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Conferenze sugli scritti di Joseph Ratzinger

Ultimo Aggiornamento: 15/01/2018 11:33
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15/01/2018 11:30
 
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L’Islam

Quante pagine di storia registrano le battaglie e le guerre affrontate invocando, da una parte e dall’altra, il nome di Dio, quasi che combattere il nemico e uccidere l’avversario potesse essere cosa a Lui gradita. Il ricordo di questi tristi eventi dovrebbe riempirci di vergogna, ben sapendo quali atrocità siano state commesse nel nome della religione. Le lezioni del passato devono servirci ad evitare di ripetere gli stessi errori. Noi vogliamo ricercare le vie della riconciliazione e imparare a vivere rispettando ciascuno l’identità dell’altro. La difesa della libertà religiosa, in questo senso, è un imperativo costante e il rispetto delle minoranze un segno indiscutibile di vera civiltà.
(dal discorso tenuto da Benedetto XVI a Colonia, durante la Giornata Mondiale della gioventù ad alcuni rappresentanti delle comunità musulmane il 20 agosto 2005)

Che cosa possiamo e dobbiamo fare in questa situazione (dinanzi alla sfida del terrorismo)? Prima di tutto è bene soffermarsi su alcune verità fondamentali. Non è possibile venire a capo del terrore, cioè della forza opposta al diritto e separata dalla morale, con il solo mezzo della forza.
Certamente la difesa del diritto può e deve, in alcune circostanze, far ricorso a una forza commisurata. Un pacifismo assoluto, che neghi al diritto l’uso di qualunque mezzo coercitivo, si risolverebbe in una capitolazione davanti all’iniquità, ne sanzionerebbe la presa del potere e abbandonerebbe il mondo al diktat della violenza. Ma per evitare che la forza del diritto si trasformi essa stessa in iniquità, è necessario sottometterla a criteri rigorosi e riconoscibili come tali da parte di tutti.
Essa deve interrogarsi sulle cause del terrore, il quale spesso trova la sua scaturigine in una situazione di ingiustizia alla quale non vengono opposte misure efficaci. Soprattutto è importante in queste situazioni rinnovare costantemente un’offerta di perdono, al fine di spezzare la spirale della violenza.
Là dove, infatti, viene applicata senza quartiere la regola dell’“occhio per occhio”, non c’è via d’uscita dalla violenza. Sono necessari gesti d’umanità che, rompendo con la violenza, cerchino nell’altro l’uomo e lo richiamino alla sua umanità, anche dove ciò appaia a prima vista come una perdita di tempo.
E’ urgente l’avvento di un vero ius gentium libero da egemonie preponderanti e capace di interventi adeguati: solo così apparirà chiaro che in gioco è la protezione del diritto comune, del diritto di tutti, anche di coloro che stanno, come si suol dire, dall’altra parte della barricata.
Nella Seconda guerra mondiale è stato il verificarsi di questa condizione a risultare convincente e a portare a una vera pace tra le forze antagoniste. Non si operò, infatti, per il rafforzamento di un diritto particolare ma per il ristabilimento della libertà e del vero diritto, per tutti, anche se indubbiamente non si riuscì a impedire la nascita di nuove strutture egemoniche.

Ma nell’attuale scontro tra le grandi democrazie e il terrore di matrice islamica entrano in gioco questioni le cui radici sono ancor più profonde. Sembra di assistere oggi allo scontro tra due grandi sistemi culturali i quali sono caratterizzati in verità da forme molto diverse di potenza e di orientamento morale: l’Occidente e l’Islam.
E tuttavia, che cos’è l’Occidente? E che cos’è l’Islam? Entrambi sono mondi polimorfi, e sono mondi anche interagenti. In questo senso è dunque un errore opporre globalmente Occidente e Islam. C’è chi tuttavia tende ad approfondire ulteriormente questa opposizione, interpretandola come scontro tra la ragione illuminata e una forma di religione fondamentalista e fanatica. Si tratterebbe dunque di abbattere prima di tutto il fondamentalismo in tutte le sue forme e di promuovere la vittoria della ragione per lasciare campo libero a forme illuminate di religione.

E’ vero che, in questo caso, il rapporto tra la ragione e la religione è di un’importanza decisiva, che la ricerca di un giusto rapporto è il fulcro dei nostri sforzi in materia di pace. Parafrasando un’affermazione di Hans Kung, direi che nessuna pace può esserci nel mondo senza l’autentica pace tra ragione e fede, perché senza la pace tra la ragione e la religione le sorgenti della morale e del diritto si esauriscono.
Per chiarire il senso di questa affermazione vorrei formulare il medesimo pensiero in chiave negativa: esistono le patologie della religione - sono sotto i nostri occhi ed esistono le patologie della ragione anch’esse ben visibili. Entrambe le patologie costituiscono pericoli mortali per la pace e, oserei dire, per l’umanità intera.

Guardiamo le cose più da vicino: Dio, o la divinità, possono essere trasformati nell’assolutizzazione di una determinata potenza, di un determinato interesse. Se l’immagine di Dio diventa talmente faziosa da identificare l’assolutezza di Dio con una comunità particolare o con certe sue aree di interesse, ciò distrugge il diritto e la morale: il bene, in questo quadro, è ciò che sta al servizio della mia potenza, e la differenza tra bene e male svanisce.
La morale e il diritto diventano di parte. E tutto questo peggiora ulteriormente quando la volontà di impegnarsi per fini particolaristici si carica di tutto il peso del fanatismo religioso, e diventa così totalmente cieca e brutale. Assistiamo a qualcosa del genere nel caso dei terroristi e della loro ideologia del martirio, un’ideologia che per la verità in certi casi particolari può essere semplicemente un’espressione di disperazione di fronte all’ingiustizia del mondo.
Del resto anche fra noi, nelle sette presenti nel mondo occidentale, troviamo esempi di un irrazionalismo e di una deviazione della dimensione religiosa che mostrano come possa diventare pericolosa una religione quando perde il suo centro d’orientamento.

Ma esiste anche la patologia della ragione interamente separata da Dio. L’abbiamo vista nelle ideologie totalitarie che avevano negato ogni legame con Dio e intendevano così costruire l’uomo nuovo, il mondo nuovo. Hitler merita indubbiamente la qualifica di irrazionalista. I grandi profeti e i realizzatori del marxismo non sono meno segnati dalla pretesa di costruire il mondo animati unicamente dalla ragione. Forse l’espressione più drammatica di questa patologia della ragione si incarna in Pol Pot: è in lui che si è manifestata con un’evidenza totale la crudeltà di una simile “ricostruzione” del mondo.
Ma è lo stesso sviluppo spirituale dell’Occidente a tendere sempre di più verso patologie distruttive della ragione. In fondo la bomba atomica - con la quale la ragione, invece di essere forza costruttiva, intendeva rafforzarsi attraverso la capacità di distruzione - non era già un superamento dei limiti?
E quando, attraverso la ricerca del codice genetico, la ragione si impossessa delle radici della vita, essa tende sempre più a non vedere nell’uomo un dono del Creatore (o della “natura”) e a trasformarlo in un prodotto. L’uomo viene “fatto”, e ciò che si può fare si può anche disfare. La dignità umana scompare. E dove mai troveranno più un fondamento i diritti dell’uomo? Come potrà ancora sussistere il rispetto per l’uomo anche quando è vinto, debole, sofferente, handicappato? In questo quadro la nozione di ragione si appiattisce sempre di più. E’ ovvio che, se la realtà è unicamente il prodotto di processi meccanici, come tale non comporta nessuna morale.
Il bene in sé, che stava tanto a cuore ancora a Kant, non esiste più. Ed è proprio su queste basi che hanno agito di fatto le dittature ideologiche: in una determinata situazione può darsi che sia bene uccidere degli innocenti, se questo serve alla costruzione del futuro mondo della ragione. In ogni modo la loro dignità assoluta non esiste più.

La ragione malata e la religione manipolata finiscono con l’incontrarsi nel medesimo esito. Ogni riconoscimento di valori ultimativi, ogni asserzione di verità da parte della ragione finisce con l’apparire alla ragione malata come fondamentalismo. E non resta altro che la dissoluzione, la decostruzione, come da tempo ci insegna Jacques Derrida, che ha “decostruito” l’ospitalità, la democrazia, lo Stato e infine anche la nozione di terrorismo, per ritrovarsi poi atterrito dagli avvenimenti dell’11 settembre. Una ragione che sappia riconoscere solo se stessa e ciò che è empiricamente certo si paralizza e si autodistrugge.
Se l’Illuminismo era alla ricerca di fondamenti della morale validi “etsi Deus non daretur”, oggi noi dobbiamo invitare i nostri amici agnostici ad aprirsi a una morale “si Deus daretur”. Il filosofo polacco Leszek Kolakowski, partendo dall’esperienza di una società agnostica atea, ha mostrato in maniera convincente che, in assenza di un punto di riferimento assoluto, l’agire dell’uomo si perde nell’indeterminatezza ed è ineluttabilmente in balia delle forze del male.
E’ specifico compito nostro, di cristiani del tempo presente, quello di inserire la nozione di Dio nella lotta per la difesa dell’uomo.

Un elemento della tradizione cristiana vorrei ancora ricordare, di fondamentale importanza nelle avversità del nostro tempo. La fede cristiana ha soppresso, seguendo il cammino di Cristo, l’idea della teocrazia politica.
Per dirla in termini moderni, essa ha fondato la secolarità dello Stato nel quale i cristiani coabitano, nella libertà, con gli esponenti di altre convinzioni. Una coabitazione fondata peraltro sulla comune responsabilità morale, insita nella natura dell’uomo e nella natura della giustizia.
La fede cristiana fa distinzione tra questa forma secolare e il Regno di Dio, che come realtà politica non esiste e non può esistere in quanto tale su questa terra, ma vive nella fede, nella speranza e nella carità e deve trasformare il mondo dall’interno. Le tentazioni di Gesù hanno come tema di fondo proprio questa distinzione, il rifiuto della teocrazia politica, la relatività dello Stato e il diritto della ragione, e anche la libertà di scelta, garantita a tutti gli uomini.
In questo senso, lo Stato laico è un esito della decisione cristiana fondamentale, anche se è stata necessaria una lunga lotta per comprenderne tutte le conseguenze. Questo carattere secolare, “laico” dello Stato include nella sua essenza quell’equilibrio tra ragione e religione che ho cercato di illustrare in precedenza.
Ed è per questa sua natura che si oppone anche a quel laicismo ideologico che vorrebbe stabilire qualcosa come uno “Stato della pura ragione”, uno Stato separato dalle sue radici storiche e perciò incapace di riconoscere i fondamenti morali che alla ragione si impongono. Altro non resta allo Stato, su queste basi, che il positivismo del principio di maggioranza e la decadenza del diritto, con la conseguenza che quest’ultimo risulta essere retto in fin dei conti da criteri statistici.
Se gli Stati d’Occidente si caratterizzassero integralmente in questo senso, alla lunga non potrebbero resistere alla pressione delle ideologie e delle teocrazie politiche. Uno Stato, anche se laico, ha il diritto e persino l’obbligo di trovare sostegno nelle radici morali che lo hanno segnato nel suo sorgere; esso può e deve riconoscere quei valori fondamentali in assenza dei quali non sarebbe diventato quello che è e non potrebbe sopravvivere. Uno Stato della ragione astratta, antistorica, non potrebbe sussistere.

Sul piano pratico tutto ciò significa che noi cristiani dobbiamo sforzarci, insieme ai nostri concittadini tutti, di dare al diritto e alla giustizia un fondamento morale che si ispiri alle idee cristiane fondamentali, qualunque sia il modo in cui ciascuno ne interpreta le origini e le armonizza con l’insieme della sua vita. Ma per far sì che simili convinzioni razionali comuni siano possibili, è necessario che noi stessi viviamo con energia e purezza la nostra eredità, in modo che diventi visibile ed efficace e eserciti la sua forza interiore di persuasione nell’insieme della società.
Vorrei concludere con le parole del filosofo di Kiel, Kurt Hübner, che illustrano limpidamente questo intento: “Potremo evitare il conflitto con le culture che oggi ci sono ostili solo se riusciremo a smentire il veemente rimprovero di aver dimenticato Dio, tornando ad essere pienamente coscienti del radicamento profondo della nostra cultura nel cristianesimo. Certamente questo non basterà a cancellare il risentimento prodotto dalla superiorità occidentale che in molti campi connota la vita del nostro tempo, ma potrà contribuire in misura significativa a spegnere il fuoco religioso che, a ben vedere, si alimenta naturalmente”. E’ un fatto: se non siamo fedeli alla memoria del Dio della Bibbia, del Dio che si è fatto prossimo in Gesù Cristo, non troveremo la strada della pace.
(dal Discorso tenuto in Normandia il 4 giugno 2004 in occasione del 60° anniversario dello sbarco degli Alleati in Normandia; la traduzione dal francese, non rivista dall’autore, è stata pubblicata su “Vita e Pensiero” n. 5 , settembre-ottobre 2004)

Anzitutto, si deve ricordare che l’Islam non è una grandezza unitaria, non ha nemmeno un’istanza unitaria, perciò il dialogo con l’Islam è sempre un dialogo con determinati gruppi. Nessuno può parlare a nome di tutto l’Islam, che non ha un magistero dottrinale comune. Indipendentemente dalle divisioni tra Sunniti e Sciiti, esso si presenta anche in diverse varianti. C’è un Islam “nobile”, rappresentato ad esempio dal re del Marocco, e c’è quello estremista e terrorista, che però non deve neppure essere identificato con l’Islam in generale, poiché gli si farebbe comunque torto.
Come ricordava anche Lei, è importante chiarire che l’Islam pensa e organizza in maniera completamente diversa i rapporti tra società, politica e religione. Se oggi si discute in Occidente della possibilità di facoltà teologiche islamiche o del concetto di Islam come ente di diritto pubblico, si presuppone allora che tutte le religioni siano ovunque strutturate in modo uguale; che esse si adattino tutte a un sistema democratico, con i suoi ordinamenti e i suoi spazi di libertà, garantiti proprio da questi stessi ordinamenti. Tutto questo, però, appare in contraddizione con l’essenza stessa dell’Islam, che non conosce affatto la separazione tra la sfera politica e quella religiosa, che il Cristianesimo portava in sé fin dall’inizio. Il Corano è una legge religiosa che abbraccia tutto, che regola la totalità della vita politica e sociale e suppone che tutto l’ordinamento della vita sia quello dell’Islam. La Šarī’a plasma una società da cima a fondo. Di conseguenza l’Islam può sfruttare tali libertà, concesse dalle nostre costituzioni, ma non può porre tra le sue finalità quella di dire: sì, ora siamo anche noi ente di diritto pubblico, ora siamo presenti come i cattolici e i protestanti. A questo punto esso non ha ancora raggiunto pienamente il suo vero scopo, si trova ancora in una fase di alienazione. Diversamente dai nostri modelli, l’Islam pensa la realtà della vita e della società in maniera assolutamente totalizzante, esso abbraccia tutto e il suo ordinamento della vita è diverso dal nostro. Esiste un chiaro assoggettamento della donna all’uomo, come anche un ordinamento del diritto penale e delle relazioni sociali molto rigido e opposto ai nostri moderni concetti di società. Deve esserci chiaro che non si tratta di una confessione come tante altre, e non si inserisce nello spazio di libertà della società pluralistica. Se si presenta così, come oggi talvolta capita, l’Islam è declinato secondo un modello cristiano e non è visto nella sua vera essenza. Perciò il problema del dialogo con l’Islam è naturalmente molto più complicato di quanto avvenga nel dialogo tra cristiani...

Cosa può significare per il cristianesimo il rafforzamento mondiale dell’Islam?
Questo rafforzamento è un fenomeno che presenta vari aspetti. Da una parte vi concorrono degli aspetti finanziari. Il potere finanziario raggiunto dai paesi arabi permette loro di costruire dappertutto grandi moschee e di assicurare una presenza di istituzioni culturali musulmane. Questo però è sicuramente solo un fattore.
L’altro è una identità rafforzata ed una nuova autocoscienza.
Nella situazione culturale del secolo XIX e del­l’inizio del secolo XX, dunque fino agli anni Ses­santa, la superiorità dei paesi cristiani era mili­tarmente, politicamente, industrialmente e culturalmente così significativa, che l’Islam era confi­nato in secondo piano e le civiltà di tradizione cri­stiana si potevano configurare come la potenza vit­toriosa della storia mondiale. Poi è sopravvenuta la grande crisi morale del mondo occidentale, che è poi il mondo cristiano. Di fronte alle profonde contraddizioni dell’Occidente e alla sua confusione interiore — di fronte alla quale contemporanea­mente si sviluppava una nuova potenza economi­ca dei paesi arabi — si è risvegliata l’anima isla­mica: siamo noi che abbiamo una identità miglio­re, la nostra religione resiste, voi non ne avete più nessuna.
Oggi sono proprio questi i sentimenti del mon­do musulmano: i paesi occidentali non sono più in grado di portare nessun messaggio di caratte­re morale, hanno da offrire al mondo solo know-­how; la religione cristiana ha abdicato, non esiste più come religione; i cristiani non hanno più mo­rale né fede, ci sono solo i resti di qualche moder­na idea illuministica; noi abbiamo la religione che resiste.
Così i musulmani hanno ora la consapevolezza che l’Islam, alla fine, è davvero rimasto sulla sce­na come la religione più vitale, che essi hanno da dire al mondo qualcosa e che sono dunque la ve­ra forza religiosa del futuro. Prima la Sari’a e tutto il resto erano usciti di scena, ora c’è il nuovo or­goglio. Così si è risvegliato un nuovo entusiasmo,
una nuova intensità nel voler vivere l’Islam. Que­sta è la sua grande forza: abbiamo un messag­gio morale, che è ininterrotto dall’epoca dei pro­feti, e diremo al mondo come si può vivere, i cri­stiani non lo possono più fare. Con questa forza interiore dell’Islam, che sta affascinando anche gli ambienti accademici, dobbiamo sicuramente con­frontarci.
(da J.Ratzinger, Il sale della terra, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1997, pag.275-278)

La moderna idea di libertà è perciò un legittimo prodotto dello spazio vitale cristiano; essa non poteva svilupparsi in nessun altro ambito se non in esso. Bisogna anzi aggiungere: essa non è affatto impiantabile in qualsiasi altro sistema, come si può oggi constatare con chiara evidenza nella rinascita dell’islam. Il tentativo di innestare i cosiddetti criteri occidentali, staccati dal loro fondamento cristiano, nelle società islamiche, misconosce la logica interna dell’islam come la logica storica cui appartengono i criteri occidentali.
Un tale tentativo era perciò destinato al fallimento in questa forma. La costruzione sociale dell’islam è teocratica, quindi monistica, non dualistica. Il dualismo che è la condizione previa della libertà presuppone a sua volta la logica cristiana. Dal punto di vista pratico, ciò sta a significare: solo lì dove è preservato il dualismo di Chiesa e Stato, di istanza sacrale e politica, vi è la condizione fondamentale per la libertà. Dove la Chiesa diviene essa stessa Stato, la libertà va perduta. Ma anche lì dove la Chiesa viene soppressa come istanza pubblica e pubblicamente rilevante, viene a cadere la libertà, perché lì lo Stato reclama di nuovo per sé la fondazione dell’etica. Nel mondo profano, post-cristiano lo Stato avanza questa istanza non nella forma di autorità sacrale, ma come autorità ideologica, cioé lo stato si fa partito e dato che non gli si può contrapporre nessuna altra istanza con un suo proprio ruolo, esso stesso diventa nuovamente totalitario. Lo stato ideologico è totalitario; esso deve diventare ideologico quando non si dà nei suoi confronti una autorità libera e pubblicamente riconosciuta.
(da Teologia e politica della Chiesa in Chiesa, ecumenismo e politica, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1987, pag.156)

Naturalmente dobbiamo rispettare gli stati islamici, la loro religione, ma tuttavia anche chiedere la libertà di coscienza di quanti vogliono farsi cristiani e con coraggio dobbiamo anche assistere queste persone, proprio se siamo convinti che hanno trovato qualcosa che è la risposta vera. Non dobbiamo lasciarli soli. Si deve fare tutto il possibile perché possano in libertà e con pace vivere quanto hanno trovato nella religione cristiana.
(dal sito www.chiesa.espressonline.it, Fede, verità, tolleranza. Un´intervista di Ratzinger sul suo ultimo libro a cura di Antonio Socci. Parti di questa intervista sono state trasmesse in "Excalibur" del 20 novembre 2003 e pubblicate in "Il Giornale" del 26 novembre 2003)

L'islam non esiste come un blocco. Non c'è un magistero dell'islam, né delle costituzioni centralizzate dell'islam. Il Corano fornisce certo un riferimento comune al mondo islamico. Ma da luogo a interpretazioni differenti, e l'islam si incarna in contesti culturali diversi, dall'Indonesia all'India, dal Medio-Oriente all'Africa. Quindi il mondo islamico non è un blocco e non cancella i caratteri nazionali: ci sono dei paesi a maggioranza islamica che sono molto tolleranti e altri che escludono più o meno il cristianesimo.
Oggi, l'islam è molto presente in Europa. E sembra che si manifesti un certo disprezzo presso coloro che sostengono che l'Occidente ha perso la sua coscienza morale. Per esempio, se il matrimonio e l'omosessualità sono considerati come equivalenti, se l'ateismo si trasforma in diritto alla bestemmia, notoriamente nell'arte, questi fatti sono orribili per i musulmani. Perciò, c'è l'impressione diffusa nel mondo islamico, che il cristianesimo è morente, che l'Occidente è decadente. E il sentimento che solo l'islam porta la luce della fede e della moralità. Una parte dei musulmani vede in questo caso una opposizione fondamentale tra il mondo occidentale, e il suo relativismo morale e religioso, e il mondo islamico.
Parlare di un confronto di culture, è in certi casi vero: nel disprezzo verso l'Occidente troviamo le conseguenze del passato durante il quale l'islam ha subito il dominio dei paesi europei. Ci si può allora imbattere in un fanatismo terribile. È una delle facce dell'islam, non è tutto l'islam. Esistono anche dei musulmani che desiderano un dialogo pacifico con i cristiani. Di conseguenza, è importante giudicare i differenti aspetti di una situazione che è preoccupante per tutte le parti in questione.
(intervista rilasciata a Jean Sévilla per LE FIGARO del 17.11.2001)



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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