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Conferenze sugli scritti di Joseph Ratzinger

Ultimo Aggiornamento: 15/01/2018 11:33
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15/01/2018 11:33
 
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Come una sintesi: il cristianesimo oggi

Si è detto che il 1989 non portò nuove risposte, bensì si limitò ad acuire le perplessità e ad alimentare lo scetticismo nei confronti dei grandi ideali. Qualcosa accadde, tuttavia. La religione tornò a essere un fenomeno moderno.
Non solo si cessò di auspicarne la scomparsa, ma si assistette addirittura a una sua proliferazione in forme diverse. Nell’opprimente solitudine di un mondo rimasto privo di Dio, nella sua monotonia, la ricerca della mistica, di una relazione con il divino, tornò a sbocciare
. Dovunque si parli di visioni e messaggi dal mondo ultraterreno e dovunque si senta pronunciare la parola ‘apparizione’, si dirigono migliaia di persone, forse nella speranza di scoprire nel mondo uno spiraglio attraverso cui guardare al cielo e trovare conforto. Si lamenta il fatto che questo nuovo bisogno di religiosità ignori le chiese cristiane tradizionali. L’istituzione fa problema, il dogma fa problema. Si cerca l’esperienza vissuta, l’esperienza del totalmente altro. Personalmente non vorrei aderire senza riserve a questa lamentela. Nelle grandi giornate mondiali della gioventù, come l’ultima a Parigi, la fede diventa esperienza e regala la gioia di sentirsi comunità. Qualcosa di estatico, nel senso buono del termine, viene condiviso. All’estasi tetra e distruttiva della droga, dei ritmi martellanti della musica moderna, del frastuono e dell’ebbrezza si oppone l’estasi splendente della luce, del gioioso incontro nel sole di Dio. Non si direbbe un fenomeno passeggero, sebbene i fenomeni passeggeri siano senza dubbio abbastanza frequenti. Oppure potrebbe trattarsi di un momento destinato a farsi cammino, a indicare un percorso. Lo stesso accade per i movimenti che sono emersi numerosi negli ultimi decenni: anche in questi casi la fede si sperimenta come forma di vita, gioia di mettersi in cammino e di partecipare del mistero del lievito che tutto penetra e rinnova dall’interno.

 Alla fine anche i luoghi delle apparizioni potrebbero, purché intrinsecamente sani, diventare occasioni per iniziare una ricerca nuova e sobria di Dio. Chi si aspettava che il cristianesimo si sarebbe trasformato in un movimento di massa ha capito di essersi sbagliato: non sono i movimenti di massa a racchiudere in sé promesse per il futuro. Il futuro nasce quando delle persone si incontrano su convinzioni comuni, capaci di dar forma all’esistenza. E il futuro cresce positivo se queste convinzioni scaturiscono dalla verità e alla verità conducono.

La riscoperta della religione, tuttavia, mostra un’altra faccia della medaglia. Si è detto che questa riscoperta tende alla religione come esperienza di vita, che un aspetto considerato importante è il lato ‘mistico’ della religione, la religione intesa come incontro tangibile con il totalmente Altro. Nel contesto storico in cui viviamo ciò significa che le religioni mistiche dell’Asia (parte dell’induismo e del buddismo) sembrano più adatte, per il loro rifiuto del dogmatismo e la loro struttura limitatamente istituzionalizzata, ad un’umanità illuminata rispetto al cristianesimo, organizzato com’è in forme istituzionali e ben definito da contenuti dogmatici.

È anche vero che un po’ ovunque le religioni sono sottoposte oggigiorno a una relativizzazione, per cui, al di là delle differenze o delle contraddizioni, sotto le varie figure a interessare la gente in fin dei conti è soltanto l’aspetto interiore di tutte le diverse forme, l’incontro con l’indicibile, con il mistero nascosto. E vi è accordo sul fatto che questo mistero non si mostra totalmente in nessuna forma di rivelazione, ma rimane piuttosto sparso e frammentario, e tuttavia come unico e medesimo è ricercato e agognato. Che sia impossibile per l’uomo conoscere Dio e che tutto quanto è detto e rappresentato non possa essere che un simbolo è una delle certezze di fondo dell’uomo moderno, da lui in qualche modo intesa anche come atteggiamento di umiltà di fronte all’infinito. A questa relativizzazione si ricollega l’idea della grande armonia delle religioni, che reciprocamente si riconoscono come modi diversi di rappresentare l’unico Eterno e che dovrebbero lasciare all’uomo la libertà di scegliere quali vie percorrere per raggiungere ciò che le unisce tutte. In questo processo di relativizzazione sono decisamente sottoposti a una modificazione soprattutto due aspetti fondamentali della fede cristiana, vale a dire:


1. La figura del Cristo viene spiegata in termini completamente diversi non solo rispetto al dogma, ma rispetto agli stessi vangeli. A essere accantonata, cioè, è la fede che Cristo sia il figlio unico di Dio, che in lui Dio si sia realmente fatto uomo tra gli uomini e che l’uomo Gesù sia eternamente in Dio, sia Dio stesso, quindi non una forma di manifestazione di Dio, bensì il Dio unico e insostituibile. Cristo, cioè, da uomo che è Dio diventa uomo che ha sperimentato Dio in modo speciale. Egli è un illuminato e, in quanto tale, non più sostanzialmente diverso rispetto ad altri illuminati, come il Buddha. Con questa interpretazione, però, la figura di Gesù viene a perdere la sua logica intrinseca. Strappata alle sue radici storiche, essa viene compressa in uno schema che le è estraneo. Il Buddha, in ciò paragonabile tra l’altro a Socrate, allontana da sé le attenzioni: non è la sua persona a essere importante, ma solo ed esclusivamente la via da lui mostrata. Chi trova la via può dimenticare il Buddha. Al contrario, nel caso di Gesù è la sua persona a essere importante. Nel suo «Io sono» riecheggia l’«Io sono» pronunciato da Dio sul monte Oreb. La via consiste proprio nel seguire Gesù, poiché: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6).

Egli stesso è la via; non esiste alcuna via indipendentemente da lui; non esiste un cammino lungo il quale egli non conti più nulla. Se il messaggio lasciato da Gesù non è una dottrina, bensì la sua stessa persona, non si può non riconoscere in questo Io di Gesù un rimando al Tu del Padre; quindi un Io importante in quanto realmente ‘via’, non in quanto Io in sé. «La mia dottrina non è mia» (Gv 7,16). «Io non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 5,30). L’Io è importante perché coinvolge l’uomo nella dinamica della missione, perché porta l’uomo a superare se stesso e a unirsi con colui per il quale è stato creato. Se la figura di Gesù viene sottratta a questo ordine di grandezza, che certamente provoca sempre scandalo, se viene separata dall’essere Dio, essa diventa allora contraddittoria: rimarrebbero solo dei frammenti che ci lascerebbero perplessi o si tradurrebbero in pretesti per indulgere nell’autoaffermazione.


2. Il concetto di Dio cambia in maniera sostanziale. Il problema se Dio debba essere concepito come persona o in modo apersonale passa in secondo piano. Viene a cadere anche l’ultima fondamentale differenza tra le religioni teisti che e non teistiche. E questa prospettiva si sta diffondendo con una rapidità sorprendente.Anche i cattolici credenti e formati nella tradizione teologica, che desiderano condividere la vita della chiesa, chiedono con molta spontaneità: È davvero così importante pensare Dio come persona o pensarlo in modo impersonale? L’idea di fondo è che l’uomo dovrebbe essere il più possibile di larghe vedute, poiché il mistero di Dio sfugge comunque a tutti i concetti e a tutte le rappresentazioni. In questo modo, tuttavia, si colpisce il cuore stesso della fede biblica. Lo ‘Shema’, ossia l’«Ascolta Israele» del Deuteronomio (Dt 6,4-9), è e rimane l’autentico fulcro dell’identità religiosa non soltanto di Israele, ma dell’intera cristianità. Con questa parola muore l’ebreo credente, i martiri ebrei hanno esalato l’ultimo respiro con essa e per essa: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo». Che poi questo Dio ci mostri in Gesù Cristo il suo volto (Gv 14,9), che Mosè non poteva vedere (Es 33,20), nulla cambia di questa professione di fede, nulla cambia della sostanza di tale identità. 

Nella Bibbia ovviamente non vi è un riferimento esplicito a Dio come persona nella forma del concetto, ma nella forma che Dio ha un nome. L’esistenza di un nome presuppone la possibilità di chiamare qualcuno, la possibilità di parlare, di ascoltare, di rispondere. 

Per l’immagine biblica di Dio questo aspetto è essenziale; eliminarlo equivarrebbe ad allontanarsi dalla fede della Bibbia. È indubbio che sono esistiti ed esistono tutt’oggi modi sbagliati e superficiali di concepire Dio come persona. Ogniqualvolta associamo a Dio l’idea di persona, la differenza tra la nostra idea di persona e la realtà di Dio è sempre infinitamente più grande di quanto esse hanno in comune, come ebbe modo di spiegare il IV concilio Lateranense a proposito del parlare di Dio. Gli abusi del concetto di persona si verificano sempre e immancabilmente quando Dio viene sfruttato per il proprio tornaconto e così il suo nome viene profanato: il secondo comandamento, che vieta di pronunciare invano il nome di Dio, non è la conseguenza diretta del primo, che ci insegna ad adorare Dio. A tale riguardo c’è sempre e continuamente da imparare dal discorso di Dio proprio delle religioni ‘mistiche’, con la loro teologia puramente negativa; per questo, inoltre, esistono cammini diversi per raggiungere Dio. Ma, quando scompare ciò che si intende con ‘nome di Dio’, ossia quando Dio è privato del suo essere persona, il suo nome viene pronunciato invano e cessa di essere onorato: esso, in sostanza, viene abbandonato.

Che cosa si intende con le espressioni ‘nome di Dio’ e ‘essere persona’? Questo, per l’appunto: non solo che è possibile fare esperienza di Dio al di là di ogni altra esperienza, ma che Dio stesso può manifestarsi, può comunicarsi. Nelle religioni, come il buddismo, dove Dio è concepito in maniera del tutto impersonale, ossia come nulla assoluto rispetto a quel tutto che l’uomo è in grado di cogliere come reale, non può esservi una relazione positiva ‘di Dio’ con il mondo. E il mondo diventa una valle di lacrime non più a cui dar forma, bensì da superare. In questi casi, anziché fornire dei criteri per poter vivere nel mondo, dei modelli di responsabilità sociale a cui ispirarsi, la religione suggerisce la via per travalicare il mondo terreno, la via della liberazione dal fardello delle apparenzeNell’induismo il discorso è diverso. L’essenziale è l’esperienza dell’identità: nel mio intimo io sono tutt’uno con il fondamento nascosto della realtà stessa, il celebre tat tvam asi delle Upanishad. La redenzione consiste nella liberazione dall’individuazione, dall’essere persona, nel superamento della distinzione, fondata sull’essere- persona, rispetto a tutto ciò che esiste: è necessario, cioè, eliminare l’illusione del Sé oltre se stesso. Il problema di questa prospettiva dell’essere è percepito molto acutamente nel neoinduismo. Se viene a mancare il concetto di unicità delle persone, non è più possibile fondare e difendere l’inviolabilità della dignità di ogni singola persona. Alla luce del cammino di riforma intrapreso in India (soppressione della legge sulle caste, abolizione del sacrificio della vedova, ecc.) era necessario prendere le distanze da questo punto di vista e riportare nella compagine del pensiero indiano il concetto di persona, così come esso si è sviluppato nella dottrina cristiana a partire dall’incontro con il Dio personale. In questo caso la ricerca della ‘prassi’ corretta, del retto agire, ha dato le mosse a una correzione della ‘teoria’: non è difficile, allora, guardare un po’ oltre e capire quanto sia ‘pratica’ la fede cristiana e quanto sia sbagliato liquidare come irrilevanti i grossi interrogativi sulle differenze.
Queste riflessioni portano fino al punto in cui viene oggi a inserirsi questa Introduzione al cristianesimo. Prima di tentare di sviluppare ulteriormente la prospettiva indicata, è forse necessario fare riferimento ancora alla situazione attuale della fede in Dio e in Cristo. Oggi si teme un ‘imperialismo’ cristiano e si professa una nostalgia per la splendida molteplicità delle religioni, per la serenità e la libertà che queste presumibilmente manifestavano all’origine. Il colonialismo sarebbe strettamente legato all’essenza del cristianesimo storico, che si dice non disposto ad accettare l’altro nella sua alterità e propenso a prendere tutto sotto la propria custodia. Le religioni e le culture dell’America Latina, quindi, sarebbero state calpestate e schiacciate, e sarebbe stata fatta violenza all’anima dei popoli che non si ritrovavano nel nuovo e a cui era stato estorto il vecchio. La gamma di possibili interpretazioni oscilla dalle più clementi alle più severe. Secondo il giudizio più moderato, bisognerebbe accordare alle culture sommerse il diritto ad avere una loro patria nella fede cristiana e lasciare che si sviluppi una forma di cristianesimo autoctono. Secondo l’interpretazione più radicale, al contrario, il cristianesimo sarebbe per i popoli indigeni una forma di alienazione, da cui scaturirebbe un bisogno di affrancamento. Per quanto riguarda la promozione di un cristianesimo autoctono, questa deve essere intrapresa, beninteso, come un compito di vitale importanza. Tutte le grandi culture sono aperte l’una all’altra. Tutte hanno un contributo da dare al vestito di «gemme e tessuto d’oro» della figlia del re a cui accenna il Salmo 44, in cui i Padri riconoscono la chiesa. Senz’altro qualcosa è andato perduto e deve essere ricostruito. Non va dimenticato, tuttavia, che quei popoli hanno già trovato nella devozione popolare una propria espressione di fede cristiana. Il fatto che immagini chiave della fede, capaci di aprire le porte al Dio della Bibbia, siano diventate per loro il Dio sofferente e la Madre benevola deve suggerire qualcosa anche a noi e anche ai nostri giorni. Ovviamente, molto rimane ancora da fare.

Torniamo alla questione di Dio e di Cristo come fulcro di un’introduzione alla fede cristiana. Una cosa, ormai, è chiara: la dimensione mistica del concetto di Dio, che dalle religioni dell’Asia perviene a noi come appello, deve contraddistinguere nettamente anche il nostro pensiero e la nostra fede. Dio si è fatto concreto in Cristo e in questo modo anche il suo mistero è diventato più profondo. Dio è sempre infinitamente più grande di qualsiasi nostra definizione e di qualsiasi nostro tentativo di dargli un’immagine o un nome. Il fatto di riconoscere Dio come trino non significa sapere tutto di lui, al contrario: questa è la dimostrazione di quanto sia limitata la nostra conoscenza e di quanto sia povera la nostra capacità di comprendere o abbracciare la natura divina. Se oggi, dopo gli orrori dei regimi totalitari (penso al monumento commemorativo di Auschwitz), su noi tutti grava la cocente questione della teodicea, ancora una volta è evidente quanto sia modesta la nostra capacità di definire Dio, se non addirittura di scrutarlo. La risposta di Dio a Giobbe non serve a spiegare, bensì soltanto a correggere la nostra illusione di poter giudicare tutto e di poter sentenziare su tutto, e a ricordarci i nostri limiti. Essa esorta i fedeli a credere al mistero divino nella sua incomprensibilità.
A questo punto è bene anche mettere in evidenza, attraverso le tenebre, la luminosità di Dio. Il prologo di Giovanni presenta l’idea del Lógos come centrale alla fede cristiana in Dio. Il termine lógos significa ragione, senso, ma anche parola; quindi, un senso che è parola, che è relazione, che è creativo. Dio, che è Lógos, assicura all’uomo la sensatezza del mondo, la sensatezza dell’esistere, la corrispondenza di Dio alla ragione e la corrispondenza della ragione a Dio, sebbene la sua ragione travalichi continuamente la nostra e spesso possa sembrarci oscura. Il mondo nasce dalla ragione e questa ragione è persona, amore: è questo il messaggio della fede biblica in Dio. La ragione può parlare di Dio, deve anzi parlare di Dio, se non vuole amputare se stessa. Alla ragione è legata l’idea della creazione. Il mondo non è soltanto maya, apparenza, che l’uomo deve, da ultimo, lasciarsi alle spalle. Il mondo non si riduce all’infinita ruota delle sofferenze, a cui l’uomo deve cercare di sottrarsi. Il mondo è positivo. Nonostante tutto il male in esso contenuto e nonostante tutte le pene sofferte, il mondo è buono ed è cosa buona viverci. Dio, che è creatore e che si esprime attraverso la sua creazione, dà un orientamento e una misura anche all’operare umano. Oggi l’umanità vive la crisi dell’etica, che da tempo ha smesso di essere mera questione accademica per diventare una questione del tutto pratica. Che l’etica sia, in fin dei conti, ingiustificabile è un concetto che si sta diffondendo e che inizia ad avere un certo impatto. Sul tema dell’etica si sprecano fiumi di inchiostro, un fenomeno che, da un lato, testimonia dell’attualità del problema e, dall’altro, dimostra la confusione imperante attorno a noi in questo momento. Nel suo percorso filosofico Kolakowski ha richiamato molto energicamente l’attenzione sul fatto che la cancellazione della fede in Dio, gira e rigira, finisce per togliere fondamento all’etica. Se il mondo e l’essere umano non derivano da una ragione creatrice che in sé ne racchiude la misura e che la iscrive nell’esistenza umana, non rimangono che le regole del comportamento umano, che vengono ideate e giustificate in base alla loro utilità. Non rimane che il calcolo degli effetti, ciò che viene denominato proporzionalismo o etica teleologica. Ma chi può veramente giudicare gli effetti del momento? Non c’è il rischio che una nuova classe dominante si appropri della chiave dell’esistenza, della gestione dell’essere umano? Se tutto si riduce al calcolo degli effetti, la dignità umana non ha più senso di esistere, perché niente è più in se stesso buono o cattivo. Il problema dell’etica è all’ordine del giorno e deve essere affrontato con la massima urgenza. La fede nel Lógos, nella parola originaria, concepisce l’etica come re-sponsabilità, come capacità di rispondere alla parola, e conferisce alla parola la sua razionalità come suo orientamento fondamentale. In questo modo essa si impegna anche a ricercare una comune comprensione della responsabilità con una ragione investigativa e con le grandi tradizioni religiose dell’umanità. Non esiste soltanto la vicinanza interiore delle tre grandi fedi monoteistiche; esistono anche le significative convergenze con un’altra matassa della religiosità asiatica, che porta al confucianesimo e al taoismo.
Se per l’immagine cristiana di Dio il termine lógos – inteso come parola originaria, ragione creatrice e amore – è determinante e se il concetto di lógos costituisce al tempo stesso il fulcro della cristologia, della fede in Cristo, ancora una volta non resta che confermare l’inscindibilità tra fede in Dio e fede nel suo figlio Gesù Cristo fattosi uomo. Racchiudere tra parentesi la fede nella divinità di Gesù non serve a capire meglio Gesù e ad avvicinarsi di più a lui. Al giorno d’oggi è alquanto diffuso il timore che la fede nella sua divinità ce lo renda estraneo. E, tuttavia, non è soltanto per far piacere alle altre religioni che si vorrebbe scrivere questa convinzione a caratteri minuscoli. Tali timori sono, innanzitutto, tipici della nostra società occidentale. È come se tutto ciò non si addicesse alla moderna visione del mondo. Potrebbe trattarsi soltanto di mitizzazioni, trasformate in metafisica dallo spirito greco. Ma, se separiamo Cristo da Dio, diventa lecito dubitare che Dio possa esserci così vicino, che possa chinarsi tanto verso di noi. Sembra un atto di umiltà il fatto di non volere questo. Tuttavia, a buon diritto Romano Guardini ha richiamato l’attenzione sul fatto che, invece, la forma più alta di umiltà consiste nel lasciare a Dio la libertà di fare anche ciò che all’uomo appare inopportuno e nell’inchinarsi dinanzi a ciò che Dio compie e non a ciò che l’uomo si immagina oltre lui e al suo posto. Dall’idea della lontananza di Dio dal mondo, sottesa a questo nostro realismo apparentemente umile, scaturisce una perdita della presenza di Dio. Se Dio non è in Cristo, egli ritorna a dimorare in una lontananza incommensurabile; e se Dio cessa di essere un Dio in mezzo agli uomini, egli diventa un Dio assente e, per conseguenza, un non-Dio: giacché un Dio privato della capacità di agire non è Dio. Per quanto concerne il timore che Gesù, a causa della fede nella sua figliolanza divina, si allontani da noi uomini, in realtà è vero il contrario: e, cioè, se Gesù è stato un semplice uomo, egli appartiene irrevocabilmente al passato e può essere percepito, con maggiore o minore chiarezza, solo attraverso un lontano ricordo. Se, al contrario, Dio si è realmente fatto uomo e, quindi, in Gesù Cristo è al tempo stesso vero uomo e vero Dio, Gesù partecipa come uomo del presente di Dio, che abbraccia tutti i tempi. Allora e soltanto allora Dio non è mero passato, ma è presente tra gli uomini, nostro contemporaneo nel nostro oggi. Perciò, e di questo sono assolutamente convinto, un rinnovamento della cristologia deve avere il coraggio di concepire il Cristo in tutta la sua grandezza, così come ce lo mostrano i quattro vangeli presi assieme, nella loro unità carica di tensione.
(da Introduzione al cristianesimo. Ieri, oggi, domani, nuova prefazione dell’aprile 2000 al volume Introduzione al cristianesimo)

Desidero fare tre osservazioni.

La prima: l'incontro tra le religioni non può avvenire nella rinuncia alla verità, ma è possibile solo mediante il suo approfondimento. Lo scetticismo non unisce. E nemmeno il puro pragmatismo unisce. Ambedue le posizioni non fanno che aprire la porta alle ideologie che, poi, si presentano in maniera ancor più sicura di sé.
La rinuncia alla verità e alla convinzione non innalza l'uomo, ma lo consegna al calcolo dell'utile, privandolo della sua grandezza.
Vanno incoraggiati invece il rispetto profondo per la fede dell'altro e la disponibilità a cercare, in ciò che incontriamo come estraneo, la verità che ci può concernere e può correggerci e farci progredire. Va incoraggiata la disponibilità a cercare, dietro alle manifestazioni che ci possono sembrare strane, il significato più profondo che si cela in esse.

Seconda osservazione: se le cose stanno così, se bisogna cioè cercare sempre il positivo anche nell'altro e se, quindi, anche l' altro deve diventare per me un aiuto sulla strada verso la verità, non può e non deve mancare però l'elemento critico. La religione custodisce la preziosa perla della verità, ma al tempo stesso la occulta ed è sempre esposta al rischio di perdere la propria natura. La religione può ammalarsi e divenire un fenomeno distruttivo. Essa può e deve portare alla verità, ma può anche allontanare l'uomo da essa. La critica della religione presente nell' Antico Testamento oggi non ha affatto perso la sua fondatezza. Può risultare relativamente facile porsi in un atteggiamento critico nei confronti di un'altra religione, ma dobbiamo anche essere pronti ad accogliere critiche rivolte a noi stessi, alla nostra stessa religione.

Karl Barth ha operato una distinzione nel cristianesimo tra religione e fede. Ha avuto torto a voler separare del tutto queste due realtà, considerando positivamente la fede e negativamente la religione. La fede senza la religione è irreale, essa implica la religione, e la fede cristiana deve, per sua natura, vivere come religione. Ma ha avuto ragione ad affermare che anche fra i cristiani la religione può corrompersi e trasformarsi in superstizione, ad affermare, cioè, che la religione concreta, in cui la fede viene vissuta, deve essere continuamente purificata a partire dalla verità che si manifesta nella fede e che, d'altra parte, nel dialogo fa nuovamente riconoscere il proprio mistero e la propria infinitezza.

Terza osservazione: significa questo che la missione deve venir meno ed essere sostituita dal dialogo, in cui ciò che conta non è la verità ma l'aiutarsi reciprocamente a diventare migliori cristiani, ebrei, musulmani, induisti o buddhisti? Rispondo di no. Questa sarebbe infatti la completa assenza di convinzioni, in cui - con il pretesto di convalidare ciò che ciascuno ha di meglio - non prenderemmo sul serio né noi né gli altri e rinunceremmo definitivamente alla verità. La risposta mi sembra essere piuttosto che missione e dialogo non devono più essere forme contrapposte, ma compenetrarsi reciprocamente.
Il dialogo non è un intrattenimento senza scopo, ma ha di mira la persuasione, la scoperta della verità, altrimenti è senza valore. Dall' altro canto la missione in futuro non può più essere compiuta come se si comunicasse con un soggetto fino a quel momento privo di qualunque conoscenza di Dio, a cui deve credere.

Per questo l'annuncio deve necessariamente diventare un processo dialogico. All'altro non si dice qualcosa di completamente ignoto, ma si dischiude la profondità nascosta di ciò che egli ha già sperimentato nella sua fede.
(da Il dialogo delle religioni ed il rapporto tra ebrei e cristiani, in La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000, pag.71-73)




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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