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Conferenze sugli scritti di Joseph Ratzinger

Ultimo Aggiornamento: 15/01/2018 11:33
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15/01/2018 10:07
 
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  LA QUESTIONE ECUMENICA-INTERRELIGIOSA

Come un preambolo: il rapporto ecumenico ed il rapporto inter-religioso nello “spirito di Assisi”

Quando, giovedì 24 gennaio, sotto un cielo gravido di pioggia, si è mosso il treno che doveva condurre ad Assisi i rappresentanti di un gran numero di Chiese cristiane e comunità ecclesiali assieme ai rappresentanti di molte religioni mondiali per testimoniare e pregare per la pace, questo treno mi è apparso come un simbolo del nostro pellegrinaggio nella storia. Non siamo, infatti, forse tutti passeggeri di uno stesso treno?...
Il saluto della gente era diretto principalmente all’uomo anziano vestito di bianco che stava sul treno. Uomini e donne, che nella vita quotidiana troppo spesso si fronteggiano l’un l’altro con ostilità e sembrano divisi da barriere insormontabili, salutavano il Papa, che, con la forza della sua personalità, la profondità della sua fede, la passione che ne deriva per la pace e la riconciliazione, ha come tirato fuori l’impossibile dal carisma del suo ufficio: convocare insieme in un pellegrinaggio per la pace rappresentanti della cristianità divisa e rappresentanti di diverse religioni. Ma l’applauso, rivolto innanzitutto al Papa, esprimeva anche un consenso spontaneo per tutti coloro che con lui cercano la pace e la giustizia, ed era un segnale del desiderio profondo di pace che provano gli individui di fronte alle devastazioni che ci circondano provocate dall’odio e dalla violenza. Anche se talvolta l’odio appare invincibile e si moltiplica senza sosta nella spirale della violenza, qui, per un momento, si è percepita la presenza della forza di Dio, della forza della pace. Mi vengono alla mente le parole del salmo: «Con il mio Dio scavalcherò le mura» (Sal 18, 30). Dio non ci mette gli uni contro gli altri, bensì Egli che è Uno, che è il Padre di tutti, ci ha aiutato, almeno per un momento, a scavalcare le mura che ci separano, facendoci riconoscere che Egli è la pace e che non possiamo essere vicini a Dio se siamo lontani dalla pace.

Nel suo discorso il Papa ha citato un altro caposaldo della Bibbia, la frase della Lettera agli Efesini: «Cristo è la nostra pace. Egli ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia» (Ef 2, 14). Pace e giustizia sono nel Nuovo Testamento nomi di Cristo (per «Cristo, nostra giustizia» vedere ad esempio 1Cor 1, 30). Come cristiani non dobbiamo nascondere questa nostra convinzione: da parte del Papa e del Patriarca ecumenico la confessione di Cristo nostra pace è stata chiara e solenne. Ma proprio per questa ragione c’è qualcosa che ci unisce oltre le frontiere: il pellegrinaggio per la pace e la giustizia. Le parole che un cristiano deve dire a colui che si mette in cammino verso tali mete sono le stesse usate dal Signore nella risposta allo scriba che aveva riconosciuto nel duplice comandamento che esorta ad amare Dio e il prossimo la sintesi del messaggio veterotestamentario: «Non sei lontano dal regno di Dio» (Mc 12, 34).
Per una giusta comprensione dell’evento di Assisi, mi sembra importante considerare che non si è trattato di un’autorappresentazione di religioni che sarebbero intercambiabili tra di loro. Non si è trattato di affermare una uguaglianza delle religioni, che non esiste. Assisi è stata piuttosto l’espressione di un cammino, di una ricerca, del pellegrinaggio per la pace che è tale solo se unita alla giustizia. Infatti, là dove manca la giustizia, dove agli individui viene negato il loro diritto, l’assenza di guerra può essere solo un velo dietro al quale si nascondono ingiustizia e oppressione.
Con la loro testimonianza per la pace, con il loro impegno per la pace nella giustizia, i rappresentanti delle religioni hanno intrapreso, nel limite delle loro possibilità, un cammino che deve essere per tutti un cammino di purificazione. Ciò vale anche per noi cristiani. Siamo giunti veramente a Cristo solo se siamo arrivati alla sua pace e alla sua giustizia. Assisi, la città di san Francesco, può essere la migliore interprete di questo pensiero. Anche prima della sua conversione Francesco era cristiano, così come lo erano i suoi concittadini. E anche il vittorioso esercito di Perugia che lo gettò in carcere prigioniero e sconfitto era formato da cristiani. Fu solo allora, sconfitto, prigioniero, sofferente, che cominciò a pensare al cristianesimo in modo nuovo. E solo dopo questa esperienza gli è stato possibile udire e capire la voce del Crocifisso che gli parlò nella piccola chiesa in rovina di San Damiano la quale, perciò, divenne l’immagine stessa della Chiesa della sua epoca, profondamente guasta e in decadenza. Solo allora vide come la nudità del Crocifisso, la sua povertà e la sua umiliazione estreme fossero in contrasto con il lusso e la violenza che prima gli apparivano normali. E solo allora conobbe veramente Cristo e capì anche che le crociate non erano la via giusta per difendere i diritti dei cristiani in Terra Santa, bensì bisognava prendere alla lettera il messaggio dell’imitazione del Crocifisso.
Da quest’uomo, da Francesco, che ha risposto pienamente alla chiamata di Cristo crocifisso, emana ancora oggi lo splendore di una pace che convinse il sultano e può abbattere veramente le mura. Se noi come cristiani intraprendiamo il cammino verso la pace sull’esempio di san Francesco, non dobbiamo temere di perdere la nostra identità: è proprio allora che la troviamo. E se altri si uniscono a noi nella ricerca della pace e della giustizia, né loro né noi dobbiamo temere che la verità possa venir calpestata da belle frasi fatte. No, se noi ci dirigiamo seriamente verso la pace allora siamo sulla via giusta perché siamo sulla via del Dio della pace (Rm 15, 32) il cui volto si è fatto visibile a noi cristiani per la fede in Cristo.
(da Lo splendore della pace di Francesco, articolo apparso su 30giorni del gennaio 2002 - con Ratzinger)

È chiaro... che in quest' ora, in cui l'umanità ha acquisito la possibilità dell' autodistruzione e della distruzione del proprio pianeta, le religioni sono coinvolte nella comune responsabilità di vincere questa tentazione. Esse vengono valutate in modo particolare in base a questa scala di valori, che appare sempre più come il loro compito comune e, di conseguenza, anche la formula della loro conciliazione. Hans Küng, facendosi portavoce di molti, ha proposto lo slogan «Nessuna pace nel mondo senza pace tra le religioni», dichiarando in tal modo la pace religiosa, l'ecumenismo delle religioni, compito primario di tutte le comunità religiose.
(da Il dialogo delle religioni ed il rapporto tra ebrei e cristiani, in La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000, pag.60)

Il rapporto con coloro che sono della stessa religione cristiana, ma di un’altra confessione

Provenendo io stesso da questo paese, conosco bene la situazione penosa che la rottura dell'unità nella professione della fede ha comportato per tante persone e tante famiglie. Anche per questo motivo, subito dopo la mia elezione a vescovo di Roma, quale successore dell'apostolo Pietro, ho manifestato il fermo proposito di assumere il ricupero della piena e visibile unità dei cristiani come una priorità del mio pontificato.

La Germania nel dialogo ecumenico riveste senza dubbio un posto di particolare importanza. Noi siamo il paese d'origine della Riforma; però la Germania è anche uno dei paesi da cui è partito il movimento ecumenico del XX secolo.

A seguito dei flussi migratori del secolo scorso, anche cristiani delle Chiese ortodosse e delle antiche Chiese dell'Oriente hanno trovato in questo paese una nuova patria. Ciò ha indubbiamente favorito il confronto e lo scambio, cosicché ora esiste fra noi un dialogo a tre.

Insieme ci rallegriamo nel constatare che il dialogo, col passare del tempo, ha suscitato una riscoperta della nostra fratellanza e creato tra i cristiani delle varie Chiese e Comunità ecclesiali un clima più aperto e fiducioso. Il mio venerato predecessore nella sua enciclica “Ut Unum Sint” (1995) ha indicato proprio in questo un frutto particolarmente significativo del dialogo (cfr nn. 41s.; 64).

Ritengo che non sia poi così scontato che ci consideriamo veramente fratelli, che ci amiamo, che ci sentiamo insieme testimoni di Gesù Cristo. Questa fraternità è in sé, come credo, un frutto molto importante del dialogo, di cui dobbiamo essere lieti e che dovremmo continuare a curare e a praticare.

La fraternità tra i cristiani non è semplicemente un vago sentimento e nemmeno nasce da una forma di indifferenza verso la verità. Essa è fondata... sulla realtà soprannaturale dell'unico battesimo, che ci inserisce tutti nell'unico corpo di Cristo (cfr 1 Cor 12, 13; Gal 3, 28; Col 2, 12).

Insieme confessiamo Gesù Cristo come Dio e Signore; insieme lo riconosciamo come unico mediatore tra Dio e gli uomini (cfr 1 Tm 2, 5), sottolineando la nostra comune appartenenza a lui (cfr “Unitatis Redintegratio”, 22; “Ut Unum Sint”, 42).

A partire da questo essenziale fondamento del battesimo, che è una realtà da lui proveniente, una realtà nell'essere e poi nel professare, nel credere e nell'agire, a partire da questo decisivo fondamento il dialogo ha portato i suoi frutti e continuerà a farlo.

Vorrei menzionare il riesame, auspicato da papa Giovanni Paolo II durante la sua prima visita in Germania, delle reciproche condanne. Penso con un po' di nostalgia a quella prima visita. Ho potuto essere presente quando eravamo insieme a Magonza in un circolo relativamente piccolo e autenticamente fraterno. Furono poste delle questioni e il papa elaborò una grande visione teologica, nella quale la reciprocità aveva un suo spazio.

Da quel colloquio scaturì poi la commissione a livello episcopale e cioè ecclesiale, sotto la responsabilità ecclesiale, che con l'aiuto dei teologi portò infine all'importante risultato della "Dichiarazione comune sulla dottrina della giustificazione" del 1999 e a un accordo su questioni fondamentali che fin dal XVI secolo erano state oggetto di controversie.

Ed ora chiediamoci: che cosa significa ristabilire l'unità di tutti i cristiani? Sappiamo tutti che esistono numerosi modelli di unità e voi sapete anche che la Chiesa cattolica si prefigge il raggiungimento della piena unità visibile dei discepoli di Gesù Cristo secondo la definizione che ne ha dato il Concilio Ecumenico Vaticano II in vari suoi documenti (cfr “Lumen Gentium”, nn. 8;13; “Unitatis Redintegratio”, nn. 2; 4 ecc.). Tale unità, secondo la nostra convinzione, sussiste, sì, nella Chiesa cattolica senza possibilità di essere perduta (cfr “Unitatis Redintegratio”, n. 4); la Chiesa infatti non è scomparsa totalmente dal mondo.

D'altra parte questa unità non significa quello che si potrebbe chiamare ecumenismo del ritorno: rinnegare cioè e rifiutare la propria storia di fede. Assolutamente no! Non significa uniformità in tutte le espressioni della teologia e della spiritualità, nelle forme liturgiche e nella disciplina. Unità nella molteplicità e molteplicità nell'unità: nell'omelia per la solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo, lo scorso 29 giugno, ho rilevato che piena unità e vera cattolicità nel senso originario della parola vanno insieme. Condizione necessaria perché questa coesistenza si realizzi è che l'impegno per l'unità si purifichi e si rinnovi continuamente, cresca e maturi. 

A questo scopo può recare un suo contributo il dialogo. Esso è più di uno scambio di pensieri, di un'impresa accademica: è uno scambio di doni (cfr “Ut Unum Sint”, n. 28), nel quale le Chiese e le Comunità ecclesiali possono mettere a disposizione i loro tesori (cfr “Lumen Gentium”, nn. 8; 15; “Unitatis Redintegratio”, nn. 3; 14s; “Ut Unum Sint”, nn. 10-14).

Desidero anche io in questo contesto ricordare il grande pioniere dell'unità, padre Roger Schutz, che è stato strappato alla vita in modo così tragico. Lo conoscevo personalmente da tempo e avevo con lui un rapporto di cordiale amicizia.

Mi ha spesso reso visita e, come ho già detto a Roma, il giorno della sua uccisione ho ricevuto una sua lettera che mi è rimasta nel cuore perché in essa sottolineava la sua adesione al mio cammino e mi annunciava di volermi venire a trovare. Ora ci visita dall'alto e ci parla. Penso che dovremmo ascoltarlo, ascoltare dal di dentro il suo ecumenismo vissuto spiritualmente e lasciarci condurre dalla sua testimonianza verso un ecumenismo interiorizzato e spiritualizzato.

Vedo un confortante motivo di ottimismo nel fatto che oggi si sta sviluppando una sorta di "rete" di collegamento spirituale tra cattolici e cristiani delle varie Chiese e Comunità ecclesiali: ciascuno si impegna nella preghiera, nella revisione della propria vita, nella purificazione della memoria, nell'apertura della carità.

Il padre dell'ecumenismo spirituale, Paul Couturier, ha parlato a questo riguardo di un "chiostro invisibile", che raccoglie tra le sue mura queste anime appassionate di Cristo e della sua Chiesa. Io sono convinto che, se un numero crescente di persone si unirà interiormente alla preghiera del Signore "perché tutti siano una sola cosa" (Gv 17, 21), una tale preghiera nel nome di Gesù non cadrà nel vuoto (cfr Gv 14, 13; 15, 7.16 ecc.).
(dal discorso tenuto da Benedetto XVI ai rappresentanti di altre Chiese e comunità ecclesiali, nell’arcivescovado di Colonia, il 19 agosto 2005, durante la Giornata Mondiale della Gioventù)

Quello dei modelli di unità è un grande e difficile problema. Viene subito da chiedersi: che cosa è possibile? Che cosa possiamo o non possiamo sperare? E in secondo luogo, che cosa è veramente bene? Non oso sperare in una unità di cristiani pienamente compiuta all’interno della storiaVediamo anzi che, contemporaneamente agli sforzi che si compiono per arrivare all’unità, avvengono continuamente ulteriori frammentazioni. Non solo continuano a formarsi nuove sette (tra le quali anche sette sincretistiche, con grandi componenti pagane e non cristiane), ma, anzi, aumentano anche le divisioni all’interno delle Chiese: tanto in quelle riformate, in cui si approfondisce sempre più la frattura tra elementi più evangelici e movimenti modernisti (anche nel protestantesimo tedesco vediamo come le due correnti siano sempre più distanti), quanto nell’ortodossia. Qui l’unità è comunque sempre meno forte a causa delle autocefalie, ma anche lì ci sono movimenti di separazione, anche lì vediamo all’opera lo stesso fermento. Anche nella stessa Chiesa cattolica esistono profonde spaccature, cosicché talvolta si ha letteralmente la sensazione che in essa convivano due chiese l’una accanto all’altra. Si devono vedere entrambi gli aspetti, sia l’avvicinarsi di cristiani separati, sia il contemporaneo nascere di spaccature interne. Ci si dovrebbe cautelare da speranze utopistiche. L’importante è che si rifletta sempre sull’essenziale, cioè che ognuno cerchi di andare oltre se stesso e di guardare con fede a ciò che conta davvero. Sarebbe già un risultato se non si verificassero ulteriori fratture e se comprendessimo che anche nella separazione possiamo essere uniti in molte cose. Non credo che si arriverà molto rapidamente a grandi “unioni confessionali”. Molto più importante è che noi ci accettiamo reciprocamente con profondo rispetto, con amore, che ci riconosciamo come cristiani e che tentiamo, nelle cose essenziali, di portare nel mondo una testimonianza comune, tanto a favore di un giusto ordinamento mondiale, quanto per dare una risposta ai grandi interrogativi su Dio, sull’origine e sul destino dell’uomo.
(da J.Ratzinger, Il sale della terra, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1997, pag.273-274)

E’ per me importante distinguere due tempi, o due fasi dell’ecumenismo: la finalità ultima, lo scopo ultimo al quale tendiamo, che deve essere sempre il vero dinamismo e il movente principale del nostro impegno ecumenico e, diciamo, il tempo intermedio, con soluzioni intermedie. Finalità ultima è, ovviamente, l’unità delle chiese nella chiesa unica, ma questa ultima finalità non implica uniformità, ma unità nella pluriformità. Mi sembra che la chiesa antica ci offra un po’ un modello. La chiesa antica era unita nei tre elementi fondamentali: Sacra Scrittura, regula fidei, struttura sacramentale della chiesa; per il resto era una chiesa molto pluriforme, come sappiamo tutti. C’erano le chiese di area o di lingua semitica, la chiesa Copta nell’Egitto, c’erano le chiese greche dell’impero bizantino, le altre chiese greche, le chiese latine, con grande diversità tra la chiesa d’Irlanda, per esempio, e la chiesa di Roma. Con altre parole, troviamo una chiesa unita nell’essenziale, ma una chiesa con grande pluriformità. Naturalmente non possiamo ripristinare le forme della chiesa antica, ma possiamo ispirarci ad esse per vedere come sia possibile comporre unità e pluriformità. Questo quindi è lo scopo, la finalità ultima di ogni lavoro ecumenico: arrivare all’unità reale della chiesa, la quale implica pluriformità in forme che adesso non possiamo ancora definire.
Ma dobbiamo anche tener presente che questa unità, questo ultimo scopo dell’ecumenismo, non è una cosa che possiamo semplicemente fare noi. Noi dobbiamo impegnarci con tutte le nostre forze, ma dobbiamo anche riconoscere che in ultima analisi questa unità è un dono di Dio, perché è la sua chiesa, e non la nostra. Una unità costruita tutta da noi, in modo politico o intellettuale, potrebbe creare solo una unità, una chiesa nostra e non sarebbe quindi quella unità della chiesa di Dio alla quale tendiamo. Perciò, dato che ultimamente non sta nelle nostre mani creare questa unità, dobbiamo trovare anche dei modelli per il tempo intermedio. Questo modello sarebbe, per me, da esprimere con la formula ben conosciuta della “diversità riconciliata”, e su questo punto mi sento molto vicino alle idee formulate dal caro collega Oscar Cullmann.
Ma per spiegare cosa intendo dire con queste parole, mi sia concesso di citare un brano di una conferenza che ho tenuto nell’autunno scorso davanti a giovani vescovi europei su diversi problemi, tra cui anche sull’ecumenismo. Secondo me, molti problemi derivano dal fatto che l’ecumenismo spesso viene inteso secondo un modello politico e considerato come le negoziazioni tra stati o anche fra le parti del mondo economico. Tutto dipende qui dalla prudenza e dalla buona volontà dei partners che, dopo un certo tempo, devono arrivare ad un contratto con compromessi accettabili da tutti. Così, si pensa, le negoziazioni tra le diverse chiese dovrebbero man mano produrre dei compromessi e tramite questi pervenire a “contratti” sui diversi elementi della separazione: dottrina della giustificazione, ministero, primato del papa, intercomunione ecc. e, finalmente, sfociare in un “contratto di riunificazione”. Questo modello è costruito senza tener conto della specificità della realtà chiesa. Si mette tra parentesi la dipendenza radicale della chiesa da Dio e si dimentica che il vero soggetto agente nella chiesa è Dio. Solo Dio può creare l’ultima vera unità ecclesiale; le unificazioni solamente fatte da noi non arriverebbero all’altezza dell’unità sacramentale e dottrinale. Per un vero ecumenismo è importante, quindi, riconoscere il primato dell’azione divina e trarre le conseguenze di un tale atteggiamento. Anzitutto: l’ecumenismo esige pazienza; il vero successo dell’ecumenismo non consiste in sempre nuovi contratti, ma consiste nella perseveranza dell’andare insieme, dell’umiltà che rispetta l’altro, anche dove la compatibilità in dottrina o prassi della chiesa non è ancora ottenuta; consiste nella disponibilità ad imparare dall’altro e a lasciarsi correggere dall’altro, in gioia e gratitudine per le ricchezze spirituali dell’altro, in una permanente essenzializzazione della propria fede, dottrina e prassi, sempre di nuovo da purificare e da nutrire alla Scrittura, tenendo fisso lo sguardo al Signore e, nello Spirito Santo, col Signore al Padre. Consiste nella disponibilità di perdonare e di cominciare sempre di nuovo nella ricerca dell’unità e, finalmente, nella collaborazione nelle opere di carità e nella testimonianza per il Dio rivelato davanti al mondo.
Se Dio è il primo agente della causa ecumenica, il comune avvicinarsi al Signore è la condizione fondamentale di ogni vero avvicinamento delle chiese.Con altre parole, ecumenismo è innanzitutto un atteggiamento fondamentale, un modo di vivere il cristianesimo. Non è un settore particolare, accanto ad altri settori. Il desiderio dell’unità, l’impegno per l’unità appartiene alla struttura dello stesso atto di fede, perché Cristo è venuto per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi. La caratteristica fondamentale di un ecumenismo teologico e non politico è dunque la disponibilità di stare e di camminare insieme anche nella diversità non superata; la regola pratica è fare tutto ciò che possiamo fare noi per l’unità e lasciare al Signore quanto può fare soltanto il Signore. “Oportet et haereses esse”, dice san Paolo.
Forse non siamo tutti maturi per l’unità e abbiamo bisogno della spina nella carne, che è l’altro nella sua alterità, per risvegliarci da un cristianesimo dimezzato, riduttivo. Forse il nostro dovere è essere spina l’uno per l’altro. Ed esiste un dovere di lasciarsi purificare ed arricchire dall’altro. Forse ci aiuta più l’ascolto umile, reciproco nella diversità che non una unità superficiale. Tutti questi atteggiamenti devono sempre essere collegati con la volontà ferma di diventare maturi per il momento dell’unità. Il modello della diversità riconciliata è da interpretarsi in questo senso dinamico e processuale. Questo è per me molto importante: diversità riconciliata non vuol dire essere contenti della situazione che abbiamo, ma è un processo dinamico; è un ecumenismo positivo se interpretato in questo senso.
Anche nel momento storico nel quale Dio ancora non ci dà l’unità perfetta, riconosciamo l’altro, il fratello cristiano, riconosciamo le chiese sorelle, amiamo la comunità dell’altro, ci vediamo insieme in un processo di educazione divina nella quale il Signore usa le diverse comunità l’una per l’altra, per farci capaci e degni dell’unità definitiva.

Detto ciò, posso ora brevemente passare al problema del papato. In questo modello si inserisce anche una visione dinamica dello sviluppo, non solo dell’unità, ma anche degli organi dell’unità. Dalla storia sappiamo bene che il ministero dell’unità, che secondo la nostra fede è affidato a Pietro e ai suoi successori, si può realizzare in modi molto diversi. La storia ci offre dei modelli, ma la storia naturalmente non è ripetibile; ci ispira, ma dobbiamo rispondere alle situazioni nuove. Io non oserei, per il momento, suggerire per il futuro realizzazioni concrete possibili e pensabili. Vorrei dire solo due cose, e così finire.
La prima: negli anni settanta ero in contatto con un gruppo di luterani della Germania e dei paesi Scandinavi ed abbiamo un po’ riflettuto su come dovrebbe presentarsi una “ecclesia catholica confessionis augustanae”; abbiamo formulato diverse ipotesi. Lo ricordo solo per dire che in situazioni concrete si possono pensare possibilità concrete, sebbene non osi presentare un modello astratto per un futuro che non è ancora presente.
La seconda cosa: io ripeto anche oggi quanto ho detto venti anni fa in una conferenza a Graz in Austria circa le chiese ortodosse. Dissi che non dovrebbero cambiare al loro interno molto, anzi quasi niente, nel caso di una unità con Roma. Due osservazioni concrete. Gli ortodossi hanno un modo diverso di garantire l’unità e la stabilità della comune fede, diverso da come lo abbiamo noi nella Chiesa cattolica dell’occidente. Non hanno una Congregazione per la dottrina della fede. Ma nella Chiesa ortodossa la liturgia e il monachesimo sono due fattori molto forti che garantiscono una fermezza e una coerenza della fede. La storia mostra che sono mezzi adeguati e sicuri, in questo contesto storico ed ecclesiale, per servire all’unità fondamentale.
In secondo luogo mi ha molto illuminato un contributo del teologo ortodosso Meyendorf, il quale, con una franchezza rara, direi, compie sia un’autocritica del problema dell’unità nelle chiese ortodosse, sia una critica della chiesa romana, e così apre strade per pensare al futuro (senza di nuovo indicare già modelli concreti). Meyendorf critica l’universalismo nella sua forma romana, ma critica anche, come dice, il regionalismo come si è formato nella storia delle chiese ortodosse. Rileva che anche le chiese ortodosse (le quali probabilmente non avrebbero intenzione di definire il ministero dell’unità in termini di “jus divinum”, ma piuttosto di “jus ecclesiasticum”), devono necessariamente proporre delle forme istituzionali per garantire ed esprimere in modo reale la dimensione universale della chiesa. Inoltre afferma che tre livelli sono necessari, e devono penetrarsi reciprocamente perché sia realizzata la chiesa nella sua pienezza. Primo livello: la chiesa locale è chiesa reale nella celebrazione dell’ eucaristia. Secondo, la chiesa deve poi anche implicare e realizzarsi nella dimensione regionale, cioè culturale, nazionale, sociale. Ma infine la chiesa deve anche realizzarsi nella dimensione universale. Il regionalismo, dice il teologo ortodosso, deve sempre riconciliarsi anche coll’universalismo. Solo così siamo nella chiesa voluta dal Signore e tutti insieme dobbiamo trovare come queste tre dimensioni possano riconciliarsi.
Mi sembra che questa non sia ancora una risposta concreta, ma l’indicazione di un cammino, un’autocritica sincera, insieme con una critica oggettiva degli altri, nella quale possiamo incontrarci e che, nella sostanza, vale non solo per le chiese ortodosse, ma anche per quelle nate dalla Riforma.

Quando ho un po’ riflettuto, nel tempo molto limitato a mia disposizione, sulla risposta da dare a questa domanda, mi è venuta in mente (e qui il mio pensiero coincide con quello del professor Ricca), la “essenzializzazione”. Dobbiamo realmente ritornare al centro, all’essenziale o, in altre parole: il problema centrale del nostro tempo è l’assenza di Dio e perciò il dovere prioritario dei cristiani è testimoniare il Dio vivente. Mi sembra che prima di tutti i moralismi, di tutti quei doveri che abbiamo, noi con forza e con chiarezza dobbiamo testimoniare il centro della nostra fede. Dobbiamo rendere presente nella nostra fede, nella nostra speranza e nella nostra carità la realtà del Dio vivente. Se oggi esiste un problema di moralità, di ricomposizione morale nella società, mi sembra che risulti dall’assenza di Dio nel nostro pensiero, nella nostra vita. Risulta ancora, per essere più concreti, dall’assenza della fede nella vita eterna, che è vita con Dio. Io sono convinto che oggi il deismo - cioè l’idea che Dio può esistere, ma non entra finalmente nella nostra vita - è presente non solo nel mondo cosiddetto secolarizzato, ma è determinante fino a una misura pericolosa, direi, all’interno delle chiese e della nostra vita di cristiani.
Non abbiamo più osato parlare sulla vita eterna e sul giudizio. Dio è divenuto per noi un Dio lontano, un Dio astratto. Non abbiamo più il coraggio di credere che questa creatura, l’uomo, sia così importante agli occhi di Dio che Dio si occupa e preoccupa con noi e per noi. Pensiamo che tutte queste cose che facciamo siano finalmente cose nostre e per Dio, se esiste, non possano avere molta importanza. Così abbiamo deciso di costruire da noi stessi, di ricostruire il mondo, e non contiamo realmente sulla realtà di Dio, la realtà del giudizio e della vita eterna. Ma se prescindiamo nella nostra vita di oggi e di domani dalla vita eterna, cambia tutto: perché l’essere umano perde il suo grande onore, la sua grande dignità, e tutto diventa finalmente manipolabile. Perde la sua dignità, questa creatura immagine di Dio, e perciò la conseguenza inevitabile è una decomposizione morale, un cercare se stesso nel breve tempo di questa vita; dobbiamo inventare noi quale sarebbe il migliore modo di costruire la nostra vita e la vita in questo mondo. Perciò il nostro compito fondamentale, proprio se vogliamo contribuire alla vita umana e alla umanizzazione della vita in questo mondo, è rendere presente, e per così dire quasi tangibile, questa realtà di un Dio che vive, di un Dio che ci conosce e ci ama, nel cui sguardo viviamo, un Dio che riconosce la nostra responsabilità e aspetta da essa la risposta del nostro amore realizzato e concretizzato nella nostra vita di ogni giorno.
A me sembra che il più grande pericolo delle chiese, dei cristiani, è rifugiarsi in un certo moralismo per essere più accettabili, più comprensibili nel mondo secolarizzato, lasciando da parte l’essenziale. E questo moralismo può avere, ha spesso degli scopi realmente validi, buoni, ma se diventa moralismo puro e non è animato dalla fede nel Dio vivente, alla fine non ha forza e non può realmente cambiare la vita umana. Perciò questa priorità per la testimonianza del Dio vivente mi sembra l’imperativo più urgente per tutti i cristiani, e mi sembra anche l’imperativo che ci unisce, perché tutti i cristiani siamo uniti nella fede in questo Dio che si è rivelato, incarnato in Gesù Cristo. Rendere questa testimonianza essenziale per il mondo di oggi, il mondo cristiano e il mondo non cristiano, ci unisce proprio se non intendiamo immediatamente le cose ecclesiastiche, ecumeniche, ma se intendiamo (senza guardare a noi stessi) la testimonianza essenziale per Dio. E mi sembra che tutto il resto segua. Se viviamo sotto gli occhi di Dio e se Dio è la priorità della nostra vita, del nostro pensiero e della nostra testimonianza, il resto segue. Segue cioè l’impegno per la pace, segue necessariamente l’impegno per la creatura, segue la protezione e l’impegno per i deboli, segue l’impegno per la giustizia e l’amore.
(da Ecumenismo: crisi o svolta? Dialogo tra il cardinal Joseph Ratzinger e il pastore Paolo Ricca, Roma, Facoltà valdese di teologia, 29 gennaio 1993, pubblicato in NEV Dossier/2, supplemento al numero 7 del 17 febbraio 1993 del settimanale NEV)

Le persone perseverano nella chiesa non perché vi trovano feste comunitarie e gruppi di azione, bensì perché sperano di trovarvi risposte a domande vitali indispensabili. Tali risposte non sono state escogitate dai parroci o da altre autorità, ma vengono da un’autorità più grande e sono fedelmente mediate e amministrate, semmai, dai parroci. Gli uomini soffrono anche oggi, forse ancora più di prima; non basta ad essi la risposta che viene dalla testa del parroco o da qualche “gruppo attivistico”. La religione penetra oggi come sempre in profondità nella vita degli uomini per attingervi un punto di assoluto e, a tanto, serve solo una risposta che viene dall’assoluto. Là dove i parroci o i vescovi non appaiono più come i mediatori di quanto è assoluto anche per essi, ma hanno solamente da offrire le proprie azioni, è allora che diventano una “chiesa ministeriale” e, come tali, superflui.

Una unità operata dagli uomini non potrà essere logicamente che un affare iuris humani. Non attingerebbe per principio l’unità teologica intesa da Gv 17 e non potrà essere di conseguenza neppure una testimonianza del pensiero di Gesù Cristo, ma parlerà unicamente a favore dell’abilità diplomatica e della capacità compromissoria dei responsabili della trattativa. E’ già qualcosa, ma non tocca il piano veramente religioso, di cui si tratta appunto in fatto di ecumenismo. Anche le dichiarazioni teologiche di consenso rimangono di necessità sul piano dell’intelligenza umana (scientifica), la quale è in grado di approntare certe condizioni essenziali per l’atto di fede, ma non concerne l’atto di fede in quanto tale. Nella prospettiva dell’avvenire mi sembra quindi importante riconoscere i limiti dell’”ecumene contrattuale” e non aspettarsi da essa più di ciò che può dare: avvicinamento su importanti aspetti umani, ma non l’unità stessa.

Ma, stando così le cose, che cosa dobbiamo fare? In vista di una risposta mi è assai di aiuto la formula che Oscar Cullmann ha coniato per tutta la discussione: unitàattraverso pluralità, attraverso diversità. Certamente la spaccatura è dal male, specie quando porta all’inimicizia e all’impoverimento della testimonianza cristiana. Ma se a questa spaccatura viene a poco a poco sottratto il veleno dell’ostilità, e se, nell’accoglimento reciproco della diversità, non c’è più riduzionismo, bensì ricchezza nuova di ascolto e di comprensione, allora la spaccatura può diventare nel trapasso una felix culpa, anche prima che sia del tutto guarita. Caro signor collega Seckler, verso la fine degli anni da me trascorsi Tubinga, Lei mi diede da leggere un lavoro compiuto sotto la sua guida, lavoro che esponeva l’interpretazione agostiniana della misteriosa sentenza di Paolo: “E’ necessario che avvengano divisioni tra voi” (1Cor 11,19). Il problema esegetico nell’interpretazione di 1Cor 11,19 non è in discussione qui; a me sembra che i padri non avevano gran torto a trovare in questa annotazione localizzata un’affermazione aperta sull’universale, ed anche H. Schlier pensa che si tratti per Paolo di un principio escatologico-dogmatico (ThWNT, I, 182). Se è legittimo pensare in questa direzione, assume un peso speciale l’affermazione esegetica secondo cui il dei (N.d.C. “dei”: espressione greca che traduciamo in italiano con “è necessario”) biblico rinvia sempre in qualche modo a un agire di Dio, cioè a una necessità escatologica (così per es. Grundmann, ThWNT, II, 22-25). Ma allora ciò significa che, se le divisioni sono anzitutto opera umana e colpa umana, esiste tuttavia in esse anche una dimensione che corrisponde a disposizioni divine. Perciò noi le possiamo trasformare solo fino a un certo punto con la penitenza e la conversione; ma quando le cose sono arrivate al punto che noi non abbiamo più bisogno di questa rottura e che il dei viene a cadere, questo lo decide tutto da sé il Dio che giudica e perdona.
Sulla strada mostrata da Cullmann noi dovremmo per prima cosa cercare di trovare l’unità attraverso diversità, cioè a dire: assumere nella divisione ciò che è fecondo, disintossicare la divisione stessa e ricevere proprio dalla diversità quanto è positivo; naturalmente nella speranza che alla fine la rottura smetta radicalmente di essere rottura e sia invece solo una “polarità” senza contraddizioneMa quando ci si protende troppo direttamente verso quest’ultimo stadio con la fretta superficiale di voler fare tutto da sé, si approfondisce la separazione invece di sanarla. Mi permetta di dire il mio pensiero con un esempio molto pratico. Non è stato forse in tanti modi un bene per la Chiesa cattolica in Germania e altrove il fatto che sia esistito accanto alla Chiesa il protestantesimo con la sua liberalità e la sua devozione religiosa, con le sue lacerazioni e la sua elevata pretesa spirituale? Certo, ai tempi delle lotte per la fede, la spaccatura è stata quasi soltanto contrapposizione; ma poi sono cresciuti sempre di più elementi positivi per la fede in entrambe le parti, un positivo che ci permette di comprendere qualcosa del misterioso “è necessario” di San Paolo. Giacché, viceversa, ci si potrebbe immaginare un mondo interamente protestante? O non è forse vero che il protestantesimo in tutte le sue affermazioni, e proprio come protesta, è del tutto riferito al cattolicesimo, al punto che senza di questo sarebbe quasi impensabile?

A tanto vale davvero e in tutta serietà il detto di Melantone “ubi et quandum visum est Deo”. In ogni caso dovrebbe risultare chiaro che l’unità non la facciamo noi (come non facciamo noi la giustizia con le nostre opere) e che inoltre non possiamo tuttavia rimanere con le mani in mano. Ciò che qui importa è di accogliere sempre daccapo l’altro in quanto altro nel rispetto della sua alterità. Possiamo essere uniti anche come divisi.
Questa specie di unità, per la cui crescita continua possiamo e dobbiamo impegnarci, senza collocarla sotto la pressione troppo umana del successo e della “meta finale”, conosce molte e varie strade ed esige molti e vari impegni. Anzitutto è importante trovare, conoscere e riconoscere le unità che già ci sono e che non sono piccola cosa. Il fatto che leggiamo insieme la Bibbia come parola di Dio; che ci è comune la professione di fede, formatasi negli antichi concilii in base alla lettura della Bibbia, in Dio uno e trino, in Gesù Cristo vero Dio e uomo, del battesimo e della remissione dei peccati, e che ci è quindi comune l’immagine fondamentale di Dio e dell’uomo: tutto ciò deve essere sempre nuovamente attualizzato, pubblicamente testimoniato ed approfondito nella pratica. Ma comune a noi è pure la forma della preghiera cristiana ed unico tra noi pure l’essenziale comandamento etico del decalogo, interpretato nella luce del Nuovo Testamento. All’unità di fondo della confessione di fede dovrebbe corrispondere una unità di fondo operativa. Si tratta dunque di rendere effettiva l’unità che già sussiste, di concretizzarla e di ampliarla.

All’”unità attraverso la diversità” potrebbero e dovrebbero aggiungersi certamente azioni di carattere simbolico, per tenerla costantemente presente nella coscienza delle comunità. Il suggerimento di O.Cullmann quanto alle collette ecumeniche meriterebbe di essere richiamato alla memoria. L’uso del pane dell’eulogia presente nella Chiesa d’oriente potrebbe essere utile anche per l’occidente. Dove la comunità eucaristica non è possibile, questo pane è un modo reale e corporeo di essere accanto nell’alterità e di “comunicare”; di portare la spina dell’alterità e al tempo stesso cambiare la divisione in una preghiera reciproca.

Immaginiamo che i concetti appena accennati non piaceranno a molti. Credo che una considerazione dovrebbe in ogni caso essere evitata: che tutte queste non siano che delle idee stagnanti e rassegnate, o addirittura un rifiuto dell’ecumenismo. E’ molto semplice il tentativo di lasciare a Dio quello che è affare unicamente suo, e di esplorare poi, in tutta serietà, che cosa è nostro compito. A questa sfera dei nostri compiti appartiene agire e soffrire, attività e pazienza. Se si cancella una delle due cose, si guasta l’insieme. Se noi ci impegniamo su ciò che spetta a noi, allora l’ecumenismo sarà anche in futuro, e più ancora di prima, un compito altamente vivace e ardimentoso.
(da Progressi dell’ecumenismo. Una lettera alla “Theologische Quartalschrift di Tubinga, in Chiesa, Ecumenismo e Politica, Cinisello Balsamo, 1987, pagg.131-137)




  continua..................
 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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