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La Santa Eucaristia brevi lezioni sulla Dottrina (2)

Ultimo Aggiornamento: 22/04/2018 00:35
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10/11/2017 18:47
 
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 qui la prima parte della raccolta: La Santa Eucaristia (brevi lezioni sulla Dottrina)



Caro don Gabriele,
il mondo in cui viviamo sta precipitando sempre più velocemente nell’abisso, in particolare il mondo occidentale, Europa in testa. L’elenco della nefandezze è lungo, ma più che l’elenco mi interessa focalizzare il motivo per cui ci troviamo in tale situazione. La risposta è contenuta in quella perla preziosa che è il Catechismo della Chiesa Cattolica:

2031. La vita morale è un culto spirituale. Noi offriamo i nostri “corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio” (Rm 12,1), in seno al Corpo di Cristo, che noi formiamo, e in comunione con l’offerta della sua Eucaristia. Nella Liturgia e nella celebrazione dei sacramenti, preghiera ed insegnamento si uniscono alla grazia di Cristo, per illuminare e nutrire l’agire cristiano. Come l’insieme della vita cristiana, la vita morale trova la propria fonte e il proprio culmine nel sacrificio eucaristico.


Se è vero, come è vero, che il Sacrificio eucaristico è fonte e apice della vita morale, allora significa che tale Sacrificio è stato dimenticato; ce ne siamo allontanati.
Se ti ricordi, avevo messo al primo posto per la ricostruzione della nostra società l’esigenza che noi cattolici rimettessimo al primo posto il Santo Sacrificio. Purtroppo, molti di noi non sanno neppure di cosa si sta parlando. Del resto non lo sapevo neppure io fino a 8 anni fa, quando incontrai un sacerdote che lo negava dal pulpito durante la Messa! Era così imbufalito che cercai di capire cosa fosse tale Sacrificio. Puoi immaginare come rimasi di sasso nello scoprire che il Santo Sacrificio è proprio la Santa Messa. Feci un piccolo esperimento con amici catechisti e nessuno di loro ne sapeva qualcosa. Purtroppo, molti fedeli vanno a Messa senza sapere a cosa assistono, a cosa partecipano e, soprattutto, quali sono le immense grazie che si ricevono. 
Il vertice della Redenzione si è compiuto sulla Croce! La via della salvezza, pertanto, è la via del Calvario. Non ce ne sono altre. Percorrendo la via del Calvario si diventa vittime d’amore e questo sacrificio gradito a Dio unito al Santo Sacrificio di Cristo ci porta alla Verità ed alla vera Vita. 
Gesù ce lo vuole ricordare anche tramite la visibile esperienza dei santi stimmatizzati, in particolare ricordo santa Veronica Giuliani. Benedetto XVI, nella sua catechesi sulla santa:

Il Cristo a cui Veronica è profondamente unita è quello sofferente della passione, morte e risurrezione; è Gesù nell’atto di offrirsi al Padre per salvarci. […] Veronica arriva a chiedere a Gesù di essere crocifissa con Lui: “In un istante – scrive –, io vidi uscire dalle Sue santissime piaghe cinque raggi risplendenti; e tutti vennero alla volta mia. Ed io vedevo questi raggi divenire come piccole fiamme. In quattro vi erano i chiodi; ed in una vi era la lancia, come d’oro, tutta infuocata: e mi passò il cuore, da banda a banda… e i chiodi passarono le mani e i piedi. Io sentii gran dolore; ma, nello stesso dolore, mi vedevo, mi sentivo tutta trasformata in Dio” (Diario, I, 897). 


Santa Veronica ha ricevuto le stimmate nella sua carne per testimoniarci quello che le nostre anime dovrebbero chiedere e vivere durante la Santa Messa. Infatti, dove incontriamo, principalmente, Gesù? Sul Calvario, tutte le volte che partecipiamo al Santo Sacrificio della Messa. Tutti, anche coloro che non possono ricevere la Santa Comunione. Innanzitutto, cosa significa Messa

Se si apre il vocabolario etimologico, ci si accorge che alla voce Messa, compaiono due significati: il primo fa risalire il termine “Missa” al latino “missio” e al verbo “mittere”, ove “missio” era l’atto con cui si compariva davanti al superiore e con cui si era da lui congedati per compiere qualche ordine (missione); la seconda etimologia fa derivare “Missa” dall’ebraico “Missah”, che significa offerta o sacrificio. Entrambe le etimologie sono da ritenere per farsi una prima idea di ciò che è la santa Messa: un’offerta sacrificale, che si attua comparendo davanti ad un Superiore, da cui si parte con una missione ben precisa. Anche in latino, ordinariamente, la santa Messa era (ed è) chiamata “Sacrificium”, ovvero un’immolazione offerta a Dio, un tributo offerto a Lui da un suo servo a ciò esplicitamente designato per riconoscerne la Maestà infinita, per ripararne la giustizia offesa dai peccati, per impetrare grazie sull’umanità e per intercedere presso di Lui a favore dei vivi e dei defunti.
La santa Messa è dunque l’offerta di un sacrificio
. Quale sacrificio e chi lo offre? Noi sappiamo che nostro Signore Gesù Cristo, al fine di attestare l’assoluta Maestà del Padre e l’assoluta obbedienza che gli è dovuta, non ha esitato ad offrirGli il sacrificio supremo, quello della sua vita, un sacrificio cruento, consumatosi sul patibolo più infame che la storia abbia conosciuto, in una condizione estremamente infamante ed umiliante. Lo ha fatto anche per riconciliare l’umanità peccatrice, portando ed inchiodando sulla Croce i peccati di tutti, espiandoli davanti alla divina Giustizia tra pene indicibili ed ottenendo ogni grazia e benedizione presso il Padre, essendosi offerto a nome ed in rappresentanza dell’intero genere umano. Questo atto, a cui ha partecipato come Corredentrice Maria Santissima, unendo le sue sofferenze di Madre misticamente crocifissa a quelle del Figlio, ha riacquistato all’umanità intera la Grazia perduta da Adamo e da ogni uomo peccatore. Tuttavia, compiuto il Sacrificio e riacquistata la Grazia, mancava, se così si può dire, ancora qualcosa: un mezzo, uno strumento perché gli infiniti meriti acquistati da Gesù potessero raggiungere tutti gli uomini di ogni luogo e di ogni tempo, perché ne potessero beneficiare dei frutti ed usufruirne degli effetti; un mezzo adatto a distribuire ed applicare i meriti infiniti acquistati da Gesù attraverso il suo Sacrificio cruento: questo Mezzo sublime e divino è la santa Messa. (La Santa Messa: piccolo paradiso in terra).


La Messa è l’offerta di un sacrificio! Non si trova praticamente nulla, sia nei manuali di catechismo dell’ICFR, sia negli incontri di catechesi in cui si trattano i temi più svariati ed esotici, tranne l’insegnamento che la Messa è il Sacrificio eucaristico, fonte e apice di tutta la vita cristiana:

Il principale insegnamento della Chiesa sulla santa Messa fu dato dal Concilio di Trento, che reagì alle eresie di Lutero che negava che la Messa fosse un vero sacrificio e che nell’Ostia consacrata fosse veramente, realmente e sostanzialmente presente Gesù. Il Concilio insegnò anzitutto che la S. Messa è un sacrificio vero e proprio, nel quale, sotto le apparenze sensibili del pane e del vino, si offre dal sacerdote a Dio sull’altare, il Corpo e il Sangue di Cristo istituito nell’Ultima Cena, quando Gesù costituì gli apostoli sacerdoti e con essi i loro successori e diede loro il potere di offrire questo sacrificio. Il Concilio prosegue qualificando questo Sacrificio come la rinnovazione e la perpetuazione del Sacrificio della Croce e non una semplice commemorazione di esso oppure un semplice sacrificio di lode o di ringraziamento: è un vero e proprio sacrificio propiziatorio. Questo significa che, sull’altare, dopo le parole della consacrazione viene realmente a riprodursi il sacrificio compiuto da Gesù sul Golgota, perché vediamo il suo Corpo separato dal suo Sangue, ovvero nella condizione in cui si trovava quando stava patendo sulla Croce per noi. È propiziatorio, in quanto applica la soddisfazione offerta da Gesù in espiazione dei peccati e della pena ad essi dovuta. Il Concilio prosegue affermando che c’è piena identità tra Sacrificio del Golgota e Sacrificio della Santa Messa; cambia solo il modo con cui Gesù si offre. Sulla Croce lo fece in maniera cruenta (con reale spargimento di Sangue) e da Se stesso; nella Santa Messa lo fa in modo incruento (senza spargere sangue), sacrificandosi ed annientandosi misticamente e sacramentalmente, attraverso la separazione del suo Corpo dal Sangue riprodotta nelle Sacre Specie; inoltre si offre non da Se stesso, ma tramite il ministero dei sacerdoti, attraverso i quali Egli continua ad esercitare il suo Sommo ed eterno sacerdozio a favore dell’umanità. Essi hanno il potere di applicare secondo certe intenzioni qui ed ora i meriti infiniti del sacrificio della Croce. (La Santa Messa: piccolo paradiso in terra


Il compianto Papa Pio XII, nell’enciclica Mediator Dei, riprese e sviluppò questi concetti, contro alcuni errori moderni che andavano ampiamente prendendo piede già ai suoi tempi. Disse dunque che “il Sacrificio della Croce è perpetuamente ripresentato e rinnovato nel Sacrificio della Messa, con la sola differenza nel modo di offrirsi da parte di Gesù”; che la “separazione violenta del Corpo dal Sangue di Gesù” che avvenne sulla Croce “è rappresentata e compiuta nella separazione sacramentale del pane consacrato dal vino consacrato”.

Insegna Papa Pio XII nell’enciclica Mediator Dei:
L’augusto Sacrificio dell’altare non è, dunque, una pura e semplice commemorazione della passione e morte di Gesù Cristo, ma è un vero e proprio sacrificio, nel quale, immolandosi incruentamente, il Sommo Sacerdote fa ciò che fece una volta sulla Croce offrendo al Padre tutto se stesso, vittima graditissima. «Una… e identica è la vittima; egli medesimo, che adesso offre per ministero dei sacerdoti, si offrì allora sulla Croce; è diverso soltanto il modo di fare l’offerta».
Identico, quindi, è il sacerdote, Gesù Cristo, la cui sacra persona è rappresentata dal suo ministro. Questi, per la consacrazione sacerdotale ricevuta, assomiglia al Sommo Sacerdote, ed ha il potere di agire in virtù e nella persona di Cristo stesso; perciò, con la sua azione sacerdotale, in certo modo «presta a Cristo la sua lingua, gli offre la sua mano».
Parimenti identica è la vittima, cioè il Divin Redentore, secondo la sua umana natura e nella realtà del suo Corpo e del suo Sangue. Differente, però, è il modo col quale Cristo è offerto. Sulla Croce, difatti, Egli offrì a Dio tutto se stesso e le sue sofferenze, e l’immolazione della vittima fu compiuta per mezzo di una morte cruenta liberamente subita; sull’altare, invece, a causa dello stato glorioso della sua umana natura, «la morte non ha più dominio su di Lui» e quindi non è possibile l’effusione del sangue; ma la divina sapienza ha trovato il modo mirabile di rendere manifesto il sacrificio del nostro Redentore con segni esteriori che sono simboli di morte. Giacché, per mezzo della transustanziazione del pane in corpo e del vino in sangue di Cristo, come si ha realmente presente il suo corpo, così si ha il suo sangue; le specie eucaristiche poi, sotto le quali è presente, simboleggiano la cruenta separazione del corpo e del sangue. Così il memoriale della sua morte reale sul Calvario si ripete in ogni sacrificio dell’altare, perché per mezzo di simboli distinti si significa e dimostra che Gesù Cristo è in stato di vittima.
Identici, finalmente, sono i fini, di cui il primo è la glorificazione di Dio. Dalla nascita alla morte, Gesù Cristo fu divorato dallo zelo della gloria divina, e, dalla Croce, l’offerta del sangue arrivò al cielo in odore di soavità. E perché questo inno non abbia mai a cessare, nel Sacrificio Eucaristico le membra si uniscono al loro Capo divino e con Lui, con gli Angeli e gli Arcangeli, cantano a Dio lodi perenni, dando al Padre onnipotente ogni onore e gloria.
Il secondo fine è il ringraziamento a Dio. Il Divino Redentore soltanto, come Figlio di predilezione dell’Eterno Padre di cui conosceva l’immenso amore, poté innalzarGli un degno inno di ringraziamento. A questo mirò e questo volle «rendendo grazie», nell’ultima cena, e non cessò di farlo sulla Croce, non cessa di farlo nell’augusto Sacrificio dell’altare, il cui significato è appunto l’azione di grazie o eucaristica, e ciò perché è «cosa veramente degna e giusta, equa e salutare».
Il terzo fine è l’espiazione e la propiziazione. Certamente nessuno al di fuori di Cristo poteva dare a Dio Onnipotente adeguata soddisfazione per le colpe del genere umano; Egli, quindi, volle immolarsi in Croce «propiziazione per i nostri peccati, e non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo». Sugli altari si offre egualmente ogni giorno per la nostra redenzione, affinché, liberati dalla eterna dannazione, siamo accolti nel gregge degli eletti. E questo non soltanto per noi che siamo in questa vita mortale, ma anche «per tutti coloro che riposano in Cristo, che ci hanno preceduto col segno della fede e dormono il sonno della pace»; poiché sia che viviamo, sia che moriamo, «non ci separiamo dall’unico Cristo».
Il quarto fine è l’impetrazione. Figlio prodigo, l’uomo ha male speso e dissipato tutti i beni ricevuti dal Padre celeste, perciò è ridotto in somma miseria e squallore; dalla Croce, però, Cristo «avendo a gran voce e con lacrime offerto preghiere e suppliche . . . è stato esaudito per la sua pietà», e sui sacri altari esercita la stessa efficace mediazione affinché siamo colmati d’ogni benedizione e grazia. Si comprende pertanto facilmente perché il sacrosanto Concilio di Trento affermi che col Sacrificio Eucaristico ci viene applicata la salutare virtù della Croce per la remissione dei nostri quotidiani peccati.


Anche noi fedeli partecipiamo attivamente alla Messa. Come? Sempre Pio XII insegna:

È necessario dunque, Venerabili Fratelli, che tutti i fedeli considerino loro principale dovere e somma dignità partecipare al Sacrificio Eucaristico non con un’assistenza passiva, negligente e distratta, ma con tale impegno e fervore da porsi in intimo contatto col Sommo Sacerdote, come dice l’Apostolo: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, offrendo con Lui e per Lui, santificandosi con Lui». 
È ben vero che Gesù Cristo è sacerdote, ma non per se stesso, bensì per noi, presentando all’Eterno Padre i voti e i religiosi sensi di tutto il genere umano; Gesù è vittima, ma per noi, sostituendosi all’uomo peccatore; ora il detto dell’Apostolo: «abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» esige da tutti i cristiani di riprodurre in sé, per quanto è in potere dell’uomo, lo stesso stato d’animo che aveva il Divin Redentore quando faceva il Sacrificio di sé: l’umile sottomissione dello spirito, cioè, l’adorazione, l’onore, la lode e il ringraziamento alla somma Maestà di Dio; richiede, inoltre, di riprodurre in se stessi le condizioni della vittima: l’abnegazione di sé secondo i precetti del Vangelo, il volontario e spontaneo esercizio della penitenza, il dolore e l’espiazione dei propri peccati. Esige, in una parola, la nostra mistica morte in Croce con Cristo, in modo da poter dire con San Paolo: «sono confitto con Cristo in Croce». È necessario, Venerabili Fratelli, spiegare chiaramente al vostro gregge come il fatto che i fedeli prendono parte al Sacrificio Eucaristico non significa tuttavia che essi godano di poteri sacerdotali. […] Ricordiamo solamente che il sacerdote fa le veci del popolo perché rappresenta la persona di Nostro Signore Gesù Cristo in quanto Egli è Capo di tutte le membra ed offrì se stesso per esse: perciò va all’altare come ministro di Cristo, a Lui inferiore, ma superiore al popolo. Il popolo invece, non rappresentando per nessun motivo la persona del Divin Redentore, né essendo mediatore tra sé e Dio, non può in nessun modo godere di poteri sacerdotali.
Tutto ciò consta di fede certa; ma si deve inoltre affermare che anche i fedeli offrono la vittima divina, sotto un diverso aspetto. […] Infatti, non soltanto il sacro ministro, dopo l’offerta del pane e del vino, rivolto al popolo, dice esplicitamente: «Pregate, o fratelli, perché il mio e il vostro sacrificio sia accetto presso Dio Padre Onnipotente», ma le preghiere con le quali viene offerta la vittima divina vengono, per lo più, dette al plurale, e in esse spesso si indica che anche il popolo prende parte come offerente a questo augusto Sacrificio. Si dice, per esempio: «per i quali noi ti offriamo e ti offrono anch’essi […] perciò ti preghiamo, o Signore, di accettare placato questa offerta dei tuoi servi di tutta la tua famiglia. […] Noi tuoi servi, come anche il tuo popolo santo, offriamo alla eccelsa tua Maestà le cose che Tu stesso ci hai donato e date, l’Ostia pura, l’Ostia santa, l’Ostia immacolata».
[…] Per non far nascere errori pericolosi in questo importantissimo argomento, è necessario precisare con esattezza il significato del termine «offerta». L’immolazione incruenta per mezzo della quale, dopo che sono state pronunziate le parole della consacrazione, Cristo è presente sull’altare nello stato di vittima, è compiuta dal solo sacerdote in quanto rappresenta la persona di Cristo e non in quanto rappresenta la persona dei fedeli. Ponendo però, sull’altare la vittima divina, il sacerdote la presenta a Dio Padre come oblazione (sinonimo di offerta. ndr) a gloria della Santissima Trinità e per il bene di tutte le anime. A quest’oblazione propriamente detta i fedeli partecipano nel modo loro consentito e per un duplice motivo; perché, cioè, essi offrono il Sacrificio non soltanto per le mani del sacerdote, ma, in certo modo, anche insieme con lui, e con questa partecipazione anche l’offerta fatta dal popolo si riferisce al culto liturgico.


Partecipare alla Messa, per noi fedeli, significa la partecipazione dell’immolazione. Attenti, perché questo punto è per noi veramente cruciale:

Perché poi l’oblazione, con la quale in questo Sacrificio i fedeli offrono la vittima divina al Padre Celeste, abbia il suo pieno effetto, ci vuole ancora un’altra cosa; è necessario, cioè, che essi immolino se stessi come vittima.
Questa immolazione non si limita al sacrificio liturgico soltanto. Vuole, difatti, il Principe degli Apostoli che per il fatto stesso che siamo edificati come pietre vive su Cristo, possiamo come «sacerdozio santo, offrire vittime spirituali gradite a Dio per Gesù Cristo»; e Paolo Apostolo, poi, senza nessuna distinzione di tempo, esorta i cristiani con le seguenti parole: «Io vi scongiuro, adunque, o fratelli […] che offriate i vostri corpi come vittima viva, santa, a Dio gradita, come razionale vostro culto». Ma quando soprattutto i fedeli partecipano all’azione liturgica con tanta pietà ed attenzione da potersi veramente dire di essi: «dei quali ti è conosciuta la fede e nota la devozione», non possono fare a meno che la fede di ognuno di essi operi più alacremente per mezzo della carità, si rinvigorisca e fiammeggi la pietà, e si consacrino tutti quanti alla ricerca della gloria divina, desiderando con ardore di divenire intimamente simili a Gesù Cristo che patì acerbi dolori, offrendosi col Sommo Sacerdote e per mezzo di Lui come ostia spirituale.


Questo è il Cuore della Santa Messa. Infatti, Pio XII, opponendosi ad alcune teorie che facevano della santa Comunione il fine ed il centro della Messa, obiettò che “occorre sottolineare che il Sacrificio eucaristico consiste essenzialmente nell’immolazione incruenta della Vittima Divina, mentre la santa Comunione ha per scopo di farci partecipare sacramentalmente al Sacrificio e pertanto non può essere ricevuta se non si hanno le dovute disposizioni (grazia di Dio, desiderio di ricevere Gesù, pensare a Chi è Colui che si riceve e osservare il digiuno eucaristico), ribadendo che solo la Comunione del Sacerdote celebrante è indispensabile per la validità del Sacrificio.

Questa è la nostra unica via, che ci porta all’Amore. Le ultime parole di Santa Veronica, alla fine del suo pellegrinaggio terreno, furono:

Ho trovato l’Amore! Ditelo a tutte. E’ questo il segreto delle mie gioie e delle mie sofferenze: l’Amore si è lasciato trovare.


San Pio da Pietrelcina (la cui Messa durava oltre due ore), rappresenta una testimonianza vivente della dottrina cattolica sulla santa Messa: egli infatti riviveva durante la Messa l’intera Passione di Gesù (che in essa si rinnova). 
Ecco la sua testimonianza raccolta dalla sua figlia spirituale Cleonice Morcaldi e pubblicata nel libro “La mia vita vicino a padre Pio. Diario intimo spirituale”.

“Padre, ditemi, per amore di Dio, se la corona di spine l’avete per tutto il tempo della Messa” – “Sì, e anche prima e dopo”. “Quanti peccati espiò Gesù con la corona di spine?” – “Tutti, in particolare i peccati di pensiero”. “A Gesù durante la Passione strapparono i capelli. Soffrite pure questo, voi?” – “Mi scerpano pure le ossa”. “Anche la flagellazione soffrite durante la santa Messa?” – “Sì, in modo crescente dalla consacrazione alla comunione”. “Quando subite la morte?” – “Nella santa comunione”. “L’Addolorata vi assiste? È sempre presente durante il divino Sacrificio?” – “Può una Madre disinteressarsi del Figlio? C’è Lei e c’è tutto il Paradiso”. “Perché avete pianto durante le tre Messe di Natale?” – “E me lo domandi pure? Non pensi al tremendo mistero della Messa? Un Dio vittima per la salvezza degli uomini che L’offendono. Non pensi che tutto il Paradiso si riversa sull’Altare? E noi sacerdoti siamo i macellai dell’Agnello di Dio”. “Ditemi come devo assistere alla vostra Messa” – “Compatendo e amando. Assisti come assistettero la Vergine e le pie donne”. “Quanta gloria dà a Dio la santa Messa?” – “Infinita gloria!”. Come infiniti sono i benefici che ciascuno di noi può trarne…



L’unico che può ricostruire i danni che abbiamo provocato è Gesù! L’unica cosa che ci chiede è di rimettere al centro il suo Divino Sacrificio e di parteciparvi! Che aspettiamo?



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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L'EUCARESTIA COME SACRIFICIO  
(10/93)

Appunti di catechismo

Il concetto di sacrificio  
Il sacrificio rituale è l'offerta di una cosa sensibile, che viene distrutta o immolata, fatta a Dio e a Lui solo, dal legittimo ministro, in riconoscimento del supremo dominio di Dio sopra tutte le cose.  
Gli elementi indispensabili del sacrificio sono:  
- la persona che offre il sacrificio  
- Dio, a cui il sacrificio viene offerto  
- la cosa sensibile che viene sacrificata  
- il fine di riconoscere a Dio il supremo dominio su ogni cosa. 

I sacrifici nell'Antico Testamento 
Ricordiamo i sacrifici di Abele, Caino, Noè, Abramo, Melchisedec, Isacco, Giacobbe. Sotto Mosè, Dio stesso interviene a prescrivere come il suo popolo debba onorarlo (si veda il Levitico).  
Questi sacrifici sono simboli e figure del vero e proprio sacrificio di Nostro Signore Gesú Cristo sulla croce. 

Il sacrificio nella nuova legge  
Nostro Signore Gesú Cristo morí sulla croce, ma  la sua non fu la morte subita da un condannato: Lui la accettò liberamente allo scopo di offrire al Padre tutto Sé Stesso, in riconoscimento del di Lui supremo dominio e per la redenzione del genere umano.  
Tutta la Passione di Gesú costituisce il vero e proprio sacrificio:  
- la persona che offre il sacrificio è Gesú stesso, Figlio di Dio fatto uomo, mediatore fra Dio e gli uomini (I Timoteo, 2, 5);  
- la cosa sensibile sacrificata è l'umanità santissima di Gesú , che sofferse e morí;  
- il sacrificio è offerto a Dio Padre, dallo stesso Gesú, obbediente fino alla morte (Filippesi, 2, 8);  
- il fine è il riconoscimento del supremo dominio di Dio, la cui giustizia oltraggiata esigeva una riparazione: la piú completa possibile; con la conseguenza che si rese possibile la redenzione degli uomini. 

Consummatum est (Giov., 19, 30)  
Tra gli atti umani di Gesù, uno ve ne fu, il piú perfetto di tutti, non ulteriormente perfettibile: l'atto oblativo espresso dalla libertà umana di Gesú agonizzante sulla croce.  
Tale libertà umana di Gesú agonizzante, tesa ad adeguarsi il piú possibile all'eterna e perfettissima oblazione del Verbo al Padre, nello Spirito di Entrambi, agí con tale intensità che la natura umana non poté sostenerlo: venne meno e morí. E la morte mise fine al martirio di Gesú, ma non estinse quella suprema volontà oblativa; essa poté solo sigillare l'umana volontà di Gesú che si era espressa nella perfetta oblazione, umanamente insuperabile, ma non pose termine alla di Lui volontà che si esprimerà in eterno nel medesimo atto oblativo supremo e perfetto.  
Il  CONSUMMATUM  EST non significò: "ho terminato il mio cammino, ho finito di soffrire"; bensí: "ho portato alla perfezione suprema il mio sacrificio".  
In tale stato di perfezione oblativa, Gesú persevera: è cosí che lo ritroviamo sotto i velami eucaristici, sull'altare, tra le mani del celebrante, dal momento della consacrazione. 

Il Sacrificio Eucaristico: la Santa Messa  
- Visione generale  
Il sacrificio della Croce come offerta avvenne una volta, in quel momento in cui Gesú Cristo sulla croce esalò l'ultimo respiro esclamando: "Consummatum est", e non si ripeterà piú, ma, come vedremo meglio piú avanti, con la Santa Messa offriamo a Dio un vero e proprio sacrificio dello stesso valore e con gli stessi effetti del Sacrificio della Croce.  
È di fede che il Signore persevera in eterno come sacerdote e vittima in quello stato sacrificale che portò alla perfezione suprema sulla Croce, nell'istante della sua morte.  
È del pari di fede che ora non soffre piú: è nella gloria.  
La fase cruenta del suo sacrificio fu transitoria, ed è passata per sempre: le stímmate del suo martirio sono ora il decoro della sua vittoria.  
Ma è anche di fede che dovunque è presente il Signore, Egli è presente tale e quale è: nella gloria e tuttavia in atto sacrificale.  
Ed è anche di fede che nella Santa Messa, grazie alla transustanziazione, il Signore è realmente presente sotto i veli eucaristici.  
Nella Santa Messa, quindi, è presente in atto sacrificale, e perciò la Santa Messa è sacrificio; è presente con la perfezione raggiunta sulla Croce, è perciò la Santa Messa è il Sacrificio della Croce.  
Ogni Messa? Certamente! Ogni Santa Messa, grazie al sacramento, supera soprannaturalmente le due dimensioni della natura, lo spazio e il tempo, e ci presenta Gesú nell'atto sacrificale in cui si trovò sulla Croce nell'istante della sua morte, sia pure ora circonfuso di gloria. Ogni Santa Messa, grazie alla efficienza soprannaturale del sacramento, supera lo spazio e il tempo, e riporta noi ai piedi della Croce, sul Calvario, cosí che "per Ipsum, cum Ipso et in Ipso" (l'unico sacerdote degno di immolare l'unica vittima degna del Padre e necessariamente accetta al Padre) entriamo in comunione con il Padre stesso nello Spirito di Entrambi, per l'eternità.  
La Santa Messa, tuttavia, non moltiplica il sacrificio: ne moltiplica semplicemente il sacramento. Molte rinnovazioni del sacramento del sacrificio: unico, irripetibile, perseverante in eterno il sacrificio stesso. 

- Esame particolareggiato  
a) la Santa Messa è un vero e proprio Sacrificio 
Che la Santa Messa, quale nella Chiesa Cattolica si celebra, sia un vero e proprio sacrificio è un dogma di fede definito dal Concilio di Trento (Sessione XXII, Can. 1).  
La Chiesa ci comanda di credere che Nostro Signore, nell'Ultima Cena, non solo ha transustanziato il pane e il vino nel suo Corpo e nel suo Sangue (dogma della Presenza Reale), ma anche che li ha offerti a Dio Padre, e ha istituito cosí il grande e vero sacrificio della Nuova Legge, qual'è la Santa Messa (si vedano ad esempio: Malachia, 1, 10-11; Luca22, 19-20; Matteo, 26, 26-28; Didaché; San Giustino; Sant'Ignazio di Antiochia; Sant'Ireneo; San Cipriano; le pitture delle catacombe).  
La Santa Messa è il Sacrificio della Nuova Legge, nel quale Cristo (ministro principale ed invisibile) si offre e, in forma incruenta, si immola sotto le specie del pane e del vino (la immolazione viene espressa dalla separazione del corpo e del sangue con le specie del pane e del vino; la distruzione della vittima viene espressa dalla Santa Comunione del sacerdote celebrante), per le mani del sacerdote (ministro secondario e visibile), allo scopo di riconoscere il supremo dominio di Dio, e di applicare a noi le soddisfazioni e i meriti della sua Passione. 

b) identità e differenze: 
-- Sacrificio della Messa e Sacrificio della Croce  
     identità:  
          la Vittima: Gesú Cristo  
          l'Offerente: Gesú Cristo per mezzo del sacerdote  
     differenze:  
          il modo di immolazione: cruento sulla Croce, incruento nella Messa;  
          il Sacrificatore: Gesú Sacerdote visibile sulla Croce, Gesú Sacerdote invisibile nella Messa;  
          gli effetti: il Sacrificio della Croce compí la Redenzione, la Messa applica gli effetti del Sacrificio della Croce. 

-- Sacrificio della Messa e Ultima Cena  
     identità:  
          Messa e Ultima Cena si identificano quanto alla sostanza. Anche l'Ultima Cena fu una vera Messa in cui si operò  
             la transustanziazione e in cui fu offerto il divino sacrificio del corpo e del sangue di Nostro Signore Gesú Cristo  
             sotto le specie del pane e del vino.  
     differenze:  
          - Nostro Signore Gesú Cristo nell'Ultima Cena era ancora mortale, nella Messa è immortale;  
          - Nostro Signore Gesú Cristo nell'Ultima Cena fu l'unico ministro: offrí Sé Stesso da Sé Stesso, nella Messa  
             Gesú invisibile si serve del sacerdote come ministro secondario visibile;  
          - la morte di Nostro Signore Gesú Cristo nell'Ultima Cena era significata come futura, nella Messa è significata  
             come già avvenuta. 

-- Sacrificio Eucaristico e Sacramento Eucaristico  
     identità:  
          entrambi sono un segno sensibile e sacro, ordinato a significare la grazia  
     differenze:  
          nella durata: il Sacrificio Eucaristico è transitorio: fatta la consacrazione tutto è finito, il Sacramento Eucaristico è  
             permanente: l'Ostia consacrata resta consacrata e Dio resta presente in essa;  
          nel fine: il Sacrificio Eucaristico è ordinato alla gloria e al culto di Dio, il Sacramento Eucaristico è ordinato alla  
             santificazione e al nutrimento delle nostre anime;  
          nel soggetto: il Sacrificio Eucaristico è ordinato al bene della comunità, il Sacramento Eucaristico è ordinato al  
             bene di chi riceve la Santa Comunione. 

c) fini del sacrificio della Santa Messa:  
1 - latreutico o di adorazione: riconoscimento del supremo dominio di Dio;  
2 - eucaristico o di ringraziamento: ringraziamento per i benefici spirituali e materiali ricevuti;  
3 - propiziatorio o di espiazione: per la redenzione dei peccati; 
4 - impetratorio o di supplica: per ottenere, attraverso la mediazione di Gesú, gli aiuti spirituali e materiali di cui  
          abbiamo bisogno.  
 

Come assistere alla Santa Messa  
Abbiamo visto che la Santa Messa è un vero e proprio sacrificio offerto a Dio, e che essa è sostanzialmente lo stesso Sacrificio della Croce.  
Sappiamo che, dal momento della Consacrazione, sull'altare è presente Gesú stesso in Corpo, Sangue, Anima e Divinità: è presente Dio stesso, Padre, Figlio e Spirito Santo.  
Se ora, con la mente e con il cuore, consideriamo la tremenda Passione che Nostro Signore volle subire spontaneamente; se cerchiamo di immaginare il suo terribile amore per noi, cosí timidi nel ricambiarlo, e la sua umiltà nel nascondersi sotto le specie del pane e del vino affinché potessimo osare accostarci a Lui; se proviamo a pensare alla tremenda potenza e maestà del Creatore dell'universo che è veramente presente davanti a noi, e che tocchiamo con le nostre labbra nella Santa Comunione; allora, ogni volta che assistiamo alla Messa, c'è veramente da avere paura di questo tremendo mistero, c'è da  essere sbalorditi dal nostro ardimento a presenziarvi, c'è da commuoversi fino alle lacrime, chiedendoGli perdono della nostra cattiveria e tiepidezza, c'è da essere sgomenti per la nostra impossibilità di ringraziare e contraccambiare a sufficienza il suo amore.  
È bene quindi assistere alla Santa Messa in silenzioso raccoglimento, sempre il ginocchio, serii in volto, avendo cercato di rendere la chiesa piú bella e piú preziosa che ci è possibile, avvolti da musiche solenni ed elaborate, tutto quello che di meglio il genio umano ha saputo creare, non mortificati, ma lieti, che ci siano alcune voci privilegiate capaci di cantare la Gloria di Dio con maggiore perfezione. 

(Gli appunti si basano essenzialmente sull'opera del PADRE LODOVICO FANFANI, O. P., Teologia per tutti secondo la dottrina di San Tommaso, 4 voll. , Sales, Roma, 1951.)






Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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LA LITURGIA CATTOLICA  
ANTICIPAZIONE E PREGUSTAZIONE DELLA LITURGIA CELESTE  
(1/94) 

Il 18 dicembre scorso i fedeli che seguono la Santa Messa tradizionale presso la chiesa della Misericordia, hanno avuto modo di incontrare, insieme a tanti amici appositamente convenuti, il padre Gérard o. s. b., Priore dell'Abbazia benedettina di Sainte Madeleine, a Le Barroux. Il padre è venuto appositamente a Torino per tenere una conversazione su un tema che ci sta particolarmente a cuore: La liturgia cattolica, anticipazione e pregustazione della liturgia celeste.  

Si comprenderà facilmente l'interesse con cui è stata accolta una tale iniziativa e l'attenzione che ha contraddistinto i convenuti, che hanno seguito l'esposizione di padre Gérard, prima, ed hanno partecipato, poi, alla successiva celebrazione dei Vespri solenni seguiti dalla Benedizione Eucaristica.  
I limiti di questo nostro foglio ci impediscono di riportare per intero il testo della conversazione, abbiamo allora pensato di presentare qui i passi piú salienti di essa, certi che incontreranno l'intendimento e l'aspettativa di tutti. 

Il padre ha cominciato col richiamare alcuni aspetti della liturgia in uso nel suo monastero:  
La notte non è ancora terminata, allorquando i monaci si affrettano a raggiungere la chiesa per cantare la lode a Dio, e lungo tutta la giornata vi ritorneranno per celebrare il loro Re, fino a sera, quando vi si raduneranno per cantare l'Ufficio di Compieta, che si concluderà con il Salve Regina in onore della Santissima Vergine Maria. 
 

Sono le 9,45, le campane suonano a distesa. In silenzio, i monaci si schierano su due file lungo il chiostro, rivolti verso la porta della chiesa abbaziale:  

     Lætatus sum in his qui dicta sunt mihi:  
      in domus Domini ibimus  
Indugiano un istante, quindi il turiferario dà inizio alla processione, mentre nubi di incenso salgono nella navata. La Croce avanza, e tutti seguono, profondamente raccolti, in un ordine perfetto:  
     Introibo ad altare Dei,  
     ad Deum qui litificat iuventutem meam  
Ognuno al proprio posto, in ordine di anzianità: i cantori, i ministri sacri, il diacono, il suddiacono, il prete assistente, il Padre Abate, con il mano il pastorale e con un profondo inchino salutano l'Altare, che rappresenta Cristo, pietra angolare, roccia di salvezza:  
      Rorate cœli desuper, et nubes pluant iustum.

Quanta concentrazione e quanta partecipazione nei fedeli che assitono - continua il padre - quanto spirito di contrizione e di inadequatezza, altro che le moderne Messe "good morning!", come dicono gli Americani; e non si può che convenire che richiami del genere ci ricordano quanto si sia ben lontani dalle moderne "assemblee dei fedeli" ove si stenta a comprendere di trovarsi di fronte allo svolgersi di una "liturgia". E giustamente padre Gérard ricorda che non si tratta di un semplice incontro fra uomini, sia pure animati dalla migliore buona volontà e sia pure stimolati dal migliore senso della fraternità, poiché:  
…la liturgia è la riconciliazione dell'universo con Dio, per mezzo di Dio e in Dio, che solo poteva, con il suo sacrificio totale, purificarci e farci accedere alla vita intima della Santissima e Adorabile Trinità.

Il padre precisa che la liturgia antica può giustamente chiamarsi "gregoriana", poiché, pur se abitualmente la si fa risalire a San Pio V, essa  
…è stata codificata da papa San Damaso, nel IV secolo (366-384), e da papa San Gregorio, nel VI secolo (590-604), che non intervennero sull'essenziale dell'antica liturgia. Essi erano, infatti, in perfetta continuità con la Chiesa primitiva, della quale custodivano gelosamente il senso liturgico. Nella Chiesa primitiva la liturgia era, prima di tutto, un sacro servizio compiuto dinanzi a Dio, come scrisse papa San Gregorio Magno: “Nel momento del sacrificio, il cielo si apre alla voce del sacerdote; è in questo mistero di Gesú Cristo che i cori degli angeli sono presenti, che ciò che sta in alto raggiunge ciò che è qui in basso, che il cielo e la terra si uniscono, che il visibile e l'invisibile divengono un'unica realtà”.  

Ecco la grande ricchezza della liturgia gregoriana. Essa celebra con magnificenza questi riti che esprimono tutta la ricchezza dei sentimenti che la Sposa di Cristo, la Santa Chiesa, rivolge al suo Sposo celeste. 

Si comprende come tutto ciò non abbia niente a che vedere con teorie assembleari, ricerche esegétiche, supposti "ritorni alle origini" e ogni altro tipo di opinioni che hanno preteso di fondare la nuova liturgia. Anzi, padre Gérard fa notare come la nuova teologia della Messa, in contrasto con lo stesso Concilio Vaticano II,  ha finito con l'offuscarne il senso vero, che risiede nel suo carattere "sacrificale".  

…l'uso del termine "sacrificio" sembra essere evitato nel testo della Istitutio generalis missalis romani.(in essa) non si parla che di Eucharistia o di celebratio eucharistica. Ed è per questo che non si può non invocare intensamente una revisione completa dellaIstitutio generalis, che potrà essere fatta alla luce degli stessi discorsi del Sovrano Pontefice  
Il sacrificio della Messa non è soltanto "eucaristico", (rendimento di grazie) è altresì "latreutico" (onore reso a Dio secondo quanto Gli è dovuto) e anche "propiziatorio", cioè mira a renderci propizio Dio, offrendogli riparazioni per i nostri peccati; quest'ultimo aspetto è aspramente criticato dai teologi progressisti, mentre invece è un dato certo di fede
Essendo unico il sacrificio compiuto da Cristo sul Calvario, la celebrazione del sacramento dell'Eucaristia, istituito da Cristo stesso lo "ripresenta" misteriosamente "attraverso il ministero del sacerdote" in un modo assolutamente nuovo, che è il modo sacramentale, e cosí lo "offre", lo "immola" effettivamente; tutto ciò conferisce un valore propiziatorio per tutti i fedeli e per tutta la Chiesa 

Sulla scorta di queste considerazioni, si comprende bene come ogni elemento facente parte dell'insieme della liturgia non possa minimamente essere legato a qualsivoglia contingenza o, ancor peggio, alla soggettività del celebrante o dei suoi aiutanti. Trattandosi di qualcosa che attiene alla stessa volontà divina, nella liturgia si richiede necessariamente la massima rispondenza fra abbigliamento, orientamento, parole, gesti, movimenti: acciocché tutto si svolga Ad Maiorem Dei Gloriam 

Questo movimento spirituale dei fedeli che affidano al sacerdote le loro offerte perché questi le offra a sua volta al Padre Celeste, risulta chiaramente nella nostra liturgia gregoriana. Il sacerdote che si è rivolto verso i fedeli per il canto dell'Epistola e del Vangelo… si rivolge ora verso il Padre, seguito da tutto il popolo, per offrire il sacrificio di tutti; …Non è che egli voglia volgere le spalle ai fedeli! Ma egli si rivolge verso il Padre. Egli appare in tale circostanza come mediatore tra Dio e gli uomini.  

Dare l'impressione che il sacerdote si rivolga al popolo al momento stesso del sacrificio, cambia …il senso delle parole che sono pronunciate. Esse divengono una narrazione pura e semplice… Orbene, è massimamente conveniente che, attraverso il rito, si esprima che si tratta di parole sacrificali che trascendono la semplice narrazione… Il sacrificio è rivolto al nostro Padre celeste e non ai fedeli riuniti, è quindi conveniente che ci si rivolga verso il Signore per esprimere tale realtà.  
…Se l'uomo è abituato a volgersi verso Dio con il suo corpo e la sua anima durante le cerimonie liturgiche, sarà portato a volgersi verso di Lui in ogni occasione della vita. 

Non v'è dubbio che la Santa Messa dovrebbe svolgere effettivamente anche una funzione "didattica", soprattutto in ordine alla imprescindibile necessità umana di rivolgersi "in adorazione" al Padre nostro che è nei cieli; e giustamente padre Gérard sottolinea alcuni degli atteggiamenti che debbono esser fatti propri dai fedeli che si rivolgono a Dio onnipotente nella preghiera e quindi, a maggior ragione, nel corso della Santa Messa.  

Il silenzio del Canone è stato abbandonato, ed è un'immensa perdita. In effetti lo stesso silenzio indica che il Canone è il momento piú solenne della Messa, il momento in cui la maniera di partecipare alla celebrazione è la piú elevata, non bastano piú parole o canti, solo il silenzio può esprimere, in qualche maniera, un po' del mistero ineffabile che si compie e delle meraviglie che opera nei nostri cuori…  

Il silenzio del Canone è una educazione concreta all'adorazione ed una "partecipatio actuosa", secondo l'espressione usata dal Concilio Vaticano II…  

…La liturgia educa al senso del mistero, del sacro. Essa è pure educatrice del sentimento di devozione. Considerate attentamente come il sacerdote, nell'antica liturgia, presta attenzione ai gesti da compiere…  

(Qui il padre fa tutta una serie di esempi, dalle genuflessioni del sacerdote alle dita che egli usa in maniera esclusiva per tenere in mano le sacre speci, dalle continue attenzioni dei ministranti alla massima cura che neanche una particella dell'Ostia cada a terra o vi rimanga senza essere disciolta)  

Un fedele, vedendo tutto ciò, non ha bisogno che gli si faccia un discorso sulla presenza reale e sulla devozione dovuta al Santissimo Sacramento; un non credente comprenderà immediatamente che si tratta della cosa piú sacra di tutte! E cosí nostro Signore sarà onorato…  
…Non è possibile sostituire i riti con i discorsi, per quanto essi siano efficaci! Perché, in tal caso, ciò va a detrimento dell'insegnamento dei piú piccoli, degli umili, dei poveri di Yahvè. Il popolo guarda molto piú di quanto non ascolti.  

…Come non desiderare che le ricchezze della nostra antica liturgia divengano il fondamento per un autentico rinnovamento liturgico, che serva, come ha detto il Card. Ratzinger, di riferimento per una riforma della riforma? 

(Il testo completo di questa conferenza è disponibile presso la nostra segreteria)




Fraternamente CaterinaLD

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13/11/2017 14:57
 
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<header>Ascoltando il Canone Romano, cuore dell’Eucaristia della Chiesa a Roma, per prima cosa che si affaccia a noi è la parola transustanziazione.

Tratto da Fede, Ragione, Verità e Amore di Joseph Ratzinger pp. 374-377

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“Che cosa è veramente accaduto nella notte in cui Cristo fu tradito? Ascoltiamo al riguardo il Canone Romano. Il cuore dell’“Eucaristia” della Chiesa a Roma: ‘La vigilia della sua passione Gesù prese il pane nelle sue mani sante e venerabili, elevò gli occhi al cielo, a te, Dio Padre onnipotente, rese grazie con la preghiera di benedizione, spezzò il pane, lo diede ai suoi discepoli e disse loro: prendete e mangiatene tutti. Questo è il mio corpo, offerto in sacrificio per voi. E dopo la cena allo stesso modo prese questo prezioso calice nelle sue mani sante e venerabili, ti rese grazie con la preghiera di benedizione, lo diede ai suoi discepoli e disse: prendete e bevetene tutti. Questo è il calice del mio sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati. Fate questo in memoria di me”.

Che cosa accade qui in queste parole? Per prima cosa si affaccia a noi la parola transustanziazione. Il pane diventa il corpo, il suo corpo. Il pane della terra diventa il pane di Dio, la “manna” del cielo, con la quale Dio nutre gli uomini non solo nella vita terrena ma anche nella prospettiva della resurrezione; che prepara la resurrezione, anzi, già la fa iniziare. Il Signore, che avrebbe potuto trasformare le pietre in pane, che poteva suscitare dalle pietre figli di Abramo, volle trasformare il pane nel corpo, nel suo corpo. 
Ma è possibile questo? E come può avvenire? Gli interrogativi, che la gente ha posto nella sinagoga di Cafarnao, non possono essere evitati neppure da noi. Egli è lì, davanti ai suoi discepoli, con il suo corpo; come può Egli dire sul pane: questo è il mio corpo?

E’ importante ora fare bene attenzione a ciò che il Signore ha veramente detto. Non dice semplicemente: questo è il mio corpo; ma: questo è il mio corpo che è donato per voi. Esso può divenire dono perché è donato. Per mezzo dell’atto della donazione esso diviene capace di comunicazione come trasformato esso stesso in un dono. La medesima cosa la possiamo osservare nelle parole sul calice. Cristo non dice semplicemente: questo è il mio sangue; ma: questo è il mio sangue che è versato per voi. Poiché esso è versato, in quanto è versato, può essere donato.

Ma ora emerge la nuova domanda: che cosa significa “è donato”, “è versato”? Che cosa accade qui? In verità, Gesù viene ucciso, viene appeso alla croce e muore fra i tormenti. Il suo sangue viene versato, dapprima già nell’orto degli ulivi per il travaglio interiore a riguardo della sua missione, poi nella flagellazione, nell’incoronazione di spine, nella crocefissione e dopo la sua morte nella trafissione del cuore. Ciò che qui accade è innanzitutto un atto di violenza, di odio che tortura e distrugge.

A questo punto ci imbattiamo in un secondo, più profondo livello di trasformazione: Egli trasforma dall’interno l’atto di violenza degli uomini contro di Lui in un atto di donazione in favore di questi uomini, in un atto di amore. L’atto dell’uccisione, della morte viene trasformato in amore, la violenza è vinta dall’amore. Questa è la trasformazione fondamentale sulla quale si basa tutto il resto. È la trasformazione, di cui il mondo ha bisogno e che sola può redimere il mondo. Poiché Cristo in un atto di amore ha trasformato e vinto dall’interno la violenza, la morte stessa è trasformata: l’amore è più forte della morte. Esso rimane in eterno. E così in questa trasformazione è contenuta la trasformazione più ampia della morte in risurrezione, del corpo morto nel corpo risorto. Se il primo uomo era un’anima vivente, così dice san Paolo, il nuovo Adamo, Cristo, diverrà in questo evento spirito datore di vita (1 Cor 15, 45).

Il risorto è donazione, è spirito che dà la vita e come tale comunicabile, anzi, comunicazione. Ciò significa che non si assiste a nessun congedo dalla materia, anzi, in questo modo essa raggiunge il suo fine: senza l’evento materiale della morte e il suo interiore superamento tutto questo insieme di cose non sarebbe possibile. E così nella trasformazione della risurrezione tutto il Cristo continua a sussistere, ma ora trasformato in tal modo che l’essere corpo e il donarsi non si escludono più, ma sono implicati l’uno nell’altro. 

Cerchiamo, prima del prossimo passo, di vedere sinteticamente ancora un volta e di comprendere tutto questo complesso di realtà. Nel momento dell’Ultima Cena Gesù anticipa già l’evento del Calvario. Egli accoglie la morte di croce e con la sua accettazione trasforma l’atto di violenza in un atto di donazione, di auto-effusione (“Il mio sangue deve essere versato in libagione sul sacrificio e sull’offerta della vostra fede”, dice Paolo a partire da qui e a proposito del suo imminente martirio: Fil 2, 17). Nell’Ultima Cena la croce è già presente, accettata e trasformata da Gesù. Questa prima e fondamentale trasformazione attira a sé il resto; il corpo mortale viene trasformato nel corpo della risurrezione: nello “spirito che dà la vita”.

A partire da qui diviene possibile la terza trasformazione: i doni del pane e del vino, che sono doni della creazione e insieme frutto del lavoro umano e “trasformazione” della creazione, vengono trasformati, così che in essi diviene presente il Signore stesso che si dona, la sua donazione, Egli stesso, poiché Egli è dono. L’atto di donazione non è qualcosa di Lui, ma è Lui stesso. A partire da qui lo sguardo si apre su due ulteriori trasformazioni che sono essenziali nell’Eucaristia fin dall’istante della sua istituzione: il pane trasformato, il vino trasformato, nel quale il Signore stesso si dona come spirito che dà la vita, è presente per trasformare noi uomini, così che noi diveniamo un solo pane con Lui e poi un solo corpo con Lui. La trasformazione dei doni, che è il proseguimento delle trasformazioni fondamentali della croce e della risurrezione, non è il punto finale, ma a sua volta solo un inizio. Il fine dell’Eucaristia è la trasformazione di coloro che la ricevono nell’autentica comunione con la sua trasformazione.

E così il fine è l’unità, la pace, che noi stessi da individui separati che vivono gli uni accanto agli altri o gli uni contro gli altri, diveniamo con Cristo e in Lui un organismo di donazione, per vivere in vista della risurrezione e del nuovo mondo. 

Diviene così visibile la quinta e ultima trasformazione, che caratterizza questo sacramento: attraverso di noi, i trasformati, divenuti un solo corpo, un solo spirito che dà la vita, tutta quanta la creazione deve essere trasformata. Tutta quanta la creazione deve divenire “una nuova città”, un nuovo paradiso, dimora vivente di Dio: Dio tutto in tutti (1 Cor 15, 28); così Paolo descrive il fine della creazione, che deve configurarsi a partire dall’eucaristia.

Così l’eucaristia è un processo di trasformazione nel quale noi veniamo coinvolti, forza di Dio per la trasformazione dell’odio e della violenza, forza di Dio per la trasformazione del mondo. Vogliamo dunque pregare perché il Signore ci aiuti a viverla e a celebrarla in questo modo. Vogliamo pregare perché Egli trasformi noi e il mondo insieme con noi nella nuova Gerusalemme”.

Questa descrizione di transustanziazione dell’Eucaristia di Joseph Ratzinger, come sacramento delle trasformazioni, si rifà innanzitutto al cuore dell’Eucaristia che nel Canone Romano ripete gli stessi gesti e le stesse parole che Gesù fece nell’Ultima Cena istituendo il rito e che san Paolo nella lettera ai Corinti descrive come gli veniva trasmesso senza modificare alcuna parola e alcun gesto. Questo dato biblico della parola del Signore è il fondamento di tutta la continuità nella Tradizione liturgica. Ma cogliere cosa accade nel cuore della liturgia, cioè nella consacrazione, è una maturazione che sotto l’azione dello Spirito è avvenuta in continuità nella Tradizione, cioè nel dogma che è la scienza della fede maturata nella Chiesa e accolta definitivamente e che deve essere a fondamento di tutte le riflessioni teologiche.

Il come accade nella scienza dogmatica è legato alla parola transustanziazione che il Concilio di Trento ha definito “aptissima”, avviando nella consacrazione il suono del campanello. Fu san Carlo Borromeo a proporlo rifacendosi alle Constitutiones del Giberti vescovo di Verona, perché la consacrazione da parte del presbitero che agisce in persona di Cristo, fosse il centro di tutta la celebrazione eucaristica. Anche nella riforma liturgica Paolo VI ha voluto che la formula della consacrazione, già presente in san Paolo come trasmessa fedelmente e in tutta la Tradizione, fosse scritta nel messale in corsivo in tutti i canoni. Questo ci dice la sua intangibilità.

 




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18/11/2017 18:39
 
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[SM=g1740717] [SM=g1740720]


Il venerabile Servo di Dio, Carlo Acutis spiega il Miracolo di Lanciano, il miracolo più antico sull'Eucaristia giunto a noi ancora intatto ed incorrotto, carne viva e sangue vivo.... e nel video si racconta anche la sua storia [SM=g1740733]


www.youtube.com/watch?v=l6WTVTzxgRo&t=1168s






[SM=g1740738]

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28/11/2017 20:58
 
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L’Antico Rito della Messa è incomprensibile! Ti diciamo come rispondere a chi afferma questo



Quando si parla dell’Antico Rito della Messa l’attenzione va senz’altro alla questione della lingua, cioè del latino. Tant’è che questo Rito è da tutti ricordato come “Messa in latino”.

Prima di tutto va detto che questa questione della lingua è secondaria e non primaria. Come abbiamo avuto modo di dire, la differenza tra Antico e Nuovo Rito non sta essenzialmente nella lingua ma in ben altro. Visto però che dobbiamo trattare questa questione, è bene che la capiamo nella maniera più corretta.

Diciamo subito che ci sono sei motivi che giustificano e legittimano l’uso della lingua latina nella celebrazione della Messa.

L’universalità

Il primo motivo è l’universalità. La Chiesa Cattolica è universale. I cattolici devono professare la stessa fede, devono riconoscersi nella stessa disciplina e devono anche riconoscersi in una stessa morale. Dunque, è più logico che all’unità della fede corrisponda l’unita della preghiera liturgica. Pio XII nella sua Mediator Dei scrive: “L’uso della lingua latina è un chiaro e nobile segno di unità (nda: fra i cattolici di tutto il mondo, siano essi italiani o tedeschi, bianchi o neri) e un efficace antidoto ad ogni corruttela della pura dottrina”.

Giovanni XXIII con la Veterum Sapientia del 22 febbraio 1962 chiedeva non solo di conservare l’uso del latino, ma di incrementarne e restaurarne l’utilizzo. Il documento riconosce che la Chiesa ha necessità di una sua lingua propria, non nazionale ma universale, sacra e non ordinaria, dal significato univoco e non mutevole nel tempo, per trasmettere la medesima dottrina: unica, per il suo governo, e sacra, per il suo rito. La Chiesa, ontologicamente immutabile, non può affidare alla variazione linguistica la trasmissione delle sue Verità.

Nessun’altra lingua al mondo possiede del latino le caratteristiche di universalità ed è così aliena dai nazionalismi. La massoneria internazionale, che ha sempre avuto come scopo la creazione di una società cosmopolita che parli un’unica lingua, creò di fatto l’esperanto e non ha mai pensato di utilizzare per questo fine il latino, in odio alla Chiesa.

Ricorda la Genesi che la divisione delle lingue è conseguenza del peccato degli uomini. Gli Apostoli necessariamente evangelizzarono in tutte le lingue, ma il giorno di Pentecoste lo Spirito riportò tutti alla comprensione unitaria delle lingue.

Logico quindi che la Chiesa di Dio si serva di un’unica lingua per tutti.

Per meglio rappresentare il Mistero

Il secondo motivo è per meglio rappresentare il Mistero. Per significare lo straordinario occorre una lingua straordinaria. Un modo è come si parla agli amici, altro è come si parla ai superiori. Ciascun registro linguistico è legato ad una situazione precisa.

Dal momento che la Messa è il mistero della ri-attuzzazione del Sacrificio di Cristo sul Calvario, presenziando alla Messa si è oltre le categorie del tempo e dello spazio. Si respira l’infinito, si è dinanzi al Mistero, si ascolta l’inaudito, si osserva l’inimmaginabile. Ora –parliamoci chiaramente- tutto questo può essere significato da una lingua che è immediatamente comprensibile? Ecco che è molto più naturale che nella Messa si usi una lingua non ordinaria, perché ciò che avviene nella Messa non è affatto ordinario.

Per salvaguardare l’unicità del Tempo

Il terzo motivo è per salvaguardare l’unicità del Tempo. Proprio perché la lingua latina è una lingua “morta”, essa meglio si adatta ad esprimere verità dogmatiche che sono verità che non mutano.

Per salvaguardare l’unicità dello Spazio

Il quarto motivo è per salvaguardare l’unicità dello Spazio. Con l’uso del latino in tutti i posti della terra la liturgia è perfettamente uguale e quindi l’incomprensibilità delle parole diventa comprensibilità del Rito. Questo è un punto su cui ci si riflette poco. A quella che può sembrare un’incomprensibilità delle parole, si sostituisce una comprensibilità del Rito, il quale può essere in tutti i posti della terra facilmente riconosciuto.

Che paradosso! La Chiesa ha rinunciato alla sua lingua proprio quando l’avanzante mondializzazione e globalizzazione avrebbero richiesto un gesto in senso contrario. Si pensi all’attuale uso della lingua inglese, la cui conoscenza è diventata di fatto decisivo per poter competere nel campo del lavoro.

Per prefigurare la vita del Paradiso

Il quinto motivo è per prefigurare il Paradiso. C’è chi ha giustamente e suggestivamente detto che la Messa è “una finestra del Paradiso”. Ora chiediamoci: in Paradiso le anime come comunicano? Risposta: nella luce e nell’amore di Dio, non certo attraverso le lingue locali. Non si tratta di una comunicazione verbale nel senso comune del termine, ma di una comunicazione universale in Dio. Ebbene, la liturgia è anche prefigurazione di ciò che ancora non è, ma sarà. E se è anche questo, essa (la liturgia) deve pur far capire che in Paradiso si parlerà un’unica “lingua”: quella dell’amore effetto della visione beatifica di Dio.

Per confermare la Tradizione

Il quinto motivo è per confermare la Tradizione. Il latino è la lingua dell’inizio della Chiesa. Come l’Eucaristia non può realizzarsi se non con il pane e il vino, cioè con ciò che Gesù utilizzò nell’Ultima Cena, così ha un significato ben preciso che la lingua della liturgia cattolica sia la lingua dell’inizio e del centro della Chiesa.

La lingua latina, ricorda Giovanni XXIII sempre nella Veterum Sapientiae, fu scelta dalla Provvidenza come lingua della Chiesa, portata ovunque dalle antiche vie consolari. L’unità linguistica resta un modello e un ideale. Nella predicazione è necessario utilizzare la lingua vernacola, il rito e la liturgia richiedono invece un’unica lingua sacra.

La Messa non va capita… va vissuta!

La liturgia non è uno spettacolo teatrale, nel quale si debba ascoltare e comprendere ogni singola parola. La liturgia serve a far penetrare, mediante il suo apparato di segni visibili, nelle realtà divine che in essa si celebrano. Per questo il sacerdote si spoglia dei suoi abiti quotidiani e si riveste dei paramenti sacri, per questo la celebrazione segue un rito codificato, per questo i cristiani si riuniscono in un luogo apposito e diverso da tutti gli altri, che è la chiesa.

La Messa non va capita, va vissuta. O meglio: va capita relativamente a ciò che avviene in essa, ma l’approccio non deve essere di tipo intellettuale, bensì cordiale, nel senso letterale del termine da cor-cordis che vuol dire “cuore”. Partecipare alla Messa è adesione al Mistero.

Il senso dell’actuosa partecipatio (partecipazione attiva), non è tanto nel capire e nel rispondere, ma nel condividere e nell’offrire. Giustamente si dice –e questo lo abbiamo già detto- che il modello del vero fedele che partecipa alla Messa è l’Immacolata. Ella sotto la Croce non parlava: condivideva ed offriva.

E poi, diciamocela tutta: un tempo la gente non capiva le parole della Messa, però sapeva bene cosa fosse la Messa; oggi tutti capiscono le parole della Messa (sempre che non siano distratti… e molte volte la banalizzazione distrae più facilmente), ma pochi sanno cos’è la Messa. Basterebbe chiedere a tanti ragazzi non “lontani”, praticanti e di oratorio, per accertarsi quanti pochi oggi sanno cosa sia davvero la Messa.

Certamente la parte istruttiva della Messa (letture, omelia, ecc…) deve essere capita e lì va bene la lingua nazionale, ma per il canone no. Paradossalmente per capire il canone, e cioè la grandezza e l’inimmaginabilità di ciò che accadde sul Calvario, occorre proprio una lingua che sia fuori del tempo e dello spazio, che meglio esprima il senso del mistero.

L’allora cardinale Ratzinger, futuro Benedetto XVI, scrisse nel suo Il Sale della terra. Cristianesimo e Chiesa cattolica nella svolta del terzo millennio“Nella nostra riforma liturgica c’è la tendenza, a parer mio sbagliata, di adattare completamente la liturgia al mondo moderno. Essa dovrebbe quindi diventare ancora più breve e da essa dovrebbe essere allontanato tutto ciò che si ritiene incomprensibile; alla fin fine essa dovrebbe essere tradotta in una lingua ancora più semplice, più ‘piatta’. In questo modo, però, l’essenza della liturgia e la stessa celebrazione liturgica vengono completamente fraintese. Perché in essa non si comprende solo in modo razionale, così come si capisce una conferenza, bensì in modo complesso, partecipando con tutti i sensi e lasciandosi compenetrare da una celebrazione che non è inventata da una qualsiasi commissione di esperti, ma che ci arriva dalla profondità dei millenni e, in definitiva, dall’eternità.”

E poi: se davvero la “Messa in latino” fosse così selettiva, verrebbe da chiedersi: come mai essa ha prodotto nei secoli frutti di santità non solo tra i colti, ma anche e soprattutto tra i semplici?

Dio è Verità, Bontà e Bellezza  Il Cammino dei Tre Sentieri

 






  • LITURGIA

Le ragioni del ritorno del latino in chiesa


di mons. Nucila Bux

Bisogna interrogarsi seriamente, circa la disobbedienza verso il Concilio Ecumenico Vaticano II, per aver abolito, di fatto e del tutto, il latino nella liturgia e nei sacramenti, facendo un favore al secolarismo e al particolarismo.

Da milleseicento anni la lingua ufficiale della Chiesa cattolica romana è il latino, come della Chiesa di Costantinopoli è il greco antico, di quella di Mosca lo slavo ecclesiastico, dei luterani il tedesco medievale. Il latino è quindi anche la lingua della liturgia romana, come di altre liturgie occidentali: segno di unità ecclesiale che travalica tempo e spazio, perché collega le generazioni cristiane dai primi secoli sino ad oggi, e perché permette a tutti i cattolici di unirsi in una sola voce; è la chiesa universale che prega per bocca dei suoi figli senza distinzione di razza e cultura.

Che cosa è successo con la riforma liturgica? Per quanto siano stati tradotti nelle lingue parlate, molti testi liturgici non si potevano rendere con la stessa efficacia; per non parlare del canto gregoriano e polifonico legato ad esso. Inoltre, la tesi in sé positiva dell’inculturazione della liturgia in un luogo e cultura - per la quale fu promulgata l'Istruzione Varietates legitimae, da leggere complementariamente a Liturgiam authenticam - non può offuscar l’altra che la precede e la segue: la liturgia deve esprimere l’unità e la cattolicità della Chiesa. Joseph Ratzinger osservava che tradurre la liturgia nelle lingue parlate sia stata una cosa buona, perché dobbiamo capirla, dobbiamo prendervi parte anche con il nostro pensiero, ma una presenza più marcata di alcuni elementi latini aiuterebbe a dare una dimensione universale, a far sì che in tutte le parti del mondo si possa dire: "io sono nella stessa Chiesa" …per avere una maggiore esperienza di universalità, per non precludersi la possibilità di comunicare tra parlanti di lingue diverse, che è così preziosa in territori misti. Col latino i sacerdoti possono dire messa per qualsiasi comunità nel mondo ed essere compresi.

Surrettiziamente però si è coniata la tesi dell’incomunicabilità plurisecolare della liturgia facendola dipendere dall’altra tesi che il latino non fosse comprensibile ai tempi di Trento da parte della quasi totalità dei preti. Si è volutamente dimenticata l’opera di formazione del clero e di catechesi dei fedeli avviata da quel concilio, che ha mutato in quattro secoli la situazione. Questa tesi tace sul fatto che i nostri padri vivessero il mistero eucaristico e liturgico molto più profondamente di noi oggi e, ultimamente, significa negare l’azione dello Spirito Santo. La comprensione del mistero, non è quella che discerne la presenza di Cristo sull’altare e fa cadere in ginocchio, annichiliti come Pietro, esclamando: “Allontanati da me che sono un peccatore”? Malgrado la Messa in lingua parlata, il numero dei fedeli nelle chiese è molto diminuito: forse anche perché, dicono alcuni, ciò che hanno compreso non è affatto piaciuto. Divo Barsotti diceva: “Crede di capire qualcosa di più dell’essenza e del mistero eucaristico se si parla solo e sempre in italiano? Il problema non è di capire solo sul piano intellettuale, ma di compiere un incontro reale con Cristo”.

A tutto questo poi, non ha contribuito la pubblicazione, in breve tempo, di documenti spesso contraddittori. Come giudicare lo iato tra il Motu proprio Sacram Liturgiam del 25 gennaio 1964, col quale papa Paolo VI ammetteva le lingue nazionali solo per le letture e il vangelo della Messa degli sposi, e l’Istruzione Inter Oecumenici del 26 settembre 1964, promulgata dalla Congregazione per il Culto Divino insieme al Consilium ad exsequendam Costitutionem de Sacra Liturgia (l’organismo istituito per “eseguire” il testo conciliare), in cui si autorizzava la lingua volgare oltre che nelle letture e nella preghiera universale, anche nell’Ordinario della Messa, cosa non prevista dalla Sacrosanctum Concilium?

Poi, sebbene l’Istruzione, al n 57 prescrivesse che i messali e breviari in lingua volgare contenessero anche il testo latino, il 31 gennaio 1967 si comincia a recitare in lingua volgare anche il Canone romano. Ma il 13 luglio 1967 Paolo VI – come anzi detto –  aveva fatto scrivere dalla Segreteria di Stato al Consilium, affinché i messali nazionali fossero bilingue: latino e lingua volgare. Eppure, appena un mese prima, il 21 giugno, il Consilium aveva inviato una lettera circolare a firma del suo presidente card. Lercaro, in cui si affermava che nelle celebrazioni non si dovrà passare da una lingua all’altra. Così, il 10 agosto del 1967 il Consilium diramava una comunicazione ai presidenti delle conferenze episcopali nazionali, circa la traduzione del Canone romano, in cui affermava: “E’ desiderio del Santo Padre che i messali, sia quotidiani che festivi, in edizione integrale o parziale, portino sempre a lato della versione in lingua volgare il testo latino, su doppia colonna o a pagine rispondenti, e non in fascicoli o libri separati, a norma dell’Istruzione Inter Oecumenici e del Decreto della S.Congregazione dei Riti De Editionibus librorum liturgicorum, del 27 gennaio 1966”.

Nel 1969 Paolo VI tornava a chiederlo anche alla Commissione liturgica nazionale italiana, a proposito della traduzione da intraprendere, addentrandosi  “nell’augusto, austero, sacro, venerando, tremendo recinto delle preci eucaristiche” – che costituiscono il cuore della Messa, il momento della consacrazione del pane e del vino – dove esortava a “procedere con pazienza, senza fretta, e soprattutto con qualche umiltà” (n. 11). L’espressione sarà ripresa letteralmente nella terza Istruzione Liturgicae Instaurationes del 1970, tranne l’accenno all’umiltà! Ma il papa rimase inascoltato, sia sull’impostazione bilingue sia sulle traduzioni, con la scusa dell’eccessiva voluminosità che avrebbe raggiunto il messale, secondo il segretario del Consilium, mons.Bugnini. Se questi avesse potuto vedere l’edizione italiana attuale, cosa avrebbe detto?  Dunque, direbbe Manzoni, le 'gride' c’erano ma non sono state osservate.

Dinanzi al proliferare inarrestabile delle traduzioni-interpretazioni, dovette intervenire, nel 1974, la Congregazione per la Dottrina della fede che stabiliva: “Il significato da intendersi per  esse è, nella mente della Chiesa, quello espresso dall’originale testo latino”. Risultato: l’originale latino scomparve, impedendo così a preti e studiosi di intendere l’autentico significato del testo tradotto. Infatti, se si studia comparativamente il lessico e la sintassi del messale tridentino, promulgato da san Pio V, e di quello di Paolo VI si hanno non poche sorprese.

Per esempio, un’orazione dell’antico messale diceDeus, qui nocentis mundi crimina per acquas abluens, regenerationis speciem in ipsa diluvii effusione signasti (Dio, che astergendo con le acque i delitti di un mondo peccatore, nella inondazione stessa del diluvio hai prefigurato la rinascita); nel messale attuale è resa così: “Deus, qui regenerationis speciem in ipsa diluvii effusione signasti” (Dio, che nella inondazione stessa del diluvio hai prefigurato la rinascita): sono scomparse le espressioni che riguardano la condizione umana di peccato, i pericoli e le insidie del diavolo e del mondo. Perché? Forse per non provocare “choc al senso cristiano attuale” (cfr Istruzione del Consilium del 1969). Questa situazioneè un sintomo di quell’ottimismo romantico, stigmatizzato da Joseph Ratzinger nel Rapporto sulla fede, che oggi è sfociato nel relativismo teologico.

Significativo è quanto affermava Giovanni Paolo II, il quale riconosceva che la lingua latina «è stata anche un’espressione dell’unità della Chiesa, e, mediante il suo carattere dignitoso, ha suscitato un senso profondo del mistero eucaristico». Papa Wojtyla ammetteva, inoltre, sempre nello stesso documento, che «la Chiesa romana ha particolari obblighi verso il latino, la splendida lingua di Roma antica, e deve manifestarli ogni qualvolta se ne presenti l’occasione».

Che cosa pensare e che fare? Uwe M.Lang annota: “I Padri conciliari non immaginavano che la lingua sacra della Chiesa occidentale sarebbe stata rimpiazzata dal vernacolo. La frammentazione linguistica del culto cattolico nel periodo post-conciliare si è spinta così oltre che la maggioranza dei fedeli oggi può a stento recitare un Pater noster insieme agli altri, come si può notare nelle riunioni internazionali a Roma o a Lourdes. In un'epoca contrassegnata da grande mobilità e globalizzazione, una lingua liturgica comune potrebbe servire come vincolo di unità fra popoli e culture, a parte il fatto che la liturgia latina è un tesoro spirituale unico che ha alimentato la vita della Chiesa per molti secoli. Infine, è necessario preservare il carattere sacro della lingua liturgica nella traduzione vernacola, come fa notare l'istruzione della Santa Sede Liturgiam authenticam del 2001”.

A chi obbietta che la lingua latina non permette la comunicazione e la partecipazione alla liturgia, bisogna far notare che il latino, quale lingua 'sacra' ha una potenza comunicativa, in quanto è adoperata all'interno di un atto sacro; inoltre, le caratteristiche di eredità della tradizione, universalità e immutabilità - che sono parallele a quelle del nucleo della fede - la rendono particolarmente adatta alla liturgia, che tratta delle res sacrae aeterne: il latino risponde alla missione della Chiesa di Roma. Anche le Chiese giovani africane e asiatiche hanno bisogno di una lingua unificante e universale, in momenti particolarmente significativi della loro vita, come la liturgia.

In molte parti del mondo si torna al latino: da Oxford a Cambridge, a Seattle…perché considerarla un’arretratezza? Ad un europeo che deve imparare l’inglese per comunicare col mondo, perché non può essere utile conoscere il latino nostra madre lingua, per comunicare nella liturgia cattolica con i fratelli di fede ed anche saper decifrare il patrimonio musicale e artistico della Chiesa a cui apparteniamo senza far la figura degli ignoranti? Tutte le religioni usano una lingua sacra: l’arabo antico per i musulmani, il sanscrito per gli indù. Dunque non si deve aver paura del latino: i giovani lo capiscono e affollano le Messe in latino.

Bisogna interrogarsi seriamente, circa la disobbedienza verso il Concilio Ecumenico Vaticano II, per aver abolito, di fatto e del tutto, il latino nella liturgia e nei sacramenti, facendo un favore al secolarismo e al particolarismo. Rispetto al tempo in cui fu pubblicata la Costituzione liturgica, la situazione è molto più grave in diverse parti del mondo, specialmente in Occidente: “È in questione la fede”e “l'unità del rito romano”che la esprime (cfr.Sacrosanctum Concilium, n. 37-38). 

(FINE - 2) Già pubblicato: Il rovesciamento delle gerarchie













[Modificato da Caterina63 29/11/2017 15:06]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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  23. Libera nos quaesumus


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XXIII – LIBERA NOS QUAESUMUS


A questo punto comincia quella parte della Messa che va sino alla seconda orazione che precede la Comunione. Quest’ultima è il mezzo adottato da Nostro Signore per riunire tutti gli uomini tra loro e farne un’unità completa ed armoniosa. Per questo, quando la Chiesa si vede forzata ad espellere dal suo seno uno dei suoi membri che s’è reso indegno d’appartenervi, lo scomunica, cioè non gli permette d’aver parte alla Comunione dei fedeli. Per esprimere quest’unione, la Chiesa, nostra Madre, vuole che la pace, risultato della carità che regna tra i fedeli, sia oggetto dun’attenzione tutta particolare. Si dispone, dunque, a chiederla nell’orazione che segue, e subito ci si darà il bacio di pace tra i fedeli (16), che esprimerà la loro mutua carità.

Nostro Signore disse nel Vangelo: «Se, presentando la tua offerta all’altare, ti ricordi che il tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì la tua offerta dinanzi all’altare, e va subito a riconciliarti col tuo fratello; allora potrai ritornare a fare la tua offerta» (Mt 5,23-24). La Chiesa si appropria completamente di questo desiderio di Gesù Cristo e si preoccupa in questo momento solenne di mantenere la pace e la carità tra tutti i suoi membri. Nelle Messe dei defunti non si da il bacio di pace, sempre per la medesima ragione che abbiamo esposto innanzi, ossia perché i morti hanno cessato d’essere sottomessi al potere della Chiesa e, di conseguenza, essa non può donar loro la pace: le nostre relazioni con loro sono completamente mutate.

Il sacerdote continua a sviluppare l’ultima domanda dell’orazione domenicale, dicendo: Libera nos, quaesumusDomine, abomnibus malis, praeteritispresentibus et futuris, “Fortificaci, o Signore, perché i nostri mali passati ci hanno lasciato in un lacrimevole stato di debolezza spirituale e siamo ancora come convalescenti. Preservaci dalle tentazioni che ci minacciano in questo momento e dalle afflizioni che ci opprimono, come pure dai peccati nei quali possiamo incorrere. Infine difendici da tutti i mali che possono capitarci in avvenire”. Et intercedente beata et gloriosa semper Virgine Dei Genitrice Maria, cum beatis Apostolis tuis Petro et Paulo, atque Andrea, et omnibus Sanctis. La Chiesa, avendo bisogno d’intercessori, non manca di rivolgersi alla Santa Vergine come pure ai santi apostoli Pietro e Paolo. Ma perché si aggiunge qui solamente sant’Andrea? Perché la Chiesa romana ha sempre avuto per quest’Apostolo una devozione particolare. Da propitius pacem in diebus nostris: ut, ope misericordiae tuae adjuti, et a peccato simus semper liberi, et ab omni perturbatene securi, “donaci, Signore, la pace nei nostri giorni, affinchè aiutati dal soccorso della tua misericordia siamo, innanzitutto, liberati dal peccato, e poi sicuri contro tutti gli assalti e tutti i lacci del maligno nemico”.

Tale è la magnifica orazione della pace che la santa Chiesa adopera in questo momento per tale mistero particolare della Santa Messa. Circa a metà di quest’orazione, quando il sacerdote dice: et omnibus Sanctis, fa il segno di croce con la patena, che sin dall’inizio tiene nella mano destra. Poi la bacia in segno di rispetto a questo vaso sacro, sul quale va a riposar il Corpo del Signore, perché non è mai permesso di baciare l’Ostia. Quindi, finita l’orazione, il sacerdote mette la patena sotto l’Ostia, scopre il calice, prende l’Ostia e, tenendola al di sopra del calice, la rompe nel mezzo, dicendo questa parte della conclusione: Per eundem Dominum nostrum Jesum Christum Filium tuum.
Ripone allora sulla patena la parte che tiene nella mano destra; rompe una particella dell’altra metà che tiene nella mano sinistra, dicendo: Qui tecum vivit et regnai in unitate Spiritus Sacti Deus. Allora pone ugualmente sulla patena la parte dell’Ostia che aveva nella mano sinistra, e, tenendo al di sopra del calice la piccola particella che ha staccata, dice a voce alta: Per omnia sacula saeculorum. Il popolo, approvando la sua domanda e aderendo ad essa, risponde: Amen. Allora, facendo tre volte il segno di croce sul calice con la particella che tiene sempre tra le dita, dice ad alta voce: Pax Domini sit semper vobiscum. E si risponde: Et cum spiritu tuo. La Chiesa non perde di vista la pace che ha domandato, e approfitta di quest’occasione per riparlarne.

Il sacerdote lascia allora cadere nel calice la particella che aveva in mano, mescolando così il Corpo e il Sangue del Signore e dicendo al tempo stesso:Haec commixtio, et consecratio Corporìs et Sanguinis Domìni nostri Jesu Christi, fiat accipientibus nobis in vitam asternam. Amen. Che cos’è questo rito? Che cosa significa la mescolanza della particela col Sangue che è nel calice? Questo rito non è dei più antichi, quantunque risalga a più di mille anni fa. Lo scopo che si propone è d’indicare che al momento della Risurrezione del Signore il suo Sangue si unì di nuovo al suo Corpo, rientrando nelle sue vene. Non bastava che la sua Anima tornasse ad unirsi al suo Corpo, bisognava, perché il Signore fosse completo, che anche il suo Sangue fosse nel suo Corpo. Nostro Signore, risuscitando, riprese dunque il Sangue che si trovava sparso sul Calvario, nel pretorio e nell’orto degli Olivi.
Facciamo qui notar un uso, bizzarro e azzardato, che s’è introdotto tra gli Orientali dopo la separazione. Terminata la Consacrazione, essi collocano sull’altare un braciere nel quale si mantiene costantemente un recipiente con acqua bollente, e di quando in quando si mescola una piccola quantità di quest’acqua al prezioso Sangue, avendo cura, però, di non alterare le sacre specie. Questa pratica si osserva solo dal secolo XIV.

Il termine consecratio, che dice il sacerdote recitando le parole che accompagnano l’atto di mescolare la particella dell’Ostia col prezioso Sangue, non deve intendersi nel senso di Consacrazione sacramentale; qui questa parola significa semplicemente “ricongiungimento di cose sacre”.


Un sacerdote risponde

La prima eucaristia attuata da Gesù è stata diversa da tutte le successive, sia da lui celebrate e da quelle celebrate dai suoi sacerdoti?

Quesito

Carissimo Padre Angelo
mentre ero a Messa l'altro giorno mi é venuta una domanda.
Nella S. Messa durante la consacrazione si fa il memoriale della passione e resurrezione di Gesù. Gesù ha istituito l'eucaristia prima che la sua passione fosse compiuta. Che significato ha avuto quindi la prima eucarestia?
Da lì poi ho cominciato a riflettere su tutte le altre successive volte che in cui Gesù ha comunicato i suoi discepoli, quando è apparso loro dopo la resurrezione. Possiamo dire che in questi casi Egli abbia celebrato il memoriale della sua passione e resurrezione?
In un certo senso la prima eucaristia è stata diversa da tutte le successive, sia quelle consacrate da Gesù che quelle consacrate dai suoi sacerdoti? 
Non intendo diversa nella sostanza, perché le credo tutte uguali, sono tutte il corpo e sangue di nostro Signore, ma nel significato.
Grazie infinite per il tempo che dedicherà nel rispondermi. Le assicuro un particolare ricordo davanti al tabernacolo.


Risposta del sacerdote

Carissima,
1. nell’enciclica Ecclesia de Eucharistia Giovanni Paolo II scrive: “L'istituzione dell'Eucaristia anticipava sacramentalmente gli eventi che di lì a poco si sarebbero realizzati, a partire dall'agonia del Getsemani. Rivediamo Gesù che esce dal Cenacolo, scende con i discepoli per attraversare il torrente Cedron e giungere all'Orto degli Ulivi. … Il sangue, che aveva poco prima consegnato alla Chiesa come bevanda di salvezza nel Sacramento eucaristico, cominciava ad essere versato; la sua effusione si sarebbe poi compiuta sul Golgota, divenendo lo strumento della nostra redenzione” (EE 3).

2. “Anticipava” e rendeva presente il sacrificio di Cristo.
Ecco quanto dice ancora Giovanni Paolo II: “«Il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito» (1 Cor 11,23), istituì il Sacrificio eucaristico del suo corpo e del suo sangue. Le parole dell'apostolo Paolo ci riportano alla circostanza drammatica in cui nacque l'Eucaristia. Essa porta indelebilmente inscritto l'evento della passione e della morte del Signore.
Non ne è solo l'evocazione, ma la ri-presentazione sacramentale. 
È il sacrificio della Croce che si perpetua nei secoli.
Bene esprimono questa verità le parole con cui il popolo, nel rito latino, risponde alla proclamazione del «mistero della fede» fatta dal sacerdote: «Annunziamo la tua morte, Signore!»” (EE 11).

3. È da notare anche che nell’ultima cena quando Cristo ha istituito l’Eucaristia prima ha parlato e alla fine, dopo la cena, istituì il sacrificio.
Imbandì dunque due mense: quella della Parola e quella del sacrificio.

4. Nelle apparizioni pasquali si può dire con molti esegeti che Cristo abbia celebrato l’eucaristia nello spezzare il pane con i discepoli di Emmaus perché le parole usate dall’Evangelista “quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro” (Lc 24,30) sono le stesse di quelle usate per l’istituzione dell’Eucaristia.
Anche qui, se si tratta dell’Eucaristia, troviamo il medesimo schema: prima la mensa della parola, poi quella pane (il sacrificio).

5. Poco più di un secolo dopo San Giustino descrive come veniva celebrata l’eucaristia.
“Nel giorno chiamato «del Sole» (la nostra attuale domenica, n.d.r.) ci si raduna tutti insieme, abitanti delle città o delle campagne.
Si leggono le memorie degli Apostoli o gli scritti dei Profeti, finché il tempo consente.
Poi, quando il lettore ha terminato, il preposto con un discorso ci ammonisce ed esorta ad imitare questi buoni esempi.
Poi tutti insieme ci alziamo in piedi ed innalziamo preghiere sia per noi stessi… sia per tutti gli altri, dovunque si trovino, affinché, appresa la verità, meritiamo di essere nei fatti buoni cittadini e fedeli custodi dei precetti, e di conseguire la salvezza eterna.
Finite le preghiere, ci salutiamo l’un l’altro con un bacio.
Poi al preposto dei fratelli vengono portati un pane e una coppa d’acqua e di vino temperato.
Egli li prende ed innalza lode e gloria al Padre dell’universo nel nome del Figlio e dello Spirito Santo, e fa un rendimento di grazie (in greco: eucharistian) per essere stati fatti degni da lui di questi doni.
Quando egli ha terminato le preghiere ed il rendimento di grazie, tutto il popolo presente acclama: «Amen».
Dopo che il preposto ha fatto il rendimento di grazie e tutto il popolo ha acclamato, quelli che noi chiamiamo diaconi distribuiscono a ciascuno dei presenti il pane, il vino e l’acqua «eucaristizzati» e ne portano agli assenti” (Apologie, 65 e 67).
Anche qui dunque c’è il medesimo schema: prima la liturgia della parola, poi quella del pane o del sacrificio.

6. Il Catechismo della Chiesa Cattolica dice: “Fin dal secondo secolo, abbiamo la testimonianza di san Giustino martire riguardo alle linee fondamentali dello svolgimento della celebrazione eucaristica.
Esse sono rimaste invariate fino ai nostri giorni in tutte le grandi famiglie liturgiche” (1345).

7. Il Concilio Vaticano II con la riforma liturgica ha voluto dare il giusto risalto alla liturgia della parola che precedentemente era prerogativa del celebrante e di chi poteva seguire la celebrazione col messalino.

Ti ringrazio del quesito, ti ricordo al Signore e ti benedico. 
Padre Angelo






[Modificato da Caterina63 31/01/2018 09:48]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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28/02/2018 17:20
 
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Recezione dell’Eucarestia e communicatio in sacris

(di don Alfredo M. Morselli)

Segno e mistero

Per impostare correttamente gli status quaestionis dell’ammissione alla SS. Eucarestia dei divorziati civilmente risposati e della communicatio in sacris tra Cattolici ed Evangelici, è opportuno soffermarci a ben considerare la natura dei sacramenti.

La Tradizione è costante nel definire i sacramenti come segni:”signum rei sacrae inquantum est sanctificans homines” (San Tommaso[1]), “symbolum… rei sacrae et invisibilis gratiae formam visibilem” (Concilio di Trento[2]), “segni sensibili (parole e azioni), accessibili alla nostra attuale umanità. Essi realizzano in modo efficace la grazia che significano, mediante l’azione di Cristo e la potenza dello Spirito Santo” (CCC 1084).

Dunque i sacramenti sono segni: “sacramentum ponitur in genere signi”[3]. Gesù vuole che, nel momento in cui ci dona la grazia sacramentale, in qualche modo noi conosciamo quanto ci sta accadendo; è quindi ha stabilito che quelle cose sensibili deputate ad essere causa strumentale della grazia, ci dicano, ci raccontino – significhino appunto – il mysterion, il sacramentum, che irrompe nello spazio-tempo della celebrazione. Gesù ci divinizza rispettando la natura umana da Lui stesso creata, giacché “i segni sono dati agli uomini, dei quali è proprio pervenire alla conoscenza di cose ignote attraverso le cose note”[4].

Dobbiamo quindi stare attenti a non separare –trascinando nella teologia sacramentaria il principio di immanenza– il segno materiale dal suo significato sacro oggettivo, pretendendo di alterare il significato del segno in qualcosa che a noi piacerebbe fosse in un certo modo; spiega infatti S. Tommaso:”…il rito sacramentale è segno della cosa prodotta dal sacramento”[5].

Noi non ci “facciamo” i sacramenti, li riceviamo in dono, non solo quanto alla res – la grazia sacramentale (la grazia santificante ulteriormente determinata dalla qualità propria del sacramento), ma anche in quanto al segno, al sacramentum, istituito e determinato assolutamente da Gesù, secondo una ratio oggettivamente coerente con la res significata e causata: “Essendola santificazione dell’uomo in potere di Dio santificatore, non compete all’uomo assumere a suo arbitrio le cose che lo santifichino, ma esse devono venire determinate per istituzione divina”[6].

Il segno, il simbolo, se inizialmente è più oscuro e meno evidente rispetto a una forma di comunicazione più esplicita, non di meno ci introduce – ad opera dello Spirito Santo – in una comprensione interiore e personale unica e ricchissima: si può dire – in modo analogo a quanto S. Gregorio Magno affermava della S. Scrittura (questa”è come se crescesse insieme al suo lettore, perché si fa capire dai più semplici e si rivela sempre nuova ai più esigenti”[7]), che anche il sacramentumcresce nella sua portata semantica con l’aumento di carità di chi del sacramento fa esperienza. Esso significa la grazia che causa e la grazia causata rende il soggetto capace di una sempre più profonda interpretazione del mistero contenuto nel segno stesso.

  1. Il segno eucaristico

Vediamo ora il segno, il sacramentum dell’Eucarestia. Essa ci è data in forma di cibo.

Posto dunque che la S. Comunione è un cibo, e che l’atto di mangiare rende il cibo, colui che lo mangia e coloro che mangiano insieme, una cosa sola, si comprende come l’Eucarestia richieda:

  • in primo luogo di essere assunta da una persona spiritualmente viva (un morto non mangia).

Così spiega San Tommaso, mostrando come, a differenza del Battesimo, l’Eucarestia non rimetta i peccati mortali:

“Il battesimo è una generazione spirituale, ossia il passaggio spirituale dal non essere all’essere; e viene amministrato in forma di abluzione. Quindi per ambedue i versi chi ha coscienza di peccato mortale non accede indegnamente al battesimo. Nell’Eucarestia invece si riceve Cristo come nutrimento dello spirito, il quale non si può amministrare a chi è morto nei peccati”[8].

Da ciò ne deriva che chi si accosta alla S. Comunione deve essere in stato di grazia, deve essere vivo soprannaturalmente per potersi nutrire soprannaturalmente[9].

  • in secondo luogo, chi si accosta all’Eucarestia non deve essere in stato di oggettiva contraddizione con quell’unità (comunione = “unione con”) costituita dal cibo-chi lo mangia-i molti che mangiano insieme, quei moltiper cui il Sangue è versato[10] e quei molti che attraverso l’Eucarestia sono uno[11].

Da ciò ne deriva che quei molti che si comunicano devono avere la stessa fede, perché non si può essere uniti a Cristo se non si crede a Lui ascoltando (fides ex auditu) coloro per mezzo dei quali Egli ci parla e si rivela, non dubitando di un solo iota di quanto ci dice.

L’unità nella fede richiesta dall’Eucarestia non può limitarsi a una più o meno generica fede in Cristo. Così insegnava San Giovanni Paolo II, rivolgendosi nel 1980 al Consiglio della Chiesa Evangelica:

Se le difficoltà che sussistono tra noi riguardano solo “gli ordinamenti ecclesiastici d’istituzione umana” (cf. CA [= Confessio Augustana], VIII), le potremmo e dovremmo subito eliminare. Secondo la persuasione dei cattolici, il dissenso verte su “ciò che è di Cristo”, su “ciò che è suo”: la sua Chiesa e la sua missione, il suo messaggio, i suoi sacramenti e i ministeri posti al servizio della parola e del sacramento”[12].

Se non crediamo a una minima cosa tra quelle proposte a credere dalla Chiesa, in qualche modo rendiamo la fede una scelta naturale nostra e non un dono, e facciamo Gesù o la sua Chiesa– il Suo corpo mistico significato per altro nell’Eucarestia – bugiardi. E non è possibile dichiarare di essere uniti a una persona o a una comunità ritenendoli bugiardi.

Appaiono allora chiare le parole di S. Tommaso:

“In questo come negli altri sacramenti il rito sacramentale è segno della cosa prodotta dal sacramento. Ora, la cosa prodotta dal sacramento dell’Eucarestia è duplice, come sopra abbiamo detto: la prima, significata e contenuta nel sacramento, è Cristo stesso; la seconda, significata e non contenuta, è il corpo mistico di Cristo, ossia la società dei santi. Chi dunque si accosta all’Eucarestia, per ciò stesso dichiara di essere unito a Cristo e incorporato alle sue membra. Ma questo si attua per mezzo della fede formata, che nessuno ha quando è in peccato mortale. È chiaro dunque che chi riceve l’Eucarestia con il peccato mortale commette una falsità nei riguardi di questo sacramento [contraddice il segno, che non è, come abbiamo visto, separabile dalla res]. Perciò si macchia di sacrilegio come profanatore del sacramento. E quindi pecca mortalmente”[13].

  1. Impostazioni sbagliate del problema

1) Appare radicalmente infondata la concezione luterana secondo la quale per assumere l’Eucarestia è sufficiente la “fede” ovvero la confidenza di ricevere la grazia per mezzo di essa: senza la grazia gli uomini sarebbero tanto più predisposti alla sua recezione quanto più si credono oberati di peccato, purché abbiano la suddetta fiducia.

2) Pure erronea sarebbe una concezione secondo la quale una inter-comunione di fatto, sorvolando sulla dottrina (ovvero cattolici ed evangelici si comunicano indifferentemente partecipando a celebrazioni interconfessionali, oppure i cattolici nei templi evangelici e viceversa), condurrebbe inevitabilmente all’unità, realizzata dal Cristo ricevuto sacramentalmente[14].

Temiamo il grimaldello dei casi particolari, nel tentativo di far passare in seguito come ordinaria questa prassi.

Le suddette ipotesi dimenticano quanto sopra abbiamo ribadito e spiegato, ovvero che “il rito sacramentale è segno della cosa prodotta dal sacramento”[15] nel momento stesso della celebrazione, non di quel che un giorno forse sarà; perciò andremmo contro la verità del sacramento se confessassimo come presente qualcosa che non c’è ancora.

  1. Eucarestia, peccatori e fratelli separati

Possiamo ora chiederci: il peccatore o un incredulo, non hanno proprio niente a che fare con la S. Eucarestia?

Possiamo rispondere che coloro che sono spiritualmente morti o non sono ancora uniti a Cristo – in atto – mediante la vera fede, non sono assolutamente del tutto disrelazionati con l’Eucarestia.

Innanzi tutto costoro possono tendere verso la S. Comunione con il desiderio, che certamente ha inizio – quando non è orgogliosa pretesa –ad opera della grazia. Se questo desiderio sarà assecondato con buona volontà, potrà essere poca favilla gran fiamma seconda[16], ovvero il primo passo verso la gran fiamma seconda della vita di grazia: e questo desiderio viene suscitato da Dio proprio per questo.

Ma siamo nell’ordine della preparazione alla giustificazione, in attesa di essere o creati in grazia mediante il battesimo o ricreati con la Confessione.

D’altro canto, è soprattutto l’Eucarestia ad essere ordinata ai peccatori e ai fratelli separati; tuttavia si tratta dell’Eucarestia in quanto sacrificio! Sentiamo ancora San Tommaso:

“L’eucarestia non è solo un sacramento, ma anche un sacrificio. Ora in quanto è un sacramento ha effetto in ogni vivente nel quale richiede che la vita preesista. In quanto invece è un sacrificio ha effetto anche negli altri per i quali viene offerto, nei quali non preesige la vita spirituale in atto, ma solo in potenza; e così, se li trova disposti, ottiene ad essi la grazia in virtù di quel vero sacrificio da cui affluì in noi ogni grazia; e, per conseguenza cancella in essi i peccati mortali, non come causa prossima, ma in quanto impetra per essi la grazia della conversione. E ciò che si dice in contrario, che cioè non viene offerto se non per le membra di Cristo, va inteso che è offerto per le membra di Cristo quando è offerto per qualcuno affinché sia membro[17].

Paradossalmente dunque possiamo avvicinarci agli Evangelici soprattutto offrendo S. Messe per l’unità dei cristiani (offrendo quel Sacrificio rifiutato da gran parte di essi), più che praticando una improvvida assurda inter-comunione.

In conclusione, i sacramenti devono rimanere segno di cosa sacra in quanto santificano gli uomini, e non segno di cosa falsa in quanto forzati nell’incoerenza del segno rispetto al mistero in esso contenuto.

[1]San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, IIIª q. 60 a. 2 co.

[2]Concilio di Trento, Sessio XIII, 11-10-1551; Decretum de ss. Eucharistia,DS 1639.

[3]Summa Theologiae, IIIª q. 60 a. 1 co.

[4] “…signa dantur hominibus, quorum est per nota ad ignota pervenire” (Summa Theologiae, IIIª q. 60 a. 2 co.).

[5] “… sacramentum est signum eius quod est res sacramenti” (Summa Theologiae, IIIª q. 80 a. 4 co.).

[6] “Quia igitur sanctificatio hominis est in potestate Dei sanctificantis, non pertinet ad hominem suo iudicio assumere res quibus sanctificetur, sed hoc debet esse ex divina institutione determinatum” (Summa Theologiae, IIIª q. 60 a. 5 co.).

[7] “… aliquo modo crescit cum legenti, quod a rudibus lectoribus quasi recogniscitur, et tamen doctis semper noua reperitur”; San Gregorio Magno, Moralia in Iob, XX I, 1, vol III, Roma: Città Nuova 1997, pp. 86-87.

[8] “Ad secundum dicendum quod Baptismus est spiritualis generatio, quae est mutatio de non esse spirituali in esse spirituale; et datur per modum ablutionis. Et ideo, quantum ad utrumque, non inconvenienter accedit ad Baptismum qui habet conscientiam peccati mortalis. Sed per hoc sacramentum homo sumit in se Christum per modum spiritualis nutrimenti, quod non competit mortuo in peccatis” (Summa Theologiae, IIIª q. 79 a. 3 ad 2).

[9] “E la consuetudine della chiesa dichiara che quell’esame è necessario così che nessuno, consapevole di peccato mortale, per quanto possa credere di esser contrito, debba accostarsi alla santa eucarestia senza aver premesso la confessione sacramentale” (Concilio di Trento, Sessio XIII, 11-10-1551, Decretum de ss. Eucharistia, DS 1647).

[10] Cf. Mt 26,28 e Mc 14,24.

[11] “Poiché un solo pane, un solo corpo i molti siamo, i tutti infatti che partecipiamo dell’unico pane” (1 Cor 10,17); “…i molti siamo un solo corpo in Cristo” (Rm 12,5a).

[12]Giovanni Paolo II, Discorso al Consiglio della Chiesa Evangelica, Magonza, 17-11-1980.

[13]“Respondeo dicendum quod in hoc sacramento, sicut in aliis, id quod est sacramentum est signum eius quod est res sacramenti. Duplex autem est res huius sacramenti, sicut supra dictum est, una quidem quae est significata et contenta, scilicet ipse Christus; alia autem est significata et non contenta, scilicet corpus Christi mysticum, quod est societas sanctorum. Quicumque ergo hoc sacramentum sumit, ex hoc ipso significat se esse Christo unitum et membris eius incorporatum. Quod quidem fit per fidem formatam, quam nullus habet cum peccato mortali. Et ideo manifestum est quod quicumque cum peccato mortali hoc sacramentum sumit, falsitatem in hoc sacramento committit. Et ideo incurrit sacrilegium, tanquam sacramenti violator. Et propter hoc mortaliter peccat” (Summa Theologiae, IIIª q. 80 a. 4 co.).

[14] In questo senso vanno le proposte e la prassi dichiarata da H. Küng e J. Moltmann; cf «Una spiritualità ecumenica vissuta già oggi» (estratto dal colloquio tenutosi durante la giornata ecumenica a Monaco 2010) in Concilium n. 3 del 2011, riportato in tinyurl.com/zotq5ba.

[15]Vedi nota 5.

[16]Dante Alighieri, Divina commediaParadiso I, 34.

[17] “Eucharistia non solum est sacramentum, sed etiam est sacrificium. Inquantum autem est sacramentum, habet effectum in omni vivente, in quo requirit vitam praeexistere. Sed inquantum est sacrificium, habet effectum etiam in aliis, pro quibus offertur, in quibus non praeexigit vitam spiritualem in actu, sed in potentia tantum; et ideo, si eos dispositos inveniat, eis gratiam obtinet virtute illius veri sacrificii a quo omnis gratia in nos influxit; et per consequens peccata mortalia in eis delet, non sicut causa proxima, sed inquantum gratiam contritionis eis impetrat. Et quod in contrarium dicitur, quod non offertur nisi pro membris Christi, intelligendum est pro membris Christi offerri, quando offertur pro aliquibus ut sint membra” (Scriptum super Sententiis, lib. 4 d. 12 q. 2 a. 2 qc. 2 ad 4).




[Modificato da Caterina63 28/02/2018 17:21]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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25/03/2018 09:29
 
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Ecco come è stata "imposta" la comunione in mano
ECCLESIA 25-03-2018

Un sacerdote compie lo studio più approfondito su come si è arrivati a concedere la distribuzione della comunione in mano che Paolo VI e la maggioranza dei vescovi bocciò. Anzitutto con un indulto che doveva essere rivolto solo a quelle diocesi dove si commettevano abusi. Ma poi la "moda" è dilagata. Resta il fatto che la ricezione della comunione in ginocchio e in bocca sia legge universale della Chiesa, la forma consuetudinaria attuale sia solo frutto di una concessione. 

 

Don Federico Bortoli è attualmente parroco della parrocchia Sant’Andrea Spostolo in Acquaviva, Diocesi di San Marino Montefeltro. E’ inoltre Cancelliere vescovile, Vicario giudiziale e consulente ecclesiastico dell’Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti. Presso il Tribunale Ecclesiastico Flaminio di Bologna è Difensore del Vincolo. Il libro La distribuzione della Comunione sulla mano, pubblicato lo scorso 22 febbraio è la sua tesi di Dottorato in Diritto Canonico. E’ su questo importante tema che lo abbiamo intervistato.

Il documento di riferimento relativamente alla distribuzione della S. Comunione sulla mano è l'Istruzione della Sacra Congregazione per il Culto Divino Memoriale Domini (29 maggio 1969, d’ora in avanti MD), voluta da Paolo VI. Sinteticamente, ci può dire perché nasce questo documento e quali indicazioni contiene?
Il documento nasce perché, negli anni immediatamente successivi al Vaticano II, si era diffuso in alcuni paesi l'uso di ricevere la Comunione sulla mano. Si trattava evidentemente di un abuso liturgico, che metteva le sue radici proprio in quei paesi in cui già si erano registrate problematiche dottrinali relative al mistero della Santa Eucaristia: Belgio, Olanda, Francia e Germania. La Santa Sede, non riuscendo a fermare questo abuso, decise di consultare tutti i vescovi sulla questione. Questa decisione di Paolo VI permette già di capire l'importanza dell'argomento. Lo dico, perché diverse persone ritengono che si tratti di un aspetto marginale, non importante.

E cosa risultò da questa consultazione?
La maggioranza dei vescovi espresse la propria contrarietà nei confronti dell'introduzione di questa pratica. MD recepì l'esito della consultazione e confermò che la norma universale per ricevere la Comunione è appunto quella di riceverla direttamente sulla lingua, dandone profonde argomentazioni. Nel contempo, però, consentiva alle Conferenze Episcopali di quei territori in cui l'abuso si era già verificato di poter chiedere un indulto per la Comunione sulla mano, se il proprio episcopato, riunito per votare sulla questione, avesse raggiunto la maggioranza dei due terzi.

MD conferma quindi che le due modalità di ricevere l'Eucaristia non sono sullo stesso piano?
Assolutamente. Nel libro riporto integralmente l'Istruzione, dalla cui lettura si comprende chiaramente che la disciplina ritenuta tradizionale e universale è quella della Comunione in bocca, perché “poggia su di una tradizione plurisecolare, ma specialmente perché esprime e significa il riverente rispetto dei fedeli verso la santa Eucaristia”. Inoltre perché “si evita il pericolo di profanare le specie eucaristiche”. Il documento non equipara le due forme. La Comunione sulla lingua è raccomandata ed è considerata il modo più consono per ricevere l’Eucaristia, mentre la Comunione sulla mano è consentita, a patto che si osservino certe precauzioni, come quello di controllare se rimangono dei frammenti sul palmo della mano.

L'altro aspetto dell'Istruzione che lei mette in risalto nel suo libro è il fatto che l'indulto non doveva essere concesso a chiunque lo chiedesse, ma solo a quelle Conferenze Episcopali nel cui territorio si erano già verificati degli abusi.
Esatto. La richiesta poteva essere fatta solo in quelle situazioni in cui c'era l'abuso di ricevere la Comunione sulla mano. Dove questo non c'era, l'indulto non poteva essere richiesto. Cos'è accaduto, però? Che all'inizio si è osservato questo criterio; poi, quasi tutte le Diocesi hanno chiesto e ottenuto l'indulto, anche dove non c'era questa necessità. Il Cardinal Knox, che era allora Prefetto del Culto Divino, accolse anche le domande di altre conferenze episcopali. E' un fatto che l'interpretazione della MD da parte del Cardinale non è stata corretta.

Nel suo libro, lei fa notare che nel gennaio 1977, Paolo VI, tramite il Cardinal Villot, chiese al Cardinal Knox di rendergli nota la situazione relativa alla concessione degli indulti, alla modalità della loro applicazione ed anche di verificare se, in seguito all'applicazione dell'indulto, si fossero verificati abusi, profanazioni, o se fosse diminuita la devozione dei fedeli verso l'Eucaristia. Ma il Cardinale sembrò minimizzare molto i problemi reali...
I papi, Paolo VI prima e Giovanni Paolo II poi, avevano colto la problematica, anche grazie alle segnalazioni del Cardinal Bafile. Nonostante ciò, il Cardinal Knox ha proseguito per la sua strada, sminuendo quanto il Cardinal Bafile aveva chiaramente messo in evidenza. Paolo VI non chiese a Knox di valutare i suggerimenti del Cardinal Bafile, ma di pensare a come applicarli concretamente. Questi suggerimenti erano in sostanza la sospensione della concessione di nuovi indulti, la necessità di ricordare che la pratica della Comunione sulla mano è comunque sconsigliata dalla Chiesa e che, laddove l'indulto non era stato concesso, essa costituiva anche un abuso.

Quello che passa di fatto, soprattutto a partire dall'articolo pubblicato da padre Annibale Bugnini sull'Osservatore Romano (1973), da lei segnalato, è che la nuova prassi sia addirittura migliore, più fedele al modo antico di ricevere l'Eucaristia...
L'idea di MD era quella di legalizzare l'abuso, laddove non si riusciva a sconfiggerlo; ma veniva comunque richiesta una catechesi secondo il testo dell'Istruzione, una catechesi che cioè doveva mettere in luce i pregi della pratica di ricevere la Comunione in bocca ed i rischi che si correvano con la nuova prassi, in primis la dispersione dei frammenti. Le catechesi non dovevano promuovere la Comunione sulla mano, come di fatto si è verificato, ma in qualche modo sconsigliarla, pur senza proibirla. Ancora oggi, si parla della Comunione sulla mano come il modo migliore, fedele alle origini e fedele alla Riforma liturgica. Un punto fondamentale del libro è quello di dimostrare che invece Sacrosanctum Concilium non ne parla affatto. E neppure ne parlano i documenti successivi, né il nuovo Messale Romano, ma solo Memoriale Domini, che la pone nei termini di indulto. Certamente l'articolo di Bugnini ha dato una direzione, ma estranea ai testi del Concilio.

Dopo MD, non ci sono stati altri documenti espliciti. Allo stato attuale, quali sono allora le disposizioni della Chiesta relativamente alla distribuzione della Comunione?
Risulta particolarmente esemplificativo il documento che riporto in Appendice di Mons. Bialasik, Vescovo della Diocesi di Oruro, che afferma chiaramente che la Comunione in bocca è la legge universale della Chiesa, come stabilisce la MD. Quindi la Comunione sulla lingua è legge universale, mentre quella sulla mano è un indulto, un'eccezione. L'altro riferimento fondamentale, oltre a MD, è Redemptionis Sacramentum, 92, che parla del diritto del fedele di ricevere la Comunione sulla lingua, ed anche in ginocchio

Anche nella catechesi, soprattutto ai bambini, bisognerebbe insegnare il modo proprio di ricevere l'Eucaristia, cioè quello sulla lingua...
Esatto. Si dovrebbe chiaramente dire che il modo migliore per ricevere l’Eucaristia è in bocca e se proprio si vuole ricevere la Comunione sulla mano, di farlo con la maggior attenzione possibile. Io, come parroco, chiaramente non posso proibire, ma posso sconsigliare, far presenti le problematiche ed educare. Va però anche detto che la stessa Redemptionis Sacramentum, 91, stabilisce che “se c’è pericolo di profanazione, non sia distribuita la santa Comunione sulla mano dei fedeli”.

Un altro aspetto che lei mette bene in luce è il fatto che l'ottenimento dell'indulto da parte di una Conferenza Episcopale non comporta l'obbligo, da parte dei singoli Vescovi, di applicarlo.
Questo è un altro aspetto fondamentale. L'ottenimento dell'indulto da parte della Conferenza episcopale non comporta la sua automatica applicazione nelle singole diocesi. Semplicemente esso è il presupposto per cui un vescovo possa decidere di avvalersi o meno dell'indulto. In Italia è invece avvenuto il contrario: si è pensato che l'indulto concesso alla CEI autorizzasse la recezione della Comunione sulla mano in tutte le diocesi d'Italia. Ma non è così. Ogni vescovo può decidere se applicarlo e in quale modalità. Il Vescovo di Oruro, per esempio, nel gennaio del 2016 ha emanato un decreto con il quale ha proibito sul territorio della sua diocesi che si ricevesse la Comunione sulla mano. Questo potrebbe farlo ogni vescovo; anzi, a rigor di logica, senza un decreto dei singoli vescovi con cui si dichiara di voler recepire l'indulto ottenuto dalla Conferenza episcopale, la Comunione sulla mano non è lecita. Anche Mons. Laise, in Argentina, non ha recepito l'indulto. E' stato accusato dagli altri vescovi di non essere in comunione con loro; lui, allora si è rivolto alla Santa Sede, che gli ha dato ragione.

Il suo libro è impreziosito dalla pubblicazioni di inediti...
Senza dubbio, la novità principale e più importante del libro è quella di far conoscere la documentazione inedita del Fondo Ghiglione, dove si descrivono le dinamiche con cui è stata introdotta la Comunione sulla mano. Si tratta di comunicazioni epistolari tra i vari Dicasteri della Curia romana, di segnalazioni pervenute alla Santa Sede e soprattutto la parte più corposa di queste comunicazioni riguarda gli scritti del cardinal Domenico Bafile, che è stato prima Nunzio in Germania – e quindi proprio in uno di quei luoghi in cui l'abuso si è presentato precocemente, rendendosi conto di tutte le problematiche connesse -, e poi Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi. Nel libro riporto gli scritti inviati a Paolo VI e a Giovanni Paolo II, che manifestano la sua preoccupazione per la diffusione della Comunione sulla mano, le problematiche connesse, ed indicano anche dei passi concreti da mettere in atto. La preoccupazione maggiore del Cardinale era la dispersione dei frammenti, pressoché inevitabile con la Comunione sulla mano. E poi il fatto di favorire irriverenze verso l'Eucaristia, nonché l'indebolimento della fede nella Presenza reale. Sia Paolo VI che Giovanni Paolo II hanno dato ampio credito alle segnalazioni di Bafile. Ne è prova il fatto che il Santo Pontefice, il 24 febbraio 1980, pubblicò la Lettera Dominicae Cenae, dove parlava esplicitamente di “deplorevoli mancanze di rispetto nei confronti delle specie eucaristiche”, legate alla pratica della Comunione sulla mano. Un mese dopo Giovanni Paolo II prese la grave e importante decisione di sospendere la concessione di nuovi indulti, considerando seriamente l’ipotesi di non concederne più in avvenire, anche se poi dal 3 aprile 1985 viene ripresa la concessione di nuovi indulti.

Forse la possibilità di concedere indulti, pur avendo Paolo VI espresso chiaramente l’insegnamento della Chiesa sulla modalità di ricevere l’Eucaristia e pur avendo indicato le limitazioni con cui dovevano essere concessi tali indulti (poi non rispettate), è stata comunque una porta aperta…
In effetti la possibilità di indulto è stata forse una debolezza. C’è una parte del libro in cui parlo del ruolo dell’autorità ecclesiastica, dove cerco di mostrare – col senno di poi – che la concessione dell’indulto ha in qualche modo permesso di arrivare alla situazione che è sotto gli occhi di tutti. Se si fosse semplicemente recepita la contrarietà della maggioranza dei vescovi consultati alla possibilità di ricevere la Comunione sulla mano, forse le cose sarebbero andate diversamente. E’ necessario tener presente la priorità di custodire nel miglior modo possibile l’Eucaristia dalla possibilità di dispersione dei frammenti e da altre possibili profanazioni, che sono chiaramente facilitate dalla nuova modalità concessa. Giovanni Paolo II, nell’enciclica Ecclesia de Eucharistia, ha insegnato che “non c'è pericolo di esagerare nella cura di questo Mistero” (n. 61). Quest’affermazione è decisiva.






Riportando il discorso del Papa sulla distribuzione della Comunione, alcuni giornali hanno usato le sue parole sulla ricezione in mano per contrapporle a quelle del cardinal Sarah, che auspicava un ritorno alla forma in ginocchio e in bocca. Ma nella foga hanno censurato la vera notizia, perché anche Papa Francesco ha ribadito che questa forma antica è consentita. Ma oggi molti la osteggiano. 

-COSI' E' STATA IMPOSTA LA COMUNIONE IN MANO di Luisella Scrosati 

 

Comunione in ginocchio o in piedi? In bocca o in mano? La Nuova BQ se n’è occupata anche recentemente pubblicando la prefazione del prefetto del Culto Divino Robert Sarah al libro di uno studioso sulla genesi della pratica della distribuzione della comunione in mano. Le parole di Sarah costituiscono un ragionamento teologico e sacramentale molto articolato che tiene conto anche degli abusi con i quali la pratica della comunione in mano è stata introdotta nelle Conferenze episcopali, a seguito sostanzialmente di un “golpe” di alcuni vescovi negli anni '70. Storia, sacramentaria, teologia. Il tutto per dire che, pur essendo permessa da alcune Conferenze episcopali, la comunione in mano può rappresentare un vulnus rischioso nella percezione dell’Eucarestia come presenza reale.

Ma ormai nella Chiesa sembra che tutte le questioni debbano essere appiattite solo a dinamiche politiche, di contrapposizione. Così anche quelle parole di Sarah sono state utilizzate per contrapporre il cardinale a Papa Francesco. E’ un vecchio vizio italico quello di strumentalizzare le parole per far dire tutt’altro, ma stavolta si è andati oltre perché nella foga di mettere Sarah contro il Papa non ci si è accorti che non si è nemmeno capita la notizia. E la notizia è questa: che il Papa ha detto che la comunione in ginocchio e in bocca si può fare. E’ questa la notizia vera, perché oggi non esistono casi di proibizione della comunione in mano, ma esistono invece casi, e molti, in cui i sacerdoti rifiutano ai fedeli questa antica e proficua pratica.

A qualche giornale infatti non è sembrato vero che il Papa intervenisse sulla faccenda dando così una spallata al cardinale refrattario: infatti nei titoli con i quali è stata data la notizia si è posto l'accento sul fatto che il Papa avrebbe ribadito che si può fare la comunione in mano costruendo la notizia come se si trattasse di una risposta al cardinal Sarah.

Ma leggiamo che cosa ha detto il Papa nel corso dell’udienza del mercoledì: “Secondo la prassi ecclesiale il fedele si accosta normalmente all’eucaristia in forma processionale, come abbiamo detto, e si comunica in piedi con devozione, oppure in ginocchio, come stabilito dalla Conferenza episcopale, ricevendo il sacramento in bocca o, dove è permesso, sulla mano, come preferisce (cfr OGMR, 160-161). Dopo la comunione, a custodire in cuore il dono ricevuto ci aiuta il silenzio, la preghiera silenziosa”.

“Come preferisce” fa capire quindi che ci sia una libertà di scelta. In ogni caso, Francesco non ha fatto altro che ribadire quella che è l’attuale prassi codificata dal Messale Romano riformato di Paolo VI. Insomma: una spiegazione didascalica di come ci si può accostare oggi alla Santa Comunione. Che cosa c’entra Sarah? Evidentemente per certi megafoni sempre pronti con l’artiglieria pesante del ditino puntato, il passaggio sulla comunione in mano sarebbe stato fatto proprio per rimbrottare il Prefetto del Culto divino. Il quale però non ha mai detto né scritto che la comunione in mano sia proibita, ma che, dal suo punto di vista e non solo, il modo migliore per riceverla è in bocca e in ginocchio. Rimandiamo qui per conoscere le motivazioni che hanno spinto Sarah a sostenerlo e qui a capire il perché la pratica moderna e consuetudinaria porti con sé molti rischi.

Anzitutto entrando in una visione diversa: la comunione in ginocchio e in bocca è legge universale della Chiesa, quella in mano e in piedi è un indulto concesso a suon di abusi e di forzature e il documento di Paolo VI che la permetteva solo per quelle diocesi recalcitranti non era un'apertura indiscrimninata alla pratica. Anzi, doveva servire come deterrente. 

Ciò che è interessante notare oggi però, è che Sarah ha espresso, e motivato, una preferenza, per usare lo stesso linguaggio utilizzato dal Papa (“come preferisce”) e l'ha esplicitata con l’autorevolezza della sua posizione di Prefetto del Culto divino. Papa Francesco invece non ha messo in contrapposizione le due forme di ricezione, ma ha semplicemente esposto ai fedeli quali sono quelle permesse, senza prendere posizione.

Dunque il problema dove sta? Sta evidentemente nel servirsi di una affermazione lapalissiana oggi, e cioè che la comunione si può prendere in mano, tralasciando la vera notizia e cioè che anche il Papa ha ribadito in sostanza che nessun fedele può vedersi rifiutato di riceverla in ginocchio e in bocca.

Infatti il Santo Padre ha detto che solo la ricezione della comunione in mano è consentita “dove è permesso” mentre in ginocchio e in bocca è sempre permessa. E' il caso di quelle conferenze episcopali o singole diocesi che non hanno emanato provvedimenti in materia negli ultimi 40 anni. In Bolivia, ad esempio o nella Diocesi di Mar del Plata, dove il vescovo Hector Aguer, proseguendo la proibizione del suo predecessore Laise, non l’ha mai ammessa.

Ma l’esperienza quotidiana di chi si occupa di queste cose sta a dimostrare che, invece, a molti fedeli oggi è negato di ricevere la Santa Ostia in ginocchio. Basta leggere le cronache o ascoltare quanto raccontano i fedeli, ultimo un caso ad Andria. Ma anche una lettrice della Nuova BQ di Bologna, ma nativa di Manfredonia, che ha scritto una lettera, che narra di una vera e propria disavventura con un sacerdote che le ha impedito fisicamente di comunicarsi secondo l’"usus antiquor”. La missiva si concludeva con una domanda-auspicio: “Che cosa ne pensa Papa Francesco?”.

Mercoledì la donna ha avuto la risposta, ma certi giornali hanno ribaltato la frittata per ragioni più politiche che ecclesiali e così la notizia non è arrivata.







[Modificato da Caterina63 25/03/2018 09:37]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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22/04/2018 00:34
 
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MULLER: L’EUCARESTIA E’ “MEDICINA DELL’IMMORTALITA’”, NON RIMEDIO A TRAUMI PSICODRAMMATICI


 



VERSIONE INTEGRALE


Per il card. Muller, già prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, le aperture dei vescovi tedeschi alla Comunione ai coniugi protestanti è fonte di confusione, banalizzazione dei sacramenti e divisione Chiesa Cattolica. Solo i battezzati che sono in piena comunione ecclesiale con l’unica Chiesa di Cristo possono ricevere la comunione sacramentale.


Ecco il suo importantissimo e chiarissimo intervento del card. Gerhard L. Muller pubblicato ieri su First Thing (qui).


Foto: card. Gerhard L. Müller

Foto: card. Gerhard L. Müller



Secondo il cardinale Reinhard Marx, i vescovi tedeschi hanno recentemente preparato delle linee guida che contemplano la possibile ammissione alla Santa Comunione dei protestanti sposati con un coniuge cattolico. L’unica condizione assoluta sarebbe che questi protestanti affermino la fede della Chiesa cattolica. (Relazioni più recenti indicano che la Congregazione per la Dottrina della Fede, con l’appoggio del Papa, ha respinto la proposta dei vescovi tedeschi. I vescovi tedeschi, tuttavia, negano che questo sia il caso.)


Il cardinale Marx ha aggiunto che aprire questa possibilità non significherebbe cambiare la dottrina, ma solo modificare il proprio approccio pastorale. Tuttavia, questa nuova procedura “pastorale” non avrebbe implicazioni dottrinali? Basta affermare la fede della Chiesa cattolica per poter ricevere l’Eucaristia, o è necessario appartenere effettivamente alla Chiesa cattolica?


Per la fede cattolica il legame tra la Chiesa e l’Eucaristia è costitutivo. Pertanto, in linea di principio, solo i battezzati possono ricevere la comunione sacramentale che sono in piena comunione ecclesiale con “l’unica Chiesa di Cristo… costituita e organizzata nel mondo come società, che sussiste nella Chiesa cattolica ed è governata dal successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con Lui” (Lumen Gentium n. 8, Vaticano II). Chiunque metta in discussione questa verità rivelata in teoria o la sostituisca in pratica, entra in aperto contrasto con la fede cattolica. Procedendo ora a mostrare la connessione che esiste tra la comunione sacramentale da un lato e la comunione ecclesiale dall’altro, lo farò dal punto di vista della Rivelazione, come è fedelmente e completamente conservata nella Chiesa cattolica, senza discutere le controverse linee guida della Conferenza episcopale tedesca.


Oggi la teologia è spesso subordinata all’ideologia e alla politica ecclesiastica. Invece di scambiare argomenti in un dibattito aperto, si screditano le persone. Ogni problema è fatto per concentrarsi sulle persone, e quindi è neutralizzato. Anche se qualcuno conosce a memoria la Sacra Scrittura, ha studiato i Padri della Chiesa e si dimostra un esperto di filosofia e scienza moderna, per screditarlo basta che qualche giornalista o teologo amatoriale lo definisca “conservatore”, e tutte le sue conoscenze saranno neutralizzate, così come il vino migliore diventa imbevibile quando vi si mescola una goccia di veleno. Ogni vescovo di nuova nomina viene messo alla prova alla prima conferenza stampa ed etichettato come conservatore o liberale – qualunque sia il suo significato – a seconda che si esprima “a favore o contro” l’ordinazione delle donne, “a favore o contro” la benedizione delle coppie omosessuali, “a favore o contro” il celibato sacerdotale e “a favore o contro” la Santa Comunione per i “divorziati e risposati”. Altri argomenti non sono di interesse e non contano argomenti differenziati. Pertanto, le accuse di parzialità ideologica personale sostituiscono la discussione obiettiva. Coloro che vorrebbero vedere una connessione più allentata tra la comunione ecclesiale e la comunione dei sacramenti – presumibilmente per rendere più facile per la gente di oggi giungere alla fede – accusano immediatamente i loro critici di chiusura mentale e di rigida adesione farisea ai dogmi che il cristiano secolarizzato non può più comprendere.


Oggi assistiamo ad un clima antidogmatico che ha effetti negativi sulla comprensione dei sacramenti. I sacramenti allora non sono più considerati come i segni visibili istituiti da Cristo e celebrati nella Chiesa, che compiono una grazia invisibile in coloro che sono ben disposti. I sacramenti si trasformano in mezzi psicologici e sociali di sostegno per facilitare le nostre esperienze mistiche interiori con un “Cristo” che si forma nella nostra coscienza secondo la nostra immagine e somiglianza. La grazia dei sacramenti non è certo una ricompensa per la buona condotta morale, ma ancor meno una giustificazione per la condotta immorale e per una vita vissuta in contrasto con i comandamenti di Dio. Quando si tratta del rapporto tra grazia e moralità, non c’è “o questo o quello”, ma “questo e quello”, come si legge nei documenti del Concilio Vaticano II: “È attraverso i sacramenti e l’esercizio delle virtù che si attua la sacralità e la struttura organica della comunità sacerdotale” (Concilio Vaticano II, Lumen Gentium n. 11).


Molte persone oggi sono incapaci di entrare veramente nella liturgia perché non ricollegano la vita e il dogma della Chiesa al fatto dell’Incarnazione, ma considerano il cristianesimo semplicemente come una variazione storica di un sentimento religioso generale indotto da una vaga trascendenza. La natura, l’azione e l’effetto dei sacramenti sono rivelati solo alla luce dell’Incarnazione e della reale mediazione storica della salvezza nella Croce e nella Risurrezione di Cristo, Verbo Incarnato di Dio. Da questo punto di vista uno percepisce subito che la mentalità di chi dice: “Può essere dogmaticamente corretta, ma non funziona per la cura pastorale” è completamente non cattolica. Cristo Maestro della Verità che è Dio stesso, che ci fa conoscere e amare, è allo stesso tempo il Buon Pastore e il “Vescovo delle nostre anime” (1 Pt 2,25), che ha dato la sua vita per noi sulla Croce. Pertanto, non ci può essere una doppia verità nell’insegnamento cattolico. Ciò che è dogmaticamente sbagliato avrà effetti dannosi sulla pastorale nella misura in cui quest’ultima sarà guidata da falsi principi, mettendo in pericolo la salvezza delle anime.


Nella nostra epoca di social media, comunicazione digitale e opinione dominante totalitaria, ciò che è di primaria importanza non è se il papa e i vescovi raggiungono le persone, ma piuttosto che attraverso il loro messaggio Cristo raggiunge le persone, Cristo che è la verità e la vita di Dio. Perciò, come unico magistero indivisibile della Chiesa, il papa e i vescovi in unione con lui hanno la gravissima responsabilità che da essi non derivi alcun segno ambiguo o insegnamento poco chiaro, che confonda i fedeli o che li culli in un falso senso di sicurezza. Per il papa e per i vescovi, è parte del loro rischio ministeriale ritrovarsi in situazioni in cui gli opinion leader e i potenti di questo mondo li accusino di essere fuori dal contatto con la realtà, ostili alla vita, o bloccati in epoca medievale. I profeti di un tempo erano perseguitati.Gesù avvertiva i suoi discepoli che la gente “avrebbe pronunciato ogni sorta di male” contro di loro falsamente a causa della vera fede (cfr Mt 5, 11). Perché allora i vescovi, come successori degli Apostoli, pensano che la ragione della persecuzione e della calunnia si trovi semplicemente in una falsa politica dei media, alla quale si potrebbe facilmente porre rimedio migliorando le capacità di comunicazione?


Nell’epoca del relativismo dogmatico, che si trasforma rapidamente in una persecuzione verbale e violenta dei testimoni della verità rivelata, occorre chiarezza nel proprio pensiero teologico e nel coraggio dei martiri di portare testimonianza  alla verità, come fece Gesù davanti a Pilato. La preoccupazione della Chiesa è di seguire Cristo nella verità di Dio, e non con la potenza del mondo. Ma vogliamo testimoniare la fede cattolica ed essere esempi viventi di essa in un modo che ci permetta di camminare insieme ai cristiani delle chiese ortodosse e di altre confessioni sulla strada verso la piena unità della Chiesa, così come lo desidera il suo fondatore Gesù Cristo.


Al momento dell’istituzione dell’Eucaristia, Gesù non ha dato risposte dettagliate a tutte le singole domande che sarebbero sorte in una riflessione successiva. Ma tutte le dichiarazioni dogmatiche della Chiesa si basano sulla natura di questo sacramento come lo ha istituito Gesù. Chi vuole ricevere il corpo sacramentale e il sangue di Cristo deve già essere integrato nel corpo di Cristo, che è la Chiesa, attraverso la confessione della fede e il battesimo sacramentale. Così, non c’è comunione mistica, individualistica ed emotiva con Cristo che si possa pensare distaccata dal battesimo e dall’appartenenza alla Chiesa. Dopo tutto, Cristo è sempre il capo del suo corpo, e il suo corpo è la Chiesa. Non esiste una comunione mistica e individualistica con Cristo basata sull’emozione, che prescinda dall’appartenenza al corpo ecclesiale di Cristo.


È sempre stato chiaro ad ogni cattolico che per ricevere il Corpo e il Sangue di Cristo nell’Eucaristia in modo legittimo e fecondo, bisogna essere in piena comunione con il corpo ecclesiale di Cristo nella professione del Credo, nei sacramenti e nella costituzione gerarchica della Chiesa visibile. Inoltre, i credenti devono essere in stato di grazia santificante, cioè devono essersi pentiti sinceramente di ogni peccato mortale e averlo confessato, proponendosi fermamente di non peccare più. Di solito è nell’assoluzione sacramentale che i fedeli sono liberati da gravi colpe che li separano radicalmente da Dio e dalla Chiesa.


Quando i papi e i concili hanno scomunicato gli eretici e gli scismatici, hanno escluso questi battezzati dalla comunione eucaristica fino al giorno della conversione e della riconciliazione con Dio e con la Chiesa. E viceversa anche gli eterodossi, che si consideravano ortodossi, negavano la comunione ecclesiale ai cattolici non concedendo loro la comunione eucaristica.


Fu solo con l’accordo di Leuenberg del 1973 tra le Chiese della Riforma in Europa che i luterani e i riformati permisero ai loro rispettivi membri di partecipare alle celebrazioni della Cena del Signore e permisero al loro rispettivo clero di predicare nelle rispettive congregazioni. Infatti, fino ad allora, essi si erano attenuti ad un principio che risale alla Chiesa primitiva, cioè al principio che la comunione nei sacramenti non può essere separata dalla comunione ecclesiale. E infatti, non tutte le comunità ecclesiali derivanti dalla Riforma hanno aderito all’Accordo di Leuenberg. Per alcuni, questo accordo aveva risolto la controversia sulla presenza reale di Cristo nella Cena del Signore in un modo che favoriva eccessivamente la visione calvinista, non riuscendo così ad arrivare ad una vera unità di fede su questo tema.


Si sono certamente registrati progressi significativi nel dialogo della Chiesa cattolica con varie comunità protestanti. Tuttavia, la Chiesa cattolica non può allontanarsi dalle dottrine essenziali della fede che riguardano la propria missione e i sacramenti che dispensa. Se lo facesse, diventerebbe infedele a Cristo. Non è sufficiente che un cristiano non cattolico accetti selettivamente per se stesso alcuni degli insegnamenti della Chiesa e ne respinga altri o li consideri irrilevanti. Nell’insegnamento dell’Eucaristia c’è un accordo quasi totale tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse (la Presenza Reale, il carattere sacrificale della Messa, la necessità di un sacerdote ordinato, senza il quale non c’è l’Eucaristia). C’è un accordo parziale tra la Chiesa cattolica e alcune comunità protestanti, specialmente i luterani.


Per i cattolici, i sacramenti non sono semplicemente segni della giustificazione del peccatore che è già avvenuta solo per fede. Piuttosto, sono segni che apportano ciò che significano. E sì, ci possono essere circostanze in cui i sacramenti di grazia non possono essere amministrati come segni visibili, e Dio tuttavia comunica la grazia dei sacramenti a coloro che si aprono a lui nella fede, nella speranza e nell’amore. Ma lo fa per la salvezza degli esseri umani senza rendere così meno importante la visibile, mediazione sacramentale della salvezza, che si basa sull’Incarnazione ed è in accordo con la natura umana.


Nel momento in cui si interpreta la fame spirituale di Dio e della grazia divina dell’essere umano in termini psicologici invece che teologici, si rischia di confondere i sacramenti cristiani con la magia pagana. Per fede e grazia soprannaturali, l’Eucaristia è una “medicina dell’immortalità” (Ignazio di Antiochia, Epistola agli Efesini); non è un rimedio alle esperienze e ai traumi psicodrammatici. Qui è importante utilizzare gli aiuti naturali della medicina e della terapia. È impossibile per l’Eucaristia ripristinare fisicamente, per così dire, la comunione ecclesiale perduta in assenza dell’unione soprannaturale che deriva dalla comune confessione di fede, dai sacramenti e dall’unità visibile con il papa e i vescovi.


Alcuni sostengono, con apparente generosità, che le cose non dovrebbero essere interpretate troppo rigidamente, e che in definitiva la decisione di ricevere la Santa Comunione dovrebbe essere lasciata ai sentimenti pii e alla buona volontà della gente. In realtà, però, questo appello ai sentimenti soggettivi che prevalgono sulla disciplina sacramentale mostra un disprezzo per la fede così come è stata rivelata da Dio e affidata alla Chiesa cattolica. Quando le singole Conferenze episcopali cercano di risolvere le difficoltà con un esercizio di potere, rinunciando a qualsiasi sforzo per giungere a una più profonda comprensione della fede cattolica e emanando invece un dettato autoritario, pur presupponendo tacitamente l’approvazione del Papa, allora il magistero della Chiesa sta minando se stesso. Dopo tutto, la sua autorità si basa non sul potere amministrativo, ma sulla “Parola di Dio, scritta o tramandata”. Il magistero “non è al di sopra della Parola di Dio, ma la serve, insegnando solo ciò che è stato trasmesso, ascoltandola devotamente, custodendola scrupolosamente, e spiegandola fedelmente secondo un incarico divino, e con l’aiuto dello Spirito Santo attinge da questo unico deposito di fede tutto ciò che presenta per credere come divinamente rivelato” (Concilio Vaticano II, Dei Verbum n. 10).


Dio ha nominato solo e soltanto un unico magistero nella Chiesa cattolica. Alcuni propongono che nella Chiesa ci possa essere una diversità e una divergenza in materia di fede e nell’amministrazione dei sacramenti. Si suggerisce anche che le conferenze episcopali o i singoli vescovi abbiano un magistero proprio con cui interpretare la Rivelazione in modo dogmaticamente vincolante, senza legami con il papa e con l’episcopato universale. Questa proposta non solo rivela una spaventosa mancanza di educazione teologica, ma non è altro che un mostruoso attacco all’unità della Chiesa in Cristo. Alla Chiesa universale e al collegio episcopale, il papa è il principio dell’unità della fede e il fondamento della comunione nei sacramenti. Singoli vescovi svolgono un ruolo analogo per le loro chiese locali (cfr. Concilio Vaticano II, Lumen gentium 18; n. 22). Non devono essere la causa della divisione della Chiesa universale in chiese nazionali autocefale. Il principio secolare del decentramento del potere politico può essere applicato alla Chiesa solo in maniera analogica e solo per quanto riguarda le questioni logistiche dell’amministrazione ecclesiastica. Essa non può certo essere applicata alla verità che unisce tutti i credenti in Dio mentre continuano “fermamente nella dottrina e nella comunione apostolica, nello spezzare il pane e nelle preghiere” (At 2, 42).


Tuttavia, nella situazione estrema di pericolo mortale, quando è in gioco la preparazione immediata del credente al suo giudizio particolare e alla sua vita eterna, la Chiesa non può negare l’aiuto pastorale a un cristiano non cattolico che è battezzato quando lo chieda seriamente. Evidentemente questo può avvenire solo nel rispetto della fede del credente. Infatti, la maggior parte dei cristiani non cattolici non si sono resi colpevoli di eresia e non si sono allontanati dalla Chiesa cattolica di propria iniziativa. A causa del battesimo e di molti altri elementi che costruiscono la Chiesa, i cristiani delle comunità ecclesiali emerse dalla Riforma hanno un legame reale con la Chiesa cattolica. C’è infatti una comunione, anche se non è una comunione piena (Concilio Vaticano II, Unitatis Redintegratio n. 3).


Quando i cristiani non cattolici in situazioni di grave bisogno che incidono sulla loro salvezza eterna – situazioni che non devono essere confuse con le difficoltà sociali o psicologiche – cercano un sacerdote cattolico per il perdono sacramentale dei loro peccati e per la Santa Comunione come viatico, cioè come nutrimento per il loro cammino finale, allora questi sacramenti di grazia possono essere loro dati. Non deve essere soddisfatta nessun’altra condizione se non quella di affermare la fede della Chiesa riguardo a questi sacramenti, almeno implicitamente. Infatti, a causa della loro fede, speranza e amore, Dio dà loro la grazia dei sacramenti. Deve essere evitata ogni forma di relativismo.


Tuttavia, non si devono ampliare arbitrariamente concetti come “necessità grave e urgente” (Codice Iuris Canonici, can. 844 §4) per dar luogo a una unione sacramentale di fatto della Chiesa cattolica con le comunità ecclesiali che non sono in piena comunione con essa. Il diritto canonico deve essere interpretato alla luce della fede rivelata e, per quanto riguarda il diritto meramente ecclesiastico, deve essere corretto nella stessa luce. Al contrario, è impossibile che disposizioni canoniche positive, meramente umane, invalidino praticamente la fede. Una divergenza tra la dottrina della fede e la sua pratica non è possibile se vogliamo rimanere cattolici. Alla fine, l’obiettivo non è l’intercomunione tra le chiese visibili che rimangono separate, ma piuttosto l’unità visibile della Chiesa che è rappresentata e realizzata nell’unità della fede, dei sacramenti e nel riconoscimento dell’insegnamento e dell’ufficio di governo del papa e dei vescovi (Concilio Vaticano II, Unitatis Redintegratio n. 4).


Anche se un matrimonio ed una famiglia miste a livello confessionale è probabile che sia una grande sfida per i coniugi e i loro figli, può, allo stesso tempo, essere un’opportunità dal punto di vista ecumenico. Sicuramente, però, non rappresenta una situazione di “grave e urgente necessità”, che richiede l’amministrazione dei sacramenti della Chiesa cattolica alla parte non cattolica per la salvezza della sua anima. Se i cristiani protestanti giungono alla convinzione interiore che nella loro coscienza essi affermano l’intera fede cattolica e la sua forma ecclesiale, allora devono anche cercare una piena comunione visibile con la Chiesa cattolica.


Per quanto riguarda le Chiese ortodosse, la questione è diversa sia dogmaticamente che praticamente, in quanto hanno la stessa comprensione della Chiesa della realtà sacramentale dei cattolici. Essi hanno validi sacramenti, il sacerdozio sacramentale, e la valida ordinazione dei vescovi, che sono veri e legittimi successori degli Apostoli. Così, a condizione che “la necessità lo esiga o che un autentico vantaggio spirituale lo elogi”, e sia evitato l’errore dell’indifferentismo, e “sia fisicamente o moralmente impossibile avvicinarsi ad un ministro cattolico”, il credente cattolico può chiedere ad un sacerdote ortodosso il sacramento della penitenza, l’unzione dei malati, e l’Eucaristia (Codice Iuris Canonici, can. 844 §2). Per quanto riguarda le disposizioni della Chiesa cattolica, un sacerdote cattolico può legittimamente offrire questi sacramenti ai cristiani ortodossi alla sola condizione che “essi li richiedano spontaneamente e siano adeguatamente disposti” (Codice Iuris Canonici, can. 844 §3). Gli ortodossi, invece, sono più chiusi nei loro rapporti con la Chiesa cattolica. Il motivo è che nella loro dottrina dei sacramenti, non sempre, almeno non sistematicamente, hanno tratto le conclusioni della Chiesa cattolica dalle fondamentali decisioni anti-donatiste del quarto e quinto secolo. In seguito a queste decisioni, la Chiesa cattolica crede che anche un sacerdote eretico o scismatico, o che non stia vivendo una vita moralmente irreprensibile, possa amministrare validamente i sacramenti, a condizione che sia validamente ordinato e celebri i sacramenti secondo la posizione della Chiesa.


Quando si tratta della competenza delle Conferenze episcopali in materia dottrinale, non si deve limitare la questione alle loro competenze giuridiche, canoniche. È della massima importanza ricordare che né i vescovi né il papa hanno alcuna competenza per intervenire nella sostanza dei sacramenti (Concilio di Trento, Decreto sulla Comunione di entrambe le specie, DH 1728) o per avviare tacitamente processi che stabiliscano errori e confusione nella pratica sacramentale, mettendo così a repentaglio la salvezza delle anime.


L’ecumenismo deve mirare a superare le differenze dottrinali nella sostanza della materia stessa. Non può limitarsi a trovare formule di compromesso verbale, che in ultima analisi sono insostenibili. Attribuendo la colpa della divisione del cristianesimo occidentale alla teologia accademica, non si fa altro che promuovere l’indifferenza nelle questioni di fede. La conseguenza sarebbe allora un nichilismo ecclesiologico che aprirebbe un abisso che finirebbe per inghiottire la Chiesa. Tuttavia, c’è un’alternativa che è importante tenere in considerazione: “La Chiesa del Dio vivente… è la colonna e il fondamento della verità” (1 Tm 3,15).







[Modificato da Caterina63 22/04/2018 00:35]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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