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Se avete desiderio di capire che cosa insegna la Bibbia che il Magistero della Santa Chiesa, con il Sommo Pontefice ci insegna, questo Gruppo fa per voi. Non siamo "esperti" del settore, ma siamo Laici impegnati nella Chiesa che qui si sono incontrati da diverse parti d'Italia per essere testimoni anche nella rete della Verità che tentiamo di vivere nel quotidiano, come lo stesso amato Giovanni Paolo II suggeriva.
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ILLUSTRISSIMI Lettere del Patriarca Albino Luciani Giovanni Paolo I

Ultimo Aggiornamento: 07/11/2017 10:21
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07/11/2017 09:54
 
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Manzoni

L' unica aristocrazia

    Caro don Lisander,
  Quando moriste, un secolo fa, i vostri amici, accorsi nell’umile stanza del trapasso, dissero in coro: "Oggi è asceso in Cielo un nuovo santo". Più tardi, per la causa della vostra santità ufficialmente proclamata dalla Chiesa, scrisse e si batté il candido e generoso Antonio Cojazzi. Costoro esagerarono un po’. A rovescio esagerarono di recente Maria Luisa Astaldi e altri, che, in pagine romanzate e dissacranti, con grande leggerezza, vi presentarono come un contagiato da male ereditario, un nevrotico inguaribile e in preda a tormentosi, allucinanti dubbi sulla fede. La verità è un’altra. Pur condizionato da qualche complesso, dal temperamento e da dolorose vicende familiari, foste un sincero, convinto e grande cattolico. Anche vecchio, vi accostavate ogni giorno all’altare per ricevere l’Eucaristia. Quale fosse la vostra vita, lo lasciano intravedere i pensieri tutti evangelici di cui sono pieni i vostri scritti. Questi, per esempio: "La vita non è già destinata a essere un peso per molti e una festa per alcuni, ma per tutti un impiego, del quale ognuno renderà conto"; "la disgrazia non è il patire, e l’essere poveri; la disgrazia è il far del male"; "il solo pensiero di provocar dispute, mi contrista"; "Dio non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande". Dovunque la vostra penna toccava, sprizzavano scintille di fede religiosa, il che non poteva succedere, se la mente e il cuore, che dirigevano la vostra mano nello scrivere, di religione non fossero stati pieni. "I Promessi Sposi" testimoniano in questo senso dal principio alla fine; è infatti sintomatico che di essi, di un romanzo, di una storia d’amore, Ludovico da Casoria, frate santo, abbia potuto dire: "E’ un libro, che potrebbe essere letto in un coro di vergini presieduto dalla Madonna".

***

"Storia di povera gente" il vostro romanzo. Povero l’ambiente principale: montagna, campagna, lago. Poveri i protagonisti: Renzo e Lucia, due bravi e buoni giovani, che chiedono solo di volersi bene. Renzo ha preparato un nido per colei che ama e che, a sua volta, a quel nido, passando, sogguarda spesso, alla sfuggita e non senza rossore, pregustandovi un lieto e perpetuo soggiorno di sposa. Sul nido, ecco, invece, la tempesta, che separa e disperde i due fidanzati. "Ma il Signore sa che ci sono!", dice Lucia nel momento più difficile. "Quel che Dio vuole!" dice Renzo, pur senza rinunciare ad un’onesta e ardita rivalsa. Intorno ai due, si muove gente altrettanto semplice e onesta. Una Agnese illetterata, ma pratica della vita, che consiglia decisa: "Conviene fare così". "Ma non è male imporre al curato un matrimonio-sorpresa?", obietta Lucia. "E’ come lasciar andare un pugno a un cristiano - risponde Agnese -; non istà bene; ma dato che gliel’abbiate, né anche il papa non glielo può levare".

E con Agnese tanti, tanti altri: un curato pusillanime, egoista, timido, che si preoccupa soprattutto della propria pelle; Perpetua, la serva-padrona, che dà buoni "pareri" al curato; Ambrogio sacrestano; un oste molto pratico; "Paolin dei morti" sepoltore; "un certo Tonio" con quel sempliciotto di Gervaso suo fratello e con una moglie con la quale è in debito di bugie; la fanciulla scarna, che contende l’erba alla vaccherella magra; Bettina, la piccola che grida giuliva: "Lo sposo,lo sposo!"; Menico, ragazzo bravissimo a fare a rimbalzello ed il Console del villaggio. Ma chi picchietta all’uscio e dice: "Deo gratias"? E’ fra Galdino, che, bisaccia pendente alla spalla sinistra, viene alla cerca delle noci e, tra una chiacchiera e l’altra, racconta un gran miracolo avvenuto laggiù, in un convento di Romagna. E quest’altro cappuccino, che si affaccia all’uscio di Agnese e si ferma ritto sulla soglia, chi è? "Un religioso - dice Renzo - che, senza farvi torto, val più un pelo della sua barba che tutta la vostra", un nemico aperto dei tiranni in parole e, dove poteva, in opere. E’ fra Cristoforo, padre spirituale di Lucia, della quale ha temprato la coscienza, facendo di una povera contadina, sola al mondo con la madre, una donna pura e forte, piena di fede e di speranza.

***

Tutti costoro si muovono nel villaggio. Ma dentro e fuori villaggio Voi avete creato ben duecentocinquantacinque personaggi, tutti delineati al vivo, magari con poche parole, come la donna "pentolaccia a due manichi", come il grassotto che sta ritto sulla soglia della sua bottega con l’aria più di voler fare domande che di dar risposte, come il trombettiere di Don Gonzalo, come Don Pedro, cocchiere di Ferrer, che in mezzo alla folla tumultuante sorride alla moltitudine con grazia ineffabile, pregando mellifluo: "Di grazia... un pochino di posto"; una volta diradata Ia gente, invece, gli torna in petto il cuore antico, smette ogni cerimonia, sferza con brio i cavalli e grida: "Ohé, ohé!". Ma i grandi di questo mondo? Nel vostro romanzo Voi li fate pure entrare, ma a servizio degli umili oppure in contrapposizione agli umili, in modo che questi facciano più bella figura.

Aristocratico di nascita, Voi ammettete un’unica aristocrazia: il servizio ai poveri. Per voi "non c’è superiorità d’uomo sopra altri uomini se non in loro servizio". Il Cardinal Federigo, padre Cristoforo, l’innominato convertito, il marchese erede di Don Rodrigo, la mercantessa agiata appartengono all’aristocrazia delle anime, perché si chinano nelle miserie dei poveri. Gli altri personaggi d’alto affare, specialmente i violenti e i sopraffattori, non vi piacciono e come lo fate capire! "Sono di quelli che hanno sempre ragione". "Sono della costola di Adamo". Spediscono i figli cadetti al chiostro, per lasciar intatta la sostanza al primogenito, "destinato a procreare dei figlioli per tormentarsi e tormentarli". Don Rodrigo è un prepotente, non teme Dio ma teme il mondo e il disprezzo dei villani tra cui vive; è capace di insultare e cacciare di casa sua un povero frate, ma è pieno di paura di fronte all’Ordine ("volevate ch’io mi tirassi addosso tutti i Cappuccini d’Italia?"). Del principe, che monaca per forza la figlia, Voi dite: "Non ci regge il cuore di dargli il titolo di padre".

Bollato senza indulgenza il Conte Zio del consiglio segreto, borioso e ipocrita ("un parlar ambiguo, un tacere significativo, un restare a mezzo, un restringer d’occhi, un lusingare senza promettere"). Bollato il Conte Attilio, gran sostenitore della metodologia delle bastonate da infliggere sia ai portatori di sfide ("il bastone non isporca le mani a nessuno"...) sia ai frati cappuccini ("bisogna saper raddoppiare a tempo le gentilezze a tutto un corpo, e allora si può impunemente dare un carico di bastonate a un membro"). Bollato anche il dottor Azzeccagarbugli, ("quel signor dottor delle cause perse"), opportunista calcolatore, "giocatore di bussolotti" ossia ciarlatano, fantoccio in mano ai potenti e alleato delle ribalderie da loro tramate contro i poveri.

***

Per dire tutto, nessuna violenza Vi piace, neppure quella che tentano i poveri quando sono ingiustamente calpestati. Renzo, deciso a farsi giustizia da sé stesso, esclama: "A questo mondo c’è giustizia finalmente", frase da Voi crudamente folgorata con questo commento: "Tant’è vero che un uomo sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica". E al posto della violenza cosa consigliate contro la violenza? Il perdono. Perdono domanda fra Cristoforo al fratello dell’uomo da lui ucciso e per tutto il resto della sua vita fa propaganda di perdono. Tiene nella borsa il famoso "pane del perdono", che, prima di morire, consegna, come eredità, a Renzo e Lucia, con queste parole: "Fatelo vedere ai vostri figlioli... dite loro che perdonino sempre, sempre! tutto, tutto!".

Un anno prima, a Renzo sconvolto e arrabbiato, aveva detto: "Ho odiato anch’io... l’uomo, che odiavo cordialmente, che odiavo da gran tempo, io l’ho ucciso... credi tu che se ci fosse una buona ragione, io non l’avrei trovata in trent’anni? Ah, s’io potessi ora metterti in cuore il sentimento che dopo ho avuto sempre... per l’uomo ch’io odiavo! ". La lezione non è vana. Renzo concede il perdono a Don Rodrigo: un perdono intercalato con risvegli di rabbia e ritorni di vendetta nella fuga da Monza a Milano, nella quale "ebbe ammazzato in cuor suo Don Rodrigo, e risuscitatolo, almeno venti volte"; un perdono "proprio di cuore" dopo i nuovi rimproveri di fra Cristoforo al Lazzaretto; perdono ripetuto nella capanna di Lucia e di nuovo, all’annuncio della morte di Don Rodrigo, sempre con questa qualifica: "di cuore, di cuore".

***

Un altro sentimento di non violenza pervade tutto il vostro romanzo: la fiducia nella Provvidenza. Lucia, dando l’addio ai suoi monti, piange nel fondo della barca, ma il pensiero ultimo che le si ferma nell’animo è questo: "Dio che dava già tanta giocondità è dappertutto". Riluttante al matrimonio di sorpresa, aveva detto: "...tiriamo avanti con fede, e Dio ci aiuterà... lasciamo fare a Quello lassù. Non volete che sappia trovar Lui il bandolo di aiutarci, meglio che non possiamo fare noi, con tutte codeste furberie?". Renzo, nella boscaglia, "prima di sdraiarsi su quel letto che la Provvidenza gli aveva preparato, vi si inginocchia a ringraziarla di quel benefizio, e di tutta l’assistenza avuta da essa in quella terribile giornata". Chiusi poi gli occhi, i pensieri premono tumultuosi alla sua mente, ma finisce per predominare quest’ultimo: "Dio sa quel che fa: c’è anche per noi. Vada tutto in isconto dei miei peccati. Lucia è tanto buona! non vorrà poi farla patire un pezzo, un pezzo, un pezzo!".

Ancora mezzo affranto e tutto sossopra dopo la corsa e il salto, col quale s’è salvato sul carro dei monatti, "ringrazia intanto alla meglio in cuor suo la Provvidenza, d’essere uscito d’un tal frangente, senza ricevere male, né farne". E si tiene sempre in questo clima di fiducia. "La c’è la Provvidenza!" dice, prima di spogliarsi a favore dei poverelli degli ultimi denari, alle porte di Bergamo. "L’ho detto io della Provvidenza!", esclama, quando il cugino Bortolo gli assicura aiuto. "Devo ringraziare la Madonna fin che campo!", dice all’amico, di ritorno dal Lazzaretto. Ed alla fine, cercando con Lucia, trova il sugo di tutta questa storia e lo riassume così: i guai, "quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende utili per una Vita migliore". D’accordo, in questo, col cardinal Federigo: "far quel che si può, industriarsi, aiutarsi, e poi essere contenti". D’accordo anche, caro Don Lisander, con tutti i veri seguaci del Vangelo.
   
Luglio 1973




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Ne vedreste delle belle! 

    
Illustre Marconi Stiamo celebrando i cent’anni dalla vostra nascita (1874 - 1974). Con l’ingegno che avevate, è stata una grande fortuna per il mondo che vi siate dedicato fin da fanciullo ai problemi, per Voi affascinanti, della fisica moderna. A 21 anni,senza laurea, senza neppure una licenza liceale, avevate già scoperto la radiotelegrafia, trasmettendo segnali elettrici a distanza. Vennero negli anni successivi, a valanga, studi nuovi con nuove scoperte. Nel 1924 riusciste a perfezionare la radiofonia, facendo pervenire la voce umana dall’Inghilterra all’Australia. Con la scoperta delle onde corte e delle microonde assicuraste nuovi sviluppi alla televisione. Ricordo con quale interesse il mondo intero Vi seguiva: ero un povero ragazzo, ma sapevo che nel 1912, proprio in grazia delle vostre invenzioni, s’era potuta salvare la maggior parte dei passeggeri del Titanic ch’era affondato in pochissime ore per aver urtato contro un iceberg; sentivo parlare della vostra Elettra, nave-laboratorio, come di un Vascello fantasma; faceva impressione vedervi in fotografia accanto a Pio XI e sentire che ad un semplice vostro segnale s’erano accese simultaneamente le migliaia di lampade a Sidney; che avevate attraversato ben 87 volte l’Oceano per le vostre sperimentazioni. Pareva che più avanti di così non si potesse andare. Invece? 

Invece s’è continuato a progredire rapidamente. Se tornaste al mondo ne trovereste delle cose nuove, dal 1937, anno della vostra morte! Funzionano la televisione a colori, le videocassette, il transistor, il satellite artificiale, il radar, la penicillina, la stanza di rianimazione. Negli stabilimenti ci sono macchine a integrazione, che sfornano gli oggetti dopo esserseli lavorati dal principio alla fine senza che i vari pezzi siano stati nemmeno toccati dalla mano dell’uomo. Le macchine a controreazione controllano i prodotti in modo che eventuali difetti vengano automaticamente scoperti e corretti. Cervelli elettronici registrano informazioni ed eseguiscono le più varie operazioni in brevissimo tempo. Gli uomini sono andati più volte sulla Luna e stanno progettando viaggi su altri pianeti. Siamo in piena era tecnologica, post-industriale e interplanetaria!

***

Allora va tutto bene!, direte, essendo Voi stato anche imprenditore e realizzatore economico, oltre che grande scopritore. Distinguo. Molte cose vanno benissimo, ma stanno portando delle conseguenze gravide di problemi e di pericoli. Abbisognerebbero pertanto di venire corrette e meglio incanalate. Paolo VI, per esempio, ha parlato di "popoli della fame, che interpellano oggi in modo drammatico i popoli dell’opulenza" e di "collera dei poveri dalle conseguenze imprevedibili". Succede infatti questo: in un terzo del mondo, c’è abbondanza straordinaria di tutto e uno spreco sfacciato; in due terzi del mondo c’è una miseria, che va aumentando sempre più. Basterebbe annullare le pazze spese degli armamenti e diminuire certi lussi: entro breve tempo la tecnologia potrebbe portare tutta la famiglia umana a un livello economico, sociale e culturale assai elevato.
Questo è risaputo, e questo soprattutto irrita i poveri. 
Ho parlato di "famiglia umana"... Mai come oggi si è sentito che il mondo è piccolo: abbiamo fame e sete di unità, ma veniamo continuamente stiracchiati da forze opposte. Fanno unità: la rete prodigiosa di comunicazioni, che fascia ormai la terra in cento maniere; l’aspirazione universale alla pace; l’esistenza dell’ONU e di altre organizzazioni soprannazionali; gli scritti e l’opera di una elite di pensatori e di politici. Fanno disunione: le vampate di nazionalismo esagerato, che s’accendono ogni tanto qua e là, sia nei popoli vecchi che nei nuovi; la divisione del mondo in blocchi opposti guidati da superpotenze; le tensioni sociali, che ormai non sono più solo tra classe e classe, ma tra regione e regione, tra stati ricchi e stati poveri.

***

Direte ancora: Ma io sono stato anche un credente. Perché la Chiesa non sfrutta la immensa carica rinnovatrice che è nel Vangelo, rinnovandosi essa stessa e camminando coi tempi nuovi? Desiderio giustissimo. E l’ha già fatto suo il Messaggio del Concilio agli uomini di pensiero e di scienza. "Il vostro cammino, ha detto, è il nostro... Noi siamo gli amici della vostra vocazione di ricercatori, gli alleati delle vostre fatiche, gli ammiratori delle vostre conquiste e, se occorre, i consolatori del vostro scoraggiamento e del vostro insuccesso". Parole che, sono sicuro, vi sarebbero piaciute molto; ad esse sono seguiti i fatti: è in atto nella Chiesa un rinnovamento interno e un dialogo colle forze esterne. Si incontrano però delle difficoltà. Io, che sono vescovo, mi sento a volte nei panni del figlio di Giovanni II, re di Francia. Questi nel 1356, alla battaglia di Poitiers, menava gran colpi di spada; accanto a lui combatteva pure il figlio, ma vegliava sul padre e gli gridava ogni tanto: "Papa, guàrdati da destra! Papà, guàrdati da sinistra!". E’ il mestiere che devo fare io continuamente.

La Chiesa desidera, per esempio, applicare l’invito di Rosmini "sentire altamente di Dio" con celebrazioni liturgiche degne, spogliando il concetto di Dio dai modi, talvolta ingenui e caricaturali, di cui l’aveva rivestito una civiltà agricola e pre­scientifica. 
Ma è lavoro difficile. Da destra si grida all’empietà e al sacrilegio ogni volta che si abbandona un rito vecchio per uno nuovo. A sinistra, viceversa, si attua indiscriminatamente la novità per la novità, si smantella allegramente tutto l’edificio passato, si mandano in soffitta quadri e statue, si vede idolatria e superstizione dappertutto, si arriva a dire che, per salvare la dignità di Dio, occorre parlare di Dio in termini sceltissimi o tacere addirittura.

***  

Illustre Marconi! Nel campo della scienza, Voi esigevate giustamente la certezza fisica e matematica. In altri campi però vi siete accontentato della certezza del buon senso e del senso comune, ch’è pure una certezza. Io so benissimo che di Dio non posso parlare nel modo che Egli merita, ma bisogna pure che ne parli in qualche modo. Faccio come quella madre che, rinchiusa in una prigione senza finestre, partorì un figlio, il quale crebbe con lei senza mai vedere il sole. Per dargliene un’idea, quando aveva sei anni, la madre gli mostrò la lucerna accesa dal carceriere. "Ecco, disse, il sole è come quella fiamma: fa luce, riscalda, ma il sole è molto, molto più grande!". Era poco, era un’analogia, ma era meglio che niente. Nel campo sociale ed economico la Chiesa trova pure difficoltà nel portare il suo contributo. Come Chiesa, intanto, dichiara che non ha né mandato né competenza né mezzi per risolvere i problemi strettamente tecnici. I fedeli, che sono anche cittadini, devono essi agire nel mondo sindacale, politico e imprenditoriale, ispirandosi alla propria fede religiosa. 

La Gerarchia propone ad essi e a tutti un insegnamento sociale ricavato dai principi del Vangelo, che oggi deve farsi strada tra le opposte ideologie del capitalismo e del marxismo. Ilprimo ha il merito di aver promosso lo sviluppo industriale e di difendere la libertà personale; gli si rimprovera però di aver causato le gra­vissime sofferenze dei poveri nel secolo scorso e gli squilibri odierni. Il marxismo conculca la libertà personale e spazza via tutti i valori religiosi; non gli si può, tuttavia, negare il merito di aver fatto aprire gli occhi a molti sulle sofferenze dei lavoratori e sul dovere della solidarietà. Il capitalismo, secondo l’insegnamento della Chiesa, per essere a posto, dovrebbe essere profondamente modificato. E’ buona la ricchezza prodotta; a patto che non vi si attacchi troppo il cuore, che ad essa partecipi quanta più gente è possibile, che non dia più origine ai gravi squilibri di oggi. Il guadagno è buono solo se raggiunto con mezzi giusti cioè senza sacrificare la dignità di alcuna persona umana. Anche la concorrenza può essere buona, a patto che non degeneri in lotta feroce, senza risparmio di colpi. La Chiesa, ad esempio di Cristo, deve amare tutti, circondando però del suo amore preferenziale i poveri e i più sfortunati. Quanto al marxismo, esso sta oggi cercando di penetrare nelle file dei cattolici attraverso una sottile distinzione. "Altro, si dice, è l’analisi che Marx ha fatto della società, altro è l’ideologia che ha guidato Marx. L’analisi è cosa rigorosamente scientifica, illuminante, utile per risolvere i problemi e noi l’accettiamo; l’ideologia materialista la respingiamo".

***

Il contributo della Chiesa per l’unità del mondo è espresso così da Paolo VI: "Esperta in umanità... senza pretendere di intromettersi nella politica... la Chiesa offre ciò che possiede in proprio: una visione globale dell’uomo e dell’umanità". Questa visione affonda le sue radici nella Bibbia, che mostra tutti gli uomini avviati al medesimo destino, redenti da un Salvatore, che è e si professa solidale con tutto il genere umano, investito della missione di riconciliare con sé tutto ciò che esiste sulla terra e nei cieli" (Col. 1, 20). Il Giona del Vecchio Testamento non ritiene di dover spartire con altri popoli i privilegi del suo popolo. Mandato a predicare a Ninive, in Oriente, tenta di fuggire verso Occidente, perché i Niniviti non sono ebrei. Dio, attraverso un suo sistema di tempeste scatenate e di fauci di balene spalancate, lo riporta in Oriente. Predicando ai Niniviti, egli si augura che essi non si convertano. Succede il contrario: si convertono, Dio li perdona e Giona, con animo di ragazzo viziato, si lamenta con Dio: "Lo sapevo, Signore! Ti lasci sempre impietosire, tu perdoni anche a questa gentaglia". Ma Dio gli imparte una lezione di universalismo con fine umorismo, ma con altrettanta fermezza. Uscito di città, Giona si prepara un riparo di frasche contro il caldo e Dio gli dà una mano, facendo crescere in tutta fretta una pianta di ricino, che gli fa ombra sul capo. Giona si addormenta contento, ma la mattina trova la pianta seccata e sente il sole dardeggiare sulla sua testa.

Si lamenta di nuovo, ma Dio gli risponde: "Come? Tu ti commuovi per il ricino, che non ti è costato nulla, che in una notte è cresciuto e in una notte è perito; e io non dovrei commuovermi per Ninive, una città di centoventimila abitanti, che non sanno distinguere la loro destra dalla loro sinistra?". 
Questo discorso universalistico, chiarissimo anche nelle profezie di Isaia, di Michea e in alcuni Salmi, è ripreso in pieno da Gesù. Al presepio, con i pastori, vengono anche i Magi non ebrei: beneficati e lodati da lui sono anche la donna Cananea e il Centurione romano; la missione affidata da Cristo agli Apostoli è in questi precisi termini: "Andate e fatevi discepole tutte le genti (Mt. 28, 19)", sicché San Paolo può esporre il piano divino della salvezza nella seguente frase: "Ricapitolare nel Cristo tutte le cose, quelle celesti e quelle terrestri" (Col. 1, 10). 

In linea colla Bibbia, gli ultimi Papi hanno calorosamente perorato la causa dell’unità e della pace. Paolo VI, in modo speciale, ha tentato anche vie inedite, parlando all’ONU, inviando telegrammi perfino ai capi degli Stati comunisti, offrendo la sua mediazione. Direte: con quali risultati? Come minimo c’è il risultato della convinzione propagandata e diffusa, di un nuovo clima indotto, di una mutazione, che sta avvenendo. Usando un richiamo classico, direi che dalla mentalità di Gian Galeazzo Visconti stiamo passando a quella del Petrarca. Il primo, secondo lo stile dei signori rinascimentali, nemmeno concepiva un governo senza guerre guerreggiate e arrivò al punto di proibire ai preti di dire nella Messa le parole "dona nobis pacem". Il secondo era di parere diametralmente opposto e raccontava un dialogo tra lui e un pazzo. Questi, veduti dei soldati in marcia, aveva chiesto al poeta: "Dove vanno?". "Alla guerra!" aveva risposto il Petrarca. "Ma, osservò il pazzo, questa guerra dovrà pur un bel giorno terminare colla pace, sì o no?". "Certo!", replicò il poeta. "Ma allora, replicò il pazzo,  perché non fare subito la pace, prima di cominciare la guerra?". "Io, concludeva malinconicamente il Petrarca, io la penso come quel pazzo!" . Se Dio vuole, pare che un po’ di questa pazzia buona stia diffondendosi anche per merito della Chiesa in tutti i cervelli.

***  

Illustre Marconi! La vostra vita intensissima, vissuta per la ricerca e per la realizzazione fino all’ultimo giorno, si riassume in questa frase: Poche parole, tanti fatti. Sotto questo aspetto insegnate qualcosa anche a noi, che sembriamo oggi inclinati alla tendenza contraria delle molte parole (scritte o parlate) e degli scarsi frutti pratici. 
Giugno1974



Christopher Marlowe

La più riuscita beffa del diavolo


    
Illustre poeta, Vi ho incontrato la prima volta, leggendo il poeta Carducci. Questi si finge in carrozza, viaggiante lungo il Chiarone, fiumiciattolo della Maremma toscana: le "smunte cavalle" corrono, il buio cresce, cade una pioggia leggera e il poeta sta leggendo proprio un Vostro libro. Deve ricavar dalla lettura visioni allucinanti, perché scrive: "dal reo verso bieco, simile a sogno d’uomo, cui molta birra gravi... esala un vapore acre d’orrida tristizia".   Ad un certo punto non ne può più e butta addirittura il Vostro libro: "Via, tu, Marlowe, a l’acque!"   Ero un ragazzo, allora. Naturale che mi chiedessi: "Che cosa avrà contenuto di orrido quel libro? Non posso ripescarlo dalle acque del Chiarone; chissà se lo pesco in biblioteca?". L’ho pescato: la "Storia tragica del dottor Faust".

Davvero tragica e fosca. Nelle prime pagine vi trovai i termini del contratto tra Faust e il diavolo: "Primo: il dottor Faust potrà essere uno spirito in forma e sostanza. Secondo: Mefistofele diavolo sarà suo servo ai suoi ordini. Terzo: Mefistofele farà o recherà a Faust qualsiasi cosa. Quarto: Mefistofele sarà nella camera o nella casa di Faust, invisibile. Quinto: egli apparirà al detto Giovanni Faust in qualsiasi momento, nella forma o nell’aspetto che egli vorrà". "Io, Giovanni Faust di Wittemberg, dottore, col presente atto cedo anima e corpo a Lucifero, principe dell’Est, e al suo ministro Mefistofele e, inoltre, concedo loro pieno diritto, dopo trascorsi 24 anni, di portare il suddetto Giovanni Faust, corpo e anima, carne, sangue e beni nella loro dimora, dovunque sia. Di mia mano. Giovanni Faust". Arrivato alla fine del dramma, io chiedevo a me stesso: "Bravissimo il Marlowe come poeta dell’orrido, ma non è stupido il diavolo e non è pazzo il dottore nel condurre avanti un contratto di questo genere?".

Oggi sono in grado di rispondere: "Sì, stupido il diavolo, pazzo il dottore e fortuna che il contratto non sia mai esistito!". Ma ecco, sento altri, che intervenendo, dicono: "La fortuna è invece che il diavolo non esiste!". A Voi, Marlowe, questa moderna negazione del diavolo interessa poco, penso; verso di essa inclinavate, se V’ho capito bene, già 450 anni fa. A me, invece, essa dispiace moltissimo. Con Carlo Baudelaire, come Voi poeta e come Voi tutt’altro che farina da far ostie, penso che "la più riuscita beffa del diavolo sia questa: far credere agli uomini che egli non esiste". Lui, uno dei protagonisti della storia, cerca di passare in grande incognito nel mondo e di farsi negare dagli uomini per portarli a promuovere contro Dio la rivolta che fu già sua, e in parte c’è riuscito. Una prova s’è avuta, quando, alcuni mesi fa, il Papa fece un severo richiamo sul diavolo, dicendo che esso esiste non soltanto come male impersonale, ma come persona vera, invisibile sì, ma operosamente attiva ai danni dell’uomo.

Ci furono delle grosse reazioni. Alcuni, dall’alto di giornali e riviste, improvvisandosi teologi, sentenziarono sussiegosamente non essere discorso serio quello d’un papa, che risuscita miti medievali e interrompe il "progresso" di una teologia, che stava ormai confinando il diavolo in un minimo cantuccio imposto dalla "cultura". Uscì perfino un libro: "Il papa e il diavolo". Voi, Marlowe, l’avreste definito "malignantis naturae": in quel libro, infatti, il diavolo è solo un pretesto: il servizio di Paolo VI alla Chiesa e al mondo è il tema vero, trattato con l’apparente severo armamentario dei dati e della ricerca obiettiva: sotto, invece, c’è ora congenita incapacità di capire cose di Chiesa, ora ingenuità di orecchiante, ora spiacevole tendenziosità. Più positiva, la reazione di alcuni teologi di "manica larga". Interpellati, essi, magari a denti stretti, risposero che un cattolico non può decentemente negare l’esistenza del diavolo, tanto apertamente ne parla la Bibbia. 
Qui sta il punto: la Bibbia e la giusta lettura della medesima. Sorprende una cosa: mentre le religioni dell’antico Oriente avevano una demonologia sviluppatissima e pittoresca, il Vecchio Testamento fa al demonio un posto ristretto. Timore di intaccare il monoteismo, di far torto al culto ebraico ufficiale, di falsare il problema del male spiegano forse questo riserbo degli scrittori sacri.

Nel Nuovo Testamento c’è più abbondanza. Vi si incontrano spesso questi nomi: "demoni", "spiriti, "spiriti maligni", "spiriti impuri, "il maligno", "il tentatore". Questi "spiriti" , secondo il Vangelo, cercano di opporsi alla venuta del Regno, possono tentare gli uomini come hanno tentato Gesù nel deserto. Per San Giovanni la passione di Gesù è una lotta contro il demonio; negli Atti è detto che la predicazione degli Apostoli sarà la continuazione della lotta tra Regno di Dio e regno del demonio. Più volte sia Gesù che i suoi ascoltatori danno al demonio la colpa di malattie: cecità, mutismo, sordità, convulsioni, disfunzioni mentali. Gesù guarisce quelle malattie, mai però attraverso formule magiche o esorcismi, bensì impartendo un ordine, facendo un semplice gesto. San Paolo parla spesso della potenza del diavolo e della tentazione che dichiara frequente, varia, dannosa: il diavolo si trasforma perfino in angelo di luce per meglio ingannare i cristiani. Paolo stesso si sente schiaffeggiato da un "angelo di Satana" con attacchi non meglio specificati. Non se ne spaventa però: la potenza delle tenebre non sarà capace di separarlo dalla carità di Cristo. Gesù, dice, ci ha liberati dalla potenza del demonio e sono i cristiani che, alla fine, giudicheranno gli angeli. Più colorito, il libro dell’Apocalisse.

Per la verità, la sua demonologia, a sfondo di lotte e di vittorie di angeli su demoni, non è facile da interpretare. Dall’Apocalisse è influenzata la demonologia dei primi secoli cristiani. Vi è frequente il "tema dell’astuzia". Dio avrebbe nascosto la divinità sotto la natura umana di Cristo. Il diavolo vi si sarebbe gettato sopra sprovvedutamente. Preso come uno stupido pesce all’amo, dice san Gregorio papa. Imprigionato come un sorcio goloso alla trappola della croce, dice sant’Agostino. San Cirillo di Gerusalemme parla invece di veleno, che, inghiottito, obbliga il diavolo a sputar fuori le anime, che teneva prigioniere. Questo tema del diavolo ingannatore ingannato, abbandonato in seguito dai teologi, fu ripreso dagli artisti. Non piacque a Voi, Marlowe, che faceste finire per sempre il povero Faust sotto le sgrinfie di Mefistofele, ma piacque a Dante, piacque a Goethe.

In Dante abbiamo Buonconte di Montefeltro, scomunicato e vittima sicura del diavolo, il quale sta già aspettandolo come sua preda. Ma Buonconte, prima di morire, ha la buona idea di invocare la Madonna. L’angelo di Dio ne piglia per diritto l’anima, e al diavolo, beffato e deluso, non resta che prendersela con Lui, gridandogli dietro: 
O tu del Ciel, perché ne prive? In Goethe il povero Mefistofele, dopo essersi affaticato lunghi anni per soddisfare tutte le voglie di Faust giovane e vecchio, resta pure con un palmo di naso. All’ultimo momento, infatti, scendono dal Cielo interi cori di Angeli a sconfiggere le milizie diaboliche e a salvare Faust. Dispettoso, Mefistofele grida: L’anima promessa... me l’han frodata con raggiro!   Ma Dio non raggira nessuno, checché ne dica Mefistofele.

Questi, invece, con tutti i suoi, e raggiratore. E questo è il tema dominante della demonologia dei Padri, che si rifugiarono nel deserto nei primi secoli della Chiesa. Questo deserto non è da essi concepito come rifugio opposto alla corruzione del mondo e luogo dove Dio nella solitudine parla in modo privilegiato al cuore dell’uomo. Viceversa, è il campo di battaglia, dove i solitari vanno a misurarsi col diavolo e a sbaragliarlo come già aveva fatto Gesù. I diavoli, secondo quei Padri, considerano il deserto dominio proprio. "Via da casa nostra!", gridano a Sant’Antonio e gli fanno trovare sulla strada cento trabocchetti, perch’egli non debba passare e non venga a disturbare l’ultimo loro rifugio, riempiendolo di monaci. Sono famosi i brutti tiri, che essi gli hanno giocato e che diventano pane quotidiano per tutti gli anacoreti: pii pellegrini, che vanno a visitare i Padri del deserto, se li sentono raccontare con stupore. San Pacomio piega le ginocchia per pregare, il diavolo gli scava davanti un buco; sta lavorando, il diavolo si drizza improvvisamente davanti a lui sotto forma di gallo, che gli grida sotto il naso; sta pregando, e un lupo o una volpe gli saltano addosso urlando. San Macario, in viaggio a un tempio idolatrico, lungo il cammino ha piantato nella sabbia delle piccole canne per ritrovare la strada al ritorno; si addormenta, ma intanto il diavolo strappa tutte le canne e Macario se le trova in fascio, a mo’ di cuscino, sotto la testa.

Insomma: diavoli tentatori, dispettosi, disturbatori, invidiosi, sui quali tuttavia il monaco, se vigila e prega, riporterà completa vittoria. Più che di fronte a storie vere, si capisce, ci troviamo di fronte a libri didattici o moralistici. Eppure furono letti e creduti come storia, impressionando i fedeli semplici e dando origine ad altri libri e ad altre credenze. Nel Medio Evo si crede ancora che il diavolo venga a tormentare specialmente i più buoni sotto apparenze ora spaventose ora conturbanti. La povera monachella desidera un cesto di insalata? In quel cesto c’è Satana. Il frate si compiace di un uccellino che canta nella sua celia solinga? In quel canto c’è Satana. Anche nelle miniature del libro di preghiere può essere annidato Satana, anche nell’ immagine dipinta sopra l’altare, perfino nella stessa corda, che cinge il saio del frate. Peggio: è Satana, che, incube, violenta le vergini e procrea nel loro seno figli maledetti. Ahimé! La religione medievale sconfina spessissimo nella superstizione in questa materia. Roberto, duca di Normandia, fu soprannominato il Diavolo, perché creduto generato dal Diavolo.

Alla demonologia si unì e alleò, spesso, nonostante gli sforzi della Chiesa, la magia. La fattucchiera, la donna malefica, l’avvelenatrice trova credito perfino nei secoli XVI e XVII. Si crede che essa possa utilizzare forze infernali contro un nemico. Si pretende che donne ossesse si involino di notte per andare a partecipare ai festini sabbatici di Satana. Come spiegare tutto questo? Non con la sola cattiveria, perché spesso c’è stata ignoranza e buona fede. Diciamo allora: ingenuità di scrittori, che hanno accettato fatti senza la debita verifica; creduloneria facilona, che mescolò imprudentemente parola di Dio e manifestazioni superstiziose; fenomeni psicologici e patologici, che furono guardati con occhio superficialmente religioso invece che con occhio scientifico.

Rigettare queste esagerazioni e questi errori non vuol dire però rigettare tutto. Che esista il diavolo, puro spirito invisibile, non può fare più problema dell’esistenza di Dio e degli Angeli. Ammettere la sua potenza sull’umanità non può far paura, se si crede alla vittoria riportata da Cristo. Questi sulla croce pareva vinto. Invece era il vincitore e lo si vide nella Risurrezione. Noi ci troviamo nella stessa situazione: soggetti a tante tentazioni, prove e pene, sembriamo vinti: con la grazia del Signore saremo dei vincitori! 

   Gennaio 1974



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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