco di salesSan Francesco di Sales

Sulla nave di Dio 

    
Dolcissimo Santo, Ho riletto un libro, che vi riguarda: San Francesco di Sales e il nostro cuore di carne. L’ha scritto, a suo tempo, Henry Bordeaux dell’Accademia di Francia. Prima, però, voi avevate scritto di avere voi stesso un "cuore di carne", che s’inteneriva, comprendeva, teneva conto delle realtà e sapeva che gli uomini non sono puri spiriti, ma esseri sensibili. Con questo cuore umano avete amato le letture e le arti, avete scritto con sensibilità finissima, incoraggiando perfino l’amico vescovo Camus a scrivere romanzi. Vi siete chinato verso tutti per dare a tutti qualcosa. Già studente universitario a Padova, vi eravate imposto di non fuggire o abbreviare mai conversazione con alcuno per quanto poco simpatico e noioso; di essere modesto senza insolenza, libero senza austerità, dolce senza affettazione, arrendevole senza contraddire. Avete tenuto la parola. Al padre, che vi aveva scelto per sposa una ricca e graziosa ereditiera, avete amabilmente risposto: "Papà, ho visto mademoiselle, ma essa merita meglio di me!". Sacerdote, missionario, vescovo avete dato il vostro tempo agli altri: fanciulli, poveri, ammalati, peccatori, eretici, borghesi, nobildonne, prelati, prìncipi. Avete avuto, come tutti, incomprensioni e contraddizioni: "cuore di carne" soffriva, ma continuava ad amare i contradditori. "Se una persona mi cavasse per odio l’occhio sinistro - avete detto - sento che la guarderei benevolmente con l’occhio destro. Se mi cavasse anche questo, mi resterebbe il cuore per volerle bene". Molti giudicherebbero questo un vertice. Per voi il vertice è un altro. Avete infatti scritto: "L’uomo è la perfezione dell’universo; lo spirito è la perfezione dell’uomo; l’amore è la perfezione dello spirito; l’amor di Dio è la perfezione dell’amore". Perciò il  vertice, la perfezione e l’eccellenza dell’universo è per voi amare Dio.

***

Siete, dunque, per il primato dell’amore divino. Si tratta di rendere buona la gente? Cominci, questa gente, ad amare Dio; una volta acceso ed affermato nel cuore questo amore, il resto verrà da sé. La terapia moderna dice: non si può guarire una malattia locale, se non si bada a riconquistare la salute di tutto il corpo mediante un’igiene generale e potenti ricostituenti quali la trasfusione di sangue e la fleboclisi. Su questa linea voi avete scritto: "Il leone è un animale potente, pieno di risorse; per questo può dormire senza timore tanto in una tana nascosta quanto sul ciglio di una strada battuta da altri animali". E avete concluso: dunque, diventate leoni spirituali! Riempitevi di forza, di amor di Dio e così non avrete paura di quelle bestie che sono le mancanze. E’ questo - secondo voi - il sistema di Santa Elisabetta d’Ungheria. Questa principessa frequentò per dovere balli e divertimenti di corte, ma ne ricavò vantaggio spirituale invece che danno. Perché? Perché "al vento (delle tentazioni) i grandi fuochi (dell’amor divino) si dilatano, mentre i piccoli si spengono"! I fidanzati di questo mondo dicono: "Il tuo cuore e una capanna!". Trovano più tardi che la capanna, ahimé, non basta e non ci vogliono più stare, perché il cuore s’è raffreddato. Avete scritto: "Appena la regina delle api esce nei campi, tutto il suo piccolo popolo la circonda; così l’amor di Dio non entra in un cuore senza che tutto il corteggio delle altre virtù vi prenda alloggio". Per voi prescrivere le virtù a un’anima priva dell’amor di Dio è prescrivere di punto in bianco l’atletismo a un organismo fiacco. Rafforzare con l’amore di Dio l’organismo, viceversa, è preparare ilcampione e lanciarlo con sicurezza verso le vette della santità.

***

Ma quale amore di Dio? Ce n’è uno fatto di sospiri, di pii gemiti, di dolci sguardi al Cielo. Ce n’è un altro, maschio, franco, fratello gemello di quello che possedeva Cristo, quando nell’orto disse: "Sia fatta non la mia, ma la tua volontà". Questo è l’unico amor di Dio da voi raccomandato. Secondo voi, chi ama Dio, bisogna che s’imbarchi sulla nave di Dio, deciso ad accettare la rotta segnata dai suoi Comandamenti, dalle direttive di chi lo rappresenta e dalle situazioni e circostanze di vita da lui permesse. Voi avete immaginato di intervistare Margherita, quando stava per imbarcarsi per l’Oriente con suo marito san Luigi IX re di Francia: - Dove va, Signora?- Dove va il Re. - Ma sa di preciso dove il Re vada? - Egli me l’ha detto in via generica, tuttavia non mi preoccupo di saper dove vada, mi preme soltanto d’andare con lui. - Ma dunque, Signora, non ha nessuna idea di questo viaggio? - No, nessuna idea, tranne quella di essere in compagnia del mio caro signore e marito. - Suo marito andrà in Egitto, si fermerà a Damietta, in Acri e in parecchi altri siti; non ha intenzione anche lei, Signora, d’andar sola? - Veramente no: non ho altra intenzione che quella d’esser vicina al mio Re; i luoghi dove egli si reca, non hanno per me importanza alcuna, se non in quanto vi sarà lui. Più che andare, io lo seguo; non voglio il viaggio, ma mi basta la presenza del Re. Quel Re è Dio e Margherita siamo noi, se amiamo Dio sul serio. E quante volte, in quanti modi siete ritornato su questo concetto! "Sentirsi con Dio come un bambino sulle braccia della mamma; che ci porti sul braccio destro o sul braccio sinistro è lo stesso, lasciamo fare a Lui". Se la Madonna affidasse il Bambino Gesù a una suora? Ve lo siete chiesto e avete risposto: "La suora pretenderebbe non mollarlo più, ma sbaglierebbe; il vecchio Simeone ha ricevuto sulle braccia il Bambino con gioia, ma con gioia l’ha presto restituito. Così noi non dobbiamo piangere troppo nel restituire la carica, il posto, l’ufficio, quando scade il termine o ce lo richiedono". Nel castello di Dio cerchiamo di accettare qualunque posto: cuochi o sguatteri di cucina, camerieri, mozzi di stalla, panettieri. Se piacerà al Re chiamarci al suo Consiglio privato, vi andremo, senza commuoverci troppo, sapendo che la ricompensa non dipende dal posto, ma dalla fedeltà con cui serviamo. Questoil vostro pensiero. Qualcuno lo considera una specie di fatalismo alla orientale. Ma non è. "La volontà umana - avete scritto - è padrona dei suoi amori, come una signorina è padrona dei suoiinnamorati, che la domandano in sposa. Ciò, prima che essa scelga; fatta però la scelta e divenuta donna sposata, la situazione si capovolge: da padrona che era, diventa soggetta e rimane in balia di colui che fu già sua preda. Anche la volontà può scegliere l’amore a suo piacimento, ma, una volta dichiaratasi per uno, resta sottoposta a questo. E’ però vero che nella volontà esiste una libertà, che non c’è nella donna maritata, poiché la volontà può respingere il suo amore quando vuole", anche l’amore di Dio, eliminando ogni fatalismo.

***

Concludendo, ecco l’ideale dell’amor di Dio vissuto in mezzo al mondo: che questi uomini e queste donne abbiano ali per volare verso Dio con la preghiera amorosa; abbiano anche piedi per camminare amabilmente cogli altri uomini; e non abbiano "grinte fosche", ma bensì volti sorridenti, sapendo di essere avviati verso la gaia casa del Signore! Se vi sentissero i politici! Essi misurano l’azione dal successo. "Riesce? Allora vale!". Voi: "Vale anche non riuscita, l’azione, se fatta per amor di Dio;merito della croce portata non è il suo peso, ma il modo con cui è portata; ci può essere più merito a portare una piccola croce di paglia che una grande croce di ferro; il mangiare, il bere, il passeggiare fatti per amore di Dio possono valere più del digiuno o dei colpi di disciplina". Ma voi avete fatto un passo ancora più avanti, dicendo: l’amore di Dio può - in un certo senso - perfino cambiare le cose, rendendo buone le azioni di per sé indifferenti o anche pericolose. E’ caso del gioco d’azzardo e del ballo (quello dei vostri tempi, naturalmente), se si fa "per svago e non per attaccamento; per poco tempo e non fino a stancarsi e stordirsi; e raramente, in modo che non diventi occupazione invece che ricreazione". Dunque, è alla qualità delle nostre azioni che bisogna badare, più che alla grandezza e al numero! Avete letto ciò che ha scritto Rabelais, vostro quasi contemporaneo, sulle devozioni insegnate al giovane Gargantua? "Ventisei o trenta Messe da ascoltare ogni giorno, una serie di Kyrie eleyson, che sarebbero bastati per sedici romiti"! Se avete letto, avete dato anche la risposta, insegnando alle vostre suore: "E’ bene avanzare, però non con la moltitudine delle pratiche di pietà, ma bensì perfezionandole. L’anno scorso avete digiunato tre volte la settimana; quest’anno volete raddoppiare e la settimana vi basterà. Ma il prossimo anno? Digiunerete - raddoppiando ancora - nove giorni la settimana o due volte al giorno? Fate attenzione! E’ pazzia desiderare di morire martiri nelle Indie e intanto trascurare i propri doveri quotidiani!". In altre parole: non tanto praticare le devozioni, quanto avere ladevozione. L’anima non è tanto una cisterna da riempire, quanto una fontana da far zampillare! E non solo l’anima delle suore. Con questi princìpi la santità cessa di essere privilegio dei conventi e diventa potere e dovere di tutti! Non diventa impresa facile (è la via della croce!), ma ordinaria: qualcuno la realizza con atti o voti eroici alla maniera delle aquile, che planano negli alti cieli; moltissimi la realizzano con l’eseguire i doveri comuni di ogni giorno, in modo però non comune, alla maniera delle colombe, che volano da un tetto all’altro. Perché desiderare i voli d’aquila, i deserti, i chiostri severi, se non vi si è chiamati? Non facciamo come le malate nevrotiche, che vogliono ciliegie d’autunno e uva in primavera! Applichiamoci a ciò che Dio ci chiede secondo lo stato in cui siamo. "Signora, avete scritto, bisogna accorciare un po’ le preghiere, per non compromettere i doveri di casa. Siete sposata, siate sposa totalmente senza eccessiva verecondia; non annoiate i vostri, fermandovi troppo in chiesa; abbiate una devozione tale da farla amare anche a vostro marito, ma ciò avverrà solo se questi vi sentirà sua".

***

Concludendo, ecco l’ideale dell’amor di Dio vissuto in mezzo al mondo: che questi uomini e queste donne abbiano ali per volare verso Dio con la preghiera amorosa; abbiano anche piedi per camminare amabilmente cogli altri uomini; e non abbiano "grinte fosche", ma bensì volti sorridenti, sapendo di essere avviati verso la gaia casa del Signore! 
   Novembre 1972




Risultati immagini per san lucaSan Luca

Proibito proibire 

    
Caro san Luca, Mi siete sempre piaciuto, perché uomo tutto dolcezza e conciliazione. Nel vostro Vangelo avete sottolineato che il Cristo è infinitamente buono; che i peccatori sono oggetto di un amore particolare da parte di Dio, che Gesù quasi ostentatamente ha tenuto rapporti con coloro che non godevano al mondo di considerazione alcuna. Voi solo ci avete dato il racconto della nascita e dell’infanzia di Cristo, che a Natale sentiamo sempre leggere con rinnovata commozione. Una piccola vostra frase soprattutto trattiene la mia attenzione: "Avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia". E’ Ia frase che ha dato origine a tutti i presepi del mondo e a migliaia di stupendi quadri. Alla frase ho accostato una strofa del Breviario:"Ha accettato di giacere sul fieno non ha avuto paura della greppia con poco latte s’è nutrito Lui, che sfama fin l’ultimo degli uccellini".  Fatto questo, mi sono chiesto: "Cristo ha preso quel posto umilissimo. Noi, che posto prendiamo?". Lasciatemi adesso dire le risposte che ho trovato per questa domanda.

*** 

Davanti a Dio, il nostro posto è quello d’Abramo, che diceva: "Oserò io parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere?". Oppure quello del pubblicano, che, sulla soglia del tempio, lontano dall’altare neppure osava alzare gli occhi al cielo, pensando ai tanti peccati commessi. Davanti a un Dio infinito e onnipotente dobbiamo accettare di essere piccolissimi, reprimendo in noi ogni tendenza contraria alla giusta sottomissione. Succede, infatti, che Dio vuole essere imitato da noi in alcune cose, mentre in altre vuol essere unico, inimitabile. Dice: "Imparate da me a essere miti e umili"; "siate misericordiosi com’è misericordioso il Padre mio". Ma dice anche: "Solo a Dio l’onore e la gloria"; "solo Dio è l’Assoluto e l’Indipendente". Noi tentiamo di rovesciare le posizioni: vorremmo noi autonomia, indipendenza, onori e non abbiamo voglia di essere dipendenti, miti e pazienti. Ci facciamo forti, all’uopo, delle "filosofie nuove" (che fra breve saranno vecchie) e della Kultura col K maiuscolo. Il progresso poi ci ha dato alla testa: siamo molto consci di essere andati fin sulla Luna, di avere messo in piedi la civiltà di tutti i consumi e di tutte le comodità. Stavamo, però, dimenticandoci di Colui dal quale proveniva ogni dono di ingegno e di energia, quando dagli sceicchi orientali c’è venuto il duro e brusco richiamo: "Voi del consumismo e dell’opulenza - ci hanno detto -, è finita la cuccagna; petrolio ce n’è ormai solo per una trentina d’anni; chi lo vuole, lo paghi salato; ridimensionatevi; andate in cerca di altre fonti di energia". Il richiamo e i duri momenti che ci aspettano, possono essere utili: da un lato stimolano a nuove ricerche ed a nuove vie di progresso; dall’altro ricordano i limiti di ogni cosa terrena e il dovere di mettere solo in alto le nostre supreme speranze. Ho sentito dire da un "cristiano critico": "Basta con la religione piccolo-borghese, che parla di paradiso e di singole anime salvate. Tutto ciò odora di individualismo capitalista e svia l’attenzione dei poveri dai grandi problemi sociali. Di popolo, di massa, di salvezza comune deve parlare chi predica il Vangelo. Cristo, infatti, è venuto a liberare il popolo dall’esilio della civiltà capitalista per guidarlo alla patria della nuova società, che sta per spuntare". Di vero, in queste parole, c’è solo che il cristiano deve occuparsi, ed efficacemente, dei grandi problemi sociali. Quanto più, infatti, uno è appassionato del "cielo", tanto più deve dare una mano a piantare la giustizia sulla terra. Quanto al resto, capitalista o socialista, la civiltà è per ciascuno di noi solo temporanea; ci viviamo solo di passaggio. La vera nostra patria, cui, condotti da Cristo, ci avviamo - insieme, ma ciascuno con destino proprio - è il Paradiso. Chi non crede al Paradiso è sfortunato: è "senza speranza", direbbe San Paolo, e non ha ancora trovato il senso profondo della propria esistenza.

***

 Davanti al prossimo, il nostro posto è triplice, secondo che si tratta di superiori, di eguali o di inferiori. Ma si può parlare di superiori in questi anni? Si può ancora dire: i figli devono amare, rispettare e ubbidire i loro genitori, i discepoli i loro insegnanti, i cittadini le autorità costituite? Nel Seicento qui, a Venezia, c’era il famoso Carnevale: in quei giorni la gente sembrava impazzire, faceva un po’ quello che voleva e si sfogava, andando - con la complicità della maschera - contro costumi e leggi quasi per rifarsi dei mesi vissuti in obbedienza e morigeratezza. Ho l’impressione che stia succedendo qualcosa di simile. A me non fa tanto paura il sentire che ci sono in giro per il mondo attentati, furti, rapine, sequestri e omicidi. Essi sono sempre esistiti. Fa paura il modo nuovo, con cui molta gente guarda a questi fenomeni. La legge, la norma è considerata una cosa da mettersi in burla o come repressione e alienazione. Si prova un gusto matto a dir male di qualunque legge. L’unica cosa oggi proibita - si dice - è il proibire, e uno che tenti di proibire fa figura di appartenere alla vecchia e sorpassata "società oppressiva". Qualche magistrato nel sentenziare dà l’impressione di aprire arbitrari "pertugi" nella siepe del Codice; molto spesso nella stampa vengono irrise le forze, che hanno il compito di far rispettare l’ordine pubblico. Nello stesso ambiente clericale, nel "buttar giù", una dopo l’altra, leggi ecclesiastiche, si applica in modo allegro ed inatteso il quantum potes tantum aude del "Lauda Sion"! Si moltiplicano inchieste più o meno scientifiche, che sembrano concludersi quasi tutte con questa antifona: "Cara gente, tu sei infelice nella situazione attuale; se vuoi essere felice, devi cambiare tutto e rovesciare le strutture". Ci si mette anche la psicologia, scienza che spiega i fatti umani. Ebbene? Gli adùlteri, i sadici, gli omosessuali dagli "psicologi del profondo" sono praticamente quasi sempre scusati: la colpa è dei genitori, che non hanno amato come dovevano i loro teneri e angelici rampolli. Tutta una letteratura pare aver per parola d’ordine: "dàgli al padre!" e rende il padre responsabile quasi di tutto. Un’altra letteratura, propagandando una liberalizzazione completa da ogni legge, chiede contraccezione senza freni, aborto a piacimento della madre, divorzio a volontà, relazioni prematrimoniali, omosessualità, uso di stupefacenti. E’ una mareggiata, una specie di ciclone, che s’avanza, caro San Luca; di fronte ad essi cosa può fare un povero vescovo? Può concedere che in passato la legge è stata spesso un assoluto, una specie di altare sul quale veniva un po’ troppo sacrificata la persona. Prende atto che a volte sono i genitori stessi ad allentare ogni briglia sul collo dei figli "non voglio che mio figlio conosca il rigore che hanno fatto subire a me!". Ammette che gli stessi genitori hanno talora dimenticato il monito di "non essere troppo esigenti coi propri figli" (Col. 3, 21). Sa benissimo che l’esercizio di ogni autorità è un servizio e va eseguito in stile di servizio. Ha presenti le parole di San Pietro: Agite "da veri uomini liberi, che non si servono della libertà come velo della malizia, ma sono servitori di Dio" (1 Pt. 2, 16). Queste parole escludono il cosiddetto "potere" e reclamano un’autorità promotrice di libertà; non vogliono un’obbedienza servile. bensì un’obbedienza adulta, attiva e responsabile. Ma dopo? Dopo deve confidare in Dio, richiamando con fermezza la parola divina: "Chi teme Dio onora il padre... Figlio mio, con parole con fatti onora tuo padre" (Sir. 3, 7. 8). "Figli, obbedite ai vostri genitori in tutto ciò ch'è gradito al Signore" (Col. 3, 20). "Ognuno stia soggetto alle autorità in funzione, perché non v’è autorità se non da Dio... sicché, chi si ribella all’autorità, si ribella all’ordinamento divino" (Rom. 13, 1-2). "Raccomando che si facciano suppliche, preghiere... per tutti gli uomini, per i re e per coloro che sono costituiti in autorità" (I Tim. 2, 1). "Siate obbedientie cedevoli ai vostri superiori, affinché, dovendo essi, come responsabili, vegliare sopra le vostre anime, lo facciano con gioia e non gemendo" (Ebrei 13, 17).

*** 

Ci sono poi i nostri eguali. Di fronte ad essi il dovere è: essere semplici, evitare la singolarità, la smania esagerata di distinguersi. La tendenza, a volte, sarebbe non di fare quello che fanno gli altri, ma di fare quello che gli altri non fanno; di contraddire alle loro affermazioni; di sdegnare ciò ch’essi ammirano; d’ammirare ciò che essi sdegnano. Qualcuno vuole segnalarsi per l’eleganza, il lusso, i colori vivaci, la sfarzosità dei vestiti, qualche altro per il linguaggio originale e ricercato. Un anello in dito, un ricciolo che spunta di sotto il cappellino, una penna sul cappello d’alpino rende qualcuno fiero in maniera incredibile. Cose in sé non gravi - intendiamoci -, ma spesso diventano mezzucci per mettersi in mostra, far meravigliare gli altri e nascondere la propria mediocrità. L’uomo semplice e schietto, invece, non cerca di apparire più ricco, più colto, più pio, più nobile, più potente di quello che èEssere ciò che deve, parere ciò che èvestire secondo la propria condizione, non mettersi volutamente in mostra, non offuscare nessuno, ecco i suoi propositi. Gesù li ha approvati e raccomandati in anticipo e Voi, caro San Luca, ce li avete conservati: "Sedete all’ultimo posto"; "guai a voi, che cercate i primi seggi nelle sinagoghe e i salamelecchi nelle piazze".

*** 

Ci sono infine gli inferiori, o meglio, quelli che sono più sfortunati di noi, perché malati o poveri o tribolati o peccatori. Verso di essi c’è il dovere dell’efficace amore cristiano, che deve portarsi su ciascuno e anche sul gruppo o la classe che essi formano. Qui noto oggi due posizioni sbagliate. Dice qualcuno: io amo e aiuto il povero singolo e basta: non m’interessa la "classe" dei poveri. Dice un altro: io invece mi batto solo per tutta la classe dei poveri, per tutti gli emarginati, per il Terzo Mondo; curare i singoli poveri colla piccola carità non giova, anzi ritarda la rivoluzione definitiva. Al primo rispondo: bisogna anche amare efficacemente i poveri che, uniti insieme e organizzati, stanno lottando per migliorare la loro situazione. Bisogna fare come Cristo, che ha amato tutti, ma ha privilegiato i poveri di intenso amore. Al secondo dico: è bene avere scelto la causa dei poveri, degli emarginati, del Terzo Mondo. Attento, però, con la scusa dei poveri lontani ed organizzati, a non trascurare i poveri vicini. Povera vicina è la tua mamma: perché la disobbedisci e strapazzi? Povero vicino è il tuo professore: perché sei con lui così irrispettoso ed impietoso? E perché hai impedito con la violenza e il picchettaggio al tuo compagno di scuola di entrare con te in classe, col pretesto che egli ha idee politiche opposte alle tue? Sei per la grande causa della pace. Benissimo, ma attento che non si verifichino le parole di Geremia profeta: "Van dicendo: pace, pace, ma di pace non c’è neanche l’ombra!" (cfr. Ger. 6,14 e 11). La pace, infatti, costa: non si fa a parole, ma con sacrifici e rinunce amorose da parte di tutti. Non è neppure possibile ottenerla coi soli sforzi umani: occorre l’intervento di Dio. E’ il monito natalizio degli angeli: una delle cose più belle, che Voi, caro San Luca, abbiate mai "registrato": "Pace sulla terra per gli uomini che Dio ama!". 
Marzo1974





San Romedio

La bocca sporca 

    
Caro Orso di San Romedio, "Ogni buon ladrone ha la sua devozione". E’ questo il motivo per cui un mese fa, passando per San Zeno in Val di Non, mi son detto: "A due chilometri da qui, in fondo ad una valle corta, incassata fra rocce altissime che fanno pensare ai canyons del Colorado, c’è il santuario di San Romedio: ci sono andati, facendo a piedi decine di chilometri, i tuoi nonni; vacci anche tu, che sei in auto!". E sono andato. Suggestivo il santuario dalle sei chiese sovrapposte e dalla terrazza che domina lo strapiombo impressionante. Interessanti la figura e i ricordi del santo eremita. Ma simpatico anche tu, caro Orso! La statua del Perathoner ti presenta tenuto al guinzaglio, tutto mansueto e addomesticato, dal Santo.Mi hanno spiegato: secondo la leggenda, ritornando dal pellegrinaggio di Roma, Romedio si era fermato coi suoi due fedeli compagni Abramo e Davide, a riposare. A un certo momento dice a Davide: "E’ tempo di riprendere il cammino, va’ a prendere i nostri cavalli, che pascolano nel prato vicino". Il compagno torna esterrefatto: un orso sta giusto divorando il cavallo di Romedio. Questi accorre, vede e, senza turbarsi, dice a te, Orso: "Avevi fame, si vede, mi mangi il cavallo e sta bene, però devi sapere che io non ce la faccio a tornare a casa a piedi; mi farai tu da cavallo! ". Detto, fatto: ti adatta la sella, i finimenti e la bardatura della bestia divorata, monta in groppa come tu fossi la più pacifica di tutte le mule di questo mondo e, via verso Trento! Ritornando dal santuario, lo credi?, la mia preghiera è stata: "0 Signore, addomestica me pure, rendimi più servizievole e meno orso!". Non te la prendere per questa ultima espressione: per noi uomini, voi, orsi bruni e neri, dal corpo lungo, dalle zampe corte, grosse e dal pelame foltissimo, siete degli esseri maldestri e meleganti. Noi, al confronto, ci consideriamo infinitamente gentili, snelli e slanciati. Se ti metti a ballare, tu combini solo dei disastri, laddove le nostre danze sono un miracolo di grazia, di musica e le silfidi del nostro "balletto" sono talmente leggere e agili da poter danzare sui fiori dei prati senza piegarli. Eppure? Eppure ieri sono stato tentato di capovolgere la preghiera di un mese fa in quest’altra: "Signore, facci diventare tutti orsi!". M’è capitato, infatti, di udire delle brutte bestemmie. "E allora, mi sono detto, cosa conta vestire tanto eleganti, calzare scarpette finissime, portare cravatte all’ultima moda, pettinarsi con tanta raffinatezza, se dalla nostra bocca escono poi parole così volgari? Meglio essere goffi come orsi, ma non avere la bocca così sporca!". Tanto più che si tratta di un fenomeno estesissimo, in Italia, di una vera epidemia: 15 milioni di bestemmiatori italiani abituali con un miliardo circa di bestemmie al giorno. Parte di questi rassomigliano psicologicamente al "dispettoso e torvo" Capanéo di Dante, che lancia a Dio fiere frasi di sfida e di dispetto. Altri annacquano un po' le loro espressioni blasfeme. "Esiste ancora un Dio?", dicono, "Smettila di parlarmi di un Dio buono e giusto!", "La religione è solo una grande bottega! ", "Il diavolo ne sa più di Dio!". E’ una fortuna che, a volte, il cuore di chi pronuncia non sia d’accordo con la bocca e che circostanze varie escludano una vera profonda intenzione di offendere Dio. A volte la gravità dell’espressione è attenuata dalla sconsideratezza, dalla preoccupazione, dall’ignoranza; come nel caso di Irene Papovna, che s’era presentata a Mosca per un esame di concorso magistrale. Il tema da svolgere era: "Analizzate l’iscrizione scolpita sulla tomba di Lenin". La maestrina non ricorda bene, le pare e non le pare che l’iscrizione leniniana suoni "La religione è l’oppio del popolo". Come cavarsela? Arrischia, fa l’analisi che può e, consegnato il compito, corre alla Piazza Rossa, davanti al Mausoleo Leniniano, a verificare. Riscontrato di aver azzeccato, esclama entusiasticamente: "Caro buon Dio! E voi Vergine Santa di Kazan! Grazie di avermi fatto ricordare l’iscrizione!".

***

Caro Orso! Tu non lo sai, ma su bestemmia e turpiloquio c’e ormai un vocabolario concordato e accettato, realistico e icastico, anche se non sempre indovinato. Ad esempio, chiamano moccoli le bestemmie. Ma i moccoli fanno un po’ di luce; la bestemmia è parola nera, "morta gora", acqua stagnante, gas asfissiante. "Linguaggio da lavandaie" è chiamato il turpiloquio femminile. Ma la frase è vera solo se il termine "lavandaia" è preso come parte del tutto; se cioè, in grazia di quella figura retorica che si chiama "sineddoche", esso significa anche professoresse, studentesse, operaie, impiegate, dattilografe, ecc. Di tutte queste persone, una volta si diceva: "Diventano rosse, perché si vergognano"; di alcune tra esse oggi si deve dire: "Si vergognano, perché diventano rosse". Si dice anche: "Bestemmia come un turco", ma è una calunnia: i turchi, non bestemmiano. In Francia, in Svizzera, in Germania, invece, si usa dire, purtroppo con fondamento: "Bestemmia come un italiano". Si tratta dunque di una diffusa malattia. Quale diagnosi? Primo sintomo, la grande superficialità. Chi ragiona non bestemmia e chi bestemmia non ragiona. 0 c’è, infatti, questo Dio bestemmiato o non c’è. Se non c’è, il bestemmiarlo è vano; se c’è, bestemmiarlo è insano, perché raglio d’asino non penetra in cielo!". Si possono capire (non scusare) altri peccati: il ladro in fin dei conti mette le mani su un portafoglio pieno di soldi; l’ubriacone su una bottiglia di buon vino; ma il bestemmiatore su che cosa mette mano? Secondo sintomo, lo scarso senso di responsabilità. Oltre Dio, infatti, c’è il prossimo. Tu, caro Orso, famoso per la tenerezza verso i tuoi nati, dovresti dire ai capi famiglia: bestemmiando, tu addolori la moglie e la figlioletta, scandalizzi il figlio, che viene spinto a copiare l’esempio del padre. Che guadagni? "Guadagno, mi son sentito dire, perché, bestemmiando, protesto contro le cose che vanno male, do forza al discorso, lascio esplodere l’ira". Le proteste? Si fanno, quando sono utili e ragionevoli. Ma il motore dell’auto, che prima non andava, si mette forse in moto appena cominci a prendertela con Dio? Sottolineare il discorso? D’accordo, a patto che si faccia con frasi non irrispettose. "Orco cane! Orca l’oca!" e mule altre simili frasi sono insieme innocenti e dinamiche. Lo dimostrò a certi contadini un bravo parroco australiano, che un bel giorno si presentò nei campi, prese in mano l’aratro e, facendo schioccare la frusta, gridò ai buoi con voce stentorea: "Sì, arcangeli dolcissimi! Da bravi, miei sublimi cherubini! A voi, sfolgoranti serafini!". A questi ordini mistico-celesti i buoi lentamente si alzarono e, benché perplessi, cominciarono a tirare! Quanto all’ira, essa va repressa e non fatta esplodere, se è vero che dobbiamo essere non i servi, ma i dominatori delle nostre passioni.

***

A ogni diagnosi deve seguire una terapia. Nel nostro caso, piccolo, utile "impiastro" o cataplasma può essere la moderata e adatta reazione dei "benpensanti". Quel fraticello tutto simile al tuo San Romedio, se ne stava nello scompartimento di un treno a sentire, impotente e addolorato, le bestemmie pronunciate a gara da due giovani non educati, quando uno di questi, scherzando, disse: "Padre, devo darle una brutta notizia: è morto il diavolo!". "Mi dispiace tanto e vi pongo le mie sincere condoglianze!" rispose il fraticello. "Condoglianze! E perché?" fecero insieme i due giovani. "Perché provo tanta compassione per voi che siete rimasti orfani!". Il fraticello si era lasciato andare ad un po’ di ironia. Quello che dobbiamo sentire per i bestemmiatori, specialmente giovani, non è ironia, ma interessamento, comprensione, desiderio e offerta di aiuto. Quanti siamo ad essi compagni, amici, superiori, parenti, con tatto, delicatezza e rispetto alla loro personalità, dobbiamo loro, secondo i casi, il consiglio amichevole, la garbata rimostranza, il rimprovero, talvolta anche il castigo. Il vero rimedio, però, è che essi stessi si impegnino a togliersi di dosso la cattiva abitudine con decisione ferma e perseverante, operando all’inverso dell’Ortolano di Trilussa. Quest’ortolano,"se j’annava un pelo a l’incontrario... cominciava appunto a biastimà: Corpo de...! sangue de...! managgia la...!".   Ma un giorno, mentre appunto bestemmiava, "... scappò fora er Diavolo che l’agguantò da dove l’impiegati ci hanno il pantalon più logorati".Sentendosi trasportato per aria, pieno di paura, "l’Ortolano diceva l’orazione... Dio! Cristo santo! Vergine Maria! M’arricomanno a voi! Madonna mia!". "Er diavolo, a sti nomi, è naturale che aprì la mano e lo lasciò de botto: l’Ortolano cascò, come un fagotto sopra un pajone senza fasse male. L’ho avuta bòna! disse ner cascà; Corpo de...! sangue de...! managgia la. . . !"  

***

Caro Orso di San Romedio! Trilussa scherzava e voleva dire che bisogna fare il contrario: promettere di non bestemmiare e poi mantenere sul serio. Spalanca le tue fauci e dal santuario dillo più forte che puoi a tutti gli Italiani! 
   Dicembre 1972





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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11/7/2017 10:15 AM
 
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Risultati immagini per teresa avilaSanta Teresa D'Avila

Teresa, un soldo e Dio 

    
Cara Santa Teresa, Ottobre è il mese della vostra festa: ho pensato che mi permettereste di intrattenermi per iscritto con Voi. Chi guarda a! famoso gruppo marmoreo, nel quale il Bernini vi presenta trasverberata dalla freccia del Serafino, pensa alle vostre visioni ed estasi. E fa bene: la Teresa mistica dei rapimenti in Dio è pure una vera Teresa. Ma è vera anche l’altra Teresa, che mi piace di più: quella vicina a noi, quale risulta dall’autobiografia e dalle lettere. E’ la Teresa della vita pratica; che prova le stesse nostre difficoltà e le sa superare con destrezza; che sa sorridere, ridere e far ridere; che si muove con spigliatezza in mezzo a! mondo ed alle vicende più diverse e tutto ciò in grazia delle abbondanti doti naturali, ma più ancora della sua costante unione con Dio. Scoppia la Riforma protestante, la situazione della Chiesa in Germania e in Francia è critica. Voi ve ne accorate e scrivete: "Pur di salvare un’anima sola delle molte che là si perdevano, avrei sacrificato mille volte la vita. Ma ero donna!".

Donna! ma che vale venti uomini, che non lascia intentato alcun mezzo e che riesce a realizzare una magnifica riforma interna e con l’opera e gli scritti influisce su tutta la Chiesa; la prima e l’unica donna che, con Santa Caterina, sia stata proclamata Dottore della Chiesa! Donna dalla lingua schietta e dalla penna forbita e tagliente. Avevate un altissimo concetto della missione delle monache, ma avete scritto a padre Graziano: "Per amor di Dio, badi bene a quello che fa! Non creda mai alle monache, perché se esse vogliono una cosa, tentano tutti i mezzi possibili". E a padre Ambrogio, rifiutando una postulante, dite: "Lei mi fa ridere, dicendomi di avere compreso quell’anima solo a vederla. Non è tanto facile conoscere le donne!". E’ vostra la lapidaria definizione del diavolo: "Quel povero disgraziato, che non può amare". A don Sancho Davila: "Distrazioni nella recita dell’Ufficio divino ne ho anch’io... me ne sono confessata da padre Domenico (Bañez, teologo famoso, n.d.a.), il quale mi ha detto di non farne caso. Altrettanto dico a lei, perché il male è incurabile".

E’ un consiglio spirituale, questo, ma di consigli ne avete sparsi a piene mani e di tutti i generi; a padre Graziano, avete perfino dato il consiglio di cavalcare nei suoi viaggi un ciuco più dolce, che non avesse il vezzo di scaraventare i frati a terra, oppure di farsi legare al ciuco stesso per non cascare! Insuperabile, però, apparite nel momento della battaglia. Il Nunzio, nientemeno, vi fa rinchiudere nel convento di Toledo, dichiarandovi "femmina inquieta, vagabonda, disobbediente e contumace...". Ma dal convento vostri messaggi a Filippo II, a principi e prelati sciolgono ogni matassa. Vostra conclusione: "Teresa da sola vale nulla; Teresa e un soldo valgono meno di nulla; Teresa, un soldo e Dio possono tutto!".

***

Per me, Voi siete un caso notevole di un fenomeno, che si ripete regolarmente nella vita della Chiesa Cattolica. Le donne cioè, di per sé, non governano, questo appartiene alla Gerarchia, ma molto spesso ispirano, promuovono e talvolta dirigono. Da una parte, infatti, lo Spirito “spira dove vuole”; dall’altra, la donna è più sensibile alla religione e più capace di darsi generosamente alle grandi cause. Di qui la schiera grandissima di sante, di mistiche e di fondatrici apparse nella Chiesa Cattolica. Accanto ad esse bisognerebbe annoverare le donne, che hanno avviato movimenti ascetico-teologici, i quali influirono su raggio molto vasto. La nobile Marcella, che diresse sull’Aventino una specie di convento composto di patrizie ricche e colte, collaborò con San Girolamo alla traduzione della Bibbia. Madame Acarie influenzò illustri personaggi come il gesuita Coton, il cappuccino de Canfelt, lo stesso Francesco di Sales e molti altri, influendo su tutta la spiritualità francese del primo Seicento.

La principessa Amalia di Gallitzin, dal suo “Circolo di Münster”, apprezzato perfino da Goethe, diffuse su tutta la Germania settentrionale una corrente di vita intensamente spirituale. Sofia Swetchine, russa convertita, nel primo Ottocento, apparve in Francia la “direttrice spirituale” dei laici e dei sacerdoti più rappresentativi. Potrei citarne altri casi, ma ritorno a Voi che, più di figlia, siete stata madre spirituale di San Giovanni della Croce e dei primi Carmelitani riformati. Oggi è tutto chiaro e liscio in proposito, ma ai vostri giorni ci fu lo scontro sopra accennato. Da una parte c’eravate Voi, ricca di carismi, forze ardenti e luminose concessevi per la Chiesa di Dio; dall’altra c’era il Nunzio ossia la Gerarchia che doveva giudicare l’autenticità dei vostri carismi. In un primo momento, poste le informazioni distorte, il giudizio del Nunzio fu negativo. Una volta date le necessarie spiegazioni ed esaminate meglio le cose, queste si chiarirono: la Gerarchia approvò tutto e i vostri doni poterono espandersi a favore della Chiesa.

***

Ma di carismi e di Gerarchia si sente parlare tanto anche oggi. Specialista quale foste in materia, mi permetto di attingere dalle vostre opere i seguenti principi. 
1.      Al di sopra di tutto c’è lo Spirito Santo. Da Lui vengono sia i carismi sia i poteri dei Pastori; allo Spirito spetta realizzare l’accordo armonico tra Gerarchia e carismi e promuovere l’unità della Chiesa. 

2.      Carismi e Gerarchia sono entrambi necessari alla Chiesa, ma in modo diverso. I carismi agiscono da acceleratore, favorendo il progresso e il rinnovamento. La Gerarchia deve fare piuttosto da freno, a favore della stabilità e della prudenza. 

3.      A volte carismi e Gerarchia si incrociano e sovrappongono. Certi carismi, infatti, sono dati precipuamente ai Pastori come i “doni di governare” ricordati da San Paolo nella prima lettera ai Corinzi. Viceversa, dovendo la Gerarchia regolare tutte le tappe principali della vita ecclesiale, i carismatici non possono sottrarsi alla di lei guida col pretesto che hanno dei carismi. 

4.      I carismi non sono caccia riservata di nessuno: possono essere dati a tutti: preti e laici, uomini e donne. Altra cosa però è poter avere, altra avere di fatto i carismi. 
Trovo scritto nel vostro libro delle Fondazioni (c. VIII, n. 7): "Una penitente affermava al confessore che la Madonna andava spesso a trovarla e si intratteneva a parlarle più di un’ora, rivelandole il futuro e molte altre cose. E siccome tra tante stramberie ne usciva vera qualcuna, si riteneva tutto per vero. Intesi subito di che si trattava... ma mi contentai di dire al confessore che attendesse l’esito delle profezie, che si informasse del genere di vita della penitente ed esigesse altri segni di santità. Infine... si vide che erano tutte stravaganze".

***

Cara Santa Teresa, se veniste oggi! Il nome “carisma” si spreca; si distribuiscono patenti di “profeta” a tutto spiano, attribuendo questo titolo anche agli studenti che affrontano la polizia sulle piazze o ai guerriglieri dell’America Latina. Si pretende di opporre i carismatici ai Pastori. Che ne direste Voi, che obbedivate ai confessori anche quando i loro consigli risultavano opposti a quelli dativi da Dio nell’orazione? E non crediate che io sia pessimista. Quello di veder carismi dappertutto spero sia solo un andazzo passeggero. D’altra parte, so bene che i doni autentici dello Spirito sono sempre stati accompagnati da abusi e da falsi doni; ciononostante la Chiesa è andata avanti lo stesso.

Nella giovane Chiesa di Corinto, per esempio, c’era una grande fioritura di carismi, ma San Paolo se ne preoccupò alquanto per qualche abuso riscontrato. Il fenomeno si ripeté in seguito in forme aberranti più vistose. Due donne, Priscilla e Massimilla, sostenitrici e finanziatrici del Montanesimo in Asia, cominciarono col predicare “carismaticamente” un risveglio morale fatto di grandi austerità, di rinuncia totale al matrimonio, di prontezza assoluta al martirio. Finirono per contrapporre ai vescovi i “nuovi profeti”, uomini e donne, che “investiti dallo Spirito”, predicavano, amministravano i sacramenti, aspettavano il Cristo, che da un momento all’altro sarebbe dovuto venire ad inaugurare il regno millenario. Al tempo di Sant’Agostino ci fu Lucilla di Cartagine, ricca signora, che il vescovo Ceciliano aveva sgridato perché, prima della Comunione, era solita stringere al petto un piccolo osso non si sa di quale martire. Irritata e risentita, Lucilia indusse un gruppo di vescovi ad opporsi al suo vescovo: perso un processo presso l’episcopato africano, il gruppo protestò, senza successo, presso il papa, poi presso il Concilio di Arles, poi presso lo stesso imperatore e iniziò una chiesa nuova. In quasi tutte le città africane si videro così due vescovi, due cattedrali frequentate da due opposte categorie di fedeli che, incontrandosi, si davano botte: di qua i cattolici, di là i donatisti seguaci di Donato e di Lucilla.

I donatisti si chiamavano i “puri”; non si sedevano a! posto occupato prima da un cattolico senza averlo pulito con la manica; evitavano come appestati i vescovi cattolici; si appellavano al Vangelo contro la Chiesa, che dicevano sostenuta dall’autorità imperiale; istituirono squadre d’assalto. Il mitissimo Sant’Agostino dovette una volta apostrofarli: "Ci tenete tanto al martirio, perché non prendete una corda per impiccarvi?". Nel secolo XVII ci furono le monache di Port Royal. Una delle loro Abbadesse, Madre Angelica, era partita bene: aveva “carismaticamente” riformato se stessa e il monastero, respingendo dalla clausura perfino i genitori. Fornita di grandi doti, nata per governare, diventò però l’anima della resistenza giansenista, intransigente fino all’ultimo davanti all’autorità ecclesiastica. Di lei e delle sue monache si diceva: "Pure come angeli, superbe come demoni". Quanto è lontano tutto questo dal vostro spirito! Quale abisso tra queste donne e Voi! "Figlia della Chiesa" era il nome che vi piaceva di più. Lo mormoraste sul letto di morte, mentre, durante la vita, per la Chiesa e con la Chiesa avevate tanto lavorato, accettando perfino di soffrire qualcosa dalla Chiesa! Se insegnaste un po’ il vostro metodo alle “profetesse” di oggi?!
Ottobre 1974




Risultati immagini per teresa di lisieuxSanta Teresa di Lisieux

La gioia, carità squisita 

    
Cara piccola Teresa, Avevo diciassette anni, quando lessi la vostra autobiografia. Fu per me un colpo di fulmine. "Storia di un fiorellino di maggio" l’avevate definita. A me parve la storia di una "spranga d’acciaio" per la forza di volontà, il coraggio e la decisione, che da essa sprizzavano. Scelta una volta la strada della completa dedizione a Dio, niente v’ha più sbarrato il passo: né malattia, né contraddizioni esterne, né nebbie e tenebre interiori. Me ne ricordai, quando mi portarono ammalato al sanatorio, in anni in cui, penicillina e antibiotici non essendo ancora stati inventati, al degente si prospettava, più o meno vicina, la morte. Mi vergognai di provare un po’ di paura: "Teresa ventitreenne, fino allora sana e piena di vitalità, mi dissi, fu inondata di gioia e di speranza, quando sentì salire alla bocca la prima emottisi. Non solo, ma, attenuando il male, ottenne di portare a termine il digiuno con regime di pane secco e acqua, e tu vuoi metterti a tremare? Sei sacerdote, svegliati, non fare lo sciocco!".

***

Rileggendovi, in occasione del centenario della nascita (1873-1973), mi colpisce invece il modo con cui avete amato Dio e il prossimo. Sant’Agostino aveva scritto: "Andiamo a Dio non col camminare, ma con l’amare". Anche Voi chiamate la vostra strada "via dell’amore". Cristo aveva detto: "Nessuno viene a me, se il Padre mio non l’attira". In perfetta linea con queste parole, Voi vi siete sentita come un "uccellino senza forza e senz’ali"; in Dio, invece, avete visto l’aquila, che scendeva per portarvi alle altezze sulle proprie ali. Chiamaste la grazia divina "ascensore", che vi innalzava a Dio presto e senza fatica, essendo Voi "‘troppo piccola per salire l’aspra scala della perfezione". Ho scritto sopra: "senza fatica". Intendiamoci: ciò, sotto un aspetto; sotto un altro invece... Siamo agli ultimi mesi; la vostra anima avanza in una specie di galleria oscura, non vede niente di quel che prima vedeva chiaramente. "La fede, Voi scrivete, non è più un velo, ma un muro!". Le sofferenze fisiche sono tali da farvi dire: "Se non avessi avuto la fede, mi sarei data la morte". Ciononostante, continuate a dire con la volontà al Signore che lo amate: "Canto la felicità del Paradiso, ma senza provar gioia; canto semplicemente che voglio credere". Le ultime vostre parole sono state: "Mio Dio, io vi amo!". 

All’amore misericordioso di Dio vi eravate offerta come vittima. Tutto ciò non vi impediva di godere delle cose belle e buone: prima dell’ultima malattia con gioia dipingeste, scriveste poesie e piccoli drammi sacri, interpretandone qualche parte con gusto di fine attrice. Nell’ultima malattia, in un momento di ripresa, chiedeste dei pasticcini al cioccolato. Non avevate paura delle vostre stesse imperfezioni, neppure dl esservi talvolta addormentata per stanchezza durante la meditazione ("i bambini piacciono alle mamme anche quando dormono"!). Amando il prossimo, vi sforzaste di rendere i piccoli servigi utili ma inosservati, e di preferire, semmai, le persone che vi davano noia e meno incontravano il vostro genio. Dietro il loro volto poco simpatico cercavate il volto simpaticissimo di Cristo. E non ci s’accorgeva di questo sforzo e di questa ricerca: "Quant’è mistica in cappella e nel lavoro, scriveva di Voi la priora, altrettanto è buffa e piena di trovate, fino a farci scoppiar dal ridere, in ricreazione". Queste poche linee, che ho tracciate, son ben lontane dal contenere il vostro completo messaggio ai cristiani. Bastano, tuttavia, a segnar alcune direttive per noi. ***Il vero amor di Dio si sposa con la ferma decisione presa e, al bisogno, rinnovata. L’indeciso Enea del Metastasio, che dice: "Intanto confuso, nel dubbio funesto, non parto, non resto" non era stoffa da vero amore di Dio. Più adatto, semmai, il vostro compatriota maresciallo Foch, che durante la battaglia della Marna, telegrafava: "Il centro del nostro esercito cede, la sinistra si ritira, ma io attacco lo stesso!". Un po’ di combattività e di amore al rischio non guasta nell’amore al Signore. Voi ce l’avevate: non per niente sentiste in Giovanna d’Arco una "sorella d’armi". 

Nell’Elisir d’amore di Donizetti basta la "furtiva lacrima", spuntata sulle ciglia di Adina, a rassicurare e fare beato l’innamorato Nemorino. Dio non si accontenta di sole furtive lacrime. Una lacrima esterna in tanto gli piace, in quanto ad essa corrisponde dentro, nella volontà, una decisione. Così è anche delle opere esterne: esse piacciono al Signore, solo se corrisponde loro un amore interno. Il digiuno religioso aveva addirittu­a fatto sterminio sulle facce del Farisei, ma a Cristo non piacquero quelle smunte facce, perché trovava che il cuore dei Farisei era lontano da Dio. Voi avete scritto: "L’amore non deve consistere nei sentimenti, ma nelle opere". Avete però soggiunto: "Dio non ha bisogno delle nostre opere, ma solo del nostro amore". Perfetto! Con Dio si può amare un sacco di altre belle cose. A un patto: niente sia amato contro o sopra o nella stessa misura di Dio.

In altre parole: l’amore a Dio non dev’essere esclusivo, ma prevalente, almeno nell’estimazione. 
Giacobbe un giorno si innamorò di Rachele: per averla, prestò servizio ben sette anni, che "gli parvero, dice la Bibbia, pochi giorni, talmente l’amava" e Dio non ebbe niente a ridire, anzi approvò e benedisse. Spruzzare d’acqua santa e benedire tutti gli amori di questo mondo è un’altra cosa. Purtroppo, tenta di farlo oggi qualche teologo, il quale, influenzato dalle idee di Freud, Kinsey e Marcuse, inneggia alla "nuova morale sessuale". Se non vogliono la confusione e lo spappolamento, invece che a questi teologi, i cristiani dovranno guardare al Magistero della Chiesa, che gode di speciale assistenza sia per conservare intatta la dottrina di Cristo sia per adattarla in modo conveniente ai tempi nuovi.

***

Cercare il volto di Cristo nel volto del prossimo è l’unico criterio che ci garantisca di amare sul serio tutti, superando antipatie, ideologie e mere filantropie. Un giovanotto,ha scritto il vecchio arcivescovo Perini, batte una sera alla porta di una casa: ha l’abito delle feste, un fiore all’occhiello, ma, dentro, il cuore gli batte forte: chissà come la ragazza ed i suoi familiari accoglieranno la domanda di matrimonio ch’egli viene timidamente a fare? Ad aprire viene la ragazza in persona. Un’occhiata e il rossore, il piacere evidente (manca la "furtiva lacrima") della signorina lo rassicurano, il cuore gli s’allarga. Entra; c’è la madre della ragazza; gli sembra signora simpaticissima, gli verrebbe voglia d’abbracciarla addirittura. C’è il padre, l’ha incontrato cento volte, ma stasera gli appare trasfigurato da una luce speciale. Più tardi arrivano i due fratelli; braccia al collo, saluti calorosi. 

Si chiede Perini: cosa succede in questo giovanotto? Cosa sono tutti questi amori spuntati all’improvviso come funghi? Risposta: non si tratta di amori, ma di un amore solo: ama la ragazza e l’amore portato a lei lo diffonde su tutti i suoi parenti. Chi ama sul serio Cristo non può rifiutarsi di amare gli uomini, che di Cristo sono fratelli. Anche se brutti, cattivi e noiosi, l’amore il deve un po’ trasfigurare. Amore spicciolo. Spesso è l’unico possibile. Non ho mai avuto l’occasione di gettarmi nelle acque di un torrente per salvare un pericolante; spessissimo sono stato richiesto di prestare qualcosa, di scrivere lettere, di dare modeste e facili indicazioni. Non ho mai incontrato un cane idrofobo per via; invece, tante noiose mosche e zanzare; mai avuto persecutori che mi bastonassero, ma tante persone che mi disturbano col parlare forte in strada, col volume della televisione troppo alzato o magari col fare un certo rumore nel mangiare la minestra. Aiutare come si può, non prendersela, essere comprensivi, mantenersi calmi e sorridenti (il più possibile!) in queste occasioni, è amare il prossimo senza retorica, ma in modo pratico. Cristo ha molto praticato questa carità.

Quanta pazienza nel sopportare i litigi che gli Apostoli facevano tra di loro! Quanta attenzione a incoraggiare e lodare: "Mai trovata tanta fede in Israele" dice del Centurione e della Cananea. "Voi siete rimasti con me anche nei momenti difficili" dice agli Apostoli. E una volta chiede per piacere la barca a Pietro. 
"Sire di ogni cortesia" lo dice Dante. Sapeva mettersi nei panni degli altri, soffriva con loro. Proteggeva, difendeva oltre che perdonare i peccatori: così Zaccheo, così l’adultera, così la Maddalena. Voi, a Lisieux, avete camminato dietro i suoi esempi; noi dovremmo fare altrettanto nel mondo. Carnegie racconta di quella signora, che un giorno fece trovare ai suoi uomini, marito e figli, la tavola ben preparata e infiorata, ma con un pugnetto di fieno su ogni piatto. "Cosa? Fieno ci dài oggi?" le dissero. "Oh, no, rispose, vi porto subito il pranzo. Ma lasciate che vi dica una cosa: da anni vi faccio la cucina, cerco di varare, una volta il risotto, un’altra il brodo, ora l’arrosto, ora l’umido, ecc. Mai che diciate: “Ci piace”, “sei stata brava!”. Dite per piacere una parola, non sono di sasso! Non si può lavorare senza un riconoscimento, un incoraggiamento, per il solo re di Prussica!". Può essere spicciola anche la carità sprivatizzata o sociale. C’è in atto uno sciopero giusto: può darsi che esso porti disagio a me, che non sono direttamente interessato alla vertenza. Accettare il disagio, non mormorare, sentirsi solidali con dei fratelli, che lottano per la difesa dei toro diritti, è pure carità cristiana.

Poco notata, non per questo meno squisita. 
Una gioia mescolata all’amore cristiano. Appare già nel canto degli Angeli a Betlemme. Fa parte dell’essenza del Vangelo, che è "novella lieta". E’ caratteristica dei grandi santi: "Un Santo triste, diceva Santa Teresa d’Avila, è un triste santo". "Qui da noi, soggiungeva San Domenico Savio, ci si fa santi con l’allegria". La gioia può diventare carità squisita, se comunicata, come appunto Voi facevate nelle ricreazioni del Carmelo, agli altri. L’irlandese della leggenda che, morto improvvisamente, si avviò al tribunale divino, era non poco preoccupato: il bilancio della vita gli si rivelava piuttosto magro. C’era una fila davanti a lui, stette a vedere e a sentire. Dopo aver consultato il gran registro, Cristo disse al primo nella fila: "Trovo che avevo fame, e tu mi hai dato da mangiare. Bravo! Passa in Paradiso!". Al secondo: "Avevo sete e tu m’hai dato da bere". A un terzo: "Ero in carcere e m’hai visitato". E così via. Per ognuno, che veniva spedito in Paradiso, l’irlandese faceva un esame e trovava di che temere: lui, non aveva dato né da mangiare né da bere, non aveva visitato né carcerati né malati. Venne il suo turno, tremava, guardando Cristo, che stava esaminando il registro. Ma ecco che Cristo alza gli occhi e gli dice: "Non c’è scritto molto. Però qualcosa hai fatto anche tu: ero mesto, sfiduciato, avvilito: sei venuto, m’hai raccontato delle barzellette, m’hai fatto ridere e ridato coraggio. Paradiso!". E’ una facezia, d’accordo, ma sottolinea che nessuna forma di carità va trascurata o sottovalutata.

***

Teresa, l’amore che avete portato a Dio (e al prossimo per amor di Dio) fu veramente degno di Dio. Cosi dev’essere l’amore nostro: fiamma, che si alimenta di tutto ciò che in noi è grande e bello; rinuncia a tutto ciò, che in noi è ribelle; vittoria, che ci prende sulle proprie ali e ci porta in regalo ai piedi di Dio.
Giugno 1973



Risultati immagini per walter scottWalter Scott

Nostalgia del pulito 

    
Sir, Quanti romanzi avete scritto? Ai vostri tempi essi hanno avuto un successo enorme; oggi non sono molto letti, ma hanno incantato me, quand’ero ragazzo. La vostra semplice e libera maniera di scrivere, la capacità di scolpire caratteri, l’arte di appiccicare questi caratteri sul fondo della tela storica, ora nel Medio Evo ora nel Sei-Settecento, ora in Inghilterra ora nel Continente, mi rapiva. Quanti tornei e assedi di città e di castelli avete descritto? Quanti cavalieri avete fatto viaggiare a cavallo per lande e foreste? Quante dame avete fatto difendere, liberare e proteggere da cuori generosi? Quanti valorosi artigiani e uomini del popolo avete messo in risalto accanto ai nobili? Quante cose stravaganti e meravigliose avete mescolato alle usuali e comuni, con nani e astrologi, con streghe e fattucchiere, pitonesse e zingare? E quanti sortilegi, misteriosi messaggi e oroscopi, quanti intrecci complicati e quali soluzioni inaspettate! E tutto pulito: libri che esaltano sempre il valore e la lealtà e che possono andare anche per le mani di ragazzi! Questo, in faccia alla odierna colluvie di stampa cattiva, è la cosa che mi meraviglia di più e mi fa dire: "Onore allo Scozzese, al padre del romanzo storico e pulito!

***

Mi è venuto il desiderio di rileggere il vostro Carlo il Temerario, ed ecco in quali pagine mi sono imbattuto. Uno dei protagonisti, il prode e giovane Arturo, cavalca verso la Corte di Provenza in compagnia di Tibaldo. Questi, nipote di trovatori e appassionato di ballate, ne canta una con grande grazia e maestria al suo compagno di viaggio. Eccone il succo: Il trovatore Guglielmo Cabestaing ama Margherita, moglie del barone Raimondo di Rossiglione. Il marito scopre la tresca, uccide Cabestaing, gli strappa il cuore e, fattolo preparare come quello di un animale, lo fa servire a mensa alla sua donna e, quando questa ha mangiato l’orribile vivanda, le rivela di cosa era composta. Essa, flemmaticamente tragica, gli dice: "E’ stato per me così prezioso quel cibo, che mai le mie labbra toccheranno altri alimenti". Persiste in questa decisione e si lascia morire di fame. Attorno a questo nocciolo, l’autore della ballata intesse un pietoso commento, compiangendo pateticamente Ia sorte dei due amanti, scagliando terribili fulmini solo sul marito crudele e concludendo con piacere vendicativo così: "Tutti gli amanti ed i bravi cavalieri della Francia meridionale, uniti insieme, attaccarono il castello del barone, lo espugnarono, lo rasero al suolo, facendo subire a! tiranno una morte ignominiosa".

Il vostro eroe Arturo, ascoltata la storia, interviene severamente: "Tibaldo, non cantatemi più simili piagnistei; niente serve tanto a corrompere il cuore di un cristiano quanto l’accordare al vizio la pietà e gli elogi, che si devono alla sola virtù. il vostro barone è un mostro di crudeltà, ma i vostri sfortunati amanti non erano perciò meno colpevoli. Col dare bei nomi alle cattive azioni, quelli stessi che si spaventerebbero davanti al vizio ignudo, imparano a praticarne le lezioni, se lo vedono sotto la maschera della virtù". "Ma la ballata è un capolavoro della scienza gaia, insiste Tibaldo, e se già così giovane voi siete tanto rigido, cosa farete da vecchio?". "Una testa che ascolta le pazzie nella giovinezza, risponde Arturo, difficilmente sarà rispettabile in età avanzata! ". Così avrebbe potuto parlare un santo padre, ma voi siete stato, in un certo senso, più efficace dei santi padri. Primo, perché i santi padri sono dei predicatori e i predicatori, di solito, fanno, magari a torto, la figura di essere contro l’uditore. Voi, invece, offrendo col romanzo ai lettori divertimento ed evasione, apparite a loro favore, siete dalla loro parte. Secondo, perché avete avuto l’accortezza di mettere l’insegnamento morale sulle labbra dell’eroe, al quale va tutta la simpatia e l’entusiasmo incondizionato dei lettori. E’ la vecchia tattica di Orazio: mescolare l’utile al dilettevole.

***

Ohimé, pare che oggi la tattica oraziana e vostra attacchi meno. Sui giornali a fumetti letti dai nostri ragazzi e sui settimanali a rotocalco o no, un eroe, che magari distribuisca "cazzotti", piattonate e "sventole", quando non ne può fare a meno, ma accorra e voli ad aiutare deboli ed oppressi, sul tipo degli eroi vostri, appare di rado. Più spesso c’è l’altro, l’eroe del male, che fa bella figura e cui viene attribuita la vittoria definitiva. Nella stampa d’oggi gentili donzelle allegre e sentimentali, ma pudiche e riservate, ai piedi delle quali i cavalieri vadano a deporre con il cuore palpitante quanto hanno e sono, si fa fatica a trovarne. Le vostre eroine hanno dei sentimenti delicati ed arrossiscono spesso; le protagoniste odierne non arrossiscono mai; fumano, bevono, sghignazzano: sono presentate solo come fenomeno biologico e trastullo: non c’è un matrimonio che sia normalmente lo sbocco del romanzo; spessissimo oltre che corrotte sono anche ciniche e sanguinarie. In un libro giallo l’amante di una ragazza ha colpito a pugni il padre di lei, gettandolo a terra colla faccia insanguinata. E lei incita l’amante contro il padre: "Ancora, colpiscilo ancora!" In un giornale a fumetti un’altra ragazza sentenzia: "Bisogna rubare, ma ai poveri, perché non c’è gusto nel rubare ai ricchi! ". Voi mi domanderete: ma perché scrivono queste cose? Me lo domando anch’io e non so rispondere. Forse cercano di protestare con queste uscite paradossalmente immorali contro una società, che credono, ed in parte è, bugiarda nel suo moralismo?

Il guaio è che i giovani, nel caso, non capiscono l’ironia e la caricatura ed assorbono invece a poco a poco il male, avvelenandosi moralmente. Forse, leggendo, vogliono offrirsi una evasione molto eccitante a contrappeso della monotona e grigia vita quotidiana? Sarebbe un rimedio sbagliato, una specie di droga, che spinge a richiedere eccitazioni sempre più forti, piaceri e guadagni sempre più facili, a disamare lo studio e il lavoro. Forse gli editori vogliono guadagnare quattrini, speculando sulla fragilità dei giovani e sugli istinti nostri non buoni? Temo, purtroppo, che si tratti soprattutto di questo. Ed allora, quale sciocchezza lasciarsi strumentalizzare da gente così venale! Diceva quel predicatore: Siete più stupidi dei sorci. Questi cascano nella trappola, ma almeno non pagano; voi, leggendo, cascate in un’altra trappola e per di più pagate chi vi ha teso il tranello! Sir Scott! In Waverley, il primo romanzo da voi scritto, c’è la seguente descrizione: "La posta non arrivava che una volta alla settimana al castello di Waverley, e l’unico giornale portato era subito consegnato al baronetto; questi lo dava alla rispettabile sua sorella, poi ad un vecchio venerabile maggiordomo; passava appresso di anticamera in anticamera fino alle mani del portinaio, di là arrivava al parroco, poi se l’avevano i gentiluomini ed i ricchi fittavoli dei dintorni e finalmente, unto, bisunto e tutto sgualcito, terminava il suo giro nelle mani del Signor cancelliere". Vedeste oggi! I giornali escono ogni giorno a tonnellate dalle rotative; ogni mattino vengono scaricati dai treni, dagli automezzi e subito portati alle edicole ed alle rivendite. Sui tram, andando al lavoro o a scuola, moltissimi - seduti o in piedi - hanno il giornale spiegato davanti e leggono avidamente, senza accorgersi talora di quel che succede accanto. Negli uffici gli impiegati si passano l’articolo interessante, lo commentano, ripetono le barzellette appena lette.

Al ristorante molti hanno a destra il piatto e a sinistra il giornale. A scuola i ragazzi lo leggono e se lo passano di nascosto durante le lezioni, e non sono i giornali più puliti. L’altro giorno, scendendo dal treno, a Roma, ho notato che vi salivano operai del personale a far razzia dei giornali abbandonati sui sedili degli scompartimenti: se li portavano via, godendo all’idea di leggerseli poi con comodo a casa. Si è avidi di stampa; e domani sarà peggio, perché il giornale ci arriverà in casa proiettato su una specie di teleschermo e, autocopiato, staccato, si potrà leggere seduta stante. A tutto questo oggi aggiungete la radio, la televisione! E capirete quale problema enorme è capitato addosso a genitori, educatori, pastori d’anime e pubbliche autorità! Problema tanto più grosso quanto più la gente è gelosa della propria libertà e quanto meno oggi è possibile ricorrere alla censura e alle proibizioni. Troverà lo Stato il modo di limitare la libertà, quando è in evidente contrasto col bene pubblico? Accetteranno i giovani almeno le indicazioni e le segnalazioni? Gli automobilisti non si offendono affatto per le tabelle della segnaletica stradale. Nessuno di essi protesta, dicendo che è uomo intelligente e maturo, che sa tutto e che capisce tutto da sé! Perché, allora, non accettare umilmente anche una segnaletica morale? Voi vi siete leggermente inquietato un giorno. Passavate colla vostra signora per un prato, sul quale, attorno ad un gran numero di pecore, saltellavano alcuni graziosi agnelletti. "Come son belli!" avete esclamato. E la Signora: "Si, sono davvero deliziosi specialmente cotti con la salsa di menta!". In quel momento non vi intendevate fra di voi.

***

Onore allo Scozzese! Lo ripeto sinceramente, ma faccio una piccola riserva circa qualche frecciatina qua è là scoccata nei confronti della Chiesa Cattolica. Cosa spiegabilissima in Voi presbiteriano di indubbia buona fede. Ciò non impedì che a me, ragazzo innamorato della mia Chiesa, le frecciatine recassero qualche disagio. Resta comunque il bene da Voi fatto; resta la vostra vita esemplare; resti dunque anche la lode e l’onore! Sir Scott! Io desidero che i cristiani, e specialmente i giovani, vi intendano, vi seguano nelle regioni serene dello spirito e della fantasia, nelle quali avete amato vivere e far vivere i vostri lettori. 
Marzo 1973



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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11/7/2017 10:21 AM
 
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Maria Teresa d'Austria

Bella senza tante pazzie 

    
Maestà reale e imperiale! Vi conosco soltanto dai libri. Sovrana tipica del "secolo dei lumi", avete anche Voi governato paternalisticamente: vi chiamavate "madre" di tutte le vostre terre; pare però che vi premesse soprattutto che i figli di queste fossero ubbidienti sudditi dell’imperatrice. Nessuna meraviglia: neppure da una regina si può pretendere che prevenga profeticamente i tempi. Dopotutto, nel mazzo dei sovrani dell’epoca, siete forse quella che fa la figura meno brutta: direttrice dell’orchestra statale, senza la pretesa di suonare tutti gli strumenti! Meglio ancora ve la siete cavata come sposa e come madre. Marito amato e sinceramente pianto dopo la morte (sapendo che Vi aveva tradito con più favorite!). "Casa di vetro" in cui i sudditi potevano guardare i costumi intemerati della loro sovrana. Sedici figli, tra cui famosi Giuseppe II, chiamato dal vicino re di Prussia "re-sacrestano", e l’infelice Maria Antonietta, prima "delfina", poi regina di Francia. E’ a quest’ultima che, con sensibilità di donna e di madre, avete scritto lettere, che ancora restano, sul modo di vestire. A Parigi si sussurra che la "delfina" trascura l’eleganza. Voi lo venite a sapere a Vienna e, pronta, prendete la penna, ammonendo: "Mi dicono che siete vestita male e che le vostre dame non osano farvene osservazione". Divenuta regina, Maria Antonietta eccede nel senso contrario e Vi manda un suo ritratto con, in testa, un monumentale catafalco formato di frutti, di fiori, di piume e di ben dieci metri di stoffa. E voi, a scrivere di nuovo: "Non mi pare debba vestire così la sovrana di una grande nazione. La moda bisogna seguirla, ma non esagerarla. Una graziosa regina non ha bisogno di tutte queste pazzie sulla testa!". Ecco una massima saggia: la bellezza della donna risalta senza bisogno di tante pazzie.

***

Maestà, lo credereste? C’è un mio collega vescovo, che sembra ancora più comprensivo di Voi. San Francesco di Sales è, infatti, pieno di sorridente indulgenza per le intramontabili piccole debolezze umane, che spingono specialmente le donne a cercare e cambiare ornamenti, acconciature e vestiti; si mostra largo, in particolare, per l’eleganza civettuola delle signorine. "Queste, scrive, sentono innato il bisogno di piacere agli altri". E continua: "Ad esse è ben lecito desiderare di piacere a molti, sebbene lo facciano con l’unico intento di accaparrarne uno a mezzo matrimonio". Vescovo com’è, tocca a lui moderare lo zelo della baronessa de Chantal, che fa una guardia troppo austera attorno all’abbigliamento delle figlie e le scrive: "Che vuole? Bisogna bene che le ragazze siano un po’ belline". Occorrendo, però, sa r­primere con dolcezza le piccole (allora erano piccole!) audacie delle ragazze del suo parentado: un giorno che Francesca de Rabutin gli compare avanti un po’ troppo scollata, egli le offre, sorridendo, alcuni spilli! 

Stessa moderazione per la moda degli uomini e delle signore. La signora Charmoisy ha per figliolo un giovanotto, che si trova a disagio, perché tutti i suoi amici "sont beaucoup mieux que lui", sono, cioè, vestiti molto meglio di lui. Ciò non va, scrive il santo, perché "dal momento che viviamo nel mondo, bisogna seguire le leggi del mondo in tutto ciò che non è peccato". La signora Le Blanc de Mions ha, invece, uno scrupolo: potrà, devota qual è, incipriarsi i capelli secondo la moda? "Eh! Dio mio, risponde Francesco, si inciprii pure hardiment (arditamente) la testa: anche i fagiani si lustrano le penne!". Francesco di Sales pensava, scrivendo così, di dare consigli cristianamente sensati, lasciando alla vita devota tutte le rose senza levarne alcuna spina. "Male gliene incolse, Maestà. Il grande Bossuet scrisse di lui che, a quel modo, non faceva che "mettere cuscini sotto i gomiti dei peccatori". Un frate poi parlò addirittura dal pulpito contro l’Introduzione alla vita devota, libro in cui il santo aveva svolto i concetti di cui sopra; alla fine della predica si fece portare con pompa magna una candela accesa, tirò fuori dalla manica il libro e gli diede fuoco, disperdendone le ceneri ai quattro venti.

***

Maestà, sia ben chiaro, io non sono col frate! Sono con Voi e con Francesco di Sales, nella posizione moderata e giusta di chi comprende e incoraggia tutto ciò che è sanamente bello, anche nella moda. Ma sono con Voi anche nel condannare le pazzie. E quante e quali pazzie ai nostri giorni! Nel vestito e in ciò che al vestito per forza si collega: spesa, modo di comportarsi, divertimento! Non parlo della spiaggia e del modo con cui alcuni la frequentano. La Vostra Maria Antonietta portava in testa dieci metri di tela, mentre altri metri abbondanti andavano tra abito e strascico. Adesso, accade il rovescio: ci sono donne che non hanno addosso quasi nulla e girano in questo stato ovunque, pretendendo di entrare in questo stato perfino nelle chiese. Alla Vostra corte Pietro Metastasio, aggirandosi tra cavalieri in parrucca e dame incipriate, compose melodrammi. In uno di essi scrisse: E’ la fede degli amanti come l’araba fenice: che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa. E’ il massimo che egli abbia osato scrivere sentimentalmente parlando. Adesso si osa tutto: nel vestire, nel cantare, nello scrivere, nel fotografare, negli spettacoli, nel modo di comportarsi. 

Ai Vostri tempi qui a Venezia diceva la Margherita de I Rusteghi goldoniani: "Mia mare la ne menava a l’opera, se no, a la comedia, e la comprava la so bona chiave de palco, e la spendeva i so boni bezzetti. La procurava de andar dove la saveva che se fava de le comedie bone, da poderghe menar de le fie, e la vegniva con nu, e se divertivimo. Andévimo qualche volta al Ridotto: un pochetin sul Liston, un pochetin in Piazzetta da le stroleghe, dai buratini, e un par de volte ai casoti. Co stévimo po in casa, ghe avévimo sempre la nostra conversazion. Vegniva i parenti, vegniva i amizi, anca qualche zóvene: ma non ghe giera pericolo". Adesso? Qualche figliola di buona famiglia, si assenta giornate intere. Dove va? Col "suo" ragazzo, sola in macchina, sola all’albergo con lui, per le strade del mondo. Capita talvolta questo: si riceve un invito per il ballo e sul biglietto c’è la sigla sbi (senza bagagli ingombranti, ovverossia i genitori!). Capita anche di leggere sui giornali che gli impiegati di certe ditte rallentano notevolmente il ritmo e la qualità della produzione, perché troppo impegnati a "meditare" a lungo sulle sottane o sui calzoncini lillipuziani delle compagne di lavoro.

Oppure si legge che il tale governo, per impedire l’aumento di incidenti stradali, provvede ad ammonire con cartelli gli autisti e non lasciarsi distrarre, mentre guidano, dalle ragazze in minigonna guardate attraverso il parabrezza e il finestrino. 
Maestà, Voi avete scritto la parola giusta: alla donna non occorre molto per piacere agli altri. Si tratta solo di sapere a quali persone si vuol piacere e con quale scopo. Piacere a tutti? Non è male in sé; può esser male voler piacere in quel dato modo. Penso, però, che una donna debba cercare di piacere in primo luogo a genitori, fratelli, sorelle e, soprattutto, al marito, all’uomo che la sceglierà in sposa, e sarà padre dei suoi figli. Ora, tutti costoro vogliono la donna bensì elegante e bella, ma in un quadro di modestia che la renda ancor più bella e moralmente fresca.

* * *

Maestà, scusate se mi sono confidato e sfogato con Voi, che approvate queste idee. Non è, intendiamoci, che manchino pur oggi donne che le apprezzino. Ma ci sono quelle che le ritengono vecchie e superate. Voi sapete, invece, che sono intramontabili e sempre fresche, perché rispecchiano il pensiero di Dio, che ha fatto scrivere da San Paolo: "Le donne siano vestite con decoro, adorne di modestia e di verecondia"!
Luglio 1971




Risultati immagini per trilussaTrilussa

Nel cuore del mistero 

    
Caro Trilussa, Ho riletto la poesia melanconicamente autobiografica, in cui racconti di esserti sperso, di notte, in mezzo al bosco, e lì incontri una vecchietta cieca, che ti dice: "Se la strada nun la sai, te ciaccompagno io, che la conosco!"Sorpresa tua: " Trovo strano che me possa guidà chi nun ce vede". Ma la vecchietta taglia corto, ti piglia la mano e ti intima: "Cammina." E’ la fede. Sono d’accordo in parte con te: la fede è davvero una buona guida, una cara e saggia vecchietta che dice: metti qui il tuo piede, prendi questo sentiero che sale. Ma ciò succede in un secondo momento, quando la fede ha ormai messo radici come convinzione nella mente e di là pilota e dirige le azioni della vita. Prima, però, la convinzione deve formarsi e piantarsi nella mente. E qui, caro Trilussa, sta oggi la difficoltà, qui il viaggio della fede si rivela non la patetica passeggiata sulla strada del bosco, ma un viaggio a volte difficile, talora drammatico e sempre misterioso. E’ già difficile, intanto, aver fede negli altri, accettando, sulla parola, le loro asserzioni. Lo scolaro sente dire dal professore che la terra dista dal sole 148 milioni di chilometri.

Vorrebbe controllare, ma come? Si fa coraggio e aderisce con un volitivo atto di fiducia: "Il professore è onesto ed informato, fidiamoci!". 
Una madre narra al suo figliolo di anni suoi lontani, di sacrifici sostenuti per proteggerlo, guarirlo e conclude: "Mi credi? E ricorderai quanto ho fatto per amor tuo?". "Come posso non crederti?, risponde il figlio, e farò quanto posso per non essere indegno dell’amore che mi hai portato!". Questo figliolo oltre che fiducia, deve far nascere in sé, per sua madre, anche tenerezza e amore; solo così possono venire uno slancio di dedizione e un impegno di vita. La fede in Dio è qualcosa di simile: è un  filiale, detto a Dio, che racconta a noi qualcosa della propria vita intima:  alle cose narrate e insieme a Colui che le narra. Chi lo pronuncia deve non solo avere fiducia, ma anche tenerezza e amare e sentirsi piccolo figlio, ammettendo: Io non sono il tipo che sa tutto, che dice l’ultima parola su tutto, che verifica tutto. Magari sono abituato ad arrivare alla certezza scientifica con la verifica più rigorosa di laboratorio; qui, invece, devo accontentarmi di una certezza non fisica, non matematica, ma di buon senso o di senso comune. Non solo: affidandomi a Dio, so che devo accettare che Dio possa invadere, dirigere e cambiare la mia vita. 

Nelle "Confessioni", caro Trilussa, Agostino è ben più concitato di te nel descrivere il suo viaggio alla fede. Prima di dire il suo  pieno a Dio, la sua anima rabbrividisce e si torce in conflitti penosi. Di qua c’è Dio che lo invita, di là le antiche abitudini, "le vecchie amiche", che lo "tirano dolcemente per il suo vestito di carne" e gli sussurrano: "Tu ci congedi? pensa che dal momento in cui ti avremo lasciato, quella cosa non ti sarà più permessa e quell’altra neppure, e per sempre!". Dio lo spinge a fare presto e Agostino implora: "Non subito, ancora un momento!". E continua settimane intere nell’indecisione, nel contorcimento interno, finché, aiutato da una spinta potente di Dio, prende il coraggio a due mani e si decide. Come vedi, Trilussa, nel dramma umano della fede, si inserisce un elemento misterioso: l'intervento di Dio. Paolo di Tarso l’ha provato sulla strada di Damasco e lo descrive così: quel giorno, Signore, "mi hai ghermito": "colla tua grazia sono quello che sono". Qui siamo nel cuore del mistero. Cos’è infatti, e come opera questa grazia di Dio? Com’è difficile il dirlo! Supponi, Trilussa, che l’incredulo sia un dormiente; Dio lo sveglia e gli dice: esci dal letto! Supponi che sia un malato; Dio gli mette in mano la medicina e gli dice: prendila! Sta di fatto che chi non crede, d’improvviso, senza che ci abbia pensato, si trova ad un certo momento a riflettere su problemi d’anima e di religione, è potenzialmente disponibile per la fede. Dopo questo intervento, fatto "senza di noi", Dio ne opera altri, ma "con noi", cioè con la nostra libera collaborazione. A svegliarci dormienti, è stato Lui solo; a scendere dal letto, tocca a noi, anche se bisognosi, nello scendere, di altri suoi interventi. La grazia di Dio, infatti, ha la forza, ma non intende forzare; ha una santa violenza, ma adatta a far innamorare del vero, non a violare la libertà.

Può succedere che, svegliato, invitato ad alzarsi e preso per un braccio, uno si volti invece sull’altro fianco, dicendo: "Lasciami dormire!". 
Nel Vangelo si vedono casi del genere. "Vieni e seguimi" dice il Cristo e Levi si alza dal banco e Gli va dietro; un altro, invece, invitato, ri­ponde: "Permettimi che vada prima a seppellire mio padre" e non si fa più vedere. Sono gente, riflette mestamente Cristo, che mette mano all’aratro poi si volta indietro. Si spiega così come, nel credere, c’è tutta una gamma che va da chi non ha mai avuto fede, a chi l’ha in misura insufficiente, ai tiepidi e rachitici nella fede, fino a quelli che hanno una fede fervente ed operosa. Ma si spiega fino ad un certo punto soltanto, caro Trilussa. Perché alcuni di noi non credono? Perché Dio non ci fece la grazia. Ma perché non ci fece la grazia? Perché non corrispondemmo alle Sue ispirazioni. Perché non corrispondemmo? Perché, essendo liberi, abusammo della libertà. Perché abusammo della libertà? Qui è il duro, caro Trilussa, qui rinuncio a capire. Qui, invece che al passato, amo pensare all’avvenire e decido di seguire l’invito di Paolo: "Vi esortiamo a non ricevere invano (in avvenire) la grazia di Dio".

***

Caro Trilussa! Il Manzoni definisce "giocondo prodigio e convito di grazia" il ritorno dell’Innominato alla fede. Se n’intendeva, era "ritornato" anche lui. Si tratta di un convito sempre imbandito e aperto a tutti. Per quanto mi riguarda, io cerco di approfittarne tutti i giorni, rimettendo in piedi oggi la vita di fede buttata giù coi peccati di ieri. Chissà se i cristiani che, come me, si sentono ora buoni, ora peccatori, con me accetteranno di fare i "bravi convitati"? 
Settembre 1971



Mark Twain

Tre sor Giovanni in uno 

    
Caro Mark Twain, Ella è stato uno degli autori preferiti della mia adolescenza.Ho ancora nella mente le spassose Avventure di Tom Sawyer, che sono poi le sue avventure di infanzia, caro Twain. Ho raccontato cento volte qualcuna delle sue battute, ad esempio quella sul valore dei libri. E’ un valore inestimabile, ha Ella risposto ad una ragazzina, che l’aveva interpellata, ma vario. Un libro legato in pelle è eccellente per affilare il rasoio; un libro piccolo, conciso, come lo sanno scrivere i Francesi, serve a meraviglia per la gamba più corta di un tavolino; un libro grosso come un vocabolario è un ottimo proiettile per tirare ai gatti; e finalmente un atlante, coi fogli larghi, ha la carta più adatta per aggiustare i vetri. I miei alunni si eccitavano, quando annunciavo: Adesso ve ne racconto un’altra di Mark Twain. Temo, invece, che i miei diocesani si scandalizzino: "Un vescovo, che cita Mark Twain!". Forse bisognerebbe prima spiegare loro che, come sono vari i libri, così sono vari i vescovi. Alcuni, infatti, rassomigliano ad aquile, che planano con documenti magistrali di alto livello; altri sono usignoli, che cantano le lodi del Signore in modo meraviglioso; altri, invece, sono poveri scriccioli, che, sull’ultima rama dell’albero ecclesiale, squittiscono soltanto, cercando di dire qualche pensiero su temi vastissimi. Io, caro Twain, appartengo all’ultima categoria. Perciò mi faccio coraggio e racconto che una volta tu hai osservato: "L’uomo è più complesso di quel che pare: ogni uomo adulto rinserra in sé non uno, ma tre uomini diversi". "Come mai?", ti fu chiesto. E tu: "Prendete un Sor Giovanni qualunque. In esso c’è il Giovanni Primo, cioè l’uomo che egli crede di essere; c’è il Giovanni Secondo, quello che di lui pensano gli altri; e finalmente il Giovanni Terzo, ciò ch’egli è nella realtà".

***

Quanta verità, Twain, nel tuo scherzo! Ecco, ad esempio, il Giovanni Primo. Quando ci portano la fotografia del gruppo in cui abbiamo posato, qual è la faccetta simpatica, attraente, che andiamo a cercare? Duole il dirlo, ma è la nostra. Perché noi ci vogliamo un bene sconfinato e ci preferiamo agli altri. Volendoci tanto bene, succede che siamo portati a ingrandire i nostri meriti, ad attenuare le nostre colpe, ad usare col prossimo pesi e misure diverse che con noi. Meriti ingranditi? Li descrive il tuo collega Trilussa: "La lumachella de la Vanagloria Ch’era strisciata sopra un obelisco, Guardò la bava e disse: Già capisco Che lascerò un’impronta ne la Storia".Ecco come siamo, caro Twain, perfino un po’ di bava, se nostra e perché nostra, ci fa ringalluzzire e montare la testa! Difetti attenuati? "Bevo un bicchiere qualche rara volta", dice lui. Gli altri assicurano, invece, ch’egli è una specie di spugna, una Gola sempre secca, un autentico devoto di Santa Bibiana, col gomito sempre alzato. Dice lei: "Sono un po’ nervosetta, qualche volta mi impressiono". Grazie, che "impressione"!

La gente asserisce che è grintosa, stizzosa e vendicativa, un carattere impossibile, un’Arpia! 
In Omero gli dèi girano il mondo ravvolti in una nuvola, che li nasconde agli sguardi di tutti; noi abbiamo una nuvola che ci nasconde agli occhi nostri. Francesco di Sales, vescovo come me e umorista come te, scriveva: "Accusiamo il prossimo per cose lievi, e scusiamo noi stessi in cose grandi. Vogliamo vendere a carissimo prezzo, e acquistare invece a buon mercato. Vogliamo che si faccia giustizia in casa degli altri, e che si usi misericordia in casa nostra. Vogliamo che siano prese in buona parte le nostre parole, e facciamo i delicati su quelle altrui. Se qualcuno dei nostri inferiori non ha con noi buone maniere, prendiamo in mala parte qualunque cosa faccia; invece, se qualcuno ci è simpatico lo scusiamo, qualsiasi cosa faccia. I nostri diritti li esigiamo con rigore, e invece vogliamo che gli altri siano discreti nell’esigere i loro... Quel che facciamo per gli altri ci sembra sempre molto, quel che per noi fanno gli altri ci pare nulla".

***

Per Giovanni Primo può bastare, veniamo a Giovanni Secondo. Qui, caro Twain, mi pare che i casi siano due: Giovanni desidera che la gente lo stimi oppure si affligge perché la gente lo ignora e disprezza. Nulla di male in ciò; cerchi solo di non esagerare nell’uno o nell’altro senso. "Guai a voi - ha detto il Signore - che ambite i primi seggi nelle sinagoghe e i salamelecchi nelle piazze...; che tutte le vostre opere le compite per farvi notare". Oggi si direbbe: che date la scalata ai posti e ai titoli a furia di gomitate, di concessioni, di abdicazioni, che smaniate di farvi mettere sui giornali. Ma perché "Guai a voi"? Quando nel 1938 Hitler passò per Firenze, la città fu coperta di croci uncinate e di scritte osannanti. Bargellini disse a Dalla Costa: "Vede, Eminenza? Vede?". "Non abbia paura! - rispose il Cardinale - la sorte è già segnata nel Salmo 37: “Ho veduto l’iniquo imbaldanzire e dilatarsi come albero rigoglioso. Passai di nuovo, e non era più; lo cercai e non si trovò". A volte il "Guai" non segna punizione divina, ma soltanto ridicolo umano. Può capitare come al somaro che si coprì con la pelle di un leone e tutti dicevano: "Che leone!". Uomini e bestie fuggivano. Ma il vento soffiò, la pelle si sollevò e tutti videro l’asino. E allora accorsero infuriati e caricarono la bestia di sacrosante legnate. Lo diceva anche Shaw: "Com’è comica la verità!". E cioè: vien da sorridere, quando si sa quanto poca cosa c’è sotto certi titoli e certe celebrità! E se succede il contrario? Se la gente pensa male, dove c’è il bene? Qui c’è, in aiuto, un’altra parola di Cristo: "E’ venuto Giovanni, che né mangiava, né beveva, e dissero: Ha il demonio addosso. E’ venuto il Figlio dell’Uomo, che mangia e beve, e dicono: Ecco qua un mangione e un beone, amico di pubblicani e peccatori". Neppure Cristo è riuscito ad accontentare tutti. Non prendiamocela troppo se non riusciamo noi.

***

Giovanni Terzo faceva il cuoco. Questo non lo racconti tu, Twain, ma Tolstoj. Sulla soglia di cucina erano distesi i cani. Giovanni uccise un vitello e gettò le viscere nel cortile. I cani le presero, le mangiarono e dissero: "E’ un bravo cuoco. Cucina bene". Qualche tempo dopo, Giovanni sbucciava i piselli, mondava le cipolle: le bucce le getto nel cortile. I cani si precipitarono sopra, ma, scostando il muso dall’altra parte, dissero: "Il cuoco s’è guastato, ora non vale più nulla". Giovanni, però, non si commosse affatto per questo giudizio e disse: "E’ il padrone che deve mangiare e apprezzare i miei pranzi, non i cani. Mi basta essere apprezzato dal padrone". Bravo anche Tolstoj. Ma io mi chiedo: Che gusti ha il Signore? Cosa gli piace in noi? Un giorno, mentre predicava, qualcuno gli disse: "Tua madre e i tuoi fratelli stanno di fuori, e chiedono di parlarti".
Egli protese la mano verso i suoi discepoli e rispose: "Ecco qua la madre mia e i fratelli miei. Chiunque, infatti, fa la volontà del Padre mio, che è nei Cieli, quegli mi è fratello, sorella e madre". 
Ecco chi gli piace: chi fa la Sua volontà. Gli piace che lo si preghi, ma gli dispiace forte che le preghiere diventino un pretesto per scansare la fatica delle buone opere. "Perché mi chiamate Signore, Signore, e non fate quello che dico?". Fare quello che dice! Può essere una conclusione moralizzante. Tu, umorista,non l’avresti tirata. La devo tirare io, che sono vescovo e che ai miei fedeli raccomando: Se vi capita di ripensare ai tre Giovanni, ai tre Giacomi, alle tre Francesche che sono in ciascuno di noi, tenete d’occhio specialmente il terzo:quello che piace a Dio! 
Maggio 1971


 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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