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I Libri del cardinale Giacomo Biffi (da non perdere)

Ultimo Aggiornamento: 06/10/2012 22:41
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Notizia choc: un cardinale fa l'elogio dell'ortodossia
Scrive il cardinale Biffi nel suo ultimo libro: "Al giorno d'oggi d'oggi non è più l'eresia, ma la retta dottrina a fare notizia". Ad esempio sulla castità. O su Gesù che non è solo uomo ma Dio

di Sandro Magister






ROMA, 24 novembre 2008 – Dal suo ritiro sulla collina di Bologna, il cardinale Giacomo Biffi ha consegnato le sue riflessioni a un nuovo libro. Al quale ha dato il titolo "Pecore e pastori". Che così spiega:

"Tutti nella Chiesa sono prima di ogni altra cosa appartenenti all’ovile di Cristo. Tutti, dal papa al più recente dei battezzati, possiedono il motivo vero della loro grandezza non tanto nel venire caricati da questo o quel compito nella comunità cristiana, quanto nell’essere parte del 'piccolo gregge'. C'è dunque una sostanziale parità di tutti i credenti, purché davvero credano: solo credendo si entra tra le pecore di Cristo".

Come già nei suoi libri precedenti, anche questa volta le vivide parole del cardinale teologo non sono quelle familiari alle scuole di teologia più frequentate, ma attingono direttamente al linguaggio del Vangelo, aperto ai "piccoli" e chiuso ai "sapienti".

Il cardinale Biffi sa che l'eresia va di moda. Ma questa è per lui una ragione in più di difendere l'ortodossia:

"Talvolta in qualche settore del mondo cattolico si giunge persino a pensare che debba essere la divina Rivelazione ad adattarsi alla mentalità corrente per riuscire credibile, e non piuttosto che si debba convertire la mentalità corrente alla luce che ci è data dall’alto. Eppure si dovrebbe riflettere sul fatto che 'conversione', e non 'adattamento', è parola evangelica".

L'adattamento al pensiero corrente – scrive – arriva sino ad annebbiare la divinità di Gesù, ridotto a semplice uomo sia pure di straordinario valore:

"Per quanto l’affermazione possa sembrare paradossale, la questione ariana [dal nome di Ario, l'eresiarca condannato dal Concilio di Nicea del 321] è sempre all’ordine del giorno nella vita ecclesiale. I pretesti possono essere tanti: dal desiderio di sentire Cristo più vicino e più uno di noi, al proposito di facilitarne la comprensione esaltandone quasi in modo esclusivo gli aspetti sociali e umanitari. Alla fine l’approdo è sempre quello di togliere al Redentore dell’uomo la sua radicale unicità e di classificarlo tra gli esseri trattabili e addomesticabili. Sotto questo profilo si potrebbe dire che allora il Concilio di Nicea è oggi molto più attuale del Concilio Vaticano II". (grande Biffi!! [SM=g27988] )


qui per l'articolo integrale
chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/209817

Ho comprato il libro e lo sto leggendo....il card. Biffi ha trattato moltissimi temi a partire dalla prima pagina chiarendo il termine: PASTORALE.....

Il card. Biffi spiega così, proprio come premessa a pag. 5 il cuore del problema in questo rapporto fra le PECORE E I PASTORI....ossia la Pastorale [SM=g27988] e dice:

L'Esaltazione verbale

Assistiamo oggi a una frequenza nell'uso della parola "pastorale" ignota al linguaggio ecclesiale delle epoche precedenti.
Una volta il vocabolo serviva, più che altro, per indicare il bastone usato dal vescovo nelle celebrazioni pontificali e la lettera, indirizzata sempre dal vescovo alla sua diocesi, contenente i richiami dottrinali e le direttive del successore degli Apostoli.
Oggi, dopo che il Vaticano II è stato qualificato esplicitamente come "concilio pastorale" e ha denominato "pastorale" una sua costituzione (la Gaudium et spes), il termine ritorna spesso nella vita della Chiesa: "consiglio pastorale; piano pastorale; vicario pastorale; teologia pastorale", eccetera....

Per una "pastoralità" più consapevole

Càpita però che l'uso reiterato dei vocaboli a proposito di un argomento si accompagni all'indebolimento della sua comprensione effettiva e sia occasione di qualche confusione!
Così. ad esempio, ci si compiace di parlare di "comunità", quasi per nostalgia, adesso che sociologicamente prevale l'individualismo e il disimpegno.
A richiamarsi assiduamente alla "povertà" e a decantarla con entusiasmo sono proprio i cristiani benestanti e gli uomini di Chiesa di estrazione borghese, che non hanno mai avuto modo di farne personalmente qualche esperienza: ai veri poveri invece di solito non viene neppure in mente di esaltare la loro condizione e di farne un ideale di vita!
I parroci sanno che non hanno fatto tanta fatica a trovare qualcuno che li aiutasse a riordinare il cortile e gli ambienti della canonica dopo una festa, come da quando il popolo di Dio nei discorsi ecclesiali è posto ripetutatmente in stato di servizio o, che è lo stesso, di "ministero".
Tuttavia anche nelle mode linguistiche si può ravvisare qualche lato positivo: se non altro esprimono un desiderio e un proposito; purchè ogni tanto ci si costringa a riscoprire, oltre ogni retorica, i contenuti autentici ed esatti delle parole che godono di così larga preferenza.
E' ciò che, per l'immagine del "gregge", ci ripromettiamo di compiere con questa meditazione.

****************

da pag. 45 a pag. 51 c'è il VI cap. dedicato appunto a questo rapporto fra Pecore e Pastori....nelle quali il card. Biffi tenta di spiegare (riuscendoci magnificamente) "cosa voglia dire essere pastori ed essere pecore nel gregge di Dio"....

riporto solo alcune espressioni significative:

LA PRIMA MISERICORDIA DI CUI ABBIAMO BISOGNO E' LA LUCE IMPIETOSA DELLA VERITA' (card. Biffi dal libro: Pecore e Pastori)

"il ministero pastorale non deriva mai in nessun modo dal "gregge", ma DISCENDE costituzionalmente dall'alto"....

"...tra i gravi problemi della cristianità di oggi non c'è solo la scarsità dei pastori, c'è anche la difficoltà dei cristiani a riconoscersi evangelicamente pecore. Mentre la condizione di pastore è vista come un valore e una promozione, e perciò una sua più estesa partecipazione è accolta di solito con favore, la condizione di "pecora" invece è percepita come una mortificazione...."

"...il titolo più alto della nostra dignità è quello che ci proviene dal fatto di essere annoverati nel gregge di Dio. Questa è la nostra fortuna, la ragione più autentica della nostra nobiltà, il fondamento della nostra speranza...."

"Gesù poi ci mette in guardia da una visione troppo idilliaca, da un'idea aradicamente serena della vita pastorale, e ci ricorda che esistono, e sono sempre attive, le forze del male. Le sue pecore non devono dimenticare che esistono i ladri ed esistono i lupi. Anzi ci dice senza mezzi termini che il suo gregge vive in mezzo ai lupi, i quali tentano sempre di rapire e disperdere gli agnelli di Dio....
Questi lupi NON SONO SOLO ESTERNI AL GREGGE; si possono trovare NACHE TRA NOI " in veste di pecore" (Mt.7,15)...."

"SIAMO TUTTI PECORE! tutti, dal Papa ai diaconi, ai fedeli, ai religiosi, tutti devono riconoscere e proclamare con entusiasmo "SIAMO TUTTI PECORE"...in virtù dell'identico Battesimo che hanno ricevuto e NON si estingue più.
Siamo tutti ugualmente pecore, MA NON SIAMO TUTTI UGUALMENTE PASTORI!
Il Signore ha dato una STRUTTURA a questo piccolo "gregge". Questa struttura comporta che ci siano dei pastori, cioè delle GUIDE di un gregge, il quale perciò deve essere GUIDATO (....)
di conseguenza l'implicazione ovvia e irrinunciabile che il Signore ci ha lasciato per la comprensione della sua Chiesa è che per quel che attiene alla vita del "gregge", siano le pecore a seguire i pastori e non i pastori a lasciarsi guidare dalle pecore!"



Fatevi questo dono e per Natale regalate questo libro ad altre "pecore".... [SM=g27986]

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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24/02/2009 23:22
 
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....leggete qui, meglio tardi che mai....noi abbiamo pubblicizzato il libro del card. Biffi appena uscito....a Novembre Ghigno


comunque quanto segue si lega a quanto detto sopra e ringrazio il car. Biffi per avermi confermato nella fede giacchè è anche grazie ai suoi scritti che il mio unico neurone si è messo in moto da tempo.... Felice

di Antonio Gaspari

ROMA, martedì, 24 febbraio 2009 (ZENIT.org).

Chi è il cattolico adulto? Qual è il compito dei pastori? Chi sono e quale ruolo svolgono i componenti del gregge? Perché non ci sono donne sacerdote? Perché la Chiesa ha un solo capo? E perché gli si deve obbedienza?

A queste ed altre domande risponde il Cardinale Giacomo Biffi con il libro “Pecore e pastori. Riflessioni sul gregge di Cristo”, pubblicato dalla Cantagalli (256 pagine, 13,80 Euro).

Il libro, il cui titolo sembrerebbe destinato solo al clero, è anche una schietta e brillante riflessione sui fondamenti e sui compiti della Chiesa, su quel popolo di Dio che il porporato indica come “gregge di Cristo”.

Scrive l’Arcivescovo emerito di Bologna: “Una delle cose che mi impressionano di più è che al giorno d’oggi non è più l’eresia, ma è l’ortodossia a fare notizia”,   Occhiolino ed in questo libro il Cardinale Biffi parla chiaro, sgonfia i luoghi comuni, cancella i sofismi ed i condizionamenti del “politically correct”.

Circa l’accondiscendenza con cui alcuni si piegano ai condizionamenti del “politically correct” il Cardinale Biffi sostiene: “Talvolta in qualche settore del mondo cattolico si giunge persino a pensare che debba essere la divina Rivelazione ad adattarsi alla mentalità corrente per riuscire ‘credibile’, e non piuttosto che si debba ‘convertire’ la mentalità corrente alla luce che ci è data dall’alto. Eppure si dovrebbe riflettere sul fatto che ‘conversione’ non ‘adattamento’ è parola evangelica”.

Del resto, continua il porporato, “la prima frase che Gesù pronuncia inaugurando il suo apostolato non è: ‘Il mondo va bene così come va; adattatevi al mondo e siate credibili alle orecchie di chi non crede’ ma è: ‘Il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo”.

Sul ruolo del pastore l’Arcivescovo emerito di Bologna rileva che “tra i gravi problemi della cristianità non c' è solo la scarsità dei pastori, c' è anche la difficoltà dei cristiani a riconoscersi evangelicamente pecore” e aggiunge “il pastore condivide la vita del gregge”, ma ne è soprattutto “il capo e il condottiero”, perché i sacerdoti “non devono seguire le pecore nei loro sbandamenti, ma guidarle con mano ferma”. E pazienza se questa autorità “sarà vista ovviamente come un’autorità che si fonda su sé stessa, e sarà classificata come antidemocratica”.

A proposito di coloro che si sono autodefiniti “cattolici adulti” scrive il porporato: “Se qualcuno manifesta ad alta voce di voler essere considerato ‘adulto’ nella Chiesa, l’intenzione ci sembra legittima e persino encomiabile, purché egli rimanga convinto che, secondo il Vangelo, chi dentro di sé non diventa come un bambino non entrerà nel Regno dei cieli”. [SM=g1740721]

In un capitoletto titolato “Ladri e Lupi” il Cardinale Biffi scrive: “Gesù ci mette in guardia da una visione troppo idilliaca, da un’idea arcaicamente serena della vita pastorale, e ci ricorda che esistono, e sono sempre attive, le forze del male”.

“Le sue pecore – continua l’Arcivescovo emerito di Bologna – non devono dimenticare che esistono i ladri ed esistono i lupi. Anzi ci dice senza mezzi termini che il suo gregge vive in mezzo ai lupi i quali tentano sempre di rapire e disperdere gli agnelli di Dio”.

“Questi lupi non sono solo esterni al gregge – precisa il porporato –. Si possono trovare anche tra noi in veste di pecore. A questo proposito san Paolo non esita a parlare in termini espliciti di falsi apostoli, lavoratori fraudolenti che si mascherano da apostoli di Cristo” e aggiunge: “Ciò non fa meraviglia, perché anche Satana si maschera da angelo di luce”.

Su coloro che sparlano della Chiesa, Biffi afferma: “E’ psicologicamente impossibile continuare ad amare una donna, quando se ne vede e se ne sottolinea solo la bruttezza, la meschinità, la natura malvagia. Un prete che si accanisce a parlar male della Chiesa – non diciamo a parlar male degli ‘uomini di chiesa’, che qualche volta è doveroso – farà molta fatica a restarle fedele”.  [SM=g1740733]

Il Cardinale che predicò gli Esercizi Spirituali quaresimali alla Curia romana e a Papa Benedetto XVI nel marzo del 2007 sostiene che “è in atto oggi una violenta e sistematica aggressione alla Chiesa, che si esprime e si rifinisce quotidianamente in qualche nuovo atto di ostilità; ed è stupefacente che la cristianità – almeno quella loquacior (quella che più parla e più fa parlare di se) - non mostra di rendersene conto in misura adeguata”.

Forte è la Critica del cardinale Biffi nei confronti dell’invasione sessuale: “La nostra epoca – ha scritto il porporato - è dominata e afflitta da una specie di pansessualismo. Il sesso è continuamente chiamato in causa: non solo negli enunciati sociali e psicologici, non solo nelle molteplici espressioni di arte e di cultura, non solo negli spettacoli e negli intrattenimenti; persino nei messaggi pubblicitari non si può fare a meno di evocarlo e di alludervi”.

Abbiamo talvolta l’impressione di essere condizionati e intrigati da una misteriosa accolta di maniaci che impongono a tutti una loro degenerazione mentale – continua –. Sono gli stessi che non mancano mai di definire bigotti e bacchettoni quanti non si lasciano convincere dalle loro elevate argomentazioni”.  [SM=g1740725]  GRANDE BIFFI....

Bisogna che ci decidiamo – conclude il Cardinale Biffi – o stiamo col ‘mondo’ che ci intima di essere ‘politicamente corretti’, o, senza preoccuparci affatto di essere ‘politicamente corretti’, stiamo col nostro Maestro e Salvatore".

*******************************

Ottimo eminenza....cominciamo allora anche con l'applicare la disciplina, le punizioni evangeliche, e la remissione di certi mandati?  [SM=g1740733]
Grazie a Dio noi (io) Laici non abbiamo questi "poteri", ma VOI SI....insegnateci a NON aver paura di noi stessi, insegnateci a NON temere di dire la VERITA'... insegnateci a non essere "politicamente corretti" seppur sempre con una dose di CARITA' E....PERFETTA LETIZIA tanto per rammentare il "poverello di Assisi...
Altrimenti qui si corre il rischio di ascoltare sempre belle prediche, ma quanto ai fatti, non si vede nulla e NOI Laici abbiamo bisogno di TESTIMONIANZE....
 [SM=g1740733]

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Prima dell'ultimo conclave: "Che cosa ho detto al futuro papa"

Il cardinale Giacomo Biffi consegna le sue memorie a un libro. Eccone un'anticipazione: il discorso da lui pronunciato nella riunione a porte chiuse con i cardinali. E poi i suoi giudizi critici su Giovanni XXIII, sul Concilio, sui "mea culpa" di Giovanni Paolo II

di Sandro Magister




ROMA, 26 ottobre 2007 – Alla vigilia dei suoi ottant'anni, il cardinale Giacomo Biffi manda in libreria un grosso volume autobiografico, col titolo: "Memorie e digressioni di un italiano cardinale".

Biffi è ricordato soprattutto come arcivescovo di Bologna, dal 1984 al 2003. Ma nel libro egli ripercorre l'intera sua vita, dalla nascita nella Milano operaia a quando divenne sacerdote, poi professore di teologia, parroco, vescovo e infine cardinale.

Nel prologo, Biffi riporta queste parole di sant'Ambrogio, grande vescovo della Milano del IV secolo, suo amato "padre e maestro":

"Per un vescovo non c'è nulla tanto rischioso davanti a Dio e tanto vergognoso davanti agli uomini, quanto non proclamare liberamente il proprio pensiero".

E puntualmente, nelle 640 pagine del volume, il pensiero di Biffi prorompe in piena libertà, pungente, ironico, anticonformista.

Non c'è passaggio cruciale della vita della Chiesa che non cada sotto il suo giudizio acuminato e spesso sorprendente.

È una sorpresa, ad esempio, che egli indichi "il papa più grande del secolo ventesimo" in Pio XI, che è forse il papa oggi più trascurato e dimenticato.

È una sorpresa lo scoprire che, quand'era arcivescovo di Bologna, lui, tanto criticato per aver definito preferibile accogliere in Italia immigrati cristiani rispetto a immigrati musulmani, ospitò per molte notti in una chiesa un folto gruppo di magrebini senza casa, nelle settimane più rigide dell'inverno.

Anche i silenzi sono eloquenti. A Joseph Ratzinger il libro dedica solo rari accenni. Ma il lettore capisce da molti indizi che Biffi ha una altissima stima dell'attuale papa. Una stima ricambiata dall'invito fattogli da Benedetto XVI di predicare in Vaticano gli esercizi spirituali della Quaresima del 2007.

Viceversa, il quasi totale silenzio sul cardinale Carlo Maria Martini – di cui Biffi fu vescovo ausiliare per quattro anni a Milano – fa trasparire un giudizio inesorabilmente critico. Immediatamente prima di liquidare in poche righe la nomina del celebre gesuita ad arcivescovo di Milano, alla fine del 1979, Biffi mette in chiaro che l'epoca luminosa dei grandi vescovi di Milano del Novecento – eredi genuini di sant'Ambrogio e san Carlo Borromeo – si è comunque conclusa col predecessore di Martini, Giovanni Colombo.

E da un altro silenzio – quello che nel libro avvolge il successore di Martini, il cardinale Dionigi Tettamanzi – si ricava che neppure con l'attuale vescovo di Milano la stagione dei grandi pastori "ambrosiani" e "borromaici" dia segni di ripresa.

Il perché è ben spiegato. Per Biffi un vescovo è grande quando governa la Chiesa "con il calore e la certezza della fede, la concretezza delle iniziative e delle opere, la capacità di rispondere alle interpellanze dei tempi non con cedimenti e mimetismi ma attingendo al patrimonio inalienabile della verità". Evidentemente, a giudizio di Biffi, né Martini né Tettamanzi corrispondono a questo profilo.

Un' altra personalità che Biffi sottopone a critica severa è don Giuseppe Dossetti, in gioventù importante uomo politico – ammirato in quegli anni dallo stesso Biffi – poi sacerdote e monaco, attivissimo consulente del cardinale Giacomo Lercaro nel Concilio Vaticano II e capostitpite della "scuola di Bologna" e dell'interpretazione del Concilio come rottura col passato e nuovo inizio.

Biffi scrive che Dossetti mantenne sino all'ultimo "un'ossessione primaria e permanente per la politica, che alterava la sua prospettiva generale". Inoltre gli addebita una "insufficiente fondazione teologica".

Dossetti è stato l'uomo che nell'ultimo mezzo secolo ha più influito sugli orientamenti dell'élite intellettuale della Chiesa italiana.

Invece, il leader spirituale che a giudizio di Biffi ha intuito con più lucidità la missione e i pericoli della Chiesa nel mondo d'oggi è stato don Divo Barsotti, più volte ricordato con ammirazione nel libro.

Le memorie del cardinale Biffi sono una lettura obbligata, per chi voglia osservare la vicenda attuale della Chiesa da una visuale fuori dagli schemi, e nello stesso tempo autorevole. Ma sono anche una lettura avvincente, che afferra fin dalle prime pagine per la brillantezza della scrittura, sempre sobria ed essenziale.

Sono il racconto di una vita integralmente dedicata alla Chiesa. Qui di seguito ne sono riportati alcuni brani: su Giovanni XXIII, sul Concilio Vaticano II e le sue ricadute, sui "mea culpa" di Giovanni Paolo II e, infine, sull'ultimo conclave, con il discorso integrale – fino a ieri segreto – rivolto dal cardinale Biffi al futuro papa.

Un papa – Benedetto XVI – a quella data ancora da eleggere. Eppure già così somigliante alle attese di questo suo grande elettore.



Giovanni XXIII: papa buono, cattivo maestro

(pp.177-179)


Papa Roncalli morì nella solennità di Pentecoste, il 3 giugno 1963. Anch’io lo rimpiangevo, perché avevo un’invincibile simpatia per lui. M’incantavano i suoi gesti “irrituali”, ed ero rallegrato dalle sue parole spesso sorprendenti e dalle sue uscite estemporanee.

Solo la valutazione di alcune frasi mi lasciava esitante. Ed erano proprio quelle che più facilmente di altre conquistavano gli animi, perché apparivano conformi alle istintive aspirazioni degli uomini.

C’era, per esempio, il giudizio di riprovazione sui "profeti di sventura".

L’espressione divenne e rimase popolarissima ed è naturale: la gente non ama i guastafeste; preferisce chi promette tempi felici a chi avanza timori e riserve. E anch’io ammiravo qui il coraggio e lo slancio, negli ultimi anni della sua vita, di questo “giovane” successore di Pietro.

Ma ricordo che una perplessità mi prese però quasi sùbito. Nella storia della Rivelazione, annunziatori anche di castighi e calamità furono solitamente i veri profeti, quali adesempio Isaia (capitolo 24), Geremia (capitolo 4), Ezechiele (capitoli 4-11).

Gesù stesso, a leggere il capitolo 24 del Vangelo di Matteo, andrebbe annoverato tra i “profeti di sventura”: le notizie di futuri successi e di prossime gioie non riguardano di norma l’esistenza di quaggiù, bensì la “vita eterna” e il “Regno dei Cieli”.

A proclamare di solito l’imminenza di ore tranquille e rasserenate, nella Bibbia sono piuttosto i falsi profeti (si veda il capitolo 13 del Libro di Ezechiele).

La frase di Giovanni XXIII si spiega col suo stato d’animo del momento, ma non va assolutizzata. Al contrario, sarà bene ascoltare anche quelli che hanno qualche ragione di mettere all’erta i fratelli, preparandoli alle possibili prove, e coloro che ritengono opportuni gli inviti alla prudenza e alla vigilanza.


"Bisogna guardare più a ciò che ci unisce che non a ciò che ci divide". Anche questa sentenza – oggi molto ripetuta e apprezzata, quasi come la regola aurea del “dialogo” – ci viene dall’epoca giovannea e ce ne trasmette l’atmosfera.

È un principio comportamentale di evidente assennatezza, che va tenuto presente quando si tratta di semplice convivenza e di decisioni da prendere nella spicciola quotidianità.

Ma diventa assurdo e disastroso nelle sue conseguenze, se lo si applica nei grandi temi dell’esistenza e particolarmente nella problematica religiosa.

È opportuno, per esempio, che si usi di questo aforisma per salvaguardare i rapporti di buon vicinato in un condominio o la rapida efficienza di un consiglio comunale.

Ma guai se ce ne lasciamo ispirare nella testimonianza evangelica di fronte al mondo, nel nostro impegno ecumenico, nelle discussioni coi non credenti. In virtù di questo principio, Cristo potrebbe diventare la prima e più illustre vittima del dialogo con le religioni non cristiane. Il Signore Gesù ha detto di sé, ma è una delle sue parole che siamo inclini a censurare: "Io sono venuto a portare la divisione" (Luca 12,51).

Nelle questioni che contano la regola non può essere che questa: noi dobbiamo guardare soprattutto a ciò che è decisivo, sostanziale, vero, ci divida o non ci divida.


"Bisogna distinguere tra l’errore e l’errante". È un’altra massima che fa parte dell’eredità morale di Giovanni XXIII e ha anch’essa influenzato il cattolicesimo successivo.

Il principio è giustissimo e attinge la sua forza dallo stesso insegnamento evangelico: l’errore non può che essere deprecato, odiato, combattuto dai discepoli di colui che è la Verità; mentre l’errante – nella sua inalienabile umanità – è sempre un’immagine viva, pur se incoativa, del Figlio di Dio incarnato; e pertanto va rispettato, amato, aiutato per quel che è possibile.

Io però non potevo dimenticare, riflettendo su questa sentenza, che la storica saggezza della Chiesa non ha mai ridotto la condanna dell’errore a una pura e inefficace astrazione.

Il popolo cristiano va messo in guardia e difeso da colui che di fatto semina l’errore, senza che per questo si cessi di cercare il suo vero bene e pur senza giudicare la responsabilità soggettiva di nessuno, che è nota solo a Dio.

Gesù a questo proposito ha dato ai capi della Chiesa una direttiva precisa: colui che scandalizza col suo comportamento e con la sua dottrina, e non si lascia persuadere né dalle ammonizioni personali, né dalla più solenne riprovazione della ecclesìa, “sia per te come un pagano e un pubblicano” (cfr. Matteo 18,17); prevedendo e prescrivendo così l’istituto della scomunica.



Gli inganni del Vaticano II: "aggiornamento" e "pastoralità"

(pp. 183-184)


Papa Roncalli aveva assegnato al Concilio, come compito e come traguardo, il “rinnovamento interno della Chiesa”; espressione più pertinente del vocabolo “aggiornamento” (esso pure giovanneo), che però ebbe un’immeritata fortuna.

Non era certo l’intenzione del sommo pontefice, ma “aggiornamento” includeva l’idea che la “nazione santa” si proponesse di ricercare la sua miglior conformità non al disegno eterno del Padre e alla sua volontà di salvezza (come aveva sempre creduto di dover fare nei suoi tentativi di giusta “riforma”), ma alla “giornata” (alla storia temporale e mondana); e così si dava l’impressione di indulgere alla “cronolatrìa”, per usare il termine di biasimo coniato poi da Maritain.

Giovanni XXIII vagheggiava un Concilio che ottenesse il rinnovamento della Chiesa non con le condanne, ma con la “medicina della misericordia”. Astenendosi dal riprovare gli errori, il Concilio per ciò stesso avrebbe evitato di formulare insegnamenti definitivi, vincolanti per tutti. E di fatto ci si attenne sempre a questa indicazione di partenza.

La ragione sorgiva e sintetica di questi indirizzi era il proposito dichiarato di mirare a un “Concilio pastorale”. Tutti, dentro e fuori l’aula vaticana, si mostravano contenti e compiaciuti di tale qualifica.

Io però, nel mio angolino periferico, sentivo nascere in me, mio malgrado, qualche difficoltà. Il concetto mi pareva ambiguo, e un po’ sospetta l’enfasi con cui la “pastoralità” era attribuita al Concilio in atto: si voleva forse dire implicitamente che i precedenti Concili non intendevano essere “pastorali” o non lo erano stati abbastanza?

Non aveva rilevanza pastorale il mettere in chiaro che Gesù di Nazaret era Dio e consostanziale al Padre, come si era definito a Nicea? Non aveva rilevanza pastorale precisare il realismo della presenza eucaristica e la natura sacrificale della messa, come era avvenuto a Trento? Non aveva rilevanza pastorale presentare in tutto il suo valore e in tutte le sue implicanze il primato di Pietro, come aveva insegnato il Concilio Vaticano I?

Si capisce che l’intenzione dichiarata era quella di mettere a tema particolarmente lo studio dei modi migliori e dei mezzi più efficaci di raggiungere il cuore dell’uomo, senza per questo sminuire la positiva considerazione per il tradizionale magistero della Chiesa.

Ma c’era il pericolo di non ricordare più che la prima e insostituibile “misericordia” per l’umanità smarrita è, secondo l’insegnamento chiaro della Rivelazione, la “misericordia della verità”; misericordia che non può essere esercitata senza la condanna esplicita, ferma, costante di ogni travisamento e di ogni alterazione del “deposito” della fede che va custodito.

Qualcuno poteva addirittura incautamente pensare che il riscatto dei figli di Adamo dipendesse più dalle nostre arti di lusinga e di persuasione, che non dalla strategia soteriologica preordinata dal Padre prima di tutti i secoli, tutta incentrata nell’evento pasquale e nel suo annuncio; un annuncio “senza discorsi persuasivi di sapienza umana” (cfr. 1 Corinti 2,4). Nel postconcilio non è stato soltanto un pericolo.


Sul comunismo aveva ragione papa Wojtyla: il Concilio non doveva tacere

(pp. 184-186)


Comunismo: il Concilio non ne parla. Se si percorre con attenzione l’indice sistematico, fa impressione imbattersi in questo categorico silenzio.

Il comunismo è stato senza dubbio il fenomeno storico più imponente, più duraturo, più straripante del secolo ventesimo; e il Concilio, che pure aveva proposto una Costituzione sulla Chiesa e il mondo contemporaneo, non ne parla.

Il comunismo, a partire dal suo trionfo in Russia nel 1917, in mezzo secolo era già riuscito a provocare molte decine di milioni di morti, vittime del terrore di massa e della repressione più disumana; e il Concilio non ne parla.

Il comunismo (ed era la prima volta nella storia delle insipienze umane) aveva praticamente imposto alle popolazioni assoggettate l’ateismo, come una specie di filosofia ufficiale e di paradossale “religione di stato”; e il Concilio, che pur si diffonde sul caso degli atei, non ne parla.

Negli stessi anni in cui si svolgeva l’assise ecumenica, le prigioni comuniste erano ancora luoghi di indicibili sofferenze e di umiliazioni inflitte a numerosi “testimoni della fede” (vescovi, presbiteri, laici convinti credenti in Cristo); e il Concilio non ne parla.

Altro che i supposti silenzi nei confronti delle criminose aberrazioni del nazismo, che persino alcuni cattolici (anche tra quelli attivi al Concilio) hanno poi rimproverato a Pio XII!

In quegli anni, pur percependo la grande anomalìa di questo riserbo soprattutto da parte di un’assemblea che aveva discorso quasi di tutto, non mi sono affatto scandalizzato. Anzi, devo dire che capivo gli aspetti positivi di quella linea. E non tanto per la possibilità, che così si profilava, di trattare con i regimi comunisti l’auspicabile partecipazione al Concilio dei vescovi da loro controllati, quanto per la previsione che una qualunque presa di posizione, anche la più blanda e la più sorvegliata, avrebbe scatenato un inasprimento della persecuzione, così da appesantire la croce di quei nostri fratelli perseguitati.

In fondo, c’era in tutti, almeno inconsciamente, il convincimento che il comunismo fosse un fenomeno tanto consistente da essere ormai irreversibile: con esso bisognava dunque per forza di cose abituarsi a fare i conti, chissà per quanto tempo ancora.

A ben guardare questa era in sostanza la giustificazione anche dell’Ostpolitik (“politica di dialogo e di augurabili intese con i Paesi dell’Est”) della Santa Sede di Giovanni XXIII e di Paolo VI; tale politica ci pareva sanamente realistica e storicamente opportuna.

Chi non ha mai condiviso questa prospettiva è stato Giovanni Paolo II (come ho capito da un colloquio avuto nel 1985). Ha avuto ragione lui.



Sui "mea culpa" Giovanni Paolo II si è corretto, ma troppo poco

(p. 536)


Il 7 luglio 1997 Giovanni Paolo II ebbe l’amabilità di invitarmi a pranzo ed estese l’invito anche al cerimoniere arcivescovile, don Roberto Parisini, che mi accompagnava e rimane perciò come prezioso testimone dell’episodio.

A tavola il Santo Padre a un certo punto mi disse: "Ha visto che abbiamo cambiato la frase della 'Tertio millennio adveniente'?".

La bozza, che era stata inviata in anticipo ai cardinali, recava questa espressione: "La Chiesa riconosce come propri i peccati dei suoi figli"; espressione che – avevo fatto presente con rispettosa franchezza – era improponibile. Nel testo definitivo il ragionamento appare mutato così: "La Chiesa riconosce sempre come propri i suoi figli peccatori". Il papa in quel momento ci teneva a ricordarmelo, sapendo che mi avrebbe dato piacere.

Ho risposto dicendomi molto grato e manifestando la mia piena soddisfazione sotto il profilo teologico. Mi sono però sentito anche di aggiungere una riserva di indole pastorale: l’iniziativa inedita di chiedere perdono per gli errori e le incoerenze dei secoli passati a mio avviso avrebbe scandalizzato i “piccoli”, i preferiti dal Signore Gesù (cfr. Matteo 11,25): perché il popolo fedele, che non sa fare molte distinzioni teologiche, da quelle autoaccuse vedrebbe insidiata la sua serena adesione al mistero ecclesiale, che (ci dicono tutte le professioni di fede) è essenzialmente un mistero di santità.

Il papa testualmente allora disse: "Sì, questo è vero. Bisognerà pensarci". Purtroppo non ci ha pensato abbastanza.



Conclave 2005, che cosa ho detto al futuro papa

(pp. 614-615)


I giorni più faticosi per i cardinali sono quelli che precedono immediatamente il conclave. Il Sacro Collegio si raduna quotidianamente dalle ore 9,30 alle ore 13, in un’assemblea dove ciascuno dei presenti è libero di dire tutto ciò che crede.

S’intuisce però che non si possa trattare pubblicamente l’argomento che più sta a cuore agli elettori del futuro vescovo di Roma: chi dobbiamo scegliere?

E così va a finire che ogni cardinale è tentato di citare più che altro i suoi problemi e i suoi guai: o meglio, i problemi e i guai della sua cristianità, della sua nazione, del suo continente, del mondo intero. È senza dubbio molto utile questa generale, spontanea, incondizionata rassegna delle informazioni e dei giudizi. Ma senza dubbio il quadro che ne risulta non è fatto per incoraggiare.

Quale fosse nell’occasione il mio stato d’animo e quale la mia riflessione prevalente emerge dall’intervento che dopo molte perplessità mi sono deciso a pronunciare il venerdì 15 aprile 2005. Eccone il testo:

"1. Dopo aver ascoltato tutti gli interventi – giusti opportuni appassionati – che qui sono risonati, vorrei esprimere al futuro papa (che mi sta ascoltando) tutta la mia solidarietà, la mia simpatia, la mia comprensione, e anche un po’ della mia fraterna compassione. Ma vorrei suggerirgli anche che non si preoccupi troppo di tutto quello che qui ha sentito e non si spaventi troppo. Il Signore Gesù non gli chiederà di risolvere tutti i problemi del mondo. Gli chiederà di volergli bene con un amore straordinario: 'Mi ami tu più di costoro?' (cfr. Giovanni 21,15). In una 'striscia' e 'fumetto' che ci veniva dall’Argentina, quella di Mafalda, ho trovato diversi anni fa una frase che in questi giorni mi è venuta spesso alla mente: 'Ho capito; – diceva quella terribile e acuta ragazzina – il mondo è pieno di problemologi, ma scarseggiano i soluzionologi'.

"2. Vorrei dire al futuro papa che faccia attenzione a tutti i problemi. Ma prima e più ancora si renda conto dello stato di confusione, di disorientamento, di smarrimento che affligge in questi anni il popolo di Dio, e soprattutto affligge i 'piccoli'.

"3. Qualche giorno fa ho ascoltato alla televisione una suora anziana e devota che così rispondeva all’intervistatore: 'Questo papa, che è morto, è stato grande soprattutto perché ci ha insegnato che tutte le religioni sono uguali'. Non so se Giovanni Paolo II avrebbe molto gradito un elogio come questo.

"4. Infine vorrei segnalare al nuovo papa la vicenda incredibile della 'Dominus Iesus': un documento esplicitamente condiviso e pubblicamente approvato da Giovanni Paolo II; un documento per il quale mi piace esprimere al cardinal Ratzinger la mia vibrante gratitudine. Che Gesù sia l’unico necessario Salvatore di tutti è una verità che in venti secoli – a partire dal discorso di Pietro dopo Pentecoste – non si era mai sentito la necessità di richiamare. Questa verità è, per così dire, il grado minimo della fede; è la certezza primordiale, è tra i credenti il dato semplice e più essenziale. In duemila anni non è stata mai posta in dubbio, neppure durante la crisi ariana e neppure in occasione del deragliamento della Riforma protestante. L’averla dovuta ricordare ai nostri giorni ci dà la misura della gravità della situazione odierna. Eppure questo documento, che richiama la certezza primordiale, più semplice, più essenziale, è stato contestato. È stato contestato a tutti i livelli: a tutti i livelli dell’azione pastorale, dell’insegnamento teologico, della gerarchia.

"5. Mi è stato raccontato di un buon cattolico che ha proposto al suo parroco di fare una presentazione della 'Dominus Iesus' alla comunità parrocchiale. Il parroco (un sacerdote per altro eccellente e ben intenzionato) gli ha risposto: 'Lascia perdere. Quello è un documento che divide'. 'Un documento che divide'. Bella scoperta! Gesù stesso ha detto: 'Io sono venuto a portare la divisione' (Luca 12,51). Ma troppe parole di Gesù oggi risultano censurate dalla cristianità; almeno dalla cristianità nella sua parte più loquace".

__________


Il libro, in vendita dal 30 ottobre 2007:

Giacomo Biffi, "Memorie e digressioni di un italiano cardinale", Cantagalli, Siena, 2007, pp. 640, euro 23,90.

Su "L'espresso" uscito in edicola venerdì 26 ottobre sono anticipati questi altri due brani del libro:

> Quando giurai davanti a Pertini. E quando Craxi mi contestò

__________


Sul cardinale Biffi, in www.chiesa:

> Pericolo Anticristo! Il cardinale Biffi dà la sveglia alla Chiesa (3.6.2005)

> Giacomo Biffi vescovo, l'ultimo dei grandi Ambrosiani (28.10.2002)

> Martiri cristiani del 2001. E Biffi striglia la Chiesa (3.1.2002)

> Pinocchio riletto dal cardinale Biffi: "L'alto destino di una testa di legno" (24.8.2000)

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E su due personaggi, Divo Barsotti e Giuseppe Dossetti, sui quali il cardinale Biffi formula nelle sue memorie due giudizi opposti:

> Divo Barsotti, un profeta per la Chiesa d'oggi (28.8.2007)

> Concilio "capovolto" e Opus Dei. Un inedito bomba di Giuseppe Dossetti (1.12.2003)
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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 2 novembre 2007

 dal sito:


http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/173602

Nagasaki città dell'atomica. E dei martiri cristiani


 
Sono 188, di quattro secoli fa, e saranno beatificati tra un anno. Nella stessa città in cui nel 1945 furono uccisi in un sol giorno i due terzi dei cattolici del Giappone. Fu questa una scelta deliberata?


di Sandro Magister
 


ROMA, 30 ottobre 2007 – Nelle memorie del cardinale Giacomo Biffi da oggi in vendita nelle librerie, c'è un passaggio con il finale in sospeso, che riguarda il Giappone.


È là dove Biffi ricorda il forte impatto che ebbe su di lui nel 1945 la notizia delle bombe atomiche sganciate dagli Stati Uniti il 6 agosto su Hiroshima e il 9 agosto su Nagasaki.


Scrive:


“Di Nagasaki avevo già sentito parlare. L’avevo ripettamente incontrata nel 'Manuale di storia delle missioni cattoliche' di Giuseppe Schmidlin, tre volumi pubblicati a Milano nel 1929. A Nagasaki fin dal secolo XVI era sorta la prima consistente comunità cattolica del Giappone. A Nagasaki il 5 febbraio 1597 avevano dato la vita per Cristo trentasei martiri (sei missionari francescani, tre gesuiti giapponesi, ventisette laici), canonizzati da Pio IX nel 1862. Quando riprende la persecuzione nel 1637 vengono uccisi addirittura trentacinquemila cristiani. Poi la giovane comunità vive, per così dire, nelle catacombe, separata dal resto della cattolicità e senza sacerdoti; ma non si estingue. Nel 1865 il padre Petitjean scopre questa 'Chiesa clandestina', che si fa da lui riconoscere dopo essersi accertata che egli è celibe, che è devoto di Maria e obbedisce al papa di Roma; e così la vita sacramentale può riprendere regolarmente. Nel 1889 è proclamata in Giappone la piena libertà religiosa, e tutto rifiorisce. Il 15 giugno 1891 viene eretta canonicamente la diocesi di Nagasaki, che nel 1927 accoglie come pastore monsignor Hayasaka, che è il primo vescovo giapponese ed è consacrato personalmente da Pio XI. Dallo Schmidlin veniamo a sapere che nel 1929 di 94.096 cattolici nipponici ben 63.698 sono di Nagasaki”.


Premesso questo, il cardinale Biffi conclude con una domanda inquietante:


“Possiamo ben supporre che le bombe atomiche non siano state buttate a casaccio. La domanda è quindi inevitabile: come mai per la seconda ecatombe è stata scelta, tra tutte, proprio la città del Giappone dove il cattolicesimo, oltre ad avere la storia più gloriosa, era anche più diffuso e affermato?”.

 

* * *
 

In effetti, tra le vittime della bomba atomica su Nagasaki scomparvero in un sol giorno i due terzi della piccola ma vivace comunità cattolica giapponese. Una comunità quasi azzerata con la violenza per due volte in tre secoli.

Nel 1945 lo fu per un atto di guerra misteriosamente concentratosi su di essa. Tre secoli prima per una terribile persecuzione molto simile a quella dell'impero romano contro i primi cristiani, con epicentro sempre Nagasaki e la sua “collina dei martiri”.

Eppure, da entrambe queste tragedie la comunità cattolica giapponese ha saputo risorgere. Dopo la persecuzione del Seicento, dei cristiani mantennero viva la fede trasmettendola dai genitori ai figli per due secoli, pur privi di vescovi, preti e sacramenti. Si racconta che il venerdì santo del 1865 ben diecimila di questi “kakure kirisitan”, cristiani nascosti, sbucarono dai villaggi e si presentarono a Nagasaki agli stupiti missionari che avevano da poco riavuto accesso in Giappone.


E anche dopo la seconda ecatombe di Nagasaki, quella del 1945, la Chiesa cattolica è rinata, in Giappone. Gli ultimi dati ufficiali, del 2004, stimano in poco più di mezzo milione i giapponesi di fede cattolica. Pochi in rapporto a una popolazione di 126 milioni. Ma rispettati e influenti, anche grazie a una fitta rete di loro scuole e università.

Inoltre, se ai giapponesi di nascita si sommano gli immigrati da altri paesi dell'Asia, il numero dei cattolici raddoppia. Un rapporto del 2005 della commissione per i migranti della conferenza episcopale calcola che il totale dei cattolici abbia di recente superato il milione, per la prima volta nella storia del Giappone. 


* * * 


Su questo sfondo prende una luce nuova un decreto autorizzato il 1 giugno 2007 da Benedetto XVI: la beatificazione di 188 martiri del Giappone, che si aggiungono ai 42 santi e ai 395 beati – tutti martiri – già elevati agli altari dai precedenti papi.

La beatificazione – la prima mai tenuta in Giappone – sarà celebrata il 24 novembre del 2008 proprio a Nagasaki dal prefetto della congregazione delle cause dei santi, cardinale José Saraiva Martins, come inviato speciale di Benedetto XVI.

I 188 martiri giapponesi che saranno beatificati l'anno prossimo sono classificati nelle carte del processo canonico come “padre Kibe e i suoi 187 compagni”. Sono stati uccisi a causa della loro fede tra il 1603 e il 1639.


Pietro Kibe Kasui nacque nel 1587, nell'anno in cui il maresciallo della corona a Nagasaki, lo shogun Hideyoshi, emise un editto che ingiungeva ai missionari stranieri di lasciare il paese. Dieci anni dopo cominciarono le persecuzioni.

A quell'epoca in Giappone si contavano circa 300 mila cattolici, evangelizzati prima dai gesuiti, con san Francesco Saverio, e poi anche dai francescani.

Nel febbraio 1614 un altro editto impose la chiusura delle chiese cattoliche e il confinamento a Nagasaki di tutti i sacerdoti rimasti, stranieri e locali.


Nel novembre dello stesso anno i sacerdoti e i laici che guidavano le comunità furono costretti ad andare in esilio. Kibe riparò prima a Macao e poi a Roma.

Fu ordinato sacerdote il 15 novembre 1620 e, dopo aver completato il noviziato a Lisbona, pronunciò i primi voti da gesuita il 6 giugno 1622.

Tornato in Giappone fra i cattolici sottoposti a crudele persecuzione, nel 1639 fu catturato a Sendai assieme ad altri due sacerdoti. Torturato per dieci giorni di fila, rifiutò di abiurare. E fu martirizzato a Edo, l'attuale Tokyo.


Uno dei suoi 187 compagni di martirio, per la maggior parte laici, fu Michele Kusurya, detto il “buon samaritano di Nagasaki”. Salì la “collina dei martiri”, poco fuori la città, cantando dei salmi. Morì, come molti, legato al palo e bruciato a fuoco lento.

Un altro dei prossimi beati fu Nicola Keian Fukunaga. Morì gettato in fondo a un pozzo di fango, dove fino all'ultimo pregò a voce alta, chiedendo perdono “per non aver portato Cristo a tutti i giapponesi, a cominciare dallo shogun”.

Altri martiri furono uccisi inchiodati su croci o tagliati a pezzi, con inaudite crudeltà che non risparmiavano donne e bambini. Oltre che dalle uccisioni, la comunità cattolica fu falcidiata dalle apostasie di quelli che abiuravano per paura. Eppure non fu annientata. Una parte si celò nella clandestinità e conservò la fede fino all'arrivo, due secoli dopo, di un regime più libero.


Lo scorso settembre la diocesi di Takamatsu ha dedicato un simposio a un altro ancora dei 188 martiri che saranno beatificati nel 2008, il gesuita Diego Ryosetsu Yuki, discendente di una famiglia di shogun.

Uno dei relatori, il professor Shinzo Kawamura della Università Sophia dei gesuiti di Tokyo, ha mostrato che la forza indomita con cui tanti cattolici di quell'epoca resistettero alle torture e affrontarono il martirio proveniva anche dallo spirito comunitario con cui essi si sostenevano a vicenda, nella fede. In parte avevano preso come modello le comunità buddiste di Jodo Shinshu, della Terra Pura. “Furono le kumi, le comunità dei kirisitan, dei cristiani, il terreno sul quale fiorirono i 188 martiri. La Chiesa di quell'epoca in Giappone era una vera Chiesa di popolo”. 


Fraternamente CaterinaLD

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Confidenze del cardinale arcivescovo emerito di Bologna

A vent'anni mi sono innamorato di Sofia



È in uscita il volume di Inos Biffi
In dialogo sul cristocentrismo.
Lettura dei saggi di Giacomo Biffi
(Milano, Jaca Book, 2009, pagine 122, euro 13).

Pubblichiamo il testo della premessa.

di Giacomo Biffi


A vent'anni anch'io mi sono innamorato:  mi sono innamorato della "divina Sofia". Però lei, quando mi si è fatta conoscere, non mi si è presentata con questo suo nome insolito e arcano, che mi avrebbe sconcertato e prevedibilmente volto in fuga. Mi ha dato il nome con cui la chiamavano tutti:  "teologia". Era il suo nome usuale; ed era un nome antico e splendido che a nessun costo, oggi come ieri, è lecito disattendere o mettere fuori gioco.
 
Ma sopravvenne poi sui miei giovani anni una stagione in cui quel nome è andato banalizzandosi, disperso nelle attenzioni più varie e piegato agli interessi più disparati (teologia delle realtà terrestri, teologia politica, teologia ecumenica, teologia per i lontani, teologia del lavoro, teologia dello sport, eccetera). In quel contesto non era remoto per me il pericolo di disamorarmi e di darmi ad altri svaghi.

Per fortuna la divina Sofia nel frattempo aveva pensato di rivelarmi qualcosa di più dell'intima sua natura, facendomi conoscere il cristocentrismo. Mi è stata cioè fatta la grazia di capire che il cristocentrismo - se lo si intende senza superficialità e senza ingiustificate ritrosie - è il contenuto pertinente e l'intelligenza adeguata dell'intera sacra doctrina:  la teologia, quando è autentica - quando decide di essere solo se stessa - è intrinsecamente e totalmente cristocentrica.

In tal modo, l'amore dei miei vent'anni si è salvato ed è rimasto sostanzialmente intatto, pur se sono andato crescendo nella comprensione della bellezza che mi aveva ammaliato e nella scoperta delle sue molteplici implicazioni col nostro esistere.

L'amore dunque è rimasto immutato anche se poi il mio linguaggio è andato accogliendo qualche arricchimento concettuale e terminologico. Per esempio, alla scuola della lettera agli Efesini, la teologia mi è apparsa anche vagheggiamento ed esplorazione di un "disegno":  "il disegno (oikonomìa) di ricapitolare in Cristo tutte le cose" (Efesini, 1, 10); "il disegno eterno (pròtesis) che ha attuato in Cristo Gesù nostro Signore" (Efesini, 3, 11).

Il "guadagno" di tale apporto non è irrilevante:  con la categoria del "disegno" è dato miglior risalto all'iniziativa del Padre, che preordina e decide tutto; e anche il cristocentrismo ha la sua prima origine nella divina preconoscenza e nella divina predestinazione.

A prevenire inoltre qualche malinteso intellettualistico e a cogliere tutta la concretezza della divina Sofia, ho cominciato a un certo punto a sottolineare che la teologia è contemplazione ed esperienza di una "res" (vale a dire, di una "realtà"):  il "disegno" non è solo un'intenzione che vive nella mente e nella libera elezione del Padre; è altresì l'universalità organica e compaginata in Cristo di tutto ciò che effettivamente esiste. Sicché l'oggetto della teologia è anche l'ideale cristocentrico del Creatore in quanto progressivamente si realizza in conformità col suo progetto eterno.

Non potrebbe essere altrimenti:  la res trascendente - che noi sappiamo essere cristocentrica - è, secondo una celebre sentenza di san Tommaso, l'approdo ultimo di ogni conoscenza di fede:  Actus fidei non terminatur ad enuntiabile sed ad rem (iia-iiae, q. 1, a. 2, ad 2um); lo sarà perciò anche di ogni conoscenza teologica, la quale non è altro che la stessa luce della fede in quanto si irradia in un uomo intellettualmente e spiritualmente maturo e "riuscito".

Devo dire che nel succedersi delle mie pubblicazioni solo in due occasioni ho osato in modo esplicito offrire il mio "teologare" nella forma di una amorosa contemplazione della divina Sofia, vista come mistero primordiale, sintetico e onnicomprensivo dell'ordine di cose di fatto esistente:  nel 1984 con un "epitalamio" che costituisce la terza parte del volume La bella, la bestia e il cavaliere; nel 2000 in una "esercitazione di teologia anagogica" dal titolo Canto nuziale.
 
Ho rievocato fin qui una sorta di provvidenziale "infatuazione" che ha segnato il mio atteggiamento interiore verso la Rivelazione divina e il mio rapporto con l'avvenimento cristiano:  benedetta infatuazione della quale non finisco di ringraziare il Signore.

Questa mia è stata però una rievocazione epidermica, senza una chiarificazione dei contenuti. Tanto che il discorso potrebbe apparire a un eventuale lettore abbastanza incomprensibile, al punto di non essere meritevole di qualche considerazione. Per la verità non avrei neppur pensato di offrire tale "sproloquio confidenziale", se non avessi saputo in antecedenza che sarebbe stato accompagnato da un testo dove tutto sarebbe stato spiegato per filo e per segno.

Monsignor Inos Biffi si è sobbarcato al compito di ripercorrere nelle sue varie fasi la mia avventura, delucidandola con cura e perfino giustificandola con misericordiosa maestria; un'avventura speculativa che credo di poter dire sia stata, soprattutto negli approdi, sostanzialmente anche la sua. Queste sue pagine sono per me un regalo inestimabile:  mi hanno dato una grande gioia e un'inattesa consolazione in questo mio entrare nell'ottantesimo anno di età.

Don Inos come nessun altro aveva le carte in regola per cimentarsi fruttuosamente in simile fatica. Il mio itinerario teologico si è svolto, per così dire, passo passo sotto i suoi occhi, favorito e lievitato dalle molte ore di una periodica conversazione che reciprocamente ci arricchiva e ci illuminava. Sicché ambedue trovavamo naturale che il più delle volte le mie pubblicazioni fossero supportate e impreziosite da una sua puntuale, oggettiva, benevola introduzione.

È bastato radunare questi interventi, aggiungendovi un nuovo prologo ampiamente orientativo, perché fosse felicemente raggiunto lo scopo di accreditare - con l'autorevolezza incontestabile del teologo acuto, invidiabilmente informato e teoreticamente robusto - la mia modesta ma appassionata proposta cristocentrica.

Con perspicacia e cordiale compiacimento Inos Biffi rileva che in questa formulazione della "sacra doctrina" tutto si coinvolge e si integra:  abbracciati da un unico sguardo "abbiamo una cristologia, una mariologia, una ecclesiologia, una sponsalità umana, dove Scrittura, Tradizione e ragione teologica si fondono felicemente quasi a ricreare i trattati manualistici e a renderne avvincente la materia" (p. 30).

Gli riesce allora agevole rinvenire, in conclusione, una denominazione distintiva e quasi un marchio:  "Forse non siamo lontani dal vero se definiamo la teologia che appare da questi saggi una teologia dell'integralità cristiana" (p. 15). È una qualifica alla quale non avevo mai pensato; ma in essa mi ritrovo, e mi piace. Non è escluso che qui ci sia qualche inconsapevole influsso delle mie lontane letture di Vladimir Sergeevic Solovev e della sua forte asserzione della "unitotalità" (vséenstvo) come prerogativa della realtà nella sua intrinseca verità.

L'identità del cognome e l'assidua collaborazione hanno fatto supporre al alcuni che don Inos e io fossimo fratelli. Non siamo nemmeno parenti.
Spiritualmente e culturalmente proveniamo però da una molteplice matrice comune
.

Siamo stati generati e allevati dalla stessa Chiesa di Milano; la Chiesa di Schuster, di Montini, di Colombo:  solida nel suo Credo e nelle sue strutture, pastoralmente operosa e saggia, intraprendente nella sua sollecitudine apostolica.

Ambedue dall'antica scuola di Venegono siamo stati formati a un serio impegno verso la verità, al gusto della ricerca, al rigore dell'argomentazione. Ambedue ci siamo dedicati alla frequentazione ammirata degli autori medievali (lui da grande e riconosciuto protagonista, io da piccolo dilettante). Ambedue abbiamo avuto in sorte, contro ogni nostra previsione, la necessità e l'obbligo di una conoscenza ravvicinata e totale delle opere di sant'Ambrogio; e ambedue ci siamo resi conto del valore e dell'originalità (ignoti ai più, in questa stagione) del pensiero di questo nostro padre e maestro. Ambedue abbiano sempre cercato di onorare il programma di congiungere la piena fedeltà al dato rivelato e l'adesione senza eclissi alla Sposa di Cristo con uno spirito e uno stile di libertà:  Ubi fides ibi libertas.

Possiamo dunque parlare di una reale fraternità:  una fraternità ecclesiale e segnatamente teologica. Per dirla con le parole della liturgia ambrosiana:  Haec est vera fraternitas, quae numquam potuit violari certamine (Responsorio nella festa dei santi Protaso e Gervaso).



(©L'Osservatore Romano - 7 maggio 2009)


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Le memorie scomode del cardinale Biffi

Esce in libreria la nuova edizione della sua autobiografia. Con cento pagine in più e molte sorprese: sul dopoconcilio, gli ebrei, la donna, la castità, l'omosessualità. Eccone un'anteprima

di Sandro Magister




ROMA, 16 novembre 2010 – Tra due giorni uscirà nelle librerie italiane la nuova edizione ampliata delle memorie del cardinale Giacomo Biffi, 82 anni, milanese, arcivescovo di Bologna dal 1984 al 2003.

La prima edizione del libro, uscita nel 2007, ebbe una forte risonanza. Nella Quaresima di quello stesso anno Benedetto XVI aveva chiamato Biffi a predicare gli esercizi spirituali in Vaticano.

Di quel primo volume colpirono i giudizi con cui il cardinale criticava l'ingenuità di Giovanni XXIII, i frutti negativi del Concilio Vaticano II, i silenzi sul comunismo, i "mea culpa" di Giovanni Paolo II, e tante altre cose ancora.

Anche questa nuova edizione farà sicuramente rumore. Nel ripercorrere la sua vita, Biffi ha aggiunto nuovi capitoli e nuove riflessioni. Sempre col suo stile pungente, ironico, anticonformista.

Le pagine in più sono un centinaio, delle quali sono anticipati più sotto tre brani: sulle aberrazioni del dopoconcilio, sulla Chiesa e gli ebrei, sull'ideologia dell'omosessualità.

*

Ma c'è molto altro ancora di nuovo, in questa seconda edizione del libro.

Un intero nuovo capitolo è dedicato, ad esempio, alla "sfida della castità", con riflessioni originali e sorprendenti sulla risposta cristiana – compreso il celibato "per il regno dei cieli" – alle teorie e alle pratiche sessuali dominanti.

Un'altra ampia "digressione" riguarda la concezione che il cristianesimo ha della donna, rivoluzionaria rispetto a quelle prevalenti in vari tempi e in varie culture.

Altre pagine rivisitano un papa molto criticato, Pio IX, con osservazioni acute sulle scelte lungimiranti da lui compiute.

Inoltre, da milanese purosangue qual è, il cardinale Biffi non tace sulle vicissitudini del rito ambrosiano, l'antichissimo e splendido rito liturgico in uso nella diocesi di Milano dai tempi di sant'Ambrogio.

Dopo aver seriamente rischiato di essere abolito subito dopo il Concilio, il rito ambrosiano è stato adattato alle novità conciliari con un imponente lavoro del quale Biffi è stato uno dei protagonisti, quand'era vescovo ausiliare di Milano.

Di recente, però, è capitato qualcosa che lo stesso Biffi ha già denunciato pubblicamente, e che così riassume nella nuova edizione delle sue memorie:

"A partire dal 2008, la serie dei libri ambrosiani ha cominciato a essere accresciuta dei volumi di un sorprendente lezionario offerto ai cultori della liturgia milanese.

"Vi si trova di tutto: archeologismi vani e talora anche forvianti; avventurose iniziative rituali; prospettive teologiche poco fondate ed equivoche; proposte pastorali senza buon senso e perfino qualche curiosa amenità linguistica.

"È un’impresa di grande respiro, audace senza alcun dubbio e ambiziosa: più audace che saggia, più ambiziosa che illuminata. Rimarrà viva a lungo nella memoria allibita della nostra Chiesa.

"Adesso possiamo solo affidarci alla speranza che un 'opus singulare' come questo non divenga il primo esempio di una nuova serie di testi liturgici, elaborati con analoga improntitudine e con lo stesso deplorevole risultato".

*

Un altro riferimento alla diocesi di Milano è in un capitolo che il cardinale Biffi ha aggiunto verso la fine del libro, per confortare chi teme un declino o perfino una scomparsa del cristianesimo nel mondo.

Per mostrare che Dio "può sempre capovolgere a favore dei credenti le situazioni che si dimostrano più disperate", Biffi porta due esempi.

Il primo è la nomina di Ambrogio nel 374 a vescovo di Milano:

"Dopo il ventennio di episcopato di Aussenzio, un uomo dalla fede inquinata, ammanicato con l’ariana imperatrice Giustina e docile strumento delle invadenze della corte nella vita della 'nazione santa', umanamente parlando nessuno avrebbe puntato un soldo sulla ripresa del cattolicesimo milanese. Ma venne Ambrogio e tutto cambiò. 'Dopo la tarda morte di Aussenzio – scrive san Gerolamo nel suo 'Chronicon' – a Milano diventa vescovo Ambrogio e tutta l’Italia tornò alla vera fede'".

Il secondo esempio è l'arrivo di Carlo Borromeo nel 1566 alla guida della diocesi:

"Nella seconda parte del secolo XVI, dopo il lungo periodo della irreperibilità 'de facto' dei pastori nominati (con l’episcopato, tra l’altro, dei due mondani prelati ferraresi, Ippolito I e Ippolito II d’Este) nessuno poteva decentemente sperare in un rifiorire della cristianità ambrosiana. Ma arrivò nel 1566 Carlo Borromeo, un cardinale ventisettenne, e incominciò la vera 'Riforma cattolica'".

Commenta Biffi:

"In ambedue i casi il 'miracolo' fu compiuto utilizzando le storture comportamentali degli uomini. La scelta episcopale di Ambrogio, un leale e abile funzionario imperiale, era nei piani di Valentiniano I per accrescere la sua inframmettenza politica nella vita ecclesiale. La carriera di Carlo Borromeo originava dal deplorevole nepotismo del papa Pio IV, fratello della sua mamma.

"È, ancora una volta, l’umorismo di Dio, che si diverte a ricavare il bene dal male. Come si vede, anche nelle stagioni più deprimenti, il popolo dei credenti può sempre guardare in alto, pregare con animo sereno e sperare".

Sui vescovi di Milano degli ultimi trent'anni non una parola, in questo capitolo. Ma basta leggere l'intero suo libro di memorie per capire come Biffi li giudichi.

Per lui, l'epoca luminosa dei grandi vescovi di Milano del Novecento – eredi genuini di sant'Ambrogio e san Carlo Borromeo – si è conclusa con Giovanni Colombo. Mentre i suoi successori Carlo Maria Martini e Dionigi Tettamanzi non hanno affatto brillato. Dopo di loro, c'è solo da sperare in un altro "miracolo".

*

Infine, un altro capitolo nuovo di questo libro del cardinale Biffi riguarda Giuseppe Dossetti, politico e poi sacerdote, uomo chiave del Concilio Vaticano II, personalità straordinariamente influente nella cultura cattolica degli ultimi decenni, non solo in Italia.

Biffi conobbe bene Dossetti, che viveva nella diocesi di Bologna. Lo definisce un "autentico uomo di Dio" e un "discepolo generoso del Signore". Ma alla domanda: "È stato anche un vero teologo e un affidabile maestro nella sacra dottrina?", la risposta del cardinale è no.

Un no molto argomentato. Che farà sicuramente discutere. Ma su questo www.chiesa tornerà in un successivo servizio.

Ecco intanto tre assaggi delle molte novità contenute nella seconda edizione delle memorie del cardinale Biffi.

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CONCILIO E "POSTCONCILIO"


(pp. 191-194)


A fare un po’ di chiarezza nella confusione che ai nostri giorni affligge la cristianità, è incombenza preliminare e ineludibile distinguere con ogni cura l’evento conciliare dal clima ecclesiale che ne è seguito. Sono due fenomeni diversi ed esigono un apprezzamento differenziato.

Paolo VI sinceramente credette nel Concilio Vaticano II e nella sua positiva rilevanza per l’intera cristianità. Ne fu un decisivo protagonista, seguendone con attenzione quotidiana i lavori e le discussioni, aiutandolo a superare le ricorrenti difficoltà dei suoi percorsi.

Egli si aspettava che, in virtù del comune impegno sia di tutti i titolari del carisma apostolico sia del successore di Pietro, un’epoca benedetta di accresciuta vitalità e di fecondità eccezionale dovesse da subito beneficare e allietare la Chiesa.

Invece il “postconcilio”, in molte sue manifestazioni, lo preoccupò e lo deluse. Allora con ammirevole schiettezza rivelò il suo accoramento; e l’appassionata lucidità delle espressioni colpì tutti i credenti; quelli almeno la cui vista non fosse troppo obnubilata dall’ideologia.

Il 29 giugno 1972, nella festa dei santi Pietro e Paolo, parlando a braccio, arriva ad affermare "di avere la sensazione che da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio. C’è il dubbio, l’incertezza, la problematica, l’inquietudine, l’insoddisfazione, il confronto. Non ci si fida della Chiesa… Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di buio, di ricerca, di incertezza… Crediamo in qualche cosa di preternaturale (il diavolo) venuto nel mondo per turbare, per soffocare i frutti del Concilio Ecumenico e per impedire che la Chiesa prorompesse nell’inno di gioia di aver riavuto in pienezza la conoscenza di sé". Sono parole dolenti e severe sulle quali non bisogna stancarsi di riflettere.

Come è potuto succedere che dai pronunciamenti legittimi e dai testi del Vaticano II sia derivata una stagione così diversa e lontana?

La questione è complessa e le ragioni sono multiformi; ma senza dubbio ha avuto il suo peso anche un processo (per così dire) di aberrante “distillazione”, che dal “dato” conciliare autentico e vincolante ha estratto una mentalità e una moda linguistica del tutto eterogenee. È un fenomeno che nel “postconcilio” affiora qua e là, e continua a riproporsi più o meno esplicitamente.

Potremo, per farci capire, avventurarci a indicare il procedimento schematico di tale curiosa “distillazione”.

La prima fase sta in un accostamento discriminatorio del dettato conciliare, che distingua i testi accolti e citabili da quelli inopportuni o almeno inutili, da passare sotto silenzio.

Nella seconda fase si riconosce come prezioso insegnamento del Concilio non quello in realtà formulato, ma quello che la santa assemblea ci avrebbe elargito se non fosse stata intralciata dalla presenza di molti padri retrogradi e insensibili al soffio dello Spirito.

Con la terza fase si insinua che la vera dottrina del Concilio non è quella di fatto canonicamente formulata e approvata, ma quella che sarebbe stata formulata e approvata se i padri fossero stati più illuminati, più coerenti, più coraggiosi.

Con una metodologia teologica e storica siffatta – non enunciata mai in forma così palese, ma non per questo meno implacabile – è facile immaginare il risultato che ne deriva: quello che viene in maniera quasi ossessiva addotto ed esaltato non è il Concilio che di fatto è stato celebrato, ma (per così dire) un “Concilio virtuale”; un Concilio che ha un posto non nella storia della Chiesa, ma nella storia dell’immaginazione ecclesiastica. Chi poi si azzarda pur timidamente a dissentire, è segnato col marchio infamante di “preconciliare”, quando non è addirittura annoverato coi tradizionalisti ribelli o con gli esecrati integralisti.

E poiché tra i “distillati di frodo” dal Concilio c’è anche il principio che ormai non c’è errore che possa essere più condannato entro la cattolicità a meno di peccare contro il dovere primario della comprensione e del dialogo, diventa oggi difficile, tra i teologi e i pastori, il coraggio di denunciare con vigore e con tenacia i veleni che stanno progressivamente intossicando l’innocente popolo di Dio.



UN CARDINALE E UN PAPA IN DIFESA DEGLI EBREI

(pp. 360-362)


Il 4 novembre 1988 gli ebrei di Bologna hanno doverosamente pensato di fare pubblica memoria, nel 50.mo anniversario, delle infami e vergognose leggi antisemite del 1938. Con tutto l’animo e con pieno convincimento ho voluto manifestare in quell’occasione a nome dell’intera Chiesa della città la mia totale adesione, assicurando la personale presenza al rito commemorativo nella sede della sinagoga, dove sono stato accolto con viva cordialità e ho preso parte alla preghiera.

Nella circostanza mi sono tornati alla mente i fatti di quel lontano 1938, che già allora mi avevano singolarmente colpito, benché non avessi neppure undici anni di età.

In quei giorni le norme antiebraiche – precedute da diverse pubblicazioni sulla “razza”, di natura pseudoscientifica, avallate se non addirittura commissionate dal regime – piovvero a più riprese sull’attonita nazione italiana. Per citare solo quelle di cui ho qualche notizia, il 1° settembre un decreto-legge del consiglio dei ministri cominciò a vietare agli stranieri di origine israelitica la stabile dimora sul nostro territorio. Il 2 settembre un altro decreto-legge estromise da tutte le scuole del regno di ogni ordine e grado i docenti e gli alunni di razza ebraica. Il 10 novembre, sempre con un decreto-legge si esclusero gli ebrei da ogni impiego nella pubblica amministrazione, negli enti parastatali e nelle aziende municipalizzate. E non eravamo che all’inizio delle vessazioni, che poi si fecero sempre più fitte e devastanti.

Il nostro popolo, colto di sorpresa, era disorientato e sgomento, quando improvvisamente si levò a Milano una voce – era la prima e rimase l’unica – che ebbe il coraggio di prendere apertamente le distanze da tanta follia.

Il 13 novembre il cardinale Schuster dal pulpito del duomo di Milano, per l’inizio dell’Avvento ambrosiano, pronunciò un’omelia che fin dalle prime parole, invece di richiamare il contesto liturgico, affrontò subito l’argomento che più lo preoccupava:

"È nata all’estero e serpeggia un po’ dovunque una specie di eresia, che non solamente attenta alle fondamenta soprannaturali della cattolica Chiesa, ma materializzando nel sangue umano i concetti spirituali di individuo, di nazione e di patria, rinnega all’umanità ogni altro valore spirituale, e costituisce così un pericolo internazionale non minore di quello dello stesso bolscevismo. È il cosiddetto razzismo".

È difficile oggi rendersi conto dell’impressione suscitata da quelle parole di critica nei confronti del pensiero e comportamento di un governo che, ormai da decenni, non tollerava neppure la più tenue espressione dissonante. Esse non rimasero confinate entro la pur solenne atmosfera di una cattedrale affollata: furono stampate nella "Rivista Diocesana Milanese" e, due giorni dopo che erano state pronunciate, divulgate ne "L’Italia", il quotidiano cattolico che entrava nelle nostre case. A Roma, dagli ambienti fascisti, si cominciò a chiedere una ritrattazione o almeno un evidente cambio di indirizzo del giornale, con la minaccia (in caso contrario) di una soppressione senza appello.

Il cardinale però non fu lasciato solo. Da parte del papa arrivò un messaggio a firma del segretario monsignor Carlo Confalonieri: "Il Santo Padre esorta il cardinale di Milano a sostenere con coraggio la dottrina cattolica, poiché non si può cedere su questo punto, né il giornale 'L’Italia' può cambiare indirizzo. 'Aut sit ut est, aut non sit' [O così, o niente]. Che, se fosse costretto a cessare le pubblicazioni, si passino i nominativi degli abbonati all’'Osservatore Romano'".

L’ultima frase ci ricorda che Pio XI non abbandonava mai la sua “concretezza milanese”, nemmeno nei momenti più decisivi e drammatici della sua azione pontificale.

Ero solo un ragazzo; ma da quella vicenda ho capito quale fortuna “laica” e razionale sia, quando sopraggiunge l’ora della generale pavidità e del conformismo accondiscendente, la presenza nel nostro paese della Chiesa del Dio vivente, colonna e fondamento della verità (cfr. 1 Timoteo 3, 15).

C’è stato invece recentemente in Italia chi (dall’alto di una delle massime cariche dello stato), in un intervento pubblico del tutto immotivato, ha parlato di un deplorevole silenzio della Chiesa in quella circostanza. Certo, essendo egli del 1952, ha l’attenuante che all’epoca non era ancora nato; ma ha l’aggravante di aver voluto, ciò nonostante, intervenire nel merito, rivelando al tempo stesso i suoi gratuiti preconcetti e la sua singolare disinformazione.



L'IDEOLOGIA DELL'OMOSESSUALITÀ

(pp. 609-612)


Riguardo al problema oggi emergente dell’omosessualità, la concezione cristiana ci dice che bisogna sempre distinguere il rispetto dovuto alle persone, che comporta il rifiuto di ogni loro emarginazione sociale e politica (salva la natura inderogabile della realtà matrimoniale e familiare), dal rifiuto di ogni esaltata “ideologia dell’omosessualità”, che è doveroso.

La parola di Dio, come la conosciamo in una pagina della lettera ai Romani dell’apostolo Paolo, ci offre anzi un’interpretazione teologica del fenomeno della dilagante aberrazione culturale in questa materia: tale aberrazione – afferma il testo sacro – è al tempo stesso la prova e il risultato dell’esclusione di Dio dall’attenzione collettiva e dalla vita sociale, e della renitenza a dargli la gloria che gli spetta (cfr. Romani 1, 21).

L’estromissione del Creatore determina un deragliamento universale della ragione: "Si sono perduti nei loro vani ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti" (Romani 1, 21-22). In conseguenza di questo accecamento intellettuale, si è verificata la caduta comportamentale e teorica nella più completa dissolutezza: "Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, tanto da disonorare fra loro i propri corpi" (Romani 1, 24).

E a prevenire ogni equivoco e ogni lettura accomodante, l’apostolo prosegue in un’analisi impressionante, formulata con termini del tutto espliciti:

"Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; infatti le loro femmine hanno cambiato i rapporti naturali in quelli contro natura. Egualmente anche i maschi, lasciando il rapporto naturale con la femmina, si sono accesi di desiderio gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi maschi con maschi, ricevendo cos. in se stessi la retribuzione dovuta al loro traviamento. E poiché non ritennero di dover conoscere Dio adeguatamente, Dio li ha abbandonati alla loro intelligenza depravata ed essi hanno commesso azioni indegne" (Romani 1, 26-28).

Infine san Paolo si premura di osservare che l’abiezione estrema si ha quando “gli autori di tali cose… non solo le commettono, ma anche approvano chi le fa” (cfr. Romani 1, 32).

È una pagina del libro ispirato, che nessuna autorità terrena può costringerci a censurare. E neppure ci è consentita, se vogliamo essere fedeli alla parola di Dio, la pusillanimità di passarla sotto silenzio per la preoccupazione di apparire non “politicamente corretti”.

Dobbiamo anzi far notare il singolare interesse per i nostri giorni di questo insegnamento della Rivelazione: ciò che san Paolo rilevava come avvenuto nel mondo greco-romano, si dimostra profeticamente corrispondente a ciò che si è verificato nella cultura occidentale in questi ultimi secoli. L’estromissione del Creatore – fino a proclamare grottescamente, qualche decennio fa, la “morte di Dio” – ha avuto come conseguenza (e quasi come intrinseca punizione) un dilagare di una visione sessuale aberrante, ignota (nella sua arroganza) alle epoche precedenti.

L’ideologia dell’omosessualità – come spesso capita alle ideologie quando si fanno aggressive e arrivano a essere politicamente vincenti – diventa un’insidia alla nostra legittima autonomia di pensiero: chi non la condivide rischia la condanna a una specie di emarginazione culturale e sociale.

Gli attentati alla libertà di giudizio cominciano dal linguaggio. Chi non si rassegna ad accogliere la “omofilia” (cioè l’apprezzamento teorico dei rapporti omosessuali), viene imputato di “omofobia” (etimologicamente la “paura dell’omosessualità). Deve essere ben chiaro: chi è reso forte dalla luce della parola ispirata e vive nel “timore di Dio”, non ha paura di niente, se non della stupidità nei confronti della quale, diceva Bonhoeffer, siamo senza difesa. Adesso si leva talvolta contro di noi addirittura l’accusa incredibilmente arbitraria di “razzismo”: un vocabolo che, tra l’altro, non ha niente a che vedere con questa problematica; e in ogni caso è del tutto estraneo alla nostra dottrina e alla nostra storia.

Il problema sostanziale che si profila è questo: è ancora consentito ai nostri giorni essere discepoli fedeli e coerenti dell’insegnamento di Cristo (che da millenni ha ispirato e arricchito l’intera civiltà occidentale), o dobbiamo prepararci a una nuova forma di persecuzione, promossa dagli omosessuali faziosi, dai loro complici ideologici e anche da coloro che avrebbero il compito di difendere la libertà intellettuale di tutti, perfino dei cristiani?

Una domanda rivolgiamo in particolare ai teologi, ai biblisti e ai pastoralisti. Perché mai in questo clima di esaltazione quasi ossessiva della Sacra Scrittura il passo paolino di Romani 1, 21-32 non è mai citato da nessuno? Come mai non ci si preoccupa un po’ di più di farlo conoscere ai credenti e ai non credenti, nonostante la sua evidente attualità?

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Il libro:

Giacomo Biffi, "Memorie e digressioni di un italiano cardinale", nuova edizione ampliata, Cantagalli, Siena, 2010, pp. 688, euro 25,00.

Mentre questa è la presentazione della precedente edizione delle memorie del cardinale, con alcuni brani scelti:

> Prima dell'ultimo conclave: "Che cosa ho detto al futuro papa"
(26.10.2007)

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Circa la disputa sul nuovo lezionario ambrosiano:

> Rito ambrosiano. La scure del cardinale Biffi sul nuovo lezionario (1.2.2010)

> Conflitti ambrosiani. Biffi batte, da Milano ribattono (15.2.2010)

> Al cardinale Biffi quel libro proprio non piace (11.3.2010)

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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06/10/2012 22:41
 
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[SM=g1740733] 26 luglio 2012:
È disponibile nelle librerie un fascicoletto, edito dalle Edizioni Studio Domenicano: ABC della Fede. Si tratta della raccolta di alcuni brevissimi interventi del Card. Giacomo Biffi.
Sono contenuti anche i testi delle riflessioni di 90 secondi proposte dal cardinale al TG1 delle 20, nel 1996, a cura di Giuseppe de Carli. Siamo riusciti a recuperare alcuni frammenti di quegli interventi.

www.gloria.tv/?media=315582





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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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