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LA VERA RELIGIONE di sant'Agostino Vescovo

Ultimo Aggiornamento: 11/11/2017 19:00
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Sesso: Femminile
11/11/2017 18:35
 
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70. - SULLE PAROLE DELL’APOSTOLO: LA MORTE È STATA INGOIATA
PER LA VITTORIA. 
DOV’È, O MORTE, LA TUA VITTORIA? DOV’È, O
MORTE, IL TUO PUNGIGLIONE? 
IL PUNGIGLIONE DELLA MORTE
È IL PECCATO E LA FORZA DEL PECCATO È LA LEGGE
 336

Si è soliti chiedere quale sia il significato delle parole: Allora avverrà quello che è stato scritto: " La morte è stata ingoiata per la vittoria ". Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione? Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la legge. In questo testo per morte ritengo che s’intenda l’impulso carnale che resiste alla buona volontà, a causa del compiacimento dei piaceri temporali. Non si direbbe infatti: Dov’è, o morte, la tua contesa? se non vi fosse opposizione e contrasto. La sua contesa è descritta anche in un altro testo: La carne ha desideri contrari allo spirito e lo spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste 337. Pertanto con la santità perfetta si realizza la sottomissione di ogni appetito carnale al nostro spirito illuminato e vivificato, cioè alla buona volontà. E come ora costatiamo di essere liberi da molti capricci puerili che da piccoli, se ci fossero stati negati, ci avrebbero afflitto assai aspramente, così bisogna credere che avverrà di ogni piacere carnale, quando la santità perfetta avrà riformato integralmente l’uomo. Ora però, finché in noi c’è qualcosa che si oppone alla buona volontà, abbiamo bisogno dell’aiuto di Dio mediante uomini e angeli buoni, perché la nostra ferita, in attesa della guarigione, non ci tormenti al punto da uccidere anche la buona volontà. Abbiamo meritato questa morte col peccato: peccato che prima si trovava totalmente nel libero arbitrio, quando, in paradiso, nessun dolore per un piacere negato resisteva alla buona volontà dell’uomo, come succede adesso. Se uno, ad esempio, non si è mai appassionato alla caccia, è assolutamente libero di volere o non volere andare a caccia. Chi glielo proibisse non lo angustierebbe affatto. Ma se, abusando malamente di questa libertà, andrà a cacciare contro l’ordine che lo vieta, il piacere che s’infiltra furtivamente fa morire l’anima a poco a poco, sicché, se volesse astenersene, non potrebbe senza dispiacere e tristezza, mentre prima avrebbe agito con tutta tranquillità. Quindi il pungiglione della morte è il peccato, perché col peccato è seguito il piacere che ora può opporsi alla buona volontà e si può reprimere solo con dolore. Abbiamo ragione di chiamare morte questo piacere, perché è a detrimento dell’anima, divenuta peggiore. E la forza del peccato è la legge: perché la scelleratezza e l’empietà nel commettere ciò che la legge proibisce è maggiore di ciò che non è vietato da alcuna legge. Allora finalmente la morte sarà ingoiata per la vittoria, quando, in virtù della piena santificazione dell’uomo, il piacere carnale sarà soppiantato dal gaudio perfetto delle cose spirituali.

 

71. - SULLE PAROLE DELLA SCRITTURA: PORTATE I PESI GLI UNI
DEGLI ALTRI E COSÌ ADEMPIRETE LA LEGGE DI 
CRISTO
 338

1. Poiché l’osservanza dell’Antico Testamento si basava sul timore, non si poteva dire più chiaramente che il dono del Nuovo Testamento è la carità come in questo testo, dove l’Apostolo dice: Portate i pesi gli uni degli altri e così adempirete la legge di Cristo. Si capisce bene perché egli parla di questa legge di Cristo: il Signore stesso ci ha comandato di amarci a vicenda, attribuendo così grande importanza a questa sentenza da affermare: Da questo sapranno che siete miei discepoli se vi amate gli uni gli altri 339. Questo amore impone di portare vicendevolmente i nostri pesi. Ma questo dovere, che non è eterno, condurrà certamente alla beatitudine eterna, dove non ci saranno più quei pesi che ci è comandato di portare scambievolmente. Ma attualmente, durante questa vita, mentre cioè siamo in via, portiamo a vicenda i nostri pesi per poter arrivare a quella vita priva di ogni peso. Come hanno scritto alcuni studiosi di tali materie riguardo ai cervi : quando [questi animali] guadano un corso d’acqua verso un’isola alla ricerca di pascoli, si allineano in modo da porre gli uni sugli altri il peso delle loro teste, appesantite dalle corna, cosicché quello che segue, allungando il collo, posa la testa sul precedente. E poiché è necessario che uno preceda gli altri, senza avere nessuno davanti a sé su cui appoggiare la testa, si dice che facciano a turno: chi precede, affaticato dal peso della testa, retrocede all’ultimo posto e gli succede quello di cui sosteneva la testa, quando esso guidava [il branco]. E così, portando a vicenda i loro pesi, passano il guado fino a raggiungere la terraferma. Salomone alludeva forse alla natura dei cervi, quando diceva: L’amabile cervo e la gazzella graziosa s’intrattengano con te 340. Niente dimostra tanto bene l’amicizia quanto il portare il peso dell’amico.

2. Non porteremmo tuttavia vicendevolmente i nostri pesi se quelli che portano i propri pesi fossero contemporaneamente soggetti alla malattia o allo stesso genere di malattia. Ma tempi diversi e diversi generi di infermità ci permettono di portare a vicenda i nostri pesi. Sopporterai, ad esempio, l’ira del fratello, se non ti adiri contro di lui, e viceversa, quando tu sarai preso dall’ira, egli ti sopporterà con dolcezza e serenità. Questo esempio fa al caso di coloro che portano vicendevolmente i pesi in tempi diversi, sebbene l’infermità sia la stessa. Entrambi infatti sopportano l’ira vicendevole. Consideriamo invece un altro esempio che riguarda un diverso genere d’infermità. Se uno è riuscito a vincere la propria loquacità, ma non ancora l’ostinazione, mentre l’altro è tuttora loquace, ma non più ostinato, il primo deve sopportare con carità la loquacità del secondo e questi l’ostinazione del primo, finché il difetto dell’uno e dell’altro sia guarito in entrambi. È certo che se l’identica infermità si riscontrasse in tutti e due contemporaneamente, essi non sarebbero capaci di sopportarsi vicendevolmente, perché si rivolgerebbe contro loro stessi. Invece due persone adirate possono accordarsi e sopportarsi contro una terza, sebbene non si debba dire che si sopportano ma piuttosto che si consolano a vicenda. Così anche due persone afflitte per lo stesso motivo si aiutano e in qualche modo si appoggiano l’una all’altra molto più che se una fosse afflitta e l’altra lieta; se invece fossero tristi l’una contro l’altra, non potrebbero affatto sopportarsi. In tali situazioni è opportuno pertanto condividere alquanto la stessa infermità da cui vuoi liberare l’altro col tuo aiuto. Bisogna condividerla per aiutare l’altro non per equiparare la miseria, come fa colui che si china a porgere la mano a chi è a terra. Non si prosterna infatti per rimanere entrambi a terra, ma si curva soltanto per sollevare chi è a terra.

3. Nessun motivo permette di compiere tanto generosamente questo compito gravoso di portare i pesi degli altri, quanto il pensiero di ciò che ha sopportato il Signore per noi. Per questo l’Apostolo ci ammonisce con le parole: Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce 341. Più sopra aveva detto: Nessuno cerchi il proprio interesse ma quello degli altri 342. A questa raccomandazione ha collegato ciò che è stato detto; infatti così prosegue: Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, proprio per questo scopo: come il Verbo si è fatto carne, è venuto ad abitare in mezzo a noi 343 e, pur essendo senza peccato, ha preso su di sé i nostri peccati e si è curato dei nostri interessi non dei suoi, così anche noi, secondo il suo esempio, portiamo vicendevolmente di buon animo i nostri pesi.

4. A questa considerazione se ne aggiunge ancora un’altra: egli ha assunto la natura umana, noi invece siamo uomini. Dobbiamo perciò tener presente che l’infermità sia dell’anima che del corpo, riscontrata in un altro uomo, avremmo potuta averla anche noi o possiamo averla. Mostriamo dunque a colui, di cui vogliamo alleviare l’infermità, la stessa delicatezza che desidereremmo da lui se per caso ci trovassimo in quella infermità, da cui egli fosse esente. A questo si riferisce lo stesso Apostolo che, pensando di potersi trovare anch’egli nella medesima difficoltà da cui desiderava liberare l’altro, dice: Mi sono fatto tutto a tutti, per guadagnare tutti 344. Egli si comportava così per compassione, non per ipocrisia, come sospettano alcuni, e soprattutto coloro che, per difendere le loro innegabili menzogne, ricercano il patrocinio di qualche esempio insigne.

5. C’è poi un’altra considerazione: non esiste uomo che non possa avere qualche bene, magari nascosto, che tu non possieda ancora e in cui potrebbe esserti certamente superiore. Questa riflessione serve a reprimere e ad eliminare l’orgoglio.Perché senza dubbio le tue buone qualità eccellono e sono manifeste, non penserai perciò che un altro non possa avere anch’egli buone qualità, per il motivo che sono nascoste e probabilmente di maggior pregio, per le quali è superiore a te che non lo sai. L’Apostolo comanda di non ingannarci o meglio di non illuderci, quando dice: Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso 345. La nostra considerazione deve essere vera e non finta; dobbiamo credere realmente che negli altri ci possa essere qualcosa di nascosto per cui ci supera, anche se la nostra qualità, per la quale sembriamo migliori di lui, non è celata. Queste considerazioni che smussano l’orgoglio e stimolano la carità, ci permettono di portare vicendevolmente i pesi dei fratelli, non solo di buon animo ma addirittura con grandissimo piacere. Bisogna assolutamente astenersi dal giudicare uno sconosciuto, e non si conosce nessuno se non per mezzo dell’amicizia. Ecco il motivo per cui sopportiamo con maggior facilità le debolezze degli amici, perché le loro buone qualità ci allietano e ci attirano.

6. Non si deve quindi rifiutare l’amicizia di alcuno che entra in relazione per stringere amicizia; questo non vuol dire che bisogna accoglierlo precipitosamente, ma desiderare d’accoglierlo, trattandolo in modo da poterlo accogliere. Possiamo dire di avere accolto in amicizia colui al quale osiamo confidare tutte le nostre intenzioni. E se c’è qualcuno che non osa presentarsi per stringere amicizia, tenuto lontano da qualche nostra carica o dignità sociale, bisogna abbassarsi fino a lui e manifestargli con modestia e affabilità d’animo quanto non ardisce chiedere personalmente. Certamente, anche se di rado, ma talvolta capita, quando vogliamo ricevere qualcuno in amicizia, di conoscere i suoi lati negativi prima dei buoni: offesi, e in certo modo urtati dai difetti, lo respingiamo senza preoccuparci di scoprire le sue buone qualità che sono forse più latenti. Pertanto il Signore Gesù Cristo, che ci vuole suoi imitatori, ci ammonisce a tollerare i suoi difetti per giungere, con la pazienza della carità, a qualche dote positiva, piacevole e riposante. Dice infatti: Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma gli ammalati 346. Se dunque per amore di Cristo non dobbiamo respingere dal cuore neppure uno che forse è totalmente infermo, poiché può essere risanato dal Verbo di Dio, tanto meno dobbiamo respingere uno che può sembrarci del tutto infermo, perché siamo stati incapaci di tollerare alcuni suoi difetti all’inizio dell’amicizia e, ciò che è più grave, abbiamo osato per antipatia esprimere un giudizio temerario e precipitoso su tutta la persona, indifferenti al detto: Non giudicate, per non essere giudicati, e: Con la misura con la quale giudicate sarete misurati anche voi 347. Spesso appaiono prima i lati positivi: anche qui bisogna guardarci dal giudizio affrettato di benevolenza perché, prendendo tutto per buono, i lati negativi, che appaiono dopo, non ti colgano alla sprovvista e impreparato, procurando un danno più grave, sì da odiare con maggior rancore colui che hai amato sconsideratamente: il che è ingiusto! Anche se da principio non appaia alcuna sua qualità e risaltino invece per primi i lati che poi risultano spiacevoli, bisogna tuttavia sopportarli, finché tu possa applicare con lui i rimedi adatti di solito a correggere tali difetti. A maggior ragione le precedenti buone qualità servono da garanzia per spingerci a tollerare i difetti che si scorgono dopo.

7. È dunque la legge stessa di Cristo che ci impegna a portare vicendevolmente i nostri pesi. Amando Cristo è facile sopportare la debolezza altrui, anche di uno che non amiamo ancora per le sue buone qualità. Pensiamo che il Signore, che noi amiamo, è morto per lui. L’apostolo Paolo ci ha inculcato questa carità con le parole: Ed ecco, per la tua scienza, va in rovina il debole, un fratello per il quale Cristo è morto! 348 Se dunque noi amiamo di meno il debole a causa del motivo che lo rende debole, consideriamo in lui chi è morto per lui. Ora non amare Cristo non è debolezza: è morte! Bisogna quindi riflettere con grande attenzione e, implorando la misericordia di Dio, non trascurare Cristo a causa di un infermo, quando dobbiamo amare il debole per amore di Cristo.

 

72. - I TEMPI ETERNI

Si può ricercare il senso delle parole dell’apostolo Paolo: Prima dei tempi eterni 349. Se infatti sono tempi, in che senso sono eterni? E se eterni, in che senso sono tempi? A meno che non abbia voluto dire: prima di tutti i tempi. Perché se avesse detto prima dei tempi, senza aggiungere eterni, si potrebbe intendere: prima di alcuni tempi, che però erano preceduti da altri tempi. Invece in luogo di "tutti" ha preferito dire eterni, forse perché il tempo non ha avuto inizio dal tempo. O forse con tempi eterni ha voluto indicare l’evo, che differisce dal tempo, perché quello è stabile, mentre il tempo è mutevole?

 

73. - SUL TESTO SCRITTURISTICO: APPARSO IN FORMA UMANA 350

1. Noi parliamo di abito in molti sensi : o dell’abito dell’animo, come può essere l’apprendimento di qualche scienza, approfondito e consolidato dall’uso, o dell’abito del corpo: in questo senso diciamo che uno è più vigoroso e più forte di un altro, ma di solito è più appropriato parlare di costituzione; o dell’abito che si adatta esternamente alle nostre membra, per cui diciamo che uno è vestito, calzato, armato e altre cose del genere. È chiaro che in tutti questi casi - poiché il termine deriva dal verbo avere [habere] - si parla di abito in rapporto a qualcosa che si aggiunge a qualcuno, sicché potrebbe anche non averlo. Infatti anche la scienza appartiene all’animo e il vigore e la forza al corpo; non c’è dubbio che il vestito e l’armatura si aggiungono alle nostre membra: di modo che l’animo potrebbe anche essere ignaro se non vi si aggiungesse la scienza, e il corpo debole e languido senza l’umore viscerale e il vigore; e l’uomo potrebbe essere nudo senza il vestito, disarmato senza le armi e scalzo senza le scarpe. La parola abito perciò si dice di una cosa che, per averla in noi, si aggiunge. C’è tuttavia una differenza: alcuni accidenti diventano abiti senza venire da noi modificati, ma ci cambiano in loro, poiché rimangono integri e immutati: così la sapienza, quando si aggiunge all’uomo, non cambia se stessa ma l’uomo, che da stolto rende sapiente. Altri accidenti invece cambiano e sono cambiati: così il cibo, perdendo la sua natura, si trasforma nel nostro corpo e noi, ristorati dal cibo, passiamo dall’anemia e dalla debolezza alla forza e alla salute. C’è una terza classe di accidenti che si modificano per diventare abito e in un certo modo prendono forma, come il vestito, da coloro a cui fanno da abito: quando infatti è deposto o gettato via perde la forma che assume mentre si indossa e riveste le membra. Indossato prende dunque una forma che non mantiene quando è tolto, mentre le membra, spogliate o vestite, rimangono sempre le stesse. Ci può essere anche una quarta classe, quella degli accidenti che diventano abito senza modificare le cose a cui si adattano e senza essere cambiate da esse, come, per non sottilizzare troppo, l’anello al dito. Però questa categoria, se fai bene attenzione, o non esiste affatto o è rarissima.

2. Quando dunque l’Apostolo parlava del Figlio unigenito di Dio in rapporto alla sua divinità, per cui è vero Dio, ha detto che è uguale al Padre: il che non è stato per lui una rapina, come se volesse appropriarsi di una cosa d’altri perché, rimanendo sempre in quell’uguaglianza, poteva rifiutare di rivestire l’umanità e di apparire uomo agli uomini. Ma spogliò se stesso, non cambiando la propria natura, ma assumendo la condizione di servo, senza cambiarsi o trasformarsi in un uomo, perdendo la natura immutabile, ma assumendo una vera umanità. Egli stesso, che l’ha assunta, divenendo simile agli uomini, non a se stesso ma a coloro ai quali è apparso nell’umanità, è apparso in forma umana 351, cioè, prendendo l’umanità è stato riconosciuto uomo. Non poteva infatti essere riconosciuto da coloro che avevano il cuore impuro e non potevano vedere il Verbo presso il Padre, se non accogliendo quello che potevano vedere e per mezzo del quale venivano guidati a quella luce interiore. Ora questo abito non appartiene alla prima classe, perché la natura umana, restando se stessa, non ha alterato la natura divina; né alla seconda, perché l’uomo non ha cambiato Dio, e non è stato cambiato da lui; né alla quarta, poiché l’umanità non è stata così assunta da mutare Dio o da essere mutata da lui. Appartiene invece alla terza: l’umanità è stata assunta in modo da essere cambiata in meglio e da lui trasformata in una forma ineffabilmente più eccellente e più intima del vestito indossato dall’uomo. L’Apostolo col termine abito ha dunque espresso a sufficienza il senso di ciò che ha detto: Divenendo simile agli uomini, non perché si è trasformato in un uomo ma perché, quando si è rivestito dell’umanità, ha preso la condizione umana, che egli, unendo a sé e conformandola in un certo modo, ha associato all’immortalità e all’eternità. Ora l’abito, che consiste nell’acquisizione della sapienza e della scienza, in greco si dice ; quest’altro invece, per cui diciamo che uno è vestito o armato, si dice piuttosto schèma. Da qui si comprende che l’Apostolo parlava di abito in questo senso: nei testi greci è scritto:  e noi in latino abbiamo habitus. Con questo termine si deve intendere che il Verbo non si è mutato assumendo l’umanità, come non mutano le membra quando indossano un vestito, sebbene a questa assunzione abbia unito in modo ineffabile quello che veniva assunto a colui che l’assumeva. Ma per quanto le parole umane possano applicarsi a cose ineffabili, perché non si ritenga che Dio si sia mutato assumendo la fragilità umana, per esprimere questa assunzione si è scelto il termine greco:  e il latino: habitus.

 

74. - SUL TESTO DELLA LETTERA DI PAOLO AI COLOSSESI:
In LUI ABBIAMO LA REDENZIONE E LA REMISSIONE DEI PECCATI,
EGLI È IMMAGINE DEL 
DIO INVISIBILE
 352

Bisogna distinguere immagine, uguaglianza e somiglianza: dove c’è immagine c’è immediatamente somiglianza, non necessariamente uguaglianza; dove c’è uguaglianza c’è anche somiglianza, non necessariamente immagine; dove c’è somiglianza non necessariamente c’è immagine e uguaglianza. L’immagine comporta necessariamente la somiglianza ma non l’uguaglianza: nello specchio, ad esempio, c’è l’immagine dell’uomo, perché vi si riflette; c’è anche necessariamente la somiglianza, non però l’uguaglianza, perché all’immagine mancano molti elementi che invece appartengono alla realtà da cui è prodotta. L’uguaglianza comporta senz’altro la somiglianza, non necessariamente l’immagine; ad esempio, in due uova identiche, poiché c’è uguaglianza c’è anche somiglianza. Tutto ciò che è in uno si trova anche nell’altro. Non c’è però l’immagine, perché uno non è il riflesso dell’altro. La somiglianza non comporta affatto immagine e uguaglianza; ogni uovo, infatti, in quanto uovo, è simile ad ogni altro uovo, ma l’uovo di pernice, sebbene come uovo sia simile all’uovo di gallina, non è tuttavia sua immagine, perché non è stato tratto da quello; non è uguale, perché è più piccolo e di un’altra specie animale. Ma quando si dice: non necessariamente, si intende evidentemente che talvolta può capitare. Ci può essere dunque un’immagine in cui c’è anche uguaglianza. Tra genitori e figli, ad esempio, si troverebbe immagine, uguaglianza e somiglianza, se non ci fosse intervallo di tempo. Infatti la somiglianza del figlio deriva dal genitore, sicché si può giustamente parlare di immagine e questa può essere così grande da dirsi a ragione uguaglianza, a parte la precedenza di tempo del genitore. Da ciò si capisce che talvolta l’uguaglianza comporta non solo la somiglianza ma anche l’immagine, come risulta dall’esempio precedente. Qualche volta ci può essere somiglianza e uguaglianza, sebbene non vi sia immagine, come si è detto di uova identiche. Può esservi anche somiglianza e immagine, sebbene non vi sia uguaglianza, come abbiamo mostrato nel caso dello specchio. Può esservi anche somiglianza dove c’è uguaglianza e immagine, come abbiamo notato dei figli, eccettuata la precedenza temporale dei genitori. Così diciamo che una sillaba è uguale ad un’altra, sebbene una sia prima e l’altra dopo. Ma, poiché in Dio si esclude la condizione temporale - non si può infatti ragionevolmente immaginare che Dio abbia generato nel tempo il Figlio, per mezzo del quale ha creato i tempi - ne consegue che egli non solo è sua immagine, perché procede da lui, e somiglianza, perché sua immagine 353, ma anche uguaglianza così perfetta da escludere l’ostacolo dell’intervallo temporale.

 

75. - L’EREDITÀ DI DIO

1. Come dice l’Apostolo agli Ebrei: Un testamento ha valore dopo la morte del testatore 354, conclude quindi che il Nuovo Testamento è entrato in vigore, quando Cristo è morto per noi. Il Vecchio Testamento era la sua immagine; in esso la morte del testatore era prefigurata per mezzo della vittima sacrificale. Se dunque si domanda come mai noi, a dire dello stesso Apostolo, siamo coeredi di Cristo, figli ed eredi di Dio 355 - dal momento che anche l’eredità è resa stabile dalla morte del defunto, né l’eredità si può concepire in altro modo -, si risponderà che siamo diventati eredi con la sua morte, poiché siamo stati chiamati anche suoi figli. Egli dice: I figli dello sposo non digiunano quando lo sposo è con loro 356. Siamo dunque chiamati suoi eredi perché ci ha lasciato, in virtù della fede nell’economia temporale, il possesso della pace della Chiesa, che possediamo in questa vita, come ha attestato dicendo: Vi lascio la pace, vi dò la mia pace 357. Diventeremo poi suoi coeredi, quando, alla fine del mondo, la morte sarà assorbita nella vittoria 358. Allora saremo infatti simili a lui, poiché lo vedremo così come egli è 359. Non otteniamo questa eredità con la morte del Padre suo, che non può morire; anzi egli è la nostra eredità, secondo quanto sta scritto: Il Signore è mia parte di eredità 360. Ma poiché, quando siamo stati chiamati ancor piccoli e inadatti a contemplare le realtà spirituali, la divina misericordia si è abbassata sino ai nostri più umili pensieri, perché ci sforzassimo in qualche modo di scorgere quanto non vedevamo con chiarezza ed evidenza: e così muore la stessa conoscenza confusa, quando inizierà la visione faccia a faccia. È infatti opportuno dire che morirà ciò che sarà tolto: Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà 361. Così, in un certo senso, il Padre muore per noi in enigma ed egli stesso diventa l’eredità, quando lo vedremo faccia a faccia; non già che egli muoia ma perché la visione imperfetta che abbiamo di lui è abolita dalla visione perfetta. Se però prima quella non ci alimentasse, noi non diverremmo capaci dell’altra pienissima e chiarissima.

2. Ora se il pio intelletto ammette questo anche del Signore Gesù Cristo - non in quanto Verbo, che in principio era presso Dio 362, ma in quanto bambino, che cresceva in età e sapienza 363, salva l’umanità che ha assunto in proprio e non ha in comune con gli altri uomini -, è chiaro che egli entra in possesso dell’eredità mediante la sua morte. Non potremmo infatti essere coeredi, se egli stesso non fosse erede. Se invece la fede non ammette questo, che cioè l’uomo assunto dal Signore prima abbia avuto una visione parziale e poi totale, sebbene sia stato detto che progrediva in sapienza, bisogna intendere l’erede nel suo corpo, che è la Chiesa, di cui siamo coeredi, come diciamo di essere figli di quella madre, sebbene sia composta da noi stessi.

3. Ma si può ancora domandare: con la morte di chi siamo diventati anche noi eredità di Dio, secondo il detto: Ti darò in eredità le genti 364? Forse con la morte di questo mondo che prima ci teneva sotto il suo dominio? Ma dopo, quando noi diciamo: Il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo 365, Cristo ci possiede, una volta morto quello che ci dominava. Quando rinunziamo al mondo, noi moriamo al mondo e il mondo a noi.

 

76. - SULLE PAROLE DELL’APOSTOLO GIACOMO:
MA VUOI SAPERE, O INSENSATO, COME
LA FEDE SENZA LE OPERE È SENZA VALORE
?
 366

1. Poiché l’apostolo Paolo, affermando che l’uomo è giustificato dalla fede senza le opere, non è stato bene compreso da quanti hanno interpretato la frase in modo da ritenere che, dopo avere una volta creduto in Cristo, anche se agissero male e conducessero una vita criminosa e perversa, possono ugualmente salvarsi grazie alla fede, il passo di questa lettera367 espone come si deve intendere il pensiero stesso dell’apostolo Paolo. Si serve perciò di preferenza dell’esempio di Abramo per dimostrare che la fede, se non opera il bene, è vana. Anche l’apostolo Paolo si è servito dell’esempio di Abramo per confermare che l’uomo è giustificato dalla fede senza le opere della legge 368. Quando ricorda le buone opere di Abramo, che hanno accompagnato la sua fede, mostra a sufficienza che l’apostolo Paolo non ha affatto insegnato, con l’esempio di Abramo, che l’uomo è giustificato dalla fede senza le opere, sicché chi crede non si preoccupi di operare il bene. Ma ha piuttosto insegnato che nessuno deve ritenere di essere giunto per i meriti delle opere precedenti al dono della giustificazione che dipende dalla fede. In questo senso i Giudei si ritenevano superiori ai pagani che credevano in Cristo, in quanto dicevano di essere giunti alla grazia del Vangelo per i meriti delle buone opere prescritte dalla legge. Inoltre molti di coloro che avevano creduto erano scandalizzati perché la grazia di Cristo veniva conferita a pagani incirconcisi. Per questo motivo l’apostolo Paolo afferma che l’uomo può essere giustificato dalla fede senza le opere precedenti. Infatti chi è giustificato dalla fede, come potrebbe in seguito operare diversamente se non secondo giustizia, anche se prima non ha compiuto niente di giusto, essendo pervenuto alla giustificazione della fede non in virtù delle opere buone ma per grazia di Dio, che in lui non può più essere vana, perché ormai opera il bene in forza della carità? Se, dopo aver creduto, egli uscisse subito da questa vita, rimane in lui la giustificazione della fede, senza le buone opere precedenti, perché egli l’ha ottenuta per grazia e non per merito, e neppure le successive, perché non gli è concesso di restare in questa vita. È chiaro perciò che quanto dice l’Apostolo: Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere 369, non deve intendersi nel senso che possa chiamarsi giusto chi, avendo ricevuto la fede e restando in vita, vivesse poi malamente. Quindi tanto l’apostolo Paolo si vale dell’esempio di Abramo, perché è stato giustificato per la fede senza le opere della legge, che non aveva ancora ricevuto, quanto Giacomo che mostra che le buone opere sono conseguenza della fede dello stesso Abramo. E così mostra come si debba intendere l’insegnamento di Paolo.

2. Infatti coloro che ritengono questa sentenza dell’apostolo Giacomo contraria a quella dell’apostolo Paolo, possono anche sostenere che Paolo si contraddice, perché altrove dice: Non coloro che ascoltano la legge sono giusti davanti a Dio, ma quelli che mettono in pratica la legge saranno giustificati 370. E in un altro passo: Ma la fede che opera per mezzo della carità 371. E ancora: Poiché se vivrete secondo la carne voi morirete; se invece con l’aiuto dello Spirito voi fate morire le opere del corpo, vivrete 372. Quali siano poi le opere della carne, che si devono mortificare con le opere dello Spirito, lo precisa altrove, dicendo: E del resto le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso come già ho detto, che chi le compie non erediterà il regno di Dio 373. E ai Corinzi: Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il regno di Dio. E tali eravate voi; ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del nostro Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio 374. Con queste espressioni insegna a chiarissime lettere che essi sono arrivati alla giustificazione della fede non per qualche buona opera antecedente e che questa grazia non è stata data per i loro meriti, quando dice: E tali eravate voi. Ma quando dice: Quelli che fanno tali cose non erediteranno il regno di Dio, mostra a sufficienza che, dopo aver creduto, devono agire bene. Lo stesso apostolo Paolo predica insistentemente e apertamente in molti luoghi ciò che dice anche Giacomo: che tutti coloro che hanno creduto in Cristo devono vivere rettamente per non incorrere nel castigo. Lo ricorda anche lo stesso Signore, dicendo: Non chiunque mi dice: " Signore, Signore ", entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli entrerà nel regno dei cieli 375. E altrove: Perché mi chiamate: " Signore, Signore ", e poi non fate ciò che dico? 376. E ancora: Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia, ecc. E chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica è simile ad un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia 377, ecc. Pertanto le sentenze dei due Apostoli Paolo e Giacomo non si contraddicono, quando uno dice che l’uomo è giustificato per la fede senza le opere e l’altro dice che la fede senza le opere è vana; perché uno parla delle opere che precedono la fede, l’altro delle opere che seguono la fede, come anche lo stesso Paolo spiega in molti passi.

  77. - IL TIMORE È PECCATO?

Ogni turbamento è passione; ogni cupidigia è turbamento; ogni cupidigia è dunque passione. Ora, quando una passione è in noi, soffriamo per la stessa passione e soffriamo in quanto è passione. Perciò quando in noi c’è qualche cupidigia, soffriamo per la stessa cupidigia e soffriamo in quanto è cupidigia. Ma nessuna passione, per il fatto che subiamo la stessa passione, è peccato; così anche se proviamo timore, il timore non è peccato. È come se si dicesse: se è bipede, non è una bestia. Se dunque questa affermazione non è conseguente, perché vi sono molti animali bipedi, ugualmente non consegue neppure quella, perché sono molti i peccati che subiamo. Questo si dice infatti per opposizione: non segue pertanto che il timore, se lo subiamo, non sia peccato. Tu invece dici che, se subiamo il timore, di conseguenza non c’è peccato: ammetti tuttavia che vi sono alcuni peccati che subiamo.

 

78. - LA BELLEZZA DELLE STATUE

L’arte somma di Dio onnipotente, per cui sono state create dal nulla tutte le cose e che viene chiamata anche sua sapienza, opera anche mediante gli artisti, perché producano cose belle e armoniose. Essi però non producono dal nulla ma da una determinata materia, come il legno o il marmo o qualsiasi materiale del genere che è sottoposto alle mani dell’artista. Costoro tuttavia non possono fare alcunché dal nulla, perché operano mediante il corpo. È nondimeno la somma Sapienza, che ha impresso con arte ben più mirabile in tutto l’universo corporeo, che è stato creato dal nulla, le proporzioni e l’armonia, a dotare il loro spirito di quelle proporzioni e armonia di forme che essi, attraverso il corpo, imprimono nella materia. In questo universo vi sono anche i corpi degli animali, che sono tratti dalla materia, vale a dire dagli elementi del mondo, in un modo assai più potente e perfetto delle medesime figure e forme dei corpi che gli artisti umani riproducono nelle loro opere. Infatti nella statua non si ritrova tutta la varietà del corpo umano; ma quella che vi si trova è ricavata, mediante l’animo dell’artefice, da quella sapienza che costruisce con naturalezza lo stesso corpo umano. Non si devono pertanto stimare eccessivamente coloro che producono o venerano tali opere, perché l’anima intenta alle cose inferiori, che fa materialmente con il corpo, aderisce meno alla somma Sapienza, da cui ha queste capacità. Ne fa cattivo uso, quando le esplica all’esterno. Amando infatti le cose, in cui le esercita, perde di vista la loro forma eterna e interiore e così diventa più debole e vana. Coloro poi che addirittura venerano queste opere, quanto si siano allontanati dalla verità, si può capire da questo: se essi venerassero gli stessi corpi degli animali, fatti in modo assai più perfetto e di cui queste sono solo imitazioni, cosa diremmo di più miserabile a loro riguardo?





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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