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ILLUSTRISSIMI Lettere del Patriarca Albino Luciani Giovanni Paolo I

Ultimo Aggiornamento: 07/11/2017 10:21
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07/11/2017 09:19
 
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ILLUSTRISSIMI
lettere del Patriarca di Venezia, Albino Luciani 
 

L’iniziativa di inserire nel sito del Centro Papa Luciani il libro “Illustrissimi” è stata decisa per dare l’opportunità al maggior numero possibile di persone di attingere alla ricchezza inestimabile contenuta in testi scritti negli anni ’70 dal Cardinale Albino Luciani, Patriarca di Venezia.

Sono testi ricchissimi di spunti, attuali nelle riflessioni, illuminanti nelle scelte concrete che ogni cristiano è chiamato quotidianamente a fare.

Queste Lettere immaginarie di Luciani mettono anche in bella evidenza la sua straordinaria cultura e la sua spiritualità limpida e genuina; una spiritualità “montanara” per la sua essenzialità e semplicità,ma ben radicata nelle virtù della fede vissuta come sereno abbandono in Dio, della speranza fondata sulla misericordia e provvidenza di Dio, della carità che è l’anima vera della vita di ogni discepolo di Cristo.

Con questa iniziativa noi speriamo di contribuire a rendere presente nel tempo il messaggio pastorale di Albino Luciani, osando sentirci, in questo, un po’ collaboratori della Provvidenza di Dio che ci ha dato il sorriso di Giovanni Paolo I per trentatrè giorni, affinché – ripensando a Lui – anche il mondo possa ricominciare a sorridere.

Mons. Giorgio Lise
Vice Postulatore della causa di Canonizzazione

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Scrivo trepidando 

    
Caro Gesù, Mi sono preso delle critiche. "E’ vescovo, è cardinale; è stato detto, si è sbracciato a scrivere lettere in tutte le direzioni: a M. Twain, a Péguy, a Casella, a Penelope, a Dickens, a Marlowe, a Goldoni e non si sa a quanti altri. E neppure una riga a Gesù Cristo!". Tu lo sai. Con Te io mi sforzo di tenere un colloquio continuo. Tradurlo in epistolario, però, è difficile: sono cose personali. E poi, così piccole! E poi, cosa scrivere a Te, di Te, dopo tutti i libri che su Te sono stati scritti? E poi, c’è già il Vangelo. Come la folgore supera tutti i fuochi e il radio tutti i metalli; come il missile batte in velocità la freccia del povero selvaggio, così il Vangelo supera tutti i libri. Tuttavia, ecco qui la lettera. La scrivo trepidando, nella condizione di un povero sordomuto, che si sforza di farsi capire, nello stato d’animo di Geremia che, inviato a predicare, Ti diceva, pieno di riluttanza: "Non sono che un bambino, Signore, non so parlare!".

***

Pilato, presentandoti al popolo. ha detto: Ecco l’uomo! Credeva di conoscerti, ma non conosceva neppure un briciolo del tuo cuore, che hai mostrato tenero e misericordioso cento volte in cento modi. Tua madre. In croce, non hai voluto partire da questo mondo senza trovarle un secondo figlio che avesse cura di lei e hai detto a Giovanni: ecco tua madre. Gli Apostoli. Hai vissuto notte e giorno con essi, trattandoli da veri amici, sopportandoli nei loro difetti. Li hai istruiti con pazienza inesauribile. La madre di due di loro chiede un posto privilegiato per i figli e Tu: "Con me non si tratta di onori, ma di patimenti". Anelano ai primi posti anche gli altri e Tu: "Bisogna invece farsi piccoli, mettersi all’ultimo posto, servire!". Nel Cenacolo li hai messi in guardia: "Avrete paura, scapperete!". Protestano, prima e più di tutti Pietro, che poi, viceversa, Ti rinnega tre volte. Tu perdoni a Pietro e tre volte gli dici: Pasci le mie pecore. 

Quanto agli altri Apostoli il tuo perdono rifulge soprattutto al capo 21 di Giovanni. Essi sono in barca, da tutta la notte Tu, il Risorto, sei là sulla riva del lago prima dell’albeggiare, fai loro da cuoco, da servitore, accendendo il fuoco, cucinando e preparando loro, col pane, del pesce arrostito. I peccatori. Il pastore che corre in cerca della pecora smarrita, e gode nel ritrovarla, e fa festa quando la riporta all’ovile, sei Tu. Sei Tu quel padre buono, che, al ritorno del figlio prodigo, si getta al suo collo, abbracciandolo a lungo. Scena di ogni pagina nel Vangelo: Tu infatti avvicini peccatori e peccatrici, mangi alla loro tavola, ti inviti Tu stesso, se essi non osano invitarti. Hai tutta l’aria, questa è impressione mia,di preoccuparti più delle sofferenze che il peccato produce ai peccatori, che non dell’offesa che reca a Dio. Infondendo la speranza del perdono, sembra che Tu dica: Voi non immaginate neppure il piacere che mi procurate con la conversione! Insieme al cuore, brilla in Te l’intelligenza pratica. Hai puntato all’interno, intanto.

C’erano le facce dei Farisei smunte per i prolungati digiuni religiosi e Tu: "Non mi piacciono quelle facce; il cuore di quegli uomini è lontano da Dio; è l’interno che preme, il cuore è metro per giudicare; dal di dentro, dal cuore degli uomini escono i cattivi pensieri: dissolutezze, latrocini, assassinii, adulteri, cupidigie, orgoglio, stoltezza". 
Avevi orrore delle parole inutili: Sia il vostro parlare: sì, sì; no, no; quello che c’è di più deriva dal male. Quando pregate, non moltiplicate le parole". Volevi la concretezza e il riserbo: "Se digiuni, profumati la testa e lavati il volto. Se fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra quello che fa la destra". Al lebbroso guarito hai raccomandato: "Non dirlo a nessuno".

Ai genitori della ragazza risuscitata hai comandato con forza che non andassero a suonare la tromba sul miracolo avvenuto. Solevi dire: "Non cerco la mia gloria. Cibo, per me, è fare la volontà del Padre mio". 
Dalla Croce, concludendo la tua vita, hai detto: "Tutto è compiuto", ma sempre avevi tenuto a che le cose non fossero fatte a mezzo. Gli apostoli Ti avevano suggerito: "La gente ci segue da tempo, rimandiamola a mangiare a casa sua", ma Tu: "No, diamole noi da mangiare". Finito il pasto dei pani e dei pesci moltiplicati, hai aggiunto: "Raccogliete gli avanzi, non è giusto che vadano a male". Il bene lo volevi fatto fino al dettaglio. Risuscitata la figlia di Giairo, hai raccomandato: "Adesso date da mangiare a questa figliuola". La gente proclamava di te: "Ha fatto bene tutte le cose!".

***

Quanta luce di intelligenza spirava dal Tuo predicare! Gli avversari mandano dal Tempio le guardie per arrestarti e se le vedono ritornare a mani vuote. "Perché non l’avete condotto?". Risposta delle guardie: "Nessun uomo ha mai parlato come lui!".Incantavi dunque la gente, la quale sin dai primi giorni osservò di Te: "Questi si che parla con autorità! Altro che gli scribi! ".





Semo veci, semo in tochi? Dedicata ad Alvise Cornaro

    Caro veneziano ultranovantenne, 
Perché vi scrivo? Perché siete stato un simpatico veneziano di quattrocento anni fa. Perché, attraverso un libretto - lettissimo per la sua deliziosa ingenuità - avete fatto propaganda alla vita sobria. E, soprattutto, perché siete stato un modello di sereno vecchietto. Fino a quarant’anni avevate sofferto di stomaco "freddissimo e umidissimo", di "dolore di fianco", di "principio di gotta" e di cent’altri mali. Un bel giorno buttaste via tutte le medicine. Avevate scoperto che "chi vuol mangiare assai, bisogna che mangi poco" e vi deste alla sobrietà. Riacquistata la salute, poteste così dedicarvi allo studio, alla "santa agricoltura", all’idraulica, alla bonifica, al mecenatismo, all’architettura, sempre pieno di buon umore e con buona cera, scrivendo, tra gli ottanta e i novant’anni, i vostri "Discorsi intorno alla vita sobria", adatti a infondere coraggio e a persuadere che anche per noi anziani la vita può essere serena e utilmente impiegata.
Ai vostri tempi non molti potevano arrivare alla vecchiaia. Si conoscevano poche norme igieniche; non c’erano gli agi e le comodità odierne; non erano pressoché debellate, come sono oggi, certe malattie; non esisteva la chirurgia dai mezzi potenti e dai risultati prodigiosi, che abbiamo noi;la gente non arrivava alla media di settant’anni di vita, come invece arriva oggi in alcuni Stati. Oggi noi vecchi stiamo avanzando in numero su tutta la linea. In Italia, noi dai sessanta anni in su, siamo quasi la quinta parte dell’intera popolazione. Ci chiamano quelli della "terza età". Col solo contarci dovremmo farci coraggio. Invece? Invece ci lasciamo talvolta prendere da sgomento. Ci pare di essere lasciati in disparte come rotelle ormai usate, come ciclisti ormai abbandonati dal gruppo. Se andiamo in pensione, se i figli, sposandosi, sono andati ad abitare altrove, sentiamo il vuoto affettivo sotto i piedi e non sappiamo dove aggrapparci. Quando vengono avanti gli acciacchi e i segni del decadimento fisico, facciamo loro il viso dell’arme.

Invece di pensare soprattutto alle cose liete, che Dio ancora ci concede, cediamo alla malinconia del detto veneziano, che voi mai avete voluto fatto vostro: "Semo veci, semo in tochi... questo xe de mal! ". Il fenomeno si aggrava se, più in su dei sessanta, ci tocca abbandonare la casa, che era stata la nostra, con la quale ormai ci identificavamo, per diventare gli ospiti di una "Casa di riposo". Molti vi si adattano e vi si trovano bene; qualcuno invece si sente come un pesce fuor d’acqua. "Non mi lasciano mancar niente - mi diceva uno - potrebb’essere l’anticamera del Paradiso, ma per me è un Purgatorio anticipato! ".

***

I problemi degli anziani sono oggi più complicati che ai vostri tempi e, forse, più profondamente umani, ma il rimedio principe, caro Cornaro, resta ancora il vostro: reagire ad ogni pessimismo o egoismo. "Mi restano forse intere decine d’anni di vita: le utilizzerò per guadagnare il tempo perduto, per aiutare gli altri; voglio fare della vita che mi resta una gran fiammata d’amore per Dio e per il prossimo. Le forze sono poche? Posso almeno pregare. Sono cristiano, credo all’efficacia delle orazioni che le monache claustrali innalzano a Dio nei loro conventi, credo anche con Donoso Cortés che il mondo ha più bisogno di preghiere che di battaglie. Ebbene, anche noi anziani, offrendo a Dio le nostre pene e sforzandoci di sopportarle serenamente, possiamo avere una grande incidenza sui problemi degli uomini che lottano nel mondo". Questo è un discorso.

Se poi ci rimangono ancora energie e disponibilità di tempo, se ne può fare anche un altro. E cioè: perché non metterci a disposizione delle opere buone? In certe parrocchie delle maestre in pensione e degli impiegati anziani costituiscono un aiuto preziosissimo. Ma in Francia, per non lasciarsi tagliare fuori dalla vita, gli anziani si sono addirittura organizzati. "Dappertutto - si sono detti - sorgono gruppi spontanei di giovani. Facciamo i gruppi spontanei di noi anziani!". Ne venne un movimento davvero considerevole, che ha un vescovo per assistente, che promuove l’amicizia e la spiritualità degli iscritti, l’assistenza e l’apostolato a favore di altri anziani, che strappa molti di essi all’isolamento e alla sfiducia e fa talora esplodere energie sopite e insospettate. Voi non siete stato, infatti, l’unico a scrivere libri dopo gli ottanta, caro Alvise Cornaro. Goethe ha terminato il suo Faust a ottantun anni. Tiziano ha dipinto il suo autoritratto dopo i novanta. Del resto, noi siamo vecchi per quelli che vengono dopo di noi; per quelli, invece, che invecchiano insieme a noi, siamo sempre giovani! E poi, con un pizzico di malizia, si può dire che il computo degli anni si fa un po’ a fisarmonica. Quando Gounod - a quarant’anni -"compose il Faust, gli domandarono: "Con precisione che età dovrebbe avere il vostro Faust al primo atto?". "Dio mio, rispose Gounod, l’età normale della vecchiaia: i sessant’an­ni". Vent’anni dopo Gounod aveva lui i sessant’anni; gli fecero la stessa domanda ed egli candidamente, rispose: "Mio Dio, Faust deve avere l’età normale della vecchiaia: gli ottant’anni!".

***

A questo punto mi è facile fare una profezia. E cioè: questa lettera scritta a Voi, ma per essere letta da altri, non interesserà i lettori giovani, che, seccati, diranno: "Roba per vecchi!". Ma non diventeranno anziani anch’essi? E se davvero esiste un’arte, una metodologia per essere "bravi anziani", non converrà loro impararla per tempo? Da giovane studente m’è capitato che l’insegnante di diritto canonico, arrivato ai canoni del Codice che spiegano i doveri dei cardinali, dei metropoliti e dei vescovi, dicesse: "Queste sono cose poco ordinarie, le saltiamo; se qualcuno di voi per caso arriverà a quest’ufficio, se le studierà per conto suo!". E fu così che, diventato vescovo e metropolita, io ho dovuto cominciare da zero. Ora, se pochi tra i giovani teologi diventano cardinali, quasi tutti, invece, i giovani di oggi arriveranno domani alla vecchiaia col dovere di imparar per strada l’arte e di metterla da parte. Uno, nella primaverile età di vent’anni, è brontolone al venti per cento? A sessant’anni è certo che brontolerà al sessanta per cento, se non si corregge! Meglio, dunque, che si raddolcisca per tempo.

A parte questo, non è male che i giovani sappiano che, oltre i propri, ci sono i problemi delicati e sofferti degli altri, coi quali vivono fianco a fianco. A Timoteo, un giovane vescovo, San Paolo raccomandava: "Non riprendere con asprezza un vecchio, ma pregalo come si prega un padre". E’ tuttavia vero che, scrivendo, ho pensato soprattutto a noi anziani, che abbiamo bisogno di comprensione e di incoraggiamento. In linea, - caro nobiluomo Cornaro, - con quanto scriveste Voi. Ed in linea con quanto il direttore di un quotidiano soleva raccomandare ai suoi collaboratori. Diceva: "Scrivete spesso qualcosa per gli anziani! Se vi imbattete in qualche caso di longevità (per esempio, un uomo che si avvicini ai cento anni in piena lucidità di mente e con forze ancora vegete e fresche) non vi lasciate scappare la bella notizia; inseritela, datele spazio in cronaca bianca! C’è un pubblico di vecchi, cui essa farà piacere e che esclamerà: Ecco un giornale che èbene informato!". Come sarò contento anch’io, se si dirà: "Come è bene informato il Messaggero di S. Antonio!". 

  Ottobre 1973




[Modificato da Caterina63 07/11/2017 09:38]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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