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Benedetto XVI - Udienze Mercoledì Anno 2012-2013

Ultimo Aggiornamento: 12/04/2023 13:36
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12/04/2023 11:39
 
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UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 25 gennaio 2012

Cari fratelli e sorelle,

nella Catechesi di oggi concentriamo la nostra attenzione sulla preghiera che Gesù rivolge al Padre nell'«Ora» del suo innalzamento e della sua glorificazione (cfr Gv 17,1-26). Come afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica: «La tradizione cristiana a ragione la definisce la “preghiera sacerdotale” di Gesù. E' quella del nostro Sommo Sacerdote, è inseparabile dal suo Sacrificio, dal suo “passaggio” [pasqua] al Padre, dove egli è interamente “consacrato” al Padre» (n. 2747).

Questa preghiera di Gesù è comprensibile nella sua estrema ricchezza soprattutto se la collochiamo sullo sfondo della festa giudaica dell’espiazione, lo Yom kippùr. In quel giorno il Sommo Sacerdote compie l’espiazione prima per sé, poi per la classe sacerdotale e infine per l’intera comunità del popolo. Lo scopo è quello di ridare al popolo di Israele, dopo le trasgressioni di un anno, la consapevolezza della riconciliazione con Dio, la consapevolezza di essere popolo eletto, «popolo santo» in mezzo agli altri popoli. La preghiera di Gesù, presentata nel capitolo 17 del Vangelo secondo Giovanni, riprende la struttura di questa festa. Gesù in quella notte si rivolge al Padre nel momento in cui sta offrendo se stesso. Egli, sacerdote e vittima, prega per sé, per gli apostoli e per tutti coloro che crederanno in Lui, per la Chiesa di tutti i tempi (cfr Gv 17,20).

La preghiera che Gesù fa per se stesso è la richiesta della propria glorificazione, del proprio «innalzamento» nella sua «Ora». In realtà è più di una domanda e della dichiarazione di piena disponibilità ad entrare, liberamente e generosamente, nel disegno di Dio Padre che si compie nell’essere consegnato e nella morte e risurrezione. Questa “Ora” è iniziata con il tradimento di Giuda (cfr Gv 13,31) e culminerà nella salita di Gesù risorto al Padre (Gv 20,17). L’uscita di Giuda dal cenacolo è commentata da Gesù con queste parole: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui» (Gv 13,31). Non a caso, Egli inizia la preghiera sacerdotale dicendo: «Padre, è venuta l’ora: glorifica il Figlio tuo perché il Figlio glorifichi te» (Gv 17,1). La glorificazione che Gesù chiede per se stesso, quale Sommo Sacerdote, è l'ingresso nella piena obbedienza al Padre, un'obbedienza che lo conduce alla sua più piena condizione filiale: «E ora, Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse» (Gv 17,5). Sono questa disponibilità e questa richiesta il primo atto del sacerdozio nuovo di Gesù che è un donarsi totalmente sulla croce, e proprio sulla croce - il supremo atto di amore – Egli è glorificato, perché l'amore è la gloria vera, la gloria divina.

Il secondo momento di questa preghiera è l’intercessione che Gesù fa per i discepoli che sono stati con Lui. Essi sono coloro dei quali Gesù può dire al Padre: «Ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo. Erano tuoi e li hai dati a me, ed essi hanno osservato la tua parola» (Gv 17,6). «Manifestare il nome di Dio agli uomini» è la realizzazione di una presenza nuova del Padre in mezzo al popolo, all’umanità. Questo “manifestare” è non solo una parola, ma è realtà in Gesù; Dio è con noi, e così il nome - la sua presenza con noi, l’essere uno di noi - è “realizzato”.  Quindi questa manifestazione si realizza nell’incarnazione del Verbo. In Gesù Dio entra nella carne umana, si fa vicino in modo unico e nuovo. E questa presenza ha il suo vertice nel sacrificio che Gesù realizza nella sua Pasqua di morte e risurrezione.

Al centro di questa preghiera di intercessione e di espiazione a favore dei discepoli sta la richiesta di consacrazione; Gesù dice al Padre: «Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. Consacrali nella verità. La tua parola è verità. Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità» (Gv 17,16-19). Domando: cosa significa «consacrare» in questo caso? Anzitutto bisogna dire che «Consacrato» o «Santo», è propriamente solo Dio. Consacrare quindi vuol dire trasferire una realtà – una persona o cosa – nella proprietà di Dio. E in questo sono presenti due aspetti complementari: da una parte togliere dalle cose comuni, segregare, “mettere a parte” dall’ambiente della vita personale dell’uomo per essere donati totalmente a Dio; e dall’altra questa segregazione, questo trasferimento alla sfera di Dio, ha il significato proprio di «invio», di missione: proprio perché donata a Dio, la realtà, la persona consacrata esiste «per» gli altri, è donata agli altri. Donare a Dio vuol dire non essere più per se stessi, ma per tutti. E’ consacrato chi, come Gesù, è segregato dal mondo e messo a parte per Dio in vista di un compito e proprio per questo è pienamente a disposizione di tutti. Per i discepoli, sarà continuare la missione di Gesù, essere donato a Dio per essere così in missione per tutti. La sera di Pasqua, il Risorto, apparendo ai suoi discepoli, dirà loro: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (Gv 20,21).

Il terzo atto di questa preghiera sacerdotale distende lo sguardo fino alla fine del tempo. In essa Gesù si rivolge al Padre per intercedere a favore di tutti coloro che saranno portati alla fede mediante la missione inaugurata dagli apostoli e continuata nella storia: «Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola». Gesù prega per la Chiesa di tutti i tempi, prega anche per noi (Gv 17,20). Il Catechismo della Chiesa Cattolica commenta: «Gesù ha portato a pieno compimento l'opera del Padre, e la sua preghiera, come il suo Sacrificio, si estende fino alla consumazione dei tempi. La preghiera dell'Ora riempie gli ultimi tempi e li porta verso la loro consumazione» (n. 2749).

La richiesta centrale della preghiera sacerdotale di Gesù dedicata ai suoi discepoli di tutti i tempi è quella della futura unità di quanti crederanno in Lui. Tale unità non è un prodotto mondano. Essa proviene esclusivamente dall'unità divina e arriva a noi dal Padre mediante il Figlio e nello Spirito Santo. Gesù invoca un dono che proviene dal Cielo, e che ha il suo effetto – reale e percepibile – sulla terra. Egli prega «perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,21). L'unità dei cristiani da una parte è una realtà segreta che sta nel cuore delle persone credenti. Ma, al tempo stesso, essa deve apparire con tutta la chiarezza nella storia, deve apparire perché il mondo creda, ha uno scopo molto pratico e concreto deve apparire perchè tutti siano realmente una sola cosa. L'unità dei futuri discepoli, essendo unità con Gesù - che il Padre ha mandato nel mondo -, è anche la fonte originaria dell'efficacia della missione cristiana nel mondo.

«Possiamo dire che nella preghiera sacerdotale di Gesù si compie l'istituzione della Chiesa ... Proprio qui, nell'atto dell'ultima cena, Gesù crea la Chiesa. Perché, che altro è la Chiesa se non la comunità dei discepoli che, mediante la fede in Gesù Cristo come inviato del Padre, riceve la sua unità ed è coinvolta nella missione di Gesù di salvare il mondo conducendolo alla conoscenza di Dio? Qui troviamo realmente una vera definizione della Chiesa. La Chiesa nasce dalla preghiera di Gesù. E questa preghiera non è soltanto parola: è l'atto in cui egli «consacra» se stesso e cioè «si sacrifica» per la vita del mondo (cfr Gesù di Nazaret, II, 117s).

Gesù prega perché i suoi discepoli siano una cosa sola. In forza di tale unità, ricevuta e custodita, la Chiesa può camminare «nel mondo» senza essere «del mondo» (cfr Gv 17,16) e vivere la missione affidatale perché il mondo creda nel Figlio e nel Padre che lo ha mandato. La Chiesa diventa allora il luogo in cui continua la missione stessa di Cristo: condurre il «mondo» fuori dall’alienazione dell’uomo da Dio e da se stesso, fuori dal peccato, affinché ritorni ad essere il mondo di Dio.

Cari fratelli e sorelle, abbiamo colto qualche elemento della grande ricchezza della preghiera sacerdotale di Gesù, che vi invito a leggere e a meditare, perché ci guidi nel dialogo con il Signore, ci insegni a pregare. Anche noi, allora, nella nostra preghiera, chiediamo a Dio che ci aiuti ad entrare, in modo più pieno, nel progetto che ha su ciascuno di noi; chiediamoGli di essere «consacrati» a Lui, di appartenerGli sempre di più, per poter amare sempre di più gli altri, i vicini e i lontani; chiediamoGli di essere sempre capaci di aprire la nostra preghiera alle dimensioni del mondo, non chiudendola nella richiesta di aiuto per i nostri problemi, ma ricordando davanti al Signore il nostro prossimo, apprendendo la bellezza di intercedere per gli altri; chiediamoGli il dono dell’unità visibile tra tutti i credenti in Cristo - lo abbiamo invocato con forza in questa Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani - preghiamo per essere sempre pronti a rispondere a chiunque ci domandi ragione della speranza che è in noi (cfr 1Pt 3,15). Grazie.

Saluti:

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. Saluto le associazioni, i cori e gli studenti, in particolare quelli dell’Istituto Ecumenico Universitario di Bossey presenti per la visita di studio a Roma. Un caloroso saluto ai gruppi parrocchiali, in particolare a quello di San Nicola in Ozieri, dove viene intitolata una Piazza a Don Luigi Giussani e inaugurato oggi un Centro Culturale di educazione alla fede cristiana. A tutti l’auspicio che l’odierna Festa della Conversione di San Paolo stimoli ciascuno ad approfondire la Parola di Dio per poter annunciare, con il dialogo e con la testimonianza, che Gesù è il Salvatore.

Infine, un pensiero affettuoso ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. La Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, che oggi si conclude, ci offre l’opportunità di riflettere sulla nostra appartenenza a Cristo e alla Chiesa. Cari giovani, fidatevi degli insegnamenti della Chiesa, finalizzati alla vostra crescita integrale. Cari ammalati, offrite le vostre sofferenze per la causa dell’unità della Chiesa di Cristo. E voi, cari sposi novelli, educate i vostri figli secondo la logica dell’amore gratuito, sul modello dell’amore di Dio per l’umanità.


UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 1° febbraio 2012

Cari fratelli e sorelle,

oggi vorrei parlare della preghiera di Gesù al Getsemani, al Giardino degli Ulivi. Lo scenario della narrazione evangelica di questa preghiera è particolarmente significativo. Gesù si avvia al Monte degli Ulivi, dopo l'Ultima Cena, mentre sta pregando insieme con i suoi discepoli. Narra l’Evangelista Marco: «Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi» (14,26). Si allude probabilmente al canto di alcuni Salmi dell'hallèl con i quali si ringrazia Dio per la liberazione del popolo dalla schiavitù e si chiede il suo aiuto per le difficoltà e le minacce sempre nuove del presente. Il percorso fino al Getsemani è costellato di espressioni di Gesù che fanno sentire incombente il suo destino di morte e annunciano l'imminente dispersione dei discepoli.

Giunti al podere sul Monte degli Ulivi, anche quella notte Gesù si prepara alla preghiera personale. Ma questa volta avviene qualcosa di nuovo: sembra non voglia restare solo. Molte volte Gesù si ritirava in disparte dalla folla e dagli stessi discepoli, sostando «in luoghi deserti» (cfr Mc 1,35) o salendo «sul monte», dice san Marco (cfr Mc 6,46). Al Getsemani, invece, egli invita Pietro, Giacomo e Giovanni a stargli più vicino. Sono i discepoli che ha chiamato ad essere con Lui sul monte della Trasfigurazione (cfr Mc 9,2-13). Questa vicinanza dei tre durante la preghiera al Getsemani è significativa. Anche in quella notte Gesù pregherà il Padre «da solo», perché il suo rapporto con Lui è del tutto unico e singolare: è il rapporto del Figlio Unigenito. Si direbbe, anzi, che soprattutto in quella notte nessuno possa veramente avvicinarsi al Figlio, che si presenta al Padre nella sua identità assolutamente unica, esclusiva. Gesù però, pur giungendo «da solo» nel punto in cui si fermerà a pregare, vuole che almeno tre discepoli rimangano non lontani, in una relazione più stretta con Lui. Si tratta di una vicinanza spaziale, una richiesta di solidarietà nel momento in cui sente approssimarsi la morte, ma è soprattutto una vicinanza nella preghiera, per esprimere, in qualche modo, la sintonia con Lui, nel momento in cui si appresta a compiere fino in fondo la volontà del Padre, ed è un invito ad ogni discepolo a seguirlo nel cammino della Croce. L’Evangelista Marco narra: «Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Disse loro: “La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate”» (14,33-34).

Nella parola che rivolge ai tre, Gesù, ancora una volta, si esprime con il linguaggio dei Salmi: «La mia anima è triste», una espressione del Salmo 43 (cfr Sal 43,5). La dura determinazione «fino alla morte», poi, richiama una situazione vissuta da molti degli inviati di Dio nell’Antico Testamento ed espressa nella loro preghiera. Non di rado, infatti, seguire la missione loro affidata significa trovare ostilità, rifiuto, persecuzione. Mosè sente in modo drammatico la prova che subisce mentre guida il popolo nel deserto, e dice a Dio: «Non posso io da solo portare il peso di tutto questo popolo; è troppo pesante per me. Se mi devi trattare così, fammi morire piuttosto, fammi morire, se ho trovato grazia ai tuoi occhi» (Nm 11,14-15). Anche per il profeta Elia non è facile portare avanti il servizio a Dio e al suo popolo. Nel Primo Libro dei Re si narra: «Egli s’inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto una ginestra. Desideroso di morire, disse: “Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri”» (19,4).

Le parole di Gesù ai tre discepoli che vuole vicini durante la preghiera al Getsemani, rivelano come Egli provi paura e angoscia in quell'«Ora», sperimenti l’ultima profonda solitudine proprio mentre il disegno di Dio si sta attuando. E in tale paura e angoscia di Gesù è ricapitolato tutto l'orrore dell'uomo davanti alla propria morte, la certezza della sua inesorabilità e la percezione del peso del male che lambisce la nostra vita.

Dopo l’invito a restare e a vegliare in preghiera rivolto ai tre, Gesù «da solo» si rivolge al Padre. L’Evangelista Marco narra che Egli «andato un po’ innanzi, cadde a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse via da lui quell’ora» (14,35). Gesù cade faccia a terra: è una posizione della preghiera che esprime l’obbedienza alla volontà del Padre, l’abbandonarsi con piena fiducia a Lui. E’ un gesto che si ripete all’inizio della Celebrazione della Passione, il Venerdì Santo, come pure nella professione monastica e nelle Ordinazioni diaconale, presbiterale ed episcopale, per esprimere, nella preghiera, anche corporalmente, l’affidarsi completo a Dio, il confidare in Lui. Poi Gesù chiede al Padre che, se fosse possibile, passasse via da lui quest’ora. Non è solo la paura e l’angoscia dell’uomo davanti alla morte, ma è lo sconvolgimento del Figlio di Dio che vede la terribile massa del male che dovrà prendere su di Sé per superarlo, per privarlo di potere.

Cari amici, anche noi, nella preghiera dobbiamo essere capaci di portare davanti a Dio le nostre fatiche, la sofferenza di certe situazioni, di certe giornate, l’impegno quotidiano di seguirlo, di essere cristiani, e anche il peso del male che vediamo in noi e attorno a noi, perché Egli ci dia speranza, ci faccia sentire la sua vicinanza, ci doni un po’ di luce nel cammino della vita.

Gesù continua la sua preghiera: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14,36). In questa invocazione ci sono tre passaggi rivelatori. All'inizio abbiamo il raddoppiamento del termine con cui Gesù si rivolge a Dio: «Abbà! Padre!» (Mc 14,36a). Sappiamo bene che la parola aramaica Abbà è quella che veniva usata dal bambino per rivolgersi al papà ed esprime quindi il rapporto di Gesù con Dio Padre, un rapporto di tenerezza, di affetto, di fiducia, di abbandono. Nella parte centrale dell'invocazione c’è il secondo elemento: la consapevolezza dell'onnipotenza del Padre – «tutto è possibile a te» -, che introduce una richiesta in cui, ancora una volta, appare il dramma della volontà umana di Gesù davanti alla morte e al male: «allontana da me questo calice!». Ma c’è la terza espressione della preghiera di Gesù ed è quella decisiva, in cui la volontà umana aderisce pienamente alla volontà divina. Gesù, infatti, conclude dicendo con forza: «Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14,36c).
Nell'unità della persona divina del Figlio la volontà umana trova la sua piena realizzazione nell’abbandono totale dell’Io al Tu del Padre, chiamato Abbà.
San Massimo il Confessore afferma che dal momento della creazione dell’uomo e della donna, la volontà umana è orientata a quella divina ed è proprio nel “sì” a Dio che la volontà umana è pienamente libera e trova la sua realizzazione. Purtroppo, a causa del peccato, questo “sì” a Dio si è trasformato in opposizione: Adamo ed Eva hanno pensato che il “no” a Dio fosse il vertice della libertà, l’essere pienamente se stessi.
Gesù al Monte degli Ulivi riporta la volontà umana al “sì” pieno a Dio; in Lui la volontà naturale è pienamente integrata nell’orientamento che le dà la Persona Divina. Gesù vive la sua esistenza secondo il centro della sua Persona: il suo essere Figlio di Dio. La sua volontà umana è attirata dentro l’Io del Figlio, che si abbandona totalmente al Padre. Così Gesù ci dice che solo nel conformare la sua propria volontà a quella divina, l’essere umano arriva alla sua vera altezza, diventa “divino”; solo uscendo da sé, solo nel “sì” a Dio, si realizza il desiderio di Adamo, di noi tutti, quello di essere completamente liberi. E’ ciò che Gesù compie al Getsemani: trasferendo la volontà umana nella volontà divina nasce il vero uomo, e noi siamo redenti.

Il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica insegna sinteticamente: «La preghiera di Gesù durante la sua agonia nell'Orto del Getsemani e le sue ultime parole sulla Croce rivelano la profondità della sua preghiera filiale: Gesù porta a compimento il disegno d'amore del Padre e prende su di sé tutte le angosce dell'umanità, tutte le domande e le intercessioni della storia della salvezza. Egli le presenta al Padre che le accoglie e le esaudisce, al di là di ogni speranza, risuscitandolo dai morti» (n. 543). Davvero «in nessun'altra parte della Sacra Scrittura guardiamo così profondamente dentro il mistero interiore di Gesù come nella preghiera sul Monte degli Ulivi» (Gesù di Nazaret II, 177).

Cari fratelli e sorelle, ogni giorno nella preghiera del Padre nostro noi chiediamo al Signore: «sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra» (Mt 6,10). Riconosciamo, cioè, che c'è una volontà di Dio con noi e per noi, una volontà di Dio sulla nostra vita, che deve diventare ogni giorno di più il riferimento del nostro volere e del nostro essere; riconosciamo poi che è nel “cielo” dove si fa la volontà di Dio e che la “terra” diventa “cielo”, luogo della presenza dell’amore, della bontà, della verità, della bellezza divina, solo se in essa viene fatta la volontà di Dio. Nella preghiera di Gesù al Padre, in quella notte terribile e stupenda del Getsemani, la “terra” è diventata “cielo”; la “terra” della sua volontà umana, scossa dalla paura e dall’angoscia, è stata assunta dalla sua volontà divina, così che la volontà di Dio si è compiuta sulla terra. E questo è importante anche nella nostra preghiera: dobbiamo imparare ad affidarci di più alla Provvidenza divina, chiedere a Dio la forza di uscire da noi stessi per rinnovargli il nostro “sì”, per ripetergli «sia fatta la tua volontà», per conformare la nostra volontà alla sua. E’ una preghiera che dobbiamo fare quotidianamente, perché non sempre è facile affidarci alla volontà di Dio, ripetere il “sì” di Gesù, il “sì” di Maria. I racconti evangelici del Getsemani mostrano dolorosamente che i tre discepoli, scelti da Gesù per essergli vicino, non furono capaci di vegliare con Lui, di condividere la sua preghiera, la sua adesione al Padre e furono sopraffatti dal sonno. Cari amici, domandiamo al Signore di essere capaci di vegliare con Lui in preghiera, di seguire la volontà di Dio ogni giorno anche se parla di Croce, di vivere un’intimità sempre più grande con il Signore, per portare in questa «terra» un po’ del «cielo» di Dio. Grazie.

Saluti:

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto a tutti i pellegrini di lingua italiana. In particolare saluto i Vescovi amici della Comunità di Sant’Egidio, provenienti da vari Paesi dell'Europa, dell'Africa e dell'Asia, e li incoraggio ad operare con entusiasmo al servizio del Vangelo, nonostante le difficoltà che a volte possono incontrare nella loro missione. Saluto con affetto i rappresentanti della Marina Militare di Grottaglie; cari amici, vi ringrazio per la vostra presenza e vi esorto a vivere con fedeltà il vostro lavoro e ad arricchirlo con la vostra personale testimonianza cristiana.

Desidero rivolgere infine il mio saluto ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli. La figura di san Giovanni Bosco, che ieri abbiamo ricordato, ci porta a considerare quanto sia importante educare le nuove generazioni agli autentici valori umani e spirituali della vita. Cari giovani, invoco su di voi la particolare protezione del Santo della gioventù e vi auguro di trovare sempre educatori saggi e guide sicure. Cari ammalati, la vostra sofferenza, offerta con generosità al Signore, possa rendere fecondo l'impegno che la Chiesa dedica al mondo giovanile. E voi, sposi novelli, preparatevi ad essere i primi ed insostituibili educatori dei figli che il Signore vi donerà.


UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 8 febbraio 2012

La preghiera di Gesù di fronte alla morte (Mc e Mt)

Cari fratelli e sorelle,

oggi vorrei riflettere con voi sulla preghiera di Gesù nell’imminenza della morte, soffermandomi su quanto ci riferiscono san Marco e san Matteo. I due Evangelisti riportano la preghiera di Gesù morente non soltanto nella lingua greca, in cui è scritto il loro racconto, ma, per l'importanza di quelle parole, anche in una mescolanza di ebraico ed aramaico. In questo modo essi hanno tramandato non solo il contenuto, ma persino il suono che tale preghiera ha avuto sulle labbra di Gesù: ascoltiamo realmente le parole di Gesù come erano. Nel contempo, essi ci hanno descritto l’atteggiamento dei presenti alla crocifissione, che non compresero – o non vollero comprendere – questa preghiera.

Scrive san Marco, come abbiamo ascoltato: «Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Alle tre, Gesù gridò a gran voce: “Eloì, Eloì, lemà sabactàni?”, che significa: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”» (15,34). Nella struttura del racconto, la preghiera, il grido di Gesù si alza al culmine delle tre ore di tenebre che, da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio, calarono su tutta la terra. Queste tre ore di oscurità sono, a loro volta, la continuazione di un precedente lasso di tempo, pure di tre ore, iniziato con la crocifissione di Gesù. L'Evangelista Marco, infatti, ci informa che: «Erano le nove del mattino quando lo crocifissero» (cfr 15,25). Dall'insieme delle indicazioni orarie del racconto, le sei ore di Gesù sulla croce sono articolate in due parti cronologicamente equivalenti.

Nelle prime tre ore, dalle nove fino a mezzogiorno, si collocano le derisioni di diversi gruppi di persone, che mostrano il loro scetticismo, affermano di non credere. Scrive san Marco: «Quelli che passavano di là lo insultavano» (15,29); «così anche i capi dei sacerdoti, con gli scribi, fra loro si facevano beffe di lui» (15,31); «e anche quelli che erano stati crocifissi con lui lo insultavano» (15,32). Nelle tre ore seguenti, da mezzogiorno «fino alle tre del pomeriggio», l’Evangelista parla soltanto delle tenebre discese su tutta la terra; il buio occupa da solo tutta la scena senza alcun riferimento a movimenti di personaggi o a parole. Quando Gesù si avvicina sempre più alla morte, c’è solo l'oscurità che cala «su tutta la terra».

Anche il cosmo prende parte a questo evento: il buio avvolge persone e cose, ma pure in questo momento di tenebre Dio è presente, non abbandona. Nella tradizione biblica, il buio ha un significato ambivalente: è segno della presenza e dell’azione del male, ma anche di una misteriosa presenza e azione di Dio che è capace di vincere ogni tenebra. Nel Libro dell'Esodo, ad esempio, leggiamo: «Il Signore disse a Mosè: “Ecco, io sto per venire verso di te in una densa nube”» (19,9); e ancora: «Il popolo si tenne dunque lontano, mentre Mosè avanzò verso la nube oscura dove era Dio» (20,21). E nei discorsi del Deuteronomio, Mosè racconta: «Il monte ardeva, con il fuoco che si innalzava fino alla sommità del cielo, fra tenebre, nuvole e oscurità» (4,11); voi «udiste la voce in mezzo alle tenebre, mentre il monte era tutto in fiamme» (5,23). Nella scena della crocifissione di Gesù le tenebre avvolgono la terra e sono tenebre di morte in cui il Figlio di Dio si immerge per portare la vita, con il suo atto di amore.

Tornando alla narrazione di san Marco, davanti agli insulti delle diverse categorie di persone, davanti al buio che cala su tutto, nel momento in cui è di fronte alla morte, Gesù con il grido della sua preghiera mostra che, assieme al peso della sofferenza e della morte in cui sembra ci sia abbandono, l’assenza di Dio, Egli ha la piena certezza della vicinanza del Padre, che approva questo atto supremo di amore, di dono totale di Sé, nonostante non si oda, come in altri momenti, la voce dall’alto. Leggendo i Vangeli, ci si accorge che in altri passaggi importanti della sua esistenza terrena Gesù aveva visto associarsi ai segni della presenza del Padre e dell’approvazione al suo cammino di amore, anche la voce chiarificatrice di Dio. Così, nella vicenda che segue il battesimo al Giordano, allo squarciarsi dei cieli, si era udita la parola del Padre: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento» (Mc 1,11). Nella trasfigurazione, poi, al segno della nube si era affiancata la parola: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!» (Mc 9,7). Invece, all’avvicinarsi della morte del Crocifisso, scende il silenzio, non si ode alcuna voce, ma lo sguardo di amore del Padre rimane fisso sul dono di amore del Figlio.

Ma che significato ha la preghiera di Gesù, quel grido che lancia al Padre: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato», il dubbio della sua missione, della presenza del Padre? In questa preghiera non c’è forse la consapevolezza proprio di essere stato abbandonato? Le parole che Gesù rivolge al Padre sono l’inizio del Salmo 22, in cui il Salmista manifesta a Dio la tensione tra il sentirsi lasciato solo e la consapevolezza certa della presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Il Salmista prega: «Mio Dio, grido di giorno e non rispondi; di notte, e non c’è tregua per me. Eppure tu sei il Santo, tu siedi in trono fra le lodi d’Israele» (vv. 3-4). Il Salmista parla di «grido» per esprimere tutta la sofferenza della sua preghiera davanti a Dio apparentemente assente: nel momento di angoscia la preghiera diventa un grido.

E questo avviene anche nel nostro rapporto con il Signore: davanti alle situazioni più difficili e dolorose, quando sembra che Dio non senta, non dobbiamo temere di affidare a Lui tutto il peso che portiamo nel nostro cuore, non dobbiamo avere paura di gridare a Lui la nostra sofferenza, dobbiamo essere convinti che Dio è vicino, anche se apparentemente tace.

Ripetendo dalla croce proprio le parole iniziali del Salmo, “Elì, Elì, lemà sabactàni?” – “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46), gridando le parole del Salmo, Gesù prega nel momento dell’ultimo rifiuto degli uomini, nel momento dell’abbandono; prega, però, con il Salmo, nella consapevolezza della presenza di Dio Padre anche in quest’ora in cui sente il dramma umano della morte. Ma in noi emerge una domanda: come è possibile che un Dio così potente non intervenga per sottrarre il suo Figlio a questa prova terribile? E’ importante comprendere che la preghiera di Gesù non è il grido di chi va incontro con disperazione alla morte, e neppure è il grido di chi sa di essere abbandonato.

Gesù in quel momento fa suo l’intero Salmo 22, il Salmo del popolo di Israele che soffre, e in questo modo prende su di Sé non solo la pena del suo popolo, ma anche quella di tutti gli uomini che soffrono per l’oppressione del male e, allo stesso tempo, porta tutto questo al cuore di Dio stesso nella certezza che il suo grido sarà esaudito nella Risurrezione: «il grido nell'estremo tormento è al contempo certezza della risposta divina, certezza della salvezza – non soltanto per Gesù stesso, ma per “molti” » (Gesù di Nazaret II, 239-240). In questa preghiera di Gesù sono racchiusi l’estrema fiducia e l’abbandono nelle mani di Dio, anche quando sembra assente, anche quando sembra rimanere in silenzio, seguendo un disegno a noi incomprensibile. Nel Catechismo della Chiesa Cattolica leggiamo così: «Nell’amore redentore che sempre lo univa al Padre, Gesù ci ha assunto nella nostra separazione da Dio a causa del peccato al punto da poter dire a nome nostro sulla croce: “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?”» (n. 603). Il suo è un soffrire in comunione con noi e per noi, che deriva dall’amore e già porta in sé la redenzione, la vittoria dell’amore.

Le persone presenti sotto la croce di Gesù non riescono a capire e pensano che il suo grido sia una supplica rivolta ad Elia. In una scena concitata, essi cercano di dissetarlo per prolungarne la vita e verificare se veramente Elia venga in suo soccorso, ma un forte urlo pone termine alla vita terrena di Gesù e al loro desiderio. Nel momento estremo, Gesù lascia che il suo cuore esprima il dolore, ma lascia emergere, allo stesso tempo, il senso della presenza del Padre e il consenso al suo disegno di salvezza dell’umanità. Anche noi ci troviamo sempre e nuovamente di fronte all’«oggi» della sofferenza, del silenzio di Dio - lo esprimiamo tante volte nella nostra preghiera - ma ci troviamo anche di fronte all’«oggi» della Risurrezione, della risposta di Dio che ha preso su di Sé le nostre sofferenze, per portarle insieme con noi e darci la ferma speranza che saranno vinte (cfr Lett. enc. Spe salvi, 35-40).

Cari amici, nella preghiera portiamo a Dio le nostre croci quotidiane, nella certezza che Lui è presente e ci ascolta. Il grido di Gesù ci ricorda come nella preghiera dobbiamo superare le barriere del nostro «io» e dei nostri problemi e aprirci alle necessità e alle sofferenze degli altri. La preghiera di Gesù morente sulla Croce ci insegni a pregare con amore per tanti fratelli e sorelle che sentono il peso della vita quotidiana, che vivono momenti difficili, che sono nel dolore, che non hanno una parola di conforto; portiamo tutto questo al cuore di Dio, perché anch’essi possano sentire l’amore di Dio che non ci abbandona mai. Grazie.

Saluti:

APPELLO

Cari fratelli e sorelle,

nelle ultime settimane un’ondata di freddo e di gelo si è abbattuta su alcune Regioni dell’Europa provocando forti disagi e ingenti danni, come sappiamo. Desidero manifestare la mia vicinanza alle popolazioni colpite da così intenso maltempo, mentre invito alla preghiera per le vittime e i loro familiari. Al tempo stesso incoraggio alla solidarietà affinché siano soccorse con generosità le persone provate da tali tragici avvenimenti.

* * *

Rivolgo adesso un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. Saluto la Delegazione del Consiglio di Stato, il Reparto Mobile della Polizia di Napoli e le varie associazioni.  Un caloroso saluto ai Padri Stimmatini che celebrano il 36° Capitolo Generale e alle religiose, agli insegnanti e studenti dell’Istituto “San Francesco di Sales” di Via Portuense, per i 75 anni di presenza a Roma, di cui 50 di impegno educativo nella scuola. Un saluto anche ai sacerdoti che partecipano alla settimana di studio promossa dall’Ateneo della Santa Croce sull’importante tema del ministero pastorale della direzione nei Seminari.

Infine, un pensiero affettuoso ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. L’odierna memoria di San Girolamo Emiliani, patrono della gioventù abbandonata, stimoli voi, cari giovani, ad essere attenti ai vostri coetanei più svantaggiati e in difficoltà. Aiuti voi, cari ammalati ad offrire le vostre sofferenze per l’educazione cristiana delle nuove generazioni. E incoraggi voi, cari sposi novelli, ad avere sempre fiducia nella Provvidenza, e non solo nelle vostre proprie capacità.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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