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Conferenze sugli scritti di Joseph Ratzinger

Ultimo Aggiornamento: 15/01/2018 11:33
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15/01/2018 10:01
 
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Unificare l’Europa non solo economicamente

L’opera di unificazione europea era determinata essenzialmente da due motivazioniDi fronte ai nazionalismi che dividevano e di fronte alle ideologie egemoniche, che avevano radicalizzato la contrapposizione nella seconda guerra mondiale, la comune eredità culturale, morale e religiosa dell’Europa doveva plasmare la coscienza delle sue nazioni e dischiudere come identità comune di tutti i suoi popoli la via della pace, una via comune verso il futuro. Si cercava una identità europea, che non doveva dissolvere o negare le identità nazionali, ma unirle ad un livello di unità più alto in una unica comunità di popoli. La storia comune doveva essere valorizzata come forza creatrice di pace. Non vi è alcun dubbio che presso i padri fondatori dell’unificazione europea l’eredità cristiana era considerata come il nucleo di questa identità storica, naturalmente non nelle forme confessionali; ciò che è comune a tutti i cristiani sembrava comunque riconoscibile al di là dei confini confessionali come forza unificante dell’agire nel mondo. Non sembrava neppure incompatibile con i grandi ideali morali dell’illuminismo, che avevano per così dire messo in risalto la dimensione razionale della realtà cristiana e al di là di tutte le contrapposizioni storiche sembrava senz’altro compatibile con gli ideali fondamentali della storia cristiana dell’Europa. Nei singoli particolari questa intuizione generale non è mai stata ben chiarita del tutto con evidenza; in questo senso sono rimasti qui dei problemi, che esigono di essere approfonditi. Nel momento degli inizi tuttavia la convinzione della compatibilità fra le grandi componenti dell’eredità europea era più forte dei problemi, che esistevano al riguardo.

A questa dimensione storica e morale, che stava all’inizio dell’unificazione europea, si univa però anche una seconda motivazione. Il dominio europeo sul mondo, che si era espresso soprattutto nel sistema coloniale e nelle conseguenti connessioni economiche e politiche, con la conclusione della seconda guerra mondiale era finito per sempre. In questo senso l’Europa come insieme aveva perduto la guerra. Gli Stati Uniti d’America campeggiavano ora sulla scena della storia mondiale come potenza dominatrice, ma anche il Giappone sconfitto divenne una potenza economica di alto livello, e finalmente l’Unione Sovietica rappresentava con i suoi stati satelliti un impero, sul quale soprattutto gli stati del terzo mondo cercavano di appoggiarsi in contrapposizione all’America ed all’Europa occidentale. In questa nuova situazione i singoli stati europei non potevano più presentarsi come interlocutori di pari livello. L’unificazione dei loro interessi in una struttura europea comune era necessaria, se l’Europa voleva continuare ad avere un peso nella politica mondiale. Gli interessi nazionali dovevano unirsi insieme in un comune interesse europeo. Accanto alla ricerca di un’identità comune derivante dalla storia e creatrice di pace, si poneva l’autoaffermazione di interessi comuni, vi era quindi la volontà di divenire una potenza economica, ciò che rappresenta il presupposto della potenza politica. Nel corso dello sviluppo degli ultimi cinquant’anni questo secondo aspetto dell’unificazione europea è divenuto sempre più dominante, anzi, quasi esclusivamente determinante. La moneta comune europea è l’espressione più chiara di questo orientamento dell’opera di unificazione europea: l’Europa si presenta come un’unità economica e monetaria, che come tale partecipa alla formazione della storia e reclama un suo proprio spazio.

Karl Marx ha proposto la tesi secondo cui le religioni e le filosofie sarebbero solo sovrastrutture ideologiche di rapporti economici. Ciò non corrisponde totalmente alla verità, si dovrebbe piuttosto parlare di un’influenza reciproca: atteggiamenti spirituali determinano comportamenti economici, situazioni economiche influenzano poi a loro volta retroattivamente modi di vedere religiosi e morali. Nell’edificazione della potenza economica Europa – dopo gli inizi di orientamento più etico e religioso – era determinante in modo sempre più esclusivo l’interesse economico.

Le grandi conferenze internazionali come quelle del Cairo e di Pechino sono espressione di una tale ricerca di criteri comuni dell’agire, sono qualcosa di più che una manifestazione di problemi. Le si potrebbe definire come una sorta di concili della cultura mondiale, nel corso delle quali dovrebbero venire formulate certezze comuni ed essere elevate a norme per l’esistenza dell’umanità. La politica della negazione o della concessione di aiuti economici è una forma di imposizione di tali norme, al riguardo delle quali ci si preoccupa soprattutto del controllo della crescita della popolazione mondiale e dell’obbligatorietà universale dei mezzi previsti per questo scopo. Le antiche norme etiche della relazione fra i sessi, come vigevano in Africa nella forma delle tradizioni tribali, nelle grandi culture asiatiche come derivate dalle regole dell’ordine cosmico e nelle religioni monoteistiche a partire dal criterio dei dieci comandamenti, vengono dissolte attraverso un sistema di norme, che da una parte si fonda sulla piena libertà sessuale, dall’altra però ha come contenuto fondamentale il numerus clausus della popolazione mondiale e i mezzi tecnici predisposti allo scopo. Una tendenza analoga si riscontra nelle grandi conferenze sul clima. In entrambi i casi l’elemento che spinge a ricercare norme è il timore di fronte al carattere limitato delle riserve dell’universo. In entrambi i casi si tratta da una parte di difendere la libertà del rapporto umano con la realtà, ma dall’altra di arginare le conseguenze di una libertà illimitata. Il terzo tipo di grandi conferenze internazionali, l’incontro delle potenze economiche dominanti per la regolazione dell’economia divenuta globale è diventato il campo di battaglia ideologico dell’era postcomunista. Mentre da una parte tecnica ed economia sono intese come veicolo della libertà radicale degli uomini, la loro onnipresenza con le norme ad essa inerenti viene ora avvertita come dittatura globale e combattuta con una furia anarchica, nella quale la libertà della distruzione si presenta come un elemento essenziale della libertà umana.

Nell’illuminismo la concezione biblica di Dio era stata mutata in una duplice direzione sotto l’influsso della ragione autonoma: il Dio creatore e sostentatore, che continuamente sostiene e guida il mondo, era divenuto colui che semplicemente aveva dato inizio all’universo. Il concetto di rivelazione era stato abbandonato. La formula di Spinosa Deus sive natura potrebbe essere considerata per molti aspetti come caratteristica della visione dell’illuminismo. Ciò significa nondimeno pur sempre che si credeva ad una specie di natura divinamente plasmata ed alla capacità dell’uomo di comprendere questa natura ed anche di valutarla come istanza razionaleIl marxismo aveva invece introdotto una rottura radicale: l’attuale mondo è un prodotto dell’evoluzione senza una sua razionalità; il mondo ragionevole l’uomo deve solo farlo emergere dal materiale grezzo irragionevole della realtà. Questa visione – unita alla filosofia della storia di Hegel, al dogma liberale del progresso ed alla sua interpretazione socio-economica – condusse all’attesa della società senza classi, che doveva apparire nel progresso storico come prodotto finale della lotta delle classi e così divenne l’idea morale normativa ultimamente unica: è buono ciò che serve all’avvento di questa condizione di felicità; è cattivo ciò che vi si oppone. Oggi ci troviamo in un secondo illuminismo, che non solo ha lasciato dietro di sé il Deus sive natura, ma ha anche smascherato come irrazionale l’ideologia marxista della speranza ed al suo posto ha postulato una meta razionale del futuro, che porta il titolo di nuovo ordine mondiale ed ora deve divenire a sua volta la norma etica essenziale. Resta in comune con il marxismo l’idea evoluzionistica di un mondo nato da un caso irrazionale e dalle sue regole interne, che pertanto – diversamente da quanto prevedeva l’antica idea di natura – non può contenere in sé nessuna indicazione etica. Il tentativo di far derivare dalle regole del gioco dell’evoluzione anche regole del gioco per l’esistenza umana, quindi una specie di nuova etica, è in verità assai diffuso, ma poco convincente. Crescono le voci di filosofi come Singer, Rorty, Sloterdijk, che ci dicono che l’uomo avrebbe ora il diritto e il dovere di costruire un mondo nuovo su base razionale. Il nuovo ordine mondiale, della cui necessità non si potrebbe dubitare, dovrebbe essere un ordine mondiale della razionalità. Fin qui tutti sono d’accordo. Ma cosa è razionale? Il criterio di razionalità viene assunto esclusivamente dalle esperienze della produzione tecnica su basi scientifiche. La razionalità è nella direzione della funzionalità, dell’efficacia, dell’accrescimento della qualità della vita. Lo sfruttamento della natura, che vi è connesso, diviene sempre più un problema a motivo dei disagi ambientali che stanno divenendo drammatici. Con molta maggiore disinvoltura avanza frattanto la manipolazione dell’uomo su se stesso. Le visioni di Huxley divengono decisamente realtà: l’essere umano non deve più essere generato irrazionalmente, ma prodotto razionalmente. Ma dell’uomo come prodotto dispone l’uomo. Gli esemplari imperfetti vanno scartati, per tendere all’uomo perfetto, sulla via della pianificazione e della produzione. La sofferenza deve scomparire, la vita essere solo piacevole. Tali visioni radicali sono ancora isolate, per lo più in molte maniere attenuate, ma il principio di comportamento, secondo cui è lecito all’uomo fare tutto ciò che è in grado di fare, si afferma sempre più. La possibilità come tale diviene un criterio per sé sufficiente. In un mondo pensato in modo evoluzionistico è anche di per sé evidente, che non possono esistere valori assoluti, ciò che è sempre cattivo e ciò che è sempre buono, ma la ponderazione dei beni rappresenta l’unica via per il discernimento di norme morali. Ciò però significa che scopi più elevati, presunti risultati ad esempio per la guarigioni di malattie, giustificano anche lo sfruttamento dell’uomo, se solo il bene sperato appare abbastanza grande.

Ma così nascono nuove oppressioni, e nasce una nuova classe dominante. Ultimamente, del destino degli altri uomini, decidono coloro che dispongono del potere scientifico e coloro che amministrano i mezzi. Non restare indietro nella ricerca diviene un obbligo cui non ci si può sottrarre, che decide esso stesso la sua direzione. Quale consiglio si può dare all’Europa ed al mondo in questa situazione? Come specificamente europea in questa situazione appare oggi proprio la separazione da ogni tradizione etica e il puntare solo sulla razionalità tecnica e le sue possibilità. Ma un ordine mondiale con questi fondamenti non diverrà in realtà un’utopia dell’orrore? Non ha forse bisogno l’Europa, non ha forse bisogno il mondo proprio di elementi correttivi a partire dalla sua grande tradizione e dalle grandi tradizioni etiche dell’umanità? L’intangibilità della dignità umana dovrebbe diventare il pilastro fondamentale degli ordinamenti etici, che non dovrebbe essere toccato. Solo se l’uomo si riconosce come scopo finale e solo se l’uomo è sacro ed intangibile per l’uomo, possiamo avere fiducia l’uno nell’altro e vivere insieme nella pace. Non esiste nessuna ponderazione di beni, che giustifichi di trattare l’uomo come materiale di esperimento per fini più alti. Solo se noi vediamo qui un assoluto, che si colloca al di sopra di tutte le ponderazioni di beni, noi agiamo in modo veramente etico e non per mezzo di calcoli.

Anche l’essere umano sofferente, disabile, non ancora nato è un essere umano. Vorrei aggiungere che a questo deve essere unito anche il rispetto per l’origine dell’uomo dalla comunione di un uomo e di una donna. L’essere umano non può divenire un prodotto. Egli non può essere prodotto, può solo essere generato. E perciò la protezione della particolare dignità della comunione fra uomo e donna, sulla quale si fonda il futuro dell’umanità, deve essere annoverata fra le costanti etiche di ogni società umana. Ma tutto questo è possibile solo se acquisiamo anche un senso nuovo per la dignità della sofferenza. Imparare a vivere significa anche imparare a soffrire. Perciò è richiesto anche rispetto per il sacro. La fede nel Dio creatore è la più sicura garanzia della dignità dell’uomo. Non può essere imposta a nessuno, ma poiché è un grande bene per la comunità, può avanzare la pretesa del rispetto da parte dei non credenti.

Il legame con le due grandi fonti del sapere – la natura e la storia – è necessario. Ambedue gli ambiti non parlano semplicemente di per sé, ma da entrambi può derivare un’indicazione di cammino. Lo sfruttamento della natura,che si ribella ad un utilizzo indiscriminato, ha messo in movimento nuove riflessioni circa le indicazione di cammino, che derivano dalla natura stessa. Dominio sulla natura nel senso del racconto biblico della creazione non significa utilizzazione violenta della natura, ma la comprensione delle sue possibilità interiori ed esige così quella forma accurata di utilizzazione, nella quale l’uomo si mette al servizio della natura e la natura a servizio dell’uomo. L’origine stessa dell’uomo è un processo insieme naturale ed umano: nella relazione fra un uomo e una donna l’elemento naturale e quello spirituale si uniscono nello specificamente umano, che non si può disprezzare senza danno. Così anche le esperienze storiche dell’uomo, che si sono riflesse nelle grandi religioni, sono fonti permanenti di conoscenza, di indicazioni per la ragione, che interessano anche colui, che non può identificarsi con nessuna di queste tradizioni. Riflettere prescindendo da esse e vivere senza prenderle in considerazione, sarebbe una presunzione, che alla fine lascerebbe l’uomo disorientato e vuoto.
(da Europa di Joseph Ratzinger, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2005)

Vorrei, a tale riguardo, citare un’espressione significativa di Tocqueville: “Il dispotismo può fare a meno della fede, la libertà no”. Lei stesso, nella Sua lettera a me indirizzata, ha citato un’espressione di John Adams che va nella stessa direzione: la Costituzione americana “è fatta soltanto per un popolo morale e religioso”. Benché anche in America la secolarizzazione proceda a ritmo accelerato e la confluenza di molte differenti culture sconvolga il consenso cristiano di fondo, lì si percepisce, assai più chiaramente che in Europa, l’implicito riconoscimento delle basi religiose e morali scaturite dal cristianesimo e che oltrepassano le singole confessioni. L’Europa – contrariamente all’America – è in rotta di collisione con la propria storia e si fa spesso portavoce di una negazione quasi viscerale di qualsiasi possibile dimensione pubblica dei valori cristiani.

La società americana fu costruita in gran parte da gruppi che erano fuggiti dal sistema di chiese di Stato vigente in Europa, e avevano trovato la propria collocazione religiosa nelle libere comunità di fede al di fuori della Chiesa di Stato. Il fondamento della società americana è costituito pertanto dalle chiese libere, per le quali – a causa del loro approccio religioso – è strutturale non essere Chiesa dello Stato, ma fondarsi su un’unione libera degli individui. In questo senso si può dire che alla base della società americana c’è una separazione fra Stato e Chiesa determinata, anzi reclamata dalla religione; separazione, di conseguenza, ben altrimenti motivata e strutturata rispetto a quella imposta, nel segno del conflitto, dalla Rivoluzione francese e dai sistemi e che a essa hanno fatto seguito. Lo Stato in America non è altro che lo spazio libero per diverse comunità religiose; è nella sua natura riconoscere queste comunità nella loro particolarità e nel loro essere non statali, e lasciarle vivere. Una separazione che intende lasciare alla religione la sua propria natura, che rispetta e protegge il suo spazio vitale distinto dallo Stato e dai suoi ordinamenti, è una separazione concepita positivamente. Questo ha poi comportato un rapporto particolare tra sfera statale e sfera “privata”, del tutto diverso da quello che conosciamo in Europa: la sfera “privata” ha un carattere assolutamente pubblico, ciò che è non statale non è affatto escluso per questo dalla dimensione pubblica della vita sociale. La maggior parte delle istituzioni culturali non è statale – prendiamo le università oppure gli enti per la tutela delle discipline artistiche eccetera; l’intero sistema giuridico e fiscale favorisce questo tipo di cultura non statale e la rende possibile, mentre da noi, per esempio, le università private costituiscono un fenomeno recente e di fatto marginale.

Il principio cattolico contrasta con il sistema della Chiesa di Stato: esso sottolinea il carattere universale della Chiesa, che non coincide con nessuna nazione e con nessuna comunità statale, vive in tutte le nazioni e, malgrado la fedeltà al proprio paese, crea comunque una comunità che va oltre i confini nazionali. Bisogna inoltre aggiungere che la Riforma gregoriana era riuscita, dopo tanti sforzi, a ottenere la distinzione tra sacerdotium e imperium, creando così anche le basi per una separazione delle due sfere. In realtà, anche in ambito cattolico, in Europa – almeno a partire dall’inizio dell’età moderna – il sistema delle chiese di Stato è riuscito ad affermarsi in modo da far diventare la fede praticamente una cosa dello Stato. Tuttavia, nel protestantesimo e nel cattolicesimo, proprio a causa delle peculiarità di ciascuno di essi, la ricezione dell’illuminismo è avvenuta in due modi del tutto differenti. Di fronte alla proclamata autonomia della ragione e alla sua emancipazione dalla fede tradizionale, la Chiesa cattolica rimase fortemente attaccata al suo patrimonio di fede, così che illuminismo e cattolicesimo si trovarono contrapposti l’uno all’altro in un conflitto insanabile. Nonostante tanti disordini, i paesi cattolici non avevano conosciuto alcuno scisma nel XVI secolo; esso doveva verificarsi più tardi, nel XVIII secolo. Da lì scaturì la nuova “confessione” dei “laici”. Da allora la separazione tra cattolici e laici è tipica dei paesi latini, mentre l’area linguistica germanica protestante non solo non conosce l’uso della parola “laico”, ma trova il termine stesso del tutto incomprensibile. Essere “laico” indica l’appartenenza – nel senso più vasto della parola – alla corrente spirituale dell’illuminismo, e da quel momento non sembra esserci più nessun ponte che conduca alla fede cattolica; i due mondi sembrano essere diventati impenetrabili l’uno all’altro.

E così sorge la domanda: come può l’Europa arrivare a una religione civile cristiana che vada oltre i confini delle confessioni e rappresenti valori che non solo siano di consolazione per l’individuo ma che possano sostenere la società? E’ chiaro che essa non può essere costruita da esperti, in quanto nessuna commissione e nessuna riunione, quali che esse siano, possono produrre un éthos mondiale. Qualcosa di vivo non può nascere altrimenti che da una cosa viva. E’ qui che vedo l’importanza delle minoranze creative. Certo, dal punto di vista numerico, in gran parte dell’Europa i cristiani costituiscono ancora la maggioranza, anche se il numero dei battezzati è ormai in declino in alcuni paesi, specialmente nell’Est e nel Nord della Germania, tanto che nella Germani ex comunista i battezzati non sono più la maggioranza. Ma anche le maggioranze ancora esistenti sono diventate stanche e mancano di fascino.

Dunque la mia prima tesi è che una religio civilis che realmente abbia la forza morale di sostenere tutti presuppone delle minoranze convinte che hanno trovato la “perla” e che vivono questo in modo convincente anche per gli altri. Senza tali forze sorgive non si costruisce niente. La seconda tesi poi è che ci devono essere forme di appartenenza o di riferimento, o semplicemente di contatto con tali comunità, o, piuttosto, che esse si creano da sé quando la loro capacità di convincere è sufficientemente grande.

Come terza tesi, dire che queste minoranze creative evidentemente non possono stare in piedi da sé, né vivere di sé. Vivono naturalmente del fatto che la Chiesa nel suo insieme resta, vive della fede nella sua origine divina e di conseguenza difende ciò che non ha inventato lei stessa ma che riconosce come un dono della cui trasmissione è responsabile. Le “minoranze” rendono di nuovo vitale questa grande comunità, ma attingono nello stesso tempo, alla forza di vita che è nascosta in essa ed è in grado di creare sempre nuova vita. Come quarta tesi, infine, direi che laici e cattolici, coloro che cercano e quelli che credono, nel folto intreccio dei rami dell’albero con tanti uccelli, devono andare incontro gli uni agli altri con una nuova capacità di apertura. Anche i credenti non smettono mai di cercare, e chi cerca, d’altra parte, è toccato dalla verità e come tale non può essere classificato come un uomo senza fede o senza principi morali ispirati alla fede cristiana. Ci sono modi di appartenenza alla verità nei quali gli uni danno agli altri, ed entrambi possono sempre imparare qualcosa dall’altro. E’ per questo che la distinzione tra cattolici e laici dev’essere relativizzata. I laici non sono un blocco rigido, non costituiscono una confessione fissa, o peggio un’ “anti-confessione”. Sono uomini che non si sentono in grado di fare il passo della fede ecclesiale con tutto ciò che un tale passo comporta; ma molto spesso sono uomini che cercano appassionatamente la verità che soffrono per la mancanza di verità dell’uomo, riprendendo proprio così i contenuti essenziali della cultura e della fede e spesso rendendoli, con il loro impegno, ancora più luminosi di quanto possa fare una fede scontata, accettata più per abitudine che per conoscenza sofferta. Gradi diversi di appartenenza hanno anche un senso positivo.

La questione del perché oggi la fede cristiana stenta a raggiungere, con il suo grande messaggio, gli uomini, in Europa, inevitabilmente riguarda il cristiano credente e anzitutto il pastore della Chiesa. Vedo due cause principali:

  1. La prima causa è stata introdotta da Nietzsche quando disse: “Il cristianesimo è sempre stato attaccato finora in un modo... sbagliato. Finché non si percepisce la morale del cristianesimo come crimine capitale contro la vita, i suoi difensori avranno sempre gioco facile. La questione della verità del cristianesimo... è una cosa del tutto secondaria finché non viene affrontata la questione del valore della morale cristiana”. Qui abbiamo veramente a che fare, a mio parere, con le ragioni decisive dell’abbandono del cristianesimo: il suo modello di vita, come è chiaro, non convince. Sembra che limiti l’uomo in tutto, che guasti la sua gioia di vivere, che limiti la sua libertà come preziosa e lo conduca non al largo – come dicono i Salmi – ma nell’angustia, nello stretto. Si può rilevare che qualcosa di simile accadde già nell’antichità quando i rappresentanti del potere statale romano lanciarono il seguente appello ai cristiani: tornate alla nostra religione: la nostra religione è gioiosa, abbiamo feste, gozzoviglie e divertimenti, e voi credete in uno che è stato crocifisso. All’epoca i cristiani riuscirono a dimostrare, in modo persuasivo, quanto i divertimenti del mondo degli dei fossero vuoti e insipidi, e quale altezza regala la fede in quel Dio che soffre con noi e ci porta sulla via della vera grandezza.
  1. La seconda ragione dello sgretolarsi del cristianesimo sta – a mio parere – nel fatto che sembra essere superato dalla “scienza” e non essere più in armonia con la razionalità dell’età moderna. Ciò vale soprattutto da due punti di vista. La critica storica ha scompaginato la Bibbia rendendo non credibile la sua origine divina. La scienza e l’immagine moderna del mondo creata dalla scienza sembrano escludere dalla realtà la visione di fondo della fede cristiana, relegandola nell’ambito del mito. Come si può ancora essere cristiani, allora? La Chiesa e la sua teologia hanno sprecato troppo tempo in piccole schermaglie di retroguardia, dibattendo su dettagli, e non si sono abbastanza impegnate nel porre le domande di fondo.

Nel confronto con la scienza e nel dialogo con i filosofi dell’età moderna deve riaffacciarsi la questione di fondo su che cos’è che tiene insieme il mondo. E’ la materia che crea la ragione, è il puro caso che produce il significato, oppure sono l’intelletto, il logos, la ragione che vengono prima, così che la ragione, la libertà e il bene fanno già parte dei principi che costruiscono la realtà? Una valida religione civile comporterà anche il non concepire Dio come un’entità mitica, ma come una possibilità della ragione, come la Ragione stessa che precede e che rende possibile che la nostra ragione cerchi di riconoscerla. Credo che lo sforzo per acquisire un’immagine del mondo basata sullo spirito e sul senso, contro le tendenze di “decostruzione” che Lei ha esposto nel Suo contributo, sia una grande sfida comune per cattolici e laici.

Negli ultimi tempi mi capita di notare sempre di più che il relativismo — quanto più diventa la forma di pensiero generalmente accettata — tende all’intolleranza, trasformandosi in un nuovo dog­matismo. La political correctness, la cui pressione onnipresente Lei (N.d.R. Marcello Pera) ha evidenziato, vorrebbe erigere il regno di un solo modo di pensare e parlare. Il suo relativismo apparentemente la innalza più in alto di tutte le grandi vette del pensiero finora raggiunte; soltanto cosi si dovrebbe ancora pensa­re e parlare se si vuole essere all’altezza del pre­sente. Mentre la fedeltà ai valori tradizionali e alle conoscenze che li sostengono viene bollata come intolleranza e lo standard relativistico viene ele­vato a obbligo. Mi sembra molto importante contrapporsi a questa costrizione di un nuovo pseudo­illuminismo che minaccia la libertà di pensiero e anche la libertà di religione. Che in Svezia un pre­dicatore che aveva esposto l’insegnamento biblico circa la questione dell’omosessualità senza se e senza ma sia stato condannato a una pena detentiva è soltanto uno dei segni del fatto che il relativismo comincia a prendere piede come una sorta di nuova “confessione”, che pone limiti alle convinzioni religiose e cerca di sottoporle tutte al super-dogma del relativismo

Qui emerge appieno il dilemma dell’esistenza umana. Se si dovessero equiparare razionalità e coscienza media, alla fine rimarrebbe ben poco della “ragione”. Il cristiano è convinto che la sua fede non solo gli apre nuove dimensioni del conoscere, ma che aiuta soprattutto la ragione a essere se stessa. C’è il vero e proprio patrimonio della fede (Trinità, divinità di Cristo, sacramenti, eccetera), ma ci sono anche le conoscenze alla cui evidenza contribuisce la fede, che poi però vengono riconosciute come razionali e appartenenti alla ragione come tale, e che perciò implicano anche una responsabilità nei confronti degli altri. Il fedele, che ha ricevuto egli stesso un aiuto per la sua ragione, deve impegnarsi in favore della ragione e di ciò che è razionale: questo, di fronte alla ragione addormentata o ammalata, è un dovere che ha verso tutta la comunità umana.

Detto questo, vorrei brevemente trattare due questioni di contenuto. C’è, per prima cosa, il problema dell’essere «persona fin dal concepi­mento». L’Istruzione Donum vitae del 22 febbraio 1987, al n. I, 1, ricorda come, in base alle cono­scenze della genetica moderna, «dal primo istante si trova fissato il programma di ciò che sarà que­sto vivente: un uomo, quest’uomo individuo con le sue note caratteristiche già ben determinate». O, in altre parole: «nello zigote derivante dalla fe­condazione si è già costituita l’identità biologica di un nuovo individuo umano».
È qui che si passa dall’empirico al filosofico. L’I­struzione afferma che nessun dato sperimentale potrà mai essere sufficiente per constatare l’esistenza di un’anima spirituale. Il documento formula la connessione tra livello empirico e filo­sofico in forma di domanda. Ricorda ancora una volta che si può constatare empiricamente che c’è un nuovo individuo: «individuo» è un termine em­pirico in quanto si tratta di un organismo che, pur essendo completamente dipendente da quello del­la madre, tuttavia è un organismo nuovo, con un suo proprio programma genetico. Ne consegue la domanda: «Come può un individuo umano non essere una persona umana?» Da cui risulta la deduzione etica: «L’essere umano è da rispettare - come una persona - fin dal primo istante della sua esistenza».
Il Magistero qui non propone una propria teo­ria filosofica, tanto meno argomenta teologicamente; pone, al punto d’incontro dei livelli empirico e filosofico (antropologico), una domanda che — a mio parere — comporta una chiara conse­guenza etica per la ragione. Da cui risulta, d’altra parte, una deduzione per il legislatore: se le cose stanno così, allora l’autorizzazione all’uccisione dell’embrione significa che «lo Stato viene a nega­re l’uguaglianza di tutti davanti alla legge» (parte III). La questione del diritto alla vita di tutti quelli che sono uomini non è per noi una questione di etica della fede, ma di etica della ragione. Ed è a questo livello che si deve svolgere il dibattito. Trattare allo stesso modo anche i problemi inerenti alla fecondazione artificiale ci costringereb­be ad andare troppo oltre. Vorrei però almeno accennare al fatto che la Donum vitae, pur rifiutan­do, sulla base di un’etica che argomenta antropo­logicamente, la fecondazione omologa come anche quella eterologa non esige dal legislatore il divieto della fecondazione omologa extracorpo­rea, ma vorrebbe comunque vedere esclusa la fe­condazione eterologa anche per legge, in quanto altrimenti si rinuncerebbe al valore, ancora pro­tetto per legge, del matrimonio; sarebbe cioè un «no» a un’istituzione fondamentale delle società basate sulla cultura cristiana. Un tale affronto contro la base della nostra struttura sociale è in fondo un’auto-contraddizione del legislatore; il fatto che ciò non venga più percepito dimostra chiaramente quanto sia avanzato il processo di smantellamento dell’istituzione matrimoniale. Partendo dalla mia fede, come anche dalla ragione morale, posso in questo riconoscere un segnale d’allarme molto serio per le nostre società.

Partono innanzitutto dal fatto che accettazione e successo non possono essere i criteri decisivi per la coscienza in cerca della verità. Ma, d’altra parte, si rendono anche conto che in politica si tratta di ciò che è realizzabile e di avvicinarli il più possibile a ciò che la coscienza e la ragione hanno riconosciuto come il vero bene per l’individuo e per la società. Alla politica appartiene il compromesso. Fin dove si può spingere, con dei compromessi, il politico cristiano nella sua ricerca di un diritto moralmente fondato senza entrare in contraddizione con la sua coscienza?

Tutti e due i testi insistono perciò che il legislatore, partendo dal principio comunemente riconosciuto della libertà di coscienza, dovrebbe, in questo ambito, concedere il diritto all’obiezione di coscienza: la Chiesa non vuole imporre agli altri ciò che non comprendono, ma si aspetta, da parte loro, almeno il rispetto per la coscienza di coloro che lasciano guidare la loro ragione dalla fede cristiana.
(dalla Lettera a Marcello Pera di Joseph Ratzinger in Marcello Pera-Joseph Ratzinger, Senza radici, Mondadori, Milano, 2004)

In sintesi

L’eredità greca

L’Europa è, come parola, come concezione geografica e spirituale, una creazione dei greci. Già il termine come tale è significativo. Esso si rifà alla comune denominazione semitica della sera (ereb) e rimanda così al fatidico dialogo dello spirito semitico e di quello occidentale, che appartiene all’essenza dell’Europa. Geograficamente lo spazio inteso dalla parola si estende a poco a poco. Dapprima esso abbraccia solo la Tessaglia, la Macedonia e l’Attica. Ma già Erodoto indica nella ripartizione delle tre parti della terra – Europa, Asia, Libia – una delle tre grandi zone geografiche e culturali, che si trovano contigue nello spazio del Mediterraneo.
L’Europa appare quindi costituita anzitutto di spirito greco. Se dimenticasse la sua eredità greca, non potrebbe essere più Europa. Il mito di “Europa” rientra sì nella sfera delle religioni croniche e dell’ambito religioso minoico, ma la formazione dell’Europa si fonda sul superamento della religione ctonica mediante la forma apollinea. Che cosa significhi la Grecia come eredità vincolante è difficile dirlo in dettaglio. Io vedrei il punto centrale in ciò che Helmut Kuhn ha chiamato differenza socratica: la differenza tra il bene e i beni dove si danno insieme convegno, a un tempo, il diritto della coscienza e la reciproca relazione di ratio e di religio. Si può formulare l’eredità della Grecia anche da un’altra angolazione, per noi forse più tangibile. La sua scoperta, valida al di sopra dei tempi (pur con tutte le distinzioni di quanto oggi si intende con la parola), è la democrazia, la quale però, come Platone ha spiegato, è legata per sua essenza all’ “eunomia”, alla validità del buon diritto e solo in questo rapporto può ancora essere democrazia. La democrazia non è quindi mai puro dominio di maggioranze, e il meccanismo di produzione delle maggioranze deve sottostare al criterio della comune signoria del “nomos”, di ciò che, interiormente, è giusto, è cioè subordinato al riconoscimento di valori, che sono una premessa vincolante anche per la maggioranza.

L’eredità cristiana

Lo strato secondo del concetto “Europa” si può percepire nel noto episodio di At 16,6-10. In questo frammento narrativo, altamente misterioso e drammatico, lo Spirito di Gesù vieta a Paolo di continuare la sua evangelizzazione in Asia. Invece gli appare nella notte in visione un uomo macedone che gli grida: “Passa in Macedonia e aiutaci!”. Il testo poi continua: “Dopo che (Paolo) ebbe avuto questa visione, subito cercammo di partire per la Macedonia, ritenendo che Dio ci aveva chiamati ad annunziarvi la parola del Signore”. Tutto ciò si trova narrato solo negli Atti degli Apostoli, tuttavia io ritengo che una base un po’ più estesa si possa trovare anche nel resto del Nuovo Testamento. Quanto qui viene detto a mio avviso, trova un intimo riscontro con una frase del Vangelo di Giovanni che, per di più, è collocata in un punto importante. Poco prima della Passione, dopo l’entrata di Gesù in Gerusalemme, in un momento in cui si parla dell’adempimento della gloria di Gesù, si narra la richiesta di certi greci a Filippo: “Signore, vogliamo vedere Gesù” (Gv 12,21). Il vescovo Graber ha osservato che nel racconto della Pentecoste di Luca (At 2,11), sulla lista dei popoli che rappresentano la terra vengono nominati solo degli asiatici. Ma quasi all’ultimo posto, si parla anche di “stranieri di Roma”. Il punto di partenza del Vangelo si trova dunque in Oriente. Luca sottolinea (come anche Giovanni e tutto il Nuovo Testamento) la radice che è Israele: la salvezza viene dai Giudei (Gv 4,22). Ma Luca vi aggiunge una strada che apre una porta nuova. La strada presentata dall’insieme degli Atti degli Apostoli è la strada che conduce da Gerusalemme a Roma, la via ai pagani, i quali distruggeranno sì Gerusalemme ma poi la riassumeranno in sé in una maniera nuova. Il cristianesimo è, perciò, la sintesi operata in Gesù Cristo, tra la fede d’Israele e lo spirito greco. Wilhelm Kamlah ha esposto tutto ciò in maniera penetrante. Su questa sintesi si fonda l’Europa. Il tentativo del Rinascimento, volto a distillare l’elemento greco, eliminando quello cristiano, per restaurare la pura grecità è insensato e senza prospettive, come lo è il tentativo recente per un cristianesimo disellenizzato. L’Europa in senso stretto nasce, a mio parere, da questa sintesi e vi si basa.

L’eredità dell’età moderna

Altro strato che costituisce l’Europa è l’irrinunciabile apporto dello spirito dell’età moderna.
Come noi sappiamo per esperienza, l’età moderna viene descritta per così dire in maniera idealpolitica, così come essa voleva vedersi, ma come essa concretamente non è mai esistita. L’ambivalenza dell’età moderna si fonda sul fatto che essa, molto presto, non riconobbe la radice e il fondamento vitale dell’idea di libertà e si mosse con forza verso un’emancipazione della ragione, la quale è in interna contraddizione con l’essenza della ragione umana, in quanto non divina, e doveva quindi diventare, essa stessa, irragionevole. La quintessenza dell’età moderna appare, in ultima analisi a torto, in quella ragione perfettamente automatizzata, che riconosce oramai solo se stessa, ma che è in tal modo diventata cieca e diviene, nella distruzione del suo fondamento, inumana e ostile alla creazione. Questa specie di autonomia della ragione è certamente un prodotto dello spirito europeo, ma al tempo stesso è nella sua essenza post-europea, anzi anti-europea, come intima distruzione di ciò che è costitutivo non solo per l’Europa, ma presupposto di ogni società umana. Così noi dobbiamo assumere dall’età moderna, come dimensione essenziale ed irrinunciabile dell’elemento europeo, la separazione relativa di stato e chiesa, la libertà di coscienza, i diritti umani e l’autoresponsabilità della ragione. Ma di fronte all’esaltazione unilaterale di questi valori deve al tempo stesso essere tenuto fermo il radicamento della ragione nel rispetto di Dio e dei valori etici fondamentali, che derivano dalla fede cristiana.
(da Chiesa, ecumenismo e politica di Joseph Ratzinger, Edizioni Paoline, Torino, 1987)




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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