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ILLUSTRISSIMI Lettere del Patriarca Albino Luciani Giovanni Paolo I

Ultimo Aggiornamento: 07/11/2017 10:21
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07/11/2017 10:08
 
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Se governi, sii prudente

    
All’Abate di Chiaravalle. Siete stato un grande monaco e, in maniera del tutto originale, un grande uomo di stato. C’è stato un momento in cui Chiaravalle fu più importante di Roma: ricorrevano a Voi imperatori, papi, re, feudatari e vassalli. Avete lanciato una Crociata: cosa molto discussa oggi, ma allora entrava nel quadro delle cose. Foste, invece, profeticamente contro l’antisemitismo del tempo nella vostra franca difesa degli Ebrei. Senza peli sulla lingua! Avete scritto a un papa: "Non temo per te né ferro né veleno, ma l’orgoglio del dominio". E al re di Francia, che aveva nominato siniscalco, cioè generalissimo, un abate: "Cosa succederà adesso? Il nuovo siniscalco celebrerà la Messa con elmo, corazza e gambali di ferro oppure guiderà le truppe in cotta e stola?". Altri avevano guidato nel Medio Evo l’Europa a colpi di spada. Voi, a colpi di penna, con lettere che partivano in tutte le direzioni e che, purtroppo, ci restano oggi solo in parte: cinquecento circa. Esse trattano, per lo più, argomenti di ascetica. Una ce n’è, tuttavia, la 24a dell’Epistolario, che contiene, in succo, la vostra cristiana visione del governo e divenne testo classico in una circostanza straordinaria. S’era in un conclave. I cardinali ondeggiavano incerti fra tre candidati segnalati uno per la santità, il secondo per l’alta cultura, il terzo per il senso pratico.

All’indecisione pose fine un cardinale, appunto citando la vostra lettera. "Inutile titubare ancora, egli disse, il nostro caso è già contemplato nella Lettera 24a del Dottore Mellifluo. Basta applicare e tutto andrà liscio come l’olio. Il primo candidato è Santo? Ebbene, oret pro nobis, dica qualche Padrenostro per noi poveri peccatori. Il secondo è dotto? Ne abbiamo tanto piacere, doceat nos, scriva qualche libro di erudizione. Il terzo è prudente? Iste regat nos, questi ci governi e diventi Papa". Tutto questo considerato, perché non continuare, caro Abate, l’antico vostro mestiere e scrivere qualche lettera con la carità di utili consigli a me, povero vescovo, e ad altri cristiani alle prese con molteplici difficoltà nel servire il pubblico? Una voce monacale, che dal fondo del Medio Evo si ripercuote nell’intricato dinamismo della vita moderna! E’ una possibilità di bene. La sfrutti, per favore, padre Abate!
Vostro,ALBINO LUCIANI

***

Al Patriarca di Venezia. Accetto e comincio col capovolgere la mia stessa sentenza. "Se è prudente governi!" ho scritto allora. "Se governa, sia prudente!" scrivo adesso. E cioè: abbia ben fissi in testa alcuni princìpi basilari e li sappia adattare alle circostanze della vita. Quali princìpi? Ne dico, a caso, qualcuno. Un successo apparente, anche clamoroso, è in realtà un insuccesso, se raggiunto calpestando la verità, la giustizia, la carità. Chi è sopra è al servizio di chi è sotto: tanti i padroni quanti i sudditi. Quanto maggiore è la responsabilità, tanto più grande è il bisogno di essere aiutati da Dio; lo dice anche il vostro Metastasio: A compir le belle imprese L’arte giova e il senno ha parte, Ma vaneggia il senno e l’arte, Quando amico il ciel non è.  Ma i grandi princìpi vanno calati nella vita degli uomini e gli uomini sono come le foglie di un albero: tutte simili, nessuna perfettamente eguale all’altra. Essi si presentano a noi diversi l’uno dall’altro, secondo la cultura, il temperamento, l’estrazione, le circostanze, lo stato d’animo. Occhio, dunque, alle circostanze, agli stati d’animo: se cambiano, cambiate anche voi, non i princìpi, ma la applicazione dei princìpi alla realtà del momento. Cristo, una volta, si sottrasse con la fuga alla gente che era venuta per "portarlo via a forza per farlo re".

Cambiate le circostanze, alla vigila della Passione, invece, si prepara egli stesso il modesto trionfo dell’entrata a Gerusalemme. Non chiamo però prudenza la soverchia disinvoltura nel cambiare. La tattica buona dei giusti dosaggi e adattamenti non è l’opportunismo, la adulazione, il voltar la schiena a chi è tramontato, il giocar di scherma con la propria anima e coi princìpi. Cade il ministro, cade il sindaco, quante volte si opera attorno, e immediatamente, il vuoto! E quante volte si osserva il volta gabbana! Cito il caso lontano nel tempo, ma classico, del Moniteur, giornale ufficiale francese. Nel 1815 il foglio segnalava come segue ai suoi lettori le vicende di Napoleone: - Il brigante è fuggito dall’Isola d’Elba; - L’usurpatore è arrivato a Grenoble; - Napoleone entra a Lyon; - L’Imperatore arriva stasera a Parigi! Crescendo davvero disinvolto! Da non gabbare per prudenza! Come non è prudenza l’atteggiamento di chi si ostina a non prendere atto delle realtà evidenti e cade nella rigidità eccessiva e nell’integralismo, diventando più realista del re, più papista del papa. Succede.

C’è chi, impadronitosi di un’idea, la sotterra e continua a custodirla, a difenderla gelosamente per tutta la vita, senza più riesaminarla, senza voler verificare cosa sia diventata dopo tante piogge e venti e bufere di avvenimenti e di cambiamenti. Rischiano di non essere prudenti quelli che viaggiano nella stratosfera e, imbottiti di scienza puramente libresca, non sanno staccarsi neppure una volta da ciò ch’è scritto, veri Azzecca-garbugli, sempre intenti ad analizzare, a sottilizzare, in cerca perpetua di capelli da spaccare in quattro. La vita è ben altra cosa. Lord Palmerston osservava giustamente che, a tagliare le pagine di un libro, un tagliacarte d’osso gli serviva molto meglio di un rasoio affilato. Clemenceau, il tigre, era dello stesso parere, quando, nel dare il giudizio su due ministri del Gabinetto, da lui presieduto, affermava: Poincaré sa tutto, ma non capisce niente! Brianel non sa niente, ma capisce tutto! Direi: cercate insieme di sapere e di capire. Come dicevo dianzi: possedere i princìpi e applicarli alla realtà! E’ l’inizio della prudenza! 

Vostro, BERNARDO DI CHIARAVALLE

***

All’Abate di Chiaravalle. Grazie della lettera. Apprezzato soprattutto lo stimolo a verificare, a riesaminare, a non lasciar stagnare le situazioni, a metter mano a necessarie riforme. Vale per la Chiesa, vale per lo Stato e per il Comune. Sa cos’è successo? mi diceva un sindaco. Un assessore comunale, appena nominato, nota che una guardia civica piantona quotidianamente alcuni sedili del giardino pubblico. Uno spreco, pensa. Potrebbe spiegarsi per proteggere la Banca d’Italia, ma per una decina di modesti sedili! Vuol andare a fondo, e trova... che cosa? Anni addietro i sedili del giardino erano stati verniciati a nuovo. Perché qualcuno non avesse danno dalla vernice fresca, una guardia, con tanto d’ordinanza municipale, era stata assegnata a quel posto. Ci si dimenticò poi di ritirare l’ordinanza. La vernice si asciugò e il piantone rimase a sorvegliare... niente!

Tornando alla prudenza di chi governa, non trovate, padre Abate, ch’essa debba essere qualcosa di dinamico? Platone chiamava la prudenza il cocchiere delle virtù; ebbene, il cocchiere cerca di arrivare alla meta, risparmiando la vita del cavallo, se può; ma se occorre, maneggia la frusta e brucia anche il cavallo pur di arrivare e arrivare in tempo. In altre parole: non vorrei si confondesse la prudenza con l’inerzia, la pigrizia, la sonnolenza, la passività. Essa esclude lo zelo cieco e l’audacia pazza, ma vuole l’azione franca, decisa, audace, quando è necessaria. Ora agisce da freno, ora da acceleratore; ora spinge a risparmiarsi, ora a prodigarsi; ora reprime la lingua, le speranze, le collere; ora le lascia, a ragion veduta, esplodere. Negli anni in cui gli emissari di Cavour lavoravano per la Romagna, venne a Torino Paolo Ferrari, il commediografo e gli disse: "Conte, laggiù non sappiamo più a chi credere: il Buoncompagni predica la prudenza, il La Farina predica l’audacia. Chi, dei due, interpreta il vostro pensiero ed è il vostro vero inviato?". Tutti e due, rispose Cavour, perché occorre un’audacia prudente e una prudenza audace! In attesa di precisazioni, 

Vostro, ALBINO LUCIANI

***

Al Patriarca di Venezia. Fatta qualche riserva sulla serietà della risposta di Cavour, trovo giusto che la prudenza sia dinamica e che spinga all’azione. Sono però da considerare tre tempi: il deliberare, il decidere, l’eseguire. Deliberare vuol dire anelare in cerca di mezzi che conducono al fine: si fa a base di riflessione, di consigli chiesti, di attento esame. Pio XI diceva spesso: "Lasciatemi prima pensare". La Bibbia ammonisce: "Figliolo, non fare nulla senza consiglio". I Proverbi popolari danno colore a tutto questo. "Quattro occhi vedono meglio di due". "Chi falla in fretta, piange adagio". "Presto e bene raro avviene". "La gatta frettolosa ha fatto i micini ciechi". Decidere vuol dire: dopo aver studiato i vari mezzi possibili, mettere la mano su uno: "Scelgo questo, è il più adatto o l’unico realizzabile!".

Non è prudenza l’eterno altalenare, che sospende tutto e lacera l’animo con l’incertezza, e neppure è l’aspettare, per decidere, l’ottimo; si dice che la "politica è l’arte del possibile"; in un certo senso è giusto. L’esecuzione è il più importante dei tre tempi; la prudenza qui si associa alla fortezza nel non permettere lo scoraggiamento davanti alle difficoltà e agli impedimenti. E’ il momento in cui uno si rivela capo e guida. A questo momento alludeva Filippo il Macedone, quando asseriva: "Meglio un esercito di timidi cervi guidati da un leone che un esercito di forti leoni guidati da un cervo! ". Monaco qual sono, mi preme far rilevare che la prudenza è soprattutto virtù, quindi serve solo cause nobili e adotta solo mezzi leciti. Stando a Plutarco, Alcibiade era ossessionato dal bisogno di popolarità voleva ad ogni costo che la gente si occupasse di lui. Languendo a un certo momento l’interesse del pubblico sulle cose sue, cosa fece? Aveva un cane bellissimo, pagato la bellezza di settanta mine; gli tagliò la coda.

E così tutta Atene ebbe occasione di parlare di Alcibiade, delle sue ricchezze, delle sue costose singolarità. Ecco un caso non di prudenza, ma di furbizia, che vedo ripetere da voi con altri mezzi: fotografie fatte pubblicare sui giornali, servizi stampa, discorsi abilmente architettati, dicerie fatte correre con arte. Se poi ci si mette l’astuzia con mezzi non onesti, vi vedo anche alla scuola della volpe, di Ulisse e Macchiavelli. L’astuto parla e le sue parole non sono veicolo, ma velo del pensiero, facendo apparire vero il falso e falso il vero. Ottiene, talvolta, dei risultati. Di solito, però, la cosa non dura. In pellicceria vanno più pelli di volpi che di asini. Quando i furbi vanno in processione, è il diavolo che porta la croce davanti! E scusate la franchezza. 

BERNARDO DI CHIARAVALLE

***

All’Abate di Chiaravalle. Stando all’ultima vostra, ci sarebbero delle pseudoprudenze come la furbizia e l’astuzia menzognere, che avete descritto. A volte, però, non si puònegare che la vita degli uomini pubblici sia difficile senza il ricorso a qualche astuzia. Pensate solo ai candidati politici, che devono persuadere gli elettori a eleggerli fra decine di concorrenti; agli eletti, che devono coltivare l’orticello elettorale in vista, a suo tempo, di una rielezione. La sa che, proprio nella vostra Francia, è uscito da poco un volumetto (Piccione vola) per la bisogna? In primo luogo vi si trova dentro un trattato di bla-bla-bla ossia l’arte di parlare, parlare e parlare fin che s’è trovato qualcosa da dire. In secondo luogo v'è spiegata la tecnica di presentare statistiche, percentuali e numeri, utile specialmente a interpretare i risultati delle elezioni. A proposito di numeri, v’è detto: "La democrazia non è comandata soltanto dalla legge del numero, ma anche da quella della cifra"!

In terzo luogo vi si fa l’autopsia delle frasi belle, ma che non significano nulla. Ecco, però, che ad evitare inconvenienti del genere un altro libro è uscito, vero vademecum, per discorsi e allocuzioni di uomini politici. Pensate! Belle e preparate trentadue formule diverse per commemorare uomini scomparsi, diciassette per condoglianze ai familiari, diciotto per cominciare un brindisi e quattordici per concluderlo! Per i brindisi sono suggerite norme: vanno pronunciati bicchiere in mano e la durata del discorsetto deve variare secondo il grado di ispirazione dell’oratore, l’importanza della persona onorata e la qualità del liquore. Norme anche per gli elogi: non lodare troppo, lodare abbastanza, lodare con garbo, non lodare di traverso. Insomma, un manuale che insegna piccole e quasi innocue astuzie simili alle "spiritose invenzioni" del Lelio goldoniano. Bisognerà pur concederle, non trovate? 

Vostro, ALBINO LUCIANI

***

Al Patriarca di Venezia. Trovo che volete scherzare nelle ultime battute. Io sono per la linea corretta e coerente degli uomini pubblici. Anche, perché essi determinano con la loro condotta l’educazione o la diseducazione dei giovani. D’altronde, essi possono aiutarsi con mezzi leciti ben più efficaci di quelli da lei accennati. La sagacia, per esempio. Il sagace non si lascia abbagliare dalle apparenze e dalle adulazioni: indovina il temperamento, le ambizioni altrui dalla fisionomia, dal gestire; lo spingono ad intervenire subito ed egli sente che non è ancora tempo; gli dicono che è meglio attendere ed egli con un sesto senso fiuta che bisogna invece far presto, e i fatti, più tardi, gli danno ragione. Altro aiuto, la metodicità: essa fa sì che mettiamo il fine prima dei mezzi, leghiamo i mezzi tra di loro, ed a ciascun mezzo diamo il risalto che merita. Le norme ch’essa suggerisce sono migliori di quelle di "Piccione vola" da Voi citato. Eccole: 1)Nel deliberare tenete conto solo dei fatti accertati.

Dico fatti e non opinioni, non dicerie; dico accertati e non soltanto certi, perché, se sono pubblico amministratore, non basta che esistano delle prove valide per me; occorrono prove valide per tutti, che domani si possano esibire e tengano a prova di bomba. Gli inglesi dicono: Un fatto è come il Sindaco di Londra; esso solo cioè ha vera, indiscussa dignità. 2)Tenete presente un epifonema molto usato da noi medioevali: Distingue frequenter! Alla Corte del Re Sole una dama era capace di salutare con un solo inchino ben dieci persone; l’inchino era unico, ma lo sguardo mandava lampi vari e molteplici per dare a ciascuno - duca, marchese o conte che fosse - ciò che gli spettava. Distinguendo, si dice: questo affare è importante, gli darò precedenza assoluta; quest’altro è meno importante, gli do un posto secondario. Le famose "scelte prioritarie"! 3)Vi può servire anche il divide et impera dei Romani. Qui, però, si tratta di dividere le azioni in più tempi e non le persone le une dalle altre.

Il motivo? Non si può far bene più di una cosa alla volta! Ildivide, dunque, si deve applicare anche al lavoro; dividere, distribuendo gli incarichi tra i vari collaboratori. Ma poi adoperarli, questi collaboratori! Non succeda come ai tempi della Triplice Alleanza, quando si diceva: La Triplice è la Duplice cioè Bismark! Pare, con l’aria democratica che tira da voi, che i Bismark, oggi, non piacciano gran che! Un altro aiuto ancora? La previdenza. Napoleone, nel 1800, prima di partire da Parigi per l’Italia, aveva puntato uno spillo su un punto della carta geografica tra Alessandria e Tortona, dicendo: Qui, probabilmente, si concentreranno gli Austriaci. Fu profeta, si concentrarono proprio lì, a Marengo.

Non sarà dote di tutti un dito così fatidico; ma tutti dobbiamo cercare di scorgere da lontano gli effetti delle nostre azioni e calcolare in anticipo gli sforzi e le somme che saranno richieste per una data iniziativa. Il vostro ministro Sonnino, faceva testo in materia di prudenza anche col silenzio; incontrato, pensieroso e meditabondo, da un amico, questi gli disse: "Scommetto che stai pensando a quello che dovrai dire domani alla Camera"! "Oh! no!, - rispose -, sto pensando a quello che non dovrò dire! ". Diceva di lui Luzzatti: A Versailles, Orlando parla tutte le lingue che non sa, e Sonnino tace in tutte le lingue che sa! Può avvenire però, che, nonostante tutte le cure poste, l’impresa vada male. L’uomo pubblico si prepara anche a questa eventualità con misure adeguate.

Il contadino pensa che può venire la grandine e si assicura. Il generale dispone tutto per la vittoria; qualcosa, però, lo tiene preparato anche per il caso deprecato di una sconfitta o di una ritirata. Dice Plutarco che Diogene un giorno si mise a chiedere la carità a una statua di marmo. Naturalmente non ebbe un sesterzio solo, ma egli continuava a chiedere. "Non è tempo perso?", gli domandò qualcuno. "Non è tempo perso -, rispose -; sto abituandomi a ricevere rifiuti!". Prudenza anche questa! Un ultimo consiglio. Non scoraggiatevi troppo! "Sono anni che sudo e lavoro per il Comune. Ce l’ho messa tutta, ho trascurato perfino i miei interessi e la famiglia, accorciandomi la vita con preoccupazioni gravi e persistenti. Ebbene? Mi fanno il vuoto attorno, mi scavano il terreno sotto i piedi, mi attaccano e demoliscono. Facciano, dunque, loro, io mi ritiro in buon ordine!". La tentazione è forte, non sempre è prudente cedervi. E’ vero che è necessaria la rotazione, ma è pur vero che il bene pubblico talvolta esige che chi ha cominciato si faccia le ossa, che chi ha doti ed esperienza resti. Se è doveroso tener presenti le giuste critiche (nessuno è infallibile!), bisogna anche ricordare che neppure Cristo è stato capace di accontentare tutti. Quando si lavora per il pubblico, bisogna non sognare troppi riconoscimenti e plausi, ma prepararsi all’indifferenza e alle critiche dei propri amministrati, che hanno una psicologia curiosa. L’ha descritta Aristide Brianel, più volte primo ministro di Francia.

In un negozio - disse - entra un forsennato con un randello in mano; mena colpi da orbi sul vasellame e riduce tutto in pezzi. La gente si ferma, accorre da ogni parte, ammira la prodezza. Qualche ora dopo capita al negozio un vecchietto con una scatola di resina sotto il braccio; si leva il pastrano, inforca gli occhiali e con una pazienza da certosino si mette - in mezzo a tutti quei cocci - a raccomodare i vasi rotti. State pur certi che nessuno dei passanti si fermerà a guardarlo! 

Vostro, BERNARDO DI CHIARAVALLE

   Ottobre 1971




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"Barone" anche lui? 

    
Dottissimo Santo, I vostri frati stanno preparando una grande celebrazione per il settimo Centenario dalla vostra morte (1274-1974). A quali aspetti della vostra personalità daranno rilievo? Siete stato prima studente poi professore a!l’Università di Parigi, generale dell’Ordine francescano, vescovo e cardinale, oratore ascoltatissimo al Concilio ecumenico di Lione, scrittore di cose teologiche e mistiche con grande risonanza anche nei secoli successivi al vostro. Dove metteranno i frati il dito e l’accento? Non lo so. Se dipendesse da me, tra tutti i vostri libri, sceglierei la Vita di San Francesco e la farei conoscere a largo raggio. Si tratta d’un capolavoro anche letterario. L’avete scritta con animo commosso, con stile insieme elevato e pittorescamente immaginoso. Mentre la componevate, il vostro amico San Tommaso ne presagiva già la bellezza, dicendo: "Lasciamo che un Santo scriva di un altro Santo!". Presagiva, amo pensarlo, anche i grandi frutti spirituali. Scommetto, però, che né Voi né lui presagivate minimamente l’interpretazione, che ne ha fatto l’altro giorno uno studente universitario, parlando con me. "Noi, giovani d’oggi - disse - siamo con San Francesco". "Benissimo", risposi io. "Sì - riprese - come San Francesco ha contestato suo padre, buttandogli in faccia i vestiti, così noi buttiamo in faccia a questa società di sporchi consumi tutto quello che ci ha dato o, meglio, imposto!". Nei tempi in cui studiavate, semplice laico, c’erano a Parigi diecimila studenti universitari: discutevano, chiassavano, tumultuavano e spesso contestavano anch’essi, ma con stile diverso. Lo stile e i problemi dei giovani contestatori nostri sono diversi. Permettete che ve ne dica qua!cosa.

***

Anche ai vostri tempi i giovani volevano, innovando, staccarsi dal passato. Ma oggi essi - meglio, parecchi di essi - predicano la rottura completa col passato, rigettando in blocco società, famiglia, matrimonio, scuola, morale e religione. "Voi volete buttar giù tutto - ho detto all’interlocutore di cui sopra - ma dopo? Cosa metterete al posto delle istituzioni fatte crollare?". M’ha risposto: "Questa è una domanda borghese!". Dunque, i nostri giovani fanno la protesta, ma non fanno la proposta. Direte: "Forse, si tratta di giovani poveri, diseredati; per questo ce l’hanno coi borghesi! "Oh no, si tratta proprio dei figli della borghesia, di giovani, cui spesso non manca proprio nulla. Hanno i mezzi di vivere, ma non hanno ideali, per cui vivere. Direte ancora: "Ci saranno almeno delle ragioni, delle scuse per spiegare questa situazione?". Certo, e tento di indicarvene alcune. Oggi le porte delle Scuole Superiori e delle Università sono spalancate: i giovani vi entrano, in Italia, a centinaia di migliaia ogni anno. Non vi si trova, però, tutto quel che vi si dovrebbe trovare e, in più, non c’è proporzione tra porte d’entrata agli studi e porte d’entrata agli impieghi. Giovani forniti di laurea o diploma non trovano posti adeguati di lavoro e il numero degli intellettuali disoccupati sta per aumentare di molto nei prossimi anni.

La società non ha saputo prevedere questo gravissimo disagio e i giovani se la prendono con la società. 
Non basta. In questa stessa società c’è un tremendo vuoto morale e religioso. Tutti sembrano oggi spasmodicamente protesi verso conquiste materiali: guadagnare, investire, circondarsi di nuove comodità, star bene. Pochi pensano anche a "far bene". Dio - che dovrebbe invadere la nostra vita - è invece diventato una stella lontanissima, cui si guarda solo in certi momenti. Si crede di essere religiosi, perché si va in chiesa, pretendendo poi di condurre fuori chiesa una vita eguale a quella di tanti altri, intessuta di piccole o grandi astuzie, di ingiustizie, di colpe contro la carità, mancando assolutamente di coerenza. I giovani, che invece vogliono la coerenza, non ci stanno. Trovano poi incoerenze, vere o apparenti, nella stessa Chiesa, e rigettano anche questa. E, poiché bisogna pur professare qualcosa, aderiscono a pessime ideologie di moda e al culto spasmodico del sesso, che è una religione a rovescio sotto il nome di "liberazione sessuale od erotica". Non basta ancora.

C’è il culto della libertà. Ma non è la libertà classica di poter fare ciò che si deve fare senz’essere disturbati o di poter scegliere tra una cosa o l’altra. No, è l’indipendenza assoluta. "Sono io solo a decidere ciò che è bene e ciò che è male. Voglio realizzare me stesso senza dipendere da alcuna legge che venga dal di fuori. Chi resiste ai miei desideri, attenta alla mia personalità. Ogni autorità è repressione. Ogni struttura è prigione. Ogni superiore è gendarme". 
Voi, dolcissimo e dottissimo santo, avete insegnato parecchi anni e il magistero vi parve servizio alla verità, agli studenti, alle famiglie. Se veniste oggi! Proprio perché maestro, vi guarderebbero come "mandarino" o "barone", che pretende imporre una sua cultura per incatenare gli alunni al "sistema". Sentireste parlare di "descolarizzazione". Se scuola ha da essere, gli alunni non imparino materie, ma vengano abituati a discutere problemi politici attuali". Dovreste accettare una "gestione sociale" della scuola: avreste a che fare non solo con gli alunni e coi loro genitori, ma anche coi partiti politici e coi sindacati; il tempo di preparare le lezioni vi sarebbe in parte mangiato da lunghe assemblee e discussioni. Mica che questo sia tutto male: il dialogo coi giovani è doveroso, è giusto che le varie componenti sociali si interessino della scuola, e che questa sia una cosa viva, rifuggente da esagerato e barboso nozionismo e astrattismo. E’ solo il troppo, che storpia.

***

Impietosi, dunque, questi ragazzi verso i maestri? Direi di sì. Altrettanto, però, essi si mostrano pietosi, ed è un bene, verso i poveri, gli emarginati, gli esclusi. Essi si dichiarano contro tutte le barriere sociali, contro ogni discriminazione di classe o di razza. Questa è bella generosità: purtroppo, anche qui, essi si trovano di fronte a gravissime ingiustizie, cui si ribellano. Sentono parlare di Nazioni che si dicono cristiane e che tollerano ancora casi di tortura per colpire le idee. Vedono famiglie di operai costrette a vivere con centomila lire al mese, mentre alcuni pochi si arricchiscono straordinariamente non si sa in che modo. Una cantante guadagna in una sola serata due milioni di lire e diventa miliardaria, vendendo i dischi delle sue canzoni. Leggono di aiuti concessi al Terzo Mondo; poi si accorgono che si tratta di poche gocce: i soldi sprecati per armamenti sono straordinariamente superiori e intanto nel Terzo Mondo si continua a soffrire e a morire. C’è davvero di che indignarsi; ma ecco, si esaspera a bella posta questo giusto sdegno giovanile, dipingendo con tinte ancora più scure e sinistre certe nostre società e tacendo le enormità mostruose di altre società presentate, invece, come modello e addirittura come "ideali paesi paradisiaci".

***

Ma non vorrei aver io stesso caricato un po’ le tinte. Non sono tutti così i nostri giovani. Molti badano a lavorare sodo, sono rispettosi, si preparano alla vita con serietà: purtroppo, mentre gli altri parlano e scrivono, questi tacciono. Quegli stessi che contestano, spesso si aspettano molto dagli adulti contestati e restano delusi quando si risponde loro vagamente e dicendo che "si sta ricercando". Bisognerebbe far loro delle proposte concrete. Libertà? Certo, ma, senza Dio, quale libertà? Il progresso, le scienze vi fanno conoscere sempre più come è fatto questo mondo; soltanto la dottrina di Cristo vi dice perché siete al mondo. Un modello? Cristo è una scelta valida, per sempre, per tutti. Egli ha battuto una certa strada e ha detto: seguitemi! Strada un po’ stretta, ma strada di lealtà, di amore verso tutti con piccoli e poveri privilegiati e che sbocca nella "gloria del Padre". Sulla croce, Egli s’è offerto al Padre; facendolo risorgere, il Padre ha dichiarato di accettare l’offerta, ha glorificato l’umanità di Lui e di tutti quelli che sono Suoi, annunciando festosamente che il mondo intero sarà un giorno trasformato in "cieli nuovi e terra nuova". Un mondo da migliorare, battendosi per la giustizia, per togliere le cause dei mali? Certo, ma ciascuno cominci a migliorare se stesso.

E vediamo di non cadere in ingenue utopie; imperfezioni ce ne saranno sempre, in qualunque sistema; non giudichiamo gli uomini senza appello; non dividiamo radicalmente: di qua tutti buoni, di là tutti cattivi; di qua solo lealtà, di là solo sopruso; questo è progressista, quello è conservatore. La vita è molto e sempre complessa: anche i buoni hanno mancanze, anche i cattivi hanno virtù. 
Chiesa infedele? Così l’hanno già chiamata anche i Santi Padri, che, però, specificavano: la santa Chiesa infedele. Fatta di peccatori, infatti, per forza anche la Chiesa è peccatrice, ma essa continua a somministrare validi aiuti ed esempi di santità a tutti quelli che hanno fiducia in lei. Bisogna poi vedere se sono tutte vere le infedeltà che le si rimproverano. Altro è la Chiesa che ha in testa il tal scrittore (magari in buona fede), e altro la Chiesa reale, quale veramente è, fuori della testa di quello stesso scrittore.

***

Dolcissimo San Bonaventura! I contemporanei, che ebbero la fortuna di ascoltarvi, rimasero inebriati dalla vostra parola. Scrissero: "parlava con lingua angelica". Desidererei che parlaste come un angelo ancora: soprattutto ai genitori, agli educatori, ai politici, a tutti coloro che hanno, oggi, la responsabilità dei giovani. E vorrei che diceste: "Non temete alcuna fatica, alcuna giusta riforma, alcuna spesa, alcun dialogo, pur di aiutare questi figlioli. Ciò, per il loro bene, ma anche per il vostro bene. Chi infatti teme fatiche e spese oggi, può pagar caro domani". Tolstoi sarebbe disposto a sottolineare queste ultime vostre parole con una sua parabola. Nel piccolo Principato di Monaco i giudici avevano tanti anni fa condannato alla ghigliottina un furfante, ma poi si accorsero di non avere, per la bisogna, né ghigliottina né boia. Era così piccolo il Principato di Monaco! Chiesero in prestito ambedue le cose alla vicina Francia, ma, sentito il prezzo d’affitto, si spaventarono: "Costa troppo!". Fecero un passo analogo presso il Re di Sardegna. Anche là "costava troppo". Lasciarono dunque il furfante in prigione: ma il carceriere, il cuoco, il cibo del prigioniero venivano pure a costare. "Lasciamo aperta la prigione e che se ne vada per i fatti suoi! ", decisero i giudici. Vista la porta aperta, il prigioniero uscì per una passeggiata lungo il mare. Ma a mezzogiorno andò alla cucina del principe a reclamare il suo pasto.

Così un giorno, due, tre, tanti giorni... la cosa minacciava di pesare forte sul bilancio del Principato. I magnati decisero di chiamare l’uomo: "Non hai ancora capito che te ne devi andare?". E lui: "Me ne vado, me ne vado, però pagatemi! ". Dovettero pagarlo. E così, col pretesto che "costava troppo" e col rimandare sempre, un brigante di più fu in giro per il mondo a combinare malefatte. 
Non si dica dunque "costa troppo"!, se non vogliamo che il brigante della contestazione selvaggia e rivoluzionaria continui a viaggiare per il mondo. Non si rimandino soluzione di problemi, spese e dialoghi. Si parli con questi giovani e cerchiamo di aiutarli con aiuti e metodi nuovi, adatti ai tempi, ma con lo stesso amore appassionato con cui, caro santo, li aiutaste voi, ai tempi vostri.
Dicembre 1973







Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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