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Conferenze sugli scritti di Joseph Ratzinger

Ultimo Aggiornamento: 15/01/2018 11:33
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Sesso: Femminile
15/01/2018 10:12
 
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Essa, la scomunica, si è estinta con la sua morte, perché il giudizio dopo la morte è solo di Dio. Non c’è bisogno di togliere la scomunica di Lutero; da lungo tempo essa non esiste più.
Del tutto diversa è la domanda se le dottrine proposte da Lutero possano dividere ancora oggi la Chiesa ed escludano così la comunione ecclesiale. Di tale domanda si occupa il dialogo ecumenico. La commissione mista istituita in occasione della visita del Papa in Germania intende precisamente studiare il problema delle esclusioni del secolo XVI e della loro oggettiva, futura validità o superamento. Giacché bisogna considerare che esistono anatemi non solo cattolici contro la dottrina di Lutero, ma che esistono riprovazioni molto esplicite del cattolicesimo da parte del riformatore e dei suoi compagni, riprovazioni che culminano nella frase di Lutero che noi siamo divisi per l’eternità. Non c’è proprio bisogno di rifarsi alle parole piene di rabbia pronunciate da Lutero nei riguardi del Concilio di Trento, dove la decisività del suo rifiuto della Chiesa cattolica è fin troppo chiara:”Bisognerebbe arrestare il Papa, i cardinali e tutta la plebaglia che lo idolatra e lo santifica, arrestarli come bestemmiatori, e strappar loro la lingua fin dal fondo della gola ed inchiodarli tutti in fila alla forca... Li si potrebbe così lasciar fare il concilio o quel che vogliono sulla forca, oppure all’inferno tra i diavoli”. Lutero dopo la rottura definitiva ha non solo respinto categoricamente il papato, ma ha reputato idolatrica la dottrina cattolica della Messa, perché vi vedeva una ricaduta nella Legge e quindi il rifiuto del Vangelo. Ricondurre tutte queste contrapposizioni semplicemente a malintesi è a mio vedere una pretesa illuministica, con la quale non si dà veramente la misura delle appassionate lotte di allora, né del peso di realtà presente nei loro discorsi. La vera questione può dunque unicamente consistere nel domandarci fino a che punto è oggi possibile superare le posizioni di allora e raggiungere una conoscenza che vada oltre quei tempi. In altre parole, l’unità postula passi nuovi; non si realizza mediante artifici interpretativi. Se a suo tempo si realizzò con esperienze religiose contrapposte, che non potevano trovare spazio entro lo spazio vitale della dottrina ecclesiastica tramandata, così anche oggi l’unità non si fa soltanto mediante discussioni di vario genere, ma con le forze dell’esperienza religiosa. L’indifferenza è un mezzo di unione solo apparente.

E’ interessante vedere come (E.Herms) evidenzia come particolarmente utile proprio quel passo della lettera che Manns vorrebbe affibbiare a me e spogliare del suo rilievo ecumenico, cioè l’affermazione che la rottura invalsa con la Riforma non è da condurre semplicemente a malintesi tra le due parti, ma che va più a fondo nei suoi fattori decisivi.

Quando alle celebrazioni del giubileo della pace di Augusta (1980) il card. Willebrands affermò che nelle divisioni del secolo XVI la radice era rimasta una sola, il card. Volk chiese con umorismo e serietà insieme: la realtà di cui qui si parla è una patata oppure (per esempio) un albero di mele? In altre parole: fuori della radice è solo erba da buttar via, oppure l’albero che ne è cresciuto è pure importante? Fino a che punto giunge la differenza?

Ciò che veniva inteso nella formula, del resto non inventata dal card. Willebrands, non è mai stato messo in discussione da noi, cioè che con l’adesione alla fede trinitaria e cristologica dell’antica Chiesa è rimasto comune il centro contenutistico della fede.

Dunque l’atto di fede a suo (N.d.C. di Lutero) vedere si era cambiato nel suo contrario, perché la fede è per lui la liberazione dalla legge, ma nella sua forma cattolica gli sembrava di nuovo una sottomissione alla legge. Egli credeva così di dover sostenere da parte sua, contro Roma e la tradizione cattolica, la stessa lotta combattuta da Paolo nella lettera ai Galati contro i giudaizzanti. L’identificazione tra le posizioni di combattimento della sua età e quelle di Paolo (e dunque una certa identificazione di se stesso e della sua missione con Paolo) appartiene agli elementi essenziali della sua strada. Oggi è ormai comune dire che non esiste più contrasto quanto alla dottrina della giustificazione. In realtà la forma con cui Lutero poneva allora la questione non è più possibile oggi: la coscienza del peccato e l’angoscia dell’inferno sussistono oggi nella stessa misura dello sconvolgimento davanti alla maestà di Dio e al grido che chiama la grazia, cioè non sussistono più o quasi. Anche la sua concezione della volontà schiava, che aveva allora provocato l’opposizione di Erasmo da Rotterdam, oggi risulta difficilmente concepibile. Viceversa già il decreto tridentino della giustificazione ha accentuato in modo così definitivo la preminenza della grazia che Harnack pensava che se questo testo fosse stato proposto all’inizio della Riforma, quest’ultima avrebbe avuto un altro corso. Ma dal momento che Lutero ha fissato per tutta la sua vita e con tale insistenza la differenza centrale nella dottrina della giustificazione, mi sembra giusto allora come oggi la congettura che è a partire di qui che si può quanto mai trovare la differenza fondamentale. Tutto questo io non lo posso esporre nello spazio di un’intervista.

L’elemento fondamentale (così mi sembra) è la paura di Dio, dalla quale Lutero è stato colpito fino alla radice del suo essere nella tensione tra divina pretesa e coscienza del peccato; a tal punto che Dio gli appare “sub contrario”, cioè come l’opposto di Dio, come diavolo, inteso all’annientamento dell’uomo. La liberazione da quest’angoscia diventa il vero problema risolutivo. Viene trovata nel momento in cui la fede appare come la salvezza rispetto alla pretesa di una giustizia propria, come personale certezza di salvezza. Nel piccolo catechismo di Lutero risulta molto chiaro questo nuovo asse nel concetto di fede:”Io credo che Dio mi ha creato .... Io credo che Gesù Cristo .... è il mio Signore che mi ha salvato .... affinché io sia suo proprio .... e lo serva nell’eterna giustizia, innocenza e beatitudine”.
Dunque la fede ora conferisce soprattutto la certezza della propria salvezza. La certezza personale della salvezza è il centro decisivo della fede. Senza di esso non ci sarebbe salvezza. In tal modo la coordinazione delle cosiddette tre virtù teologiche – fede, speranza, carità – nel cui nodo si può vedere una formula di esistenza cristiana, viene essenzialmente alterata: certezza di fede e certezza di speranza, finora diverse per essenza, ora si identificano. Per il cattolico la certezza di fede si riferisce a ciò che Dio ha fatto e che la Chiesa ci testimonia; la certezza di speranza si riferisce alla salvezza delle singole persone e dunque del proprio io. Per Lutero è invece precisamente quest’ultima cosa il vero punto sorgivo senza il quale tutto il resto non vale. Perciò la carità, che forma secondo il cattolico l’intima forma della fede, viene del tutto separata dal concetto di fede fino alla formulazione polemica del grande commento alla lettera ai Galati: maledicta caritas. Il sola fides, su cui Lutero ha tanto insistito, vuol dire esattamente e propriamente quest’esclusione della carità, o amore, dalla questione della salvezza. La carità appartiene al campo delle “opere” e diventa in tal modo “profana”.

Il cristianesimo altro non è che un costante esercizio su questo punto dottrinale, cioè nel sentire che tu non hai nessun peccato, anche se hai peccato; che i tuoi peccati stanno invece appesi a Cristo” (Lutero, WA25,331,7). Questo “personalismo” e questa “dialettica” hanno cambiato, insieme con l’antropologia e, in misura più o meno grande, anche la restante struttura della dottrina. Giacché questo principio-base significa che la fede nella visuale di Lutero non è più, come per il cattolico, per la sua essenza un concredere assieme a tutta la Chiesa; in ogni caso la Chiesa, secondo Lutero, non può assumere ne’ una garanzia di certezza per la salvezza personale, ne’ può decidere quanto ai contenuti della fede in maniera vincolante e definitiva. Per il cattolico la Chiesa è invece contenuta nel principio più interno dello stesso atto di fede. Solo nel credere insieme con la Chiesa io ho parte a quella certezza su cui può reggersi la mia vita. Ne segue che per la visione cattolica Scrittura e Chiesa sono indivisibili, mentre in Lutero la Scrittura diventa una misura indipendente sulla stessa Chiesa e tradizione.

L’unità della Scrittura, letta finora come unità di gradini storico-salvifici, come l’unità di analogia, viene ora dissolta per mezzo della dialettica Legge e Vangelo. Questa dialettica assume tutta la sua forza per il motivo che, dei due concetti complementari dell’evangelium – quello dei “vangeli” e quello delle lettere di Paolo – viene accettato solo quest’ultimo che viene poi radicalizzato nel senso della sola fides sopradescritta.

Secondo la mia opinione il termine “base” non è applicabile, nel modo indicato alla Chiesa. Il discorso della “base” ha per sua premessa una concezione filosofica e sociale, secondo cui nella struttura della società si contrappongono un “sopra” e un “sotto”, dove il “sopra” definisce il potere stabilito e predatorio, mentre il “sotto”, la base, intende le forze realmente portanti. Solo l’imporsi di queste forze è in grado di realizzare un progresso. Quando si parla di ecumene di base, vibra in chi parla l’emozione di queste ideologie.

Il Concilio Vaticano II sullo sviluppo della fede della Chiesa dice: “La comprensione tanto delle cose quanto delle parole trasmesse cresce con la riflessione dei credenti che le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19.51), con l’esperienza data da una più profonda intelligenza delle cose spirituali e con la predicazione di coloro i quali nella successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità”. Vengono dunque presentati due fattori principali del progresso nella Chiesa: riflessione e studio delle parole sacre; intelligenza in base all’esperienza spirituale; predicazione dottrinale dei vescovi. In tal senso non esiste nella tradizione cristiana una monopolizzazione del ministero episcopale, in cose della dottrina e della fede, come invece spesso si afferma. Se si parla di “intelligenza in base all’esperienza spirituale”, viene assunto tutto il contributo della vita cristiana e in tal modo anche riconosciuto il contributo particolare della “base”, cioè delle comunità di credenti come “luogo teologico”. D’altra parte è chiaro che i tre fattori si appartengono: un’esperienza senza riflessione è cieca; uno studio senza esperienza è vuoto; una predicazione episcopale senza un fondo di base delle due cose appena dette è inefficace. Tutt’e tre insieme formano la vita della Chiesa, dove col mutare dei tempi può prendere maggior rilievo ora il primo, ora l’altro elemento, ma nessuno dei tre può mancare del tutto.

Anche e proprio il Vaticano II dice precisamente che l’unica Chiesa di Cristo “è realizzata” (subsistit) “nella Chiesa cattolica, che viene guidata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui”. Questo “è realizzata” sostituisce come è noto il precedente “è” (la sola Chiesa “è” quella cattolica), perché anche fuori della Chiesa cattolica ci sono molti veri cristiani e c’è molto di veramente cristiano. Ma quest’ultimo riconoscimento, che forma la base dell’ecumenismo cattolico, non significa che d’ora in poi il cattolico debba concepire la “vera Chiesa” ancora come un’utopia, che verrà alla fine dei tempi. La vera Chiesa è realtà, realtà esistente, anche adesso, senza che si debba negare ad altri di essere cristiani o contestare alle loro comunità un carattere ecclesiale.

Gli scopi intermedi saranno diversi secondo i progressi fatti dai singoli dialoghi. La testimonianza della carità (opere caritative e sociali) dovrebbe essere compiuta per principio sempre insieme, o per lo meno dovremmo accordarci al riguardo a vicenda, quando organizzazioni distinte appaiono più efficaci per motivi tecnici. Allo stesso modo bisognerebbe sforzarsi di rendere insieme testimonianza quanto alle grandi questioni morali. E infine si dovrebbe realizzare una fondamentale testimonianza comune della fede davanti a un mondo sconvolto da dubbi e paure, e quanto più ampiamente tanto meglio. Ma se ciò può accadere solo in misura minima, bisognerebbe egualmente dire insieme quanto è possibile dire. Tutto ciò dovrebbe anche far sì che la comune esistenza cristiana venga internamente sempre più riconosciuta e amata nonostante le divisioni; che la divisione non sia più una ragione di opposizione, bensì una sfida in direzione di una comprensione e accettazione vicendevole dell’altro, il che significa di più che semplicemente tolleranza: significa un appartenersi nella fedeltà a Gesù Cristo. Forse in questo atteggiamento, che non perde di vista l’ultima meta, ma ogni volta mira alla meta prossima, si potrà realizzare una maturazione più profonda, in ordine all’intera unità, che non con una accelerazione unionistica che rimane superficiale e che agisce in modo fittizio.
(da Lutero e l’unità delle chiese. Una intervista alla rivista Communio, in Chiesa, Ecumenismo e Politica, Cinisello Balsamo, 1987, pagg.99-118)

A conti fatti io mi sono dichiarato fortemente contrario a forme di riunificazione superficiali e affrettate ed avevo argomentato dicendo che la divisione non può più essere un’opposizione, ma che deve diventare il postulato di una comprensione reciproca, che è di più che non solo tolleranza: un appartenersi nella fedeltà a Gesù Cristo. In questo contesto avevo parlato anche di una indistruttibile unità già data.

Vorrei sollevare la questione se una personalizzazione così estrema dell’atto di fede corrisponda realmente alla totalità delle acquisizioni della Riforma; se questo totale rinvio della parola e del sacramento, e così anche della chiesa e del suo ministero spirituale, alla dimensione unicamente umana sia veramente la sua ultima parola. La teologia cattolica sa di trovarsi su solido terreno biblico quando non riferisce esclusivamente al singolo e alla sua coscienza l’azione illuminativa e salutare di Dio, ma sa che Dio agisce proprio anche mediante il Corpo di Cristo. Nulla ci autorizza, secondo la mia convinzione, a rinviare tutto il comunitario nell’unicamente umano e a limitare l’azione propria di Dio unicamente a un intimo contatto di Dio percepito dal singolo eletto. Anzi, del tutto al contrario: l’agire di Dio è sempre un agire divino umano, dunque un agire mediato da un altro uomo (il Dio-uomo Gesù Cristo e la sua corporeità). La sua azione consiste precisamente nel fatto che, nell’incontro con Gesù Cristo, vale il detto paolino “io, ma non più io” (Gal 2,20). L’“ubi et quando visum est Deo” non è più dopo Cristo un ignoto chisadove o chissacome, ma si chiama Cristo, e noi non possiamo voler essere più divini di Dio se egli ha legato in tal modo la sua disponibilità al Corpo di Gesù Cristo. Perciò questo ”ubi et quando visum est Deo” opera per prima cosa quanto segue: che l’uomo viene come estratto dal suo io limitato e riceve un nuovo io, una nuova soggettività, nella comunione con Colui che ha patito per noi e per noi è morto e risorto (mistero della sostituzione vicaria!). Così ogni fede cristiana è sapere unitamente con Lui. L’illuminazione consiste appunto nel fatto che io non sono più solo insieme con un Dio lontano, ma con-vivendo nel Corpo di Cristo attingo io stesso il fondo di ogni realtà, perché è diventato il mio proprio fondamento vitale. L’illuminazione è a un tempo salvezza; poiché mi trasforma, io vedo ora in modo nuovo. Ed essa mi trasforma con il restituirmi il mio io nel noi della comunione dei santi.

La fede, ho detto, è essenzialmente una con-fede insieme con la chiesa come nuovo io più grande. L’“io” dell’“io credo” non è il mio io vecchio, in sé chiuso; è l’io dell’anima ecclesiastica, cioè l’io dell’uomo in cui si esprime tutta la comunità della Chiesa in cui lui vive, che in lui vive e di cui vive. Ma ciò significa anche che l’autorità nella Chiesa non è quella di un capo assoluto e neppure quella di un’autorità democratica. Per essa vale la stessa cosa che per ogni singolo: solo in quanto di fatto riflette la totalità della vera Chiesa, essa è autorità.

(K.Rahner) pensa che “pur riconoscendo una differenza non irrilevante della vita comunitaria nelle comunità cattoliche ed evangeliche in rapporto alla guida delle chiese, tuttavia di fatto anche nelle chiese evangeliche è solitamente presente nelle comunità medie una disponibilità verso l’autorità della chiesa quale è in uso nelle chiese cattoliche”, e che conseguentemente “il pericolo di una ribellione “dal basso” contro le risoluzioni di unione dei capi non si dovrebbe sopravvalutare, se i portatori di questa autorità... si sforzano con sufficiente zelo di ottenere una comprensione per la scelta fatta da parte dei membri delle chiese”.
Io trovo in ogni caso questa posizione inaccettabile. Contro di essa deve protestare non solo un teologo protestante; ma neppure un teologo cristiano la può approvare. Riflette il malinteso illuministico sulla gerarchia, che manipola in modo illecito le coscienze e minaccia chiaramente la tenuta interna della chiesa cattolica. Gerarchia – qui bisogna ricordarlo – non significa sacro dominio, ma sacra origine. Un servizio gerarchico è perciò la custodia di un’origine, che è sacra, non disposizione e decisione autonome. Il ministero ecclesiale e il magistero in genere nella chiesa non è quindi una “guida” nel senso del dominatore illuministico, che si sa in possesso della ragione migliore, la traduce in ordini e conta al riguardo sull’obbedienza dei sudditi, i quali devono accettare la sua ragione e le sue decisioni come una misura voluta per essi da Dio. Il ministero gerarchico non corrisponde neppure a un’istanza democratica, in cui i singoli delegano la loro volontà a dei rappresentanti e si dichiarano in tal modo d’accordo che la volontà della maggioranza deve essere legge. Questa delega e vincolo della volontà di maggioranza non è totalmente senza problemi neppure in campo politico, come si vede nel desiderio crescente di democrazia di base. Ad ogni modo esistono limiti nella delegabilità. Nessun deputato può votare contro la propria coscienza e su certi valori fondamentali della società non si può decidere per via di votazione. Ma nella chiesa, dove c’è davvero chiesa e non un corpo amministrativo, si tratta proprio di quei beni fondamentali che sono sottratti alle nostre votazioni, perché ne rappresentano la direttiva che non è da noi inventata. Per questo motivo l’idea di un concilio delle religioni è una proposta assurda. Chi potrebbe conferire agli eventuali delegati il potere di decidere sulle coscienze dei loro fedeli, o addirittura sulle coscienze di tutti gli uomini in qualche modo religiosi della terra?
Che debbano insorgere simili incongruenze dipende dal fatto (lo dobbiamo riconoscere con vergogna) che anche da noi si è imposta largamente un’idea del potere e del dominio della Chiesa, costruita su modello illuministico, e un’idea del tutto corrispondente del concilio. Ma un concilio non è un parlamento che fa delle leggi alle quali poi le “comunità” si devono adeguare. E’ un luogo di testimonianza. Certo si fonda, per un certo aspetto, sull’idea di rappresentanza. Ma questa rappresentanza non si fonda su una delega delle volontà, bensì sul sacramento. Aver ricevuto il “sacramento dell’ordine” significa: rappresentare la fede di tutta la Chiesa, la “santa origine”; significa essere testimoni della fede della Chiesa. E’ una forma, fondata sulla fede, della vocazione alla “sostituzione vicaria” (Stellvertretung). Dato, però, che questa vicarietà è sacramentale, essa può rappresentare unicamente ciò che è Chiesa, e non operare ciò che essa dovrebbe diventare secondo l’opinione di questi o di quelli (o del rappresentante stesso). Un sacramento è per sua essenza eliminazione dell’arbitrio, del far da sé. Stare nel sacramento significa: vivere dalla radice dell’io nuovo, di cui si è detto poco sopra, e così parlare veramente nel senso della totalità (non nel senso di un’opinione media). Praticamente significa: le affermazioni di fede, che vengono “decise” al concilio, non sono “decisioni” nel senso corrente. L’accordo morale, che per esse è necessario, è per la Chiesa il segno che così si è affermata la fede comune della Chiesa. Non creano qualcosa, ma danno espressione a ciò che già è nella Chiesa del Signore, e lo rendono pubblicamente vincolante in quanto espressione dell’anima ecclesiastica.
Esiste dunque la sola fede della Chiesa in cui e per cui i credenti si riconoscono come membri di essa. Ed esiste perciò un diritto e un dovere della Chiesa di dire chi è colui che non condivide questa fede e che dunque non appartiene ad essa. Ma tutto questo è qualcosa di molto diverso da una decisone di alcuni capi, che dichiarano qualcosa di vero e obbligano gli altri ad accettarlo o almeno a non opporvisi. Bisogna riconoscere che la questione del rapporto intrinseco tra io e noi, tra evidenza di coscienza ed evidenza comune dell’unica fede, che noi possiamo accogliere solamente nella comunione di fede, è lungi dall’essere risolta con chiarezza.

Anche Caietano ha cercato di interpretare il problema dell’esistenza cristiana a partire da questo testo (di Gal2,20). Dall’indissolubile comunione del cristiano con Cristo, descritta in Gal 2,20, “segue che io posso dire in tutta verità: ”Io agisco meritando, ma non io bensì il Cristo opera il merito in me” …. In questo modo il merito della vita eterna viene attribuito non tanto alle nostre opere, quanto piuttosto alle opere di Cristo, del Capo, in noi e attraverso di noi”.

Se le cose stanno così, se nella nebbia generale nessuno vede l’altro e nessuno vede la verità, allora si è in ogni caso verificata la “tolleranza teoretico-conoscitiva”, il fatto cioè che nessuno è in contraddizione con l’altro. Nell’oscurità delle “tendenze alla differenziazione” della nostra cultura resta ancora chiaramente visibile il comandamento di unità di Cristo, il quale comandamento diventa allora, in fondo, l’unico contenuto in qualche modo chiaro. Le “autorità” esistono per dar corso a quest’unità e, dal momento che evidentemente nessuno può giudicare il proprio pensiero, tanto meno quello altrui, non dovrebbe essere proprio difficile un’obbedienza di fronte a questo comandamento.
Ma quale unità è allora un’unità come questa? Un’unità formale senza contenuti chiari non è in fondo nessuna unità, e una semplice congiunzione delle istituzioni non è, in se stessa, un valore. Una unità così concepita è fondata sullo scetticismo comune, non sulla conoscenza comune. Si fonda sulla capitolazione di fronte alla possibilità di avvicinarsi nella verità. E’ fuor di dubbio che una parte non piccola di cristiani d’oggi la pensa così e che una parte dei superiori ecclesiastici opera su questa base. Ma è altrettanto evidente che in questo modo noi non camminiamo verso l’unità. Io vorrei a questo punto riformulare la domanda circa l’autorità nella Chiesa. Un’autorità che serve alla verità, come dovrebbe essere un’autorità nella Chiesa fondata sul sacramento, è un’autorità di obbedienza. Un’autorità fondata sullo scetticismo è un’autorità autonoma. E non si deve forse dire che, spesso, proprio coloro che, dopo il Concilio, si pensano come le punte del progresso, in tutta la loro critica dell’obbedienza presuppongono e impongono come ovvia l’obbedienza dei fedeli, per poter fare della Chiesa ciò che ad essi sembra utile?

Nella divisione, non solo rispettarsi ma amarsi, nella convinzione che noi siamo a vicenda necessari anche nella divisione, che riceviamo l’uno dall’altro, viviamo uno per l’altro, siamo cristiani l’uno insieme con l’altro. La divisione – fino a che il Signore la permette – può essere anche feconda, può portare a una ricchezza maggiore della fede e in tal modo preparare l’una-molteplice Chiesa, che noi non ci sappiamo ancora immaginare, ma nella quale nulla sarà perduto di ciò che di positivo è cresciuto nella storia, dappertutto nel mondo. Forse abbiamo bisogno di separazioni per arrivare a tutta la pienezza che il Signore aspetta.
(da Appendice a Lutero e l’unità delle chiese. Una intervista alla rivista Communio, in Chiesa, Ecumenismo e Politica, Cinisello Balsamo, 1987, pagg.119-130)



10. In effetti, in senso proprio, Chiese sorelle sono esclusivamente le Chiese particolari (o raggruppamenti di Chiese particolari; per esempio i patriarcati o province metropolitane) tra di loro. Deve essere sempre chiaro, quando l'espressione Chiese sorelle viene usata in questo senso proprio, che l'una, santa, cattolica e apostolica Chiesa universale non è sorella ma madre di tutte le Chiese particolari.

11. Si può anche parlare in senso proprio di Chiese sorelle in riferimento a Chiese particolari cattoliche e non cattoliche; così la Chiesa particolare di Roma può anche essere chiamata sorella di tutte le altre Chiese particolari. Tuttavia, come ricordato più sopra, non si può affermare correttamente che la Chiesa cattolica è sorella di una Chiesa particolare o di un gruppo di Chiese. Non è semplicemente una questione terminologica, ma soprattutto una questione di rispetto di una verità fondamentale della fede cattolica: quella dell'unicità della Chiesa di Gesù Cristo. Infatti, c'è un'unica Chiesa, e perciò il termine plurale Chiese può solo riferirsi alle Chiese particolari.

Di conseguenza, si deve evitare, in quanto fonte di fraintendimento e di confusione teologica, l'uso di formulazioni quali "le nostre due Chiese" che, se applicate alla Chiesa cattolica e alla totalità delle Chiese ortodosse (o ad una singola Chiesa ortodossa), implicano una pluralità non semplicemente a livello di Chiese particolari, ma anche a livello dell'una, santa, cattolica e apostolica Chiesa confessata nel Credo, la cui esistenza reale viene in questo modo oscurata.
Infine, si deve anche tenere in mente che l'espressione Chiese sorelle in senso proprio, come attestato dalla tradizione comune di Oriente e Occidente, può essere usata solo per quelle comunità ecclesiali che hanno conservato un episcopato ed un'eucaristia validi.
(Nota sull'espressione "chiese sorelle", 30 giugno 2000, preceduta dallalettera ai presidenti delle Conferenze episcopali: La Chiesa cattolica è "madre", non "sorella")

   continua..............

 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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