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Se avete desiderio di capire che cosa insegna la Bibbia che il Magistero della Santa Chiesa, con il Sommo Pontefice ci insegna, questo Gruppo fa per voi. Non siamo "esperti" del settore, ma siamo Laici impegnati nella Chiesa che qui si sono incontrati da diverse parti d'Italia per essere testimoni anche nella rete della Verità che tentiamo di vivere nel quotidiano, come lo stesso amato Giovanni Paolo II suggeriva.
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ILLUSTRISSIMI Lettere del Patriarca Albino Luciani Giovanni Paolo I

Ultimo Aggiornamento: 07/11/2017 10:21
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07/11/2017 09:35
 
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Dupanloup

Il testo c'è, ma le teste? 

    
Caro Vescovo e Accademico di Francia,   "Carbone acceso, sul quale soffia ora la natura, ora la grazia". Cosi vi hanno definito. Io trovo, invece, che in Voi “soffiò” molto più la grazia che la natura. Anche quando combatteste sui giornali o all’Assemblea nazionale francese o al Senato o al Concilio Vaticano I le vostre grandi battaglie, vi guidò e animò sempre un profondo senso religioso, un cuore entusiasta sì, ma retto e leale. Dirigeste un Seminario; e perfino Renan, vostro ex alunno, vi dichiarò "educatore ineguagliabile". Ci fu una campagna per la scuola libera; e Lacordaire, Montalembert e Falloux Vi ebbero al loro fianco nella lotta e nella vittoria. Uscì il Sillabo di Pio IX, suscitando reazioni penose e vaste; e Voi ne faceste un commento così moderato e giudizioso da placare in parte la tempesta, riscuotendo il plauso di ben seicento vescovi e l’approvazione dello stesso Pio IX. Talleyrand, quel grosso peccatore e apostata, era ritenuto irrecuperabile da tutti; Dio lo recuperò, ma si servì di Voi, del vostro tatto, della vostra comprensione e pazienza. Insomma, grande vescovo, grande letterato, mattatore in tutti i movimenti di idee e opinioni del vostro secolo. Per me però l’aspetto più interessante della vostra persona e della vostra opera è la passione per il catechismo. Avete cominciato a istruire i piccoli ancora chierico a san Sulpizio; avete continuato giovanissimo prete all’Assunta e alla Maddalena; tutta Parigi accorreva ad ascoltarvi. Anche da vescovo, il catechismo fu in cima ai vostri pensieri, invase la maggior parte dei vostri libri. Avete scritto nel vostro diario: "Appena assegnatami la classe dei piccoli, presi subito fuoco: da allora, ciò che non è catechismo, azione pura della grazia sulle anime, è niente ai miei occhi; il piccolo letterato, ch’era in me, cedette il posto e si pose a! completo servizio del catechista". Scriveste ancora: "Il più bello dei ministeri è il ministero pastorale. Ma il catechismo è più bello ancora. E’ il bell’ideale del cuore di Dio. Niente gli si può paragonare. E’ il ministero più puro, il più disinteressato, il più distaccato da pretese".

***

M’è venuto di pensare a Voi e a queste vostre appassionate convinzioni, perché ho sottocchio il testo del "Catechismo dei fanciulli" che sarà sperimentato in Italia dal prossimo ottobre in poi. Buon testo, mi pare. Ma che vale il testo, se poi non ci sono le teste ei cuori dei catechisti? A me, pretino, dicevano: "Il testo è appena un sussidio, uno stimolo, non una comoda poltrona, in cui il catechista si adagia per riposarsi". "Il testo, per quanto ben fatto, resta cosa morta: tocca al catechista renderla viva". "Tanto vale la lezione quanto la preparazione! ". "Ai piccoli non si insegna tanto quello che si sa, quanto quello che si è: poco giovano le belle parole uscite dalla bocca del catechista, se altre parole escono dalla sua condotta a smentirle". Mi si raccontava di Pietro Ribadeneira, un ragazzo tempesta, un "Giamburrasca" ante litteram, che sant’Ignazio aveva condotto con sé a Roma dalla Spagna. "Fatti con più garbo il segno della croce!", gli dice un giorno sant’Ignazio. "Padre Ignazio, ma io lo faccio tale e quale i vostri gesuiti!". "Cosa dici! I miei gesuiti fanno il segno di croce come si deve!". Ilragazzo non replica, ma ne pensa una. Igesuiti al mattino si alzavano per tempissimo, e andavano in cappella attraverso i corridoi bui in veste nera e cotta bianca. Pietro riempie la pila dell’acqua santa con inchiostro nero. I gesuiti, passando, intingono le dita, si segnano, vanno ai banchi per la meditazione, finita la quale, depongono le cotte in sacrestia. Pierino, svelto, fa un bottino di tutte quelle cotte, le porta a Sant’Ignazio: "Venga, Padre, e verifichi i segni di croce dei suoi cari gesuiti!" Ahimè! Le macchie d’inchiostro dicono chiaro che anche i gesuiti talvolta fanno il segno di croce “come Dio vuole”, o meglio come Dio non vorrebbe! E qui, davanti alla mia fantasia, passa la schiera dei catechisti laici. Igenitori anzitutto. Essi sono "i primi predicatori della parola", ha detto il Concilio. Per le immagini sacre, che sono in casa, per la preghiera che vi si fa, per i discorsi che vi si tengono, per il rispetto mostrato verso i sacerdoti e le cose sacre, i figli possono trovarsi immersi in un caldo e naturale ambiente di religiosità. Ma si deve far qualcosa di più. Windhorst, uomo di stato tedesco, richiesto da una signora di come dovesse posare davanti a! fotografo, rispose: "Col catechismo in mano, signora, in atto d’insegnarlo ai vostri figli!". In realtà, il primo libro di religione, che i figli leggono, sono i genitori stessi. Buona cosa, se il papà dice al ragazzo: "C’è in chiesa un frate confessore: non credi che potresti approfittarne?". Cosa migliore se dice: "Vado in chiesa a confessarmi; vuoi venire anche tu?".  

***

Qui però trovo oggi degli obiettori: genitori che si dicono cristiani, e che rimandano perfino il Battesimo dei loro bambini. "Nessuna pressione su mio figlio! A vent’anni sceglierà!". Voi, collega Dupanloup, avete già risposto a questa obiezione come segue: A vent’anni! L’età di tutte le passioni! L’età nella quale soprattutto suo figlio avrebbe bisogno di una fede penetrata fin nell’intimo del suo essere per averne aiuto! E come farà questo ragazzo ventenne a scegliere fra le tante religioni esistenti, se prima non le ha studiate tutte? E come studiarle tutte, preso com’è dalla scuola, dallo sport, dai divertimenti, dalle amicizie? Uno, per diventare l’erede di un ricchissimo patrimonio, basta che sia nato. Ereditare ricchezze, infatti, è una fortuna e si pensa, si interpreta che, anche se per ora è inconscio, il bambino sarà, a suo tempo, arcicontento e ultraconsenziente per la fortuna toccatagli. Se un papà è cristiano sul serio, deve pensare che divenire col Battesimo figlio di Dio e fratello di Cristo, è una fortuna immensa; perché dovrebbe privarne suo figlio? "Sì - riprese l’obiettore - ma a questa fortuna sono legati impegni morali pesanti! Questi non devono essere accollati a mio figlio senza il suo permesso!"Voi, Dupanloup, avete risposto anche a questo: Quante cose si impongono ai figli senza il loro permesso! Senza chiedere permesso, intanto, li avete messi al mondo! Il nome, la famiglia, l’ambiente e la situazione sociale, i vestiti, la scuola dei primi anni, tutto avviene senza chiedere permesso agli interessati. Ma è poi una disgrazia che il figlio abbia le buone leggi cristiane da osservare? Dio ha forse dato agli uomini le sue leggi per un capriccio trionfalistico o in vista di un proprio vantaggio? Non diventa moralmente grande e felice l’uomo, se accetta di avere dei doveri e dei limiti? La libertà? Sì, d’accordo, ma essa non consiste nel fare tutto quello che pare e piace, bensì nel poter fare ciò che si deve fare!  

***

Dopo i genitori, sono catechisti i maestri delle elementari. Voi avete scritto cose finissime sui vostri primi maestri. A mia volta, io penso con tenerezza ai miei e condivido le parole di Otto Ernst: "Per me non c’è niente di più grande di un maestro elementare". Mi rivedo fanciullo sui banchi della mia scuola di Canale coi sentimenti degli scolari, di cui parla Goldsmith in “Villaggio abbandonato”: stupiti, a bocca aperta, davanti al maestro e tutti a chiedersi come mai da una testa cosi piccola potessero venir fuori cose così grandi e meravigliose! Intendiamoci: non sono così ingenuo da mitizzare fanciulli e maestri. C’è anche il rovescio della medaglia, lo so. Innocenti come angeli, i fanciulli; ma spesso orgogliosi come prìncipi, arditi come eroi, sfrenati come puledri, testardi come asinelli, volubili come i fiori del girasole, con una gola lunga come il collo delle gru; sempre però di una età preziosa, confidente e plasmabile. Quanto ai maestri, ce n’è che sanno prendere gli alunni dal loro verso e cioè dal bisogno di avere un capo, che si imponga con la bravura e la simpatia; ce n’è che sono domati e dominati, invece che domatori e dominatori. E "domata" sembra la maestra di prima, ricordata dal nostro Mosca. Passando nei corridoi, egli scrive, si sentiva la sua voce: - I cavalli hanno quindici gambe? - No, si sentivano rispondere in coro gli scolaretti. - Ne hanno forse dodici? - Nemmeno. E, calando sempre il numero delle gambe, arrivava, finalmente al numero vero. -Ne hanno quattro? - No, rispondevano con entusiasmo gli scolari! Povera maestra! Il citato Mosca, invece, era di un’altra pasta. Come arrivò a "conquistare" la terribile “Quinta C”? Semplice: acquistandosi la simpatia dei suoi quaranta ragazzi. Ma come si conquistò la simpatia? Ce lo dice: "Un moscone fu la mia salvezza". Un moscone, che, entrato in classe, col suo ronzio attirò l’attenzione di tutta la scolaresca.

Un altro maestro avrebbe forse detto: "Attenzione a me e non al moscone! ". Mosca invece dice a uno: "Ti sentiresti capace, con un colpo di fionda, di abbattere quel moscone?". "E’ il mio mestiere", fa il ragazzo, che esce subito dal banco colla fonda in mano, prende di mira il moscone e tira, ma sbaglia il bersaglio. "A me la fonda!", dice Mosca e, a sua volta, prende di mira il moscone, tira e lo fa cadere morto ai suoi piedi. Colpo superlativo di bravura, che gli assicura l’immediata ammirazione dei ragazzi prima in atteggiamento di minaccia e sfida. "Se lei avesse almeno i baffi!", gli aveva detto il direttore, diffidente per l’età troppo giovanile del maestro. Più dei baffi però contano, si vede, altre doti! E’ incalcolabile il bene che, insegnando religione, possono fare ai fanciulli, con il loro ascendente, i maestri. Ad un patto: che essi espongano con fedeltà l’autentica parola di Dio e non le proprie personali opinioni. A volte succede: si scambia la verità col progressismo; si disprezza ciò che il Magistero della Chiesa insegna, perché si vogliono sostituire cose nuove alle cose vecchie. Ma la sostituzione, legittima, opportuna e fin necessaria, se si tratta di aspetti secondari e sorpassati dalla Chiesa, è pericolosissima in altri casi. I maestri raccontano ai loro alunni la fiaba di Aladino e della sua lampada meravigliosa sottratta al mago. Questi, a un certo punto, vuole la rivincita.
Passa per le strade gridando: "Baratto lampade nuove con lampade vecchie!". Pare un ottimo affare, ed invece è una truffa. La moglie credulona di Aladino ci casca. Assente il marito, va in soffitta, prende la lampada, di cui non conosce la virtù portentosa, la consegna al mago. Il briffaldo se la porta via, lasciandole in cambio tutte le sue lucerne di latta luccicante, ma di nessun valore. Il trucco si ripete: ogni tanto passa un mago, mistico, filosofo o politico che sia, e’ offre di barattare mercanzia. Attenzione! Le idee offerte da certi "maghi", anche se luccicano, sono latta, cosa umana, di un giorno! Quelle che essi chiamano idee vecchie e sorpassate, sono spesso idee di Dio, delle quali è scritto che non passerà neppure una virgola! Ahimè, caro Dupanloup, io Vi ho quasi dimenticato, scrivendo di catechisti e maestri. Ma proprio a questi catechisti e maestri, Voi avete qualcosa da dire. E cioè: unire, come avete fatto Voi, la fedeltà a Dio con la fiducia nei veri valori della civiltà moderna e nella perpetua giovinezza della Chiesa. 
Agosto 1974





Gioacchino Belli

Parole, parole, parole... 

    
Caro poeta, Avete trattato piuttosto male nei vostri versi il mio concittadino Papa Gregorio XVI, bellunese. Questo non m’impedisce di riconoscere che negli oltre duemila sonetti in romanesco, che ci avete lasciato, avete talvolta ritratto con vivacissima verità il popolo romano, la sua lingua, l’indole, il costume, gli usi, le credenze, i pregiudizi, le virtù ed anche i difetti. Qualche volta, a dire il vero, siete scivolato nello scrivere; la vostra vita è stata quella di un galantuomo e ci teneste a dirlo: "Scatagnàmo ar parlà, ma aràmo dritto" (pecchiamo nel parlare, ma righiamo diritto). Quante battute felici, però! Questa per esempio: "Non faccio per vantarmi, ma oggi è una bellissima giornata". Alcuni dei vostri sonetti sono poi dei veri quadretti di genere, da cui balzano fuori vivi e parlanti artigiani, donne del popolo, cospiratori, commercianti, prelati e semplici preti. Fra questi ultimi, l’abate Francesco Cancellieri. Lo descriveste in versi famosi, che poi voi stesso commentaste in prosa cosi: Cancellieri "cominciava a parlare di ravanelli, e poi, di ravanelli in carota e di carota in melanzana, finiva con l’incendio di Troia"!

***

Dispiace che, con la sua logorrea sconclusionata ed affliggente, il buon abate abbia fatto cattiva propaganda alla conversazione, la quale, se si svolge nei modi dovuti, è invece una gran bella cosa per la nostra vita di poveri uomini. La conversazione, infatti, ci mette vicino agli altri e ci dà un profondo senso di noi stessi; ci riposa dalle nostre fatiche, ci distrae dalle preoccupazioni, sviluppa la nostra personalità, rinfresca i nostri pensieri. Sono triste? La simpatia di chi conversa con me mi conforta. Mi sento solo? La conversazione fa cessare la solitudine: se si tratta di conversazione familiare, sono felice di essere ammesso nella intimità altrui; se si tratta di conversazione importante, mi sento onorato di venire trattato come una "intelligenza". E’ la prima volta che converso con la tal persona? Mi pare di viaggiare piacevolmente attraverso un paese sconosciuto. E’ la seconda, la terza, la quarta volta? Mi pare di tornare a vedere luoghi già visti, di cui, però, non avevo ancora approfondito tutte le bellezze paesaggistiche. Trovo anche che, conversando, mi arricchisco. Possedere infatti salde convinzioni, è bello; possederle in modo tale da poterle comunicare e vederle condivise e apprezzate, è più bello ancora. La chiarezza della cosa da me detta aumenta la chiarezza della cosa pensata. Se percepisco che il mio sentimento fa vibrare l’animo altrui, me lo sento ritornare ripercosso e accresciuto in me. Nella conversazione ha trovato sollievo anche Gesù; per toccarlo con mano, basta leggere in San Giovanni le confidenze fatte ai suoi apostoli durante l’ultima Cena. Della conversazione Gesù ha fatto spessissimo il veicolo del suo apostolato: parlava, camminando lungo le strade, passeggiando sotto i portici di Salomone; parlava nelle case, con le persone attorno come Maria seduta ai suoi piedi, come Giovanni che reclinava la testa sul suo petto. Più volte mi sono chiesto: perché il Signore ha esposto spesso a tavola le più alte verità? Forse perché nel tempo del pasto la gente depone ogni sussiego e assume un atteggiamento calmo, modesto, disteso. A tavola sono minori o nulle le sollecitudini e le irrequietezze; le persone vi si siedono senza animo polemico, disposte all’accoglienza ed alla simpatia.

***

E fu appunto conversando a tavola che l’altrieri mi venne quasi fatto di persuadere un ospite. Questi si dichiarava - tra un boccone e l’altro, tra un sorriso e l’altro - gran fautore del pluralismo nella fede. "Per me è chiaro, - diceva - nessuno ha in tasca tutta la verità cristiana. Ognuno di noi ne ha solo un pezzetto e bisogna lasciarglielo godere in pace. L’unità la fa solo Dio dall’Alto, mettendo insieme i vari pezzetti e facendone la sintesi". "Ohimé! - risposi - scusa, ma la tua idea di Dio e di verità sembra a me quella degli orbi dell’India". "Quali orbi?", dice lui. "Aspetta!". Mi alzo, esco e torno con in mano "I quattro libri di lettura" di Lev Tolstoi. "Lascia che te ne legga una sola pagina". E leggo. Gli elefanti del re(favola). Un re indiano ordinò di radunare tutti i ciechi e, quando ciò fu fatto, disse di mostrar loro i suoi elefanti. Uno tastò la gamba, un altro la coda; un terzo la radice della coda, un quarto il ventre, un quinto il dorso, un sesto le orecchie, un settimo i denti e un ottavo la proboscide. Poi il re fece venire i ciechi al suo cospetto e domandò: "A che somigliano i miei elefanti?". Il primo cieco rispose: "I tuoi elefanti somigliano alle colonne". Era quello che aveva tastato le gambe. Il secondo disse: "Somigliano ad una scopa". Era quello che aveva tastato la coda. Il terzo disse: "Somigliano ad un ramo". Era quello che aveva tastato la radice della coda. Quello che aveva tastato il ventre, disse: "I tuoi elefanti somi­gliano ad un mucchio di terra". Quello che aveva tastato i fianchi, disse: "Somigliano ad un muro". Quello che aveva tastato il dorso, disse: "Somigliano ad una montagna". Quello che aveva tastato le orecchie, disse: "Somigliano ad un ariete". Quello che aveva tastato i denti, disse: "Somigliano alle corna". Quello che aveva tastato la proboscide, disse: "Somigliano ad una grossa corda". E tutti i ciechi cominciarono a disputare tra loro e a litigare. Deponendo il libro, dico: "Senti, a me ripugna pensare che Dio abbia mandato suo Figlio a dirci 'Io sono la via, la verità e la vita' con il bel risultato di farci poi trovare tutti nella situazione di quei ciechi, con in mano ciascuno una misera particella di vera, diversa dalla particella degli altri. Che noi si conosca le verità della fede solo per analogia, sì; ma orbi fino a questo punto, no; mi pare indegno sia di Dio sia della nostra ragione!". L’inaspettata teologia fatta a base di code e schiere di elefante, non convinse del tutto l’ospite, ma lo scosse, facendogli dire: "Toh! questo nessuno me lo aveva detto! ". "Non lo sai? - risposi - a volte sono i paperi, che menano le oche a bere. Dove Rahner non riesce coi suoi volumoni di teologia, può sottentrare Tolstoi colla favoletta! ".

***

Da Rahner e da Tolstoi, illustre Belli, torno a Voi, riconoscendo che - nella conversazione - c’è anche il rovescio della medaglia: lo sproloquiare del vostro abate Cancellieri è appena uno dei tanti difetti. Ce n’è altri, e lo sappiamo noi a Venezia, dove il Goldoni ha descritto i guai combinati dal con­ersare ne "I pettegolezzi delle donne"; ne "La bottega da caffè" con quel don Marzio così maldicente e piantagrane; ne "Il bugiardo" con quel Lelio, che aggiunge bugie a bugie, spacciandole come "spiritose invenzioni"; ne "Le baruffe chiozzotte" e ne "Il campiello" con quelle donne, che sembrano chiedere all’amica di custodire un segreto solo per diffondere una notizia. Ma anche Voi ne sapete qualcosa: lo dimostra il delizioso quadretto, che trascrivo con qualche modifica nella grafia.Eccote qua sì ccome l’ho saputa. Nanna s’è con fidata con Vincenza; questa l’ha detto a Nina, a la Sapienza; Nina l’ha detto in confidenza a Tuta. Cussì è andato a l’orecchia de Clemenza, ch’è corsa a racontallo a la baffuta: e lei, ch’è amica mia, oggi è venuta a dimmelo a quattr’occhi in confidenza. E s’io l’ho detto a te, so de raggione che tu sei donna ch’el segreto mio l’hai sentito in sigill de confessione. Comare, abbada per l’amor de Dio, se te pijasse mai la tentazione de dillo, non lo dì che l’ho detto io! Conversare, dunque, sì, ma non a scapito della carità, della verità, del lavoro, dello studio: della misura, insomma. Che non ci capiti di avere anche noi sulla nostra tomba scolpita la seguente epigrafe: E’ qui sepolto il gran ciarlon Soemo: Ora un poco anche noi parlar potremo!

***

Altro è conversare, altro è chiacchierare inconsideratamente infilzando una dopo l’altra notizie inutili, nascondendo la propria anima invece di rivelarla, tagliando la strada ad altri interlocutori, stordendo la gente e lasciandola prostrata di forze! Ho letto che a Tommaso Moro, in un suo viaggio in Olanda, capitò di far strada con un uomo dal parlare molto piacevole per lo spazio che lasciava all’interlocutore, per le cose che diceva e per il brio con cui le diceva. Ad un certo punto, ammirato per una nuova risposta quanto mai spiritosa ed azzeccata del compagno, Tommaso esclamò: "Ma voi, o siete il diavolo o siete Erasmo di Rotterdam! ". "Diavolo non sono - rispose l’altro - ma Erasmo sì". L’episodio dice che la conversazione ci rivela tali quali siamo e che in essa dobbiamo cercare di dire qualcosa di utile, di interessante e di piacevole, senza predicozzi, senza pose, senza parole scelte o altisonanti. Queste ultime, caro Belli, non piacevano neanche a Voi e lo diceste chiaro, prendendo di mira una innocente congiunzione, che usata oggi, farebbe ridere, ma che ai vostri tempi, era di gran moda. Conciossiacosaché l’è una parola, che i nostri padri udivano la prima, al primo ingresso nella prima scuola. E tale e tanta ne facevan stima che sempre ne tenean piena la gola da sputarla dovunque e in prosa e in rima. Se veniste oggi, il conciossiacosaché non l’udireste più. Dovreste, invece, far l’orecchio ad altre frasi: "confrontarsi con la parola di Dio", "discorsi e gesti profetici", "istanze sociali", "mediazione fra fede e storia", "strutturalismo", "comunione", "liberazione", "inchiestare", "verificare", "leggere in chiave di questo, essere a livello di quest’altro". Sono tutte parole che esprimono concetti elevati, intendiamoci, ma è un po’ buffo vedere persone dichiaratamente anticonformiste "conformarsi" allegramente a queste parole solo perché sono quelle usate da alcuni alti papaveri. Io me ne meraviglio pressappoco come vi meravigliaste Voi di fronte ad altre frasi: Io non posso capi da che ne naschi che sentendo la gente gli starnuti abbiano da infilzà tanti saluti e gnente per la tosse e pe’ li raschi. "Prosit, buon pro, evviva, Iddio v’aiuti, bezzi, felicità, pieni gli fiaschi et iterum salute, e figli maschi"...  Voi non potevate capire allora il perché. Io non son capace di capire adesso. Che la colpa sia della moda? Essa è stata definita "orrore del Passato Prossimo", "non madre, ma suocera e tiranna del buon senso". Quanto meglio se, almeno in conversazione, al posto delle difficili parole di moda, usassimo parole semplici e facili, magari prese a prestito dalle favole di Tolstoi o dai vostri sonetti, ovviamente selezionati e purgati! 
Luglio 1974





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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