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Il Primato di Pietro e la Collegialità dei Vescovi nella Tradizione e nel Concilio Vaticano I

Ultimo Aggiornamento: 29/04/2014 21:32
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[SM=g1740758]  Da: Il Concilio Ecumenico Vaticano
cenni storici ed esposizione delle due sue Costituzioni dogmatiche
per opera di Paolo Angelo Ballerini

  • Dott. in T., Patriarca d'Alessandria

    Canonico ordinario della Metropolitana di Milano
    membro del Collegio teologico di Genova
    Milano 1880

    Esposizione della prima Costituzione dogmatica del Concilio Ecumenico Vaticano intorno alla Fede cattolica [Dei Filius]

    Traduzione del capo III della Costituzione Dei Filius (pag. 508-513)
    CAPO III. Della Fede.

    Siccome l'uomo dipende totalmente da Dio qual suo Creatore e Signore, e la ragione creata è onninamente soggetta all'increata Verità, così a Dio rivelante dobbiamo colla fede prestare un pieno ossequio dell'intelletto e della volontà. La Chiesa Cattolica professa poi che questa fede, la quale è il principio dell'umana salvezza, è una virtù sopranaturale, per la quale in noi aspirando ed ajutandoci la grazia di Dio, crediamo esser vere le cose da lui rivelate, non a motivo dell'intrinseca loro verità veduta col lume naturale della ragione, ma a motivo dell'autorità del medesimo Dio rivelante, il quale non può nè ingannarsi, nè ingannare. Imperocchè, come attesta l'Apostolo, la fede è il fondamento delle cose da sperarsi, dimostrazione delle cose che non si veggono (Hebr. XI, 1.).

    Tuttavia, perchè l'ossequio della nostra fede sia consentaneo alla ragione, volle Iddio che agli interni ajuti dello Spirito Santo andassero congiunte le prove esterne della sua Rivelazione, vale a dire certi fatti divini, e primieramente i miracoli e le profezie, i quali dimostrando evidentemente l'onnipotenza e la scienza infinita di Dio, sono segni certissimi e appropriati all'intelligenza di tutti della divina Rivelazione. Per il che così Mosè e i Profeti, come massimamente lo stesso Cristo Signore, fecero molti e manifestissimi miracoli e profezie, e degli Apostoli leggiamo: Eglino poi partiti predicarono per ogni dove, cooperando il Signore, e confermando la loro parola con susseguenti prodigi (Marc. XVI, 20.). E sta scritto pur anco: Abbiamo la più autorevole parola dei profeti, a cui ben fate attendendo, come a lucerna splendente in luogo tenebroso (II Petri, I, 19.).

    Ma sebbene l'assenso della fede non sia un movimento cieco dell'animo, nessuno però può assentire alla predicazione evangelica come fa d'uopo per conseguir la salute, senza l'illustrazione e l'ispirazione dello Spirito Santo, il quale dà a tutti la soavità nell'assentire e nel credere alla verità (Synod. Arausic. II, can. 7.). Per il che la fede medesima in sè, sebbene non operi per la carità, è un dono di Dio, e l'atto di essa è un'opera attinente alla salute, opera con cui l'uomo presta libera obbedienza al medesimo Iddio, consentendo e cooperando alla grazia di lui, alla quale potrebbe resistere.

    Or bene sono da credersi con fede divina e cattolica tutte quelle cose che si contengono nella parola di Dio scritta o tradizionale, e che dalla Chiesa, sia con solenne giudizio, sia per l'ordinario ed universal magistero, si propongono da credersi come divinamente rivelate.

    Ma poichè senza la fede è impossibile piacere a Dio, e pervenire al consorzio dei figli di lui, perciò niuno mai senza di essa conseguì la giustificazione, nè alcuno, se non avrà in essa perseverato sino alla fine, otterrà la vita eterna. E perchè potessimo soddisfare al dovere di abbracciare la vera fede, e di perseverarvi costantemente, Iddio per mezzo dell'unigenito suo Figlio istituì la Chiesa, e la corredò di note manifeste della sua istituzione, onde potesse da tutti venir riconosciuta qual custode e maestra della dottrina rivelata. Imperocchè alla sola Chiesa cattolica appartengono tutte quelle cose, che in tanto numero e tanto mirabili furono divinamente disposte a rendere evidente la credibilità della fede cristiana. Che anzi la Chiesa stessa per sè, cioè per la sua ammirabile propagazione, per la sua esimia santità e per l'inesausta fecondità in ogni bene, per la cattolica sua unità e per l'invitta stabilità, è pure un grande e perpetuo motivo di credibilità ed una testimonianza irrefragabile della sua legazione divina.

    Per il che avviene ch'essa, come vessillo innalzato fra le genti (Is. XI, 12.), e a sè inviti quelli che ancor non vennero alla fede, e i figli suoi rassicuri che la fede, cui essi professano, poggia sopra solidissimo fondamento. Ma a questa testimonianza s'aggiunge un efficace sussidio dalla virtù superna. Imperocchè il benignissimo Signore e gli erranti eccita ed ajuta colla sua grazia onde possano pervenire alla cognizione della verità, e quelli che dalle tenebre trasferì nell'ammirabile sua luce, conferma colla sua grazia onde perseverino in questa medesima luce, non abbandonando se non viene abbandonato. Per il che non è pari la condizione di quelli, che pel dono celeste della fede aderirono alla cattolica verità, e di quelli che indotti da umani opinamenti, seguono una falsa religione: imperocchè quelli che sotto il magistero della Chiesa abbracciarono la fede, non possono giammai avere una giusta cagione di mutare, o di rivocare in dubbio la fede stessa. Le quali cose così essendo, rendendo grazia a Dio Padre, che ci fece degni di partecipare alla sorte dei santi nella luce, non trascuriamo sì gran salute, ma mirando nell'Autore e Consumatore della fede Gesù, teniamo l'indeclinabile confessione della nostra speranza.
    Canoni
    III.
    Della Fede.

    1. Se alcuno dirà, la ragione umana essere così indipendente. che non le si possa da Dio comandare la fede; sia anatema.

    2. Se alcuno dirà, non distinguersi la fede divina dalla scienza naturale di Dio e delle cose morali, e perciò non richiedersi per la fede divina, che la verità rivelata si creda per l'autorità di Dio rivelante; sia anatema.

    3. Se alcuno dirà, che la rivelazione divina non possa rendersi credibile con segni esterni, e che perciò dalla sola interna esperienza individuale, o da privata ispirazione gli uomini debbano esser condotti alla fede; sia anatema.

    4. Se alcuno dirà, non potersi operare nessun miracolo, e perciò doversi rilegare fra le favole o i miti tutte le narrazioni di essi, ancorchè contenute nella sacra Scrittura; o non potersi giammai con certezza conoscere i miracoli, nè provare rettamente con essi la divina origine della cristiana religione; sia anatema.

    5. Se alcuno dirà, non esser libero l'assenso della fede cristiana, ma prodursi necessariamente per gli argomenti dell'umana ragione; o la grazia di Dio essere necessaria soltanto alla fede viva che opera per la carità; sia anatema.

    6. Se alcuno dirà, essere pari la condizione dei fedeli, e di quelli che ancora non pervennero alla sola vera fede, cosicchè i cattolici possano avere una giusta cagione di richiamare in dubbio la fede che già accolsero sotto il magistero della Chiesa, sospendendo il loro assenso, finchè non abbiano compiuta la dimostrazione scientifica della credibilità e verità della loro fede; sia anatema.
    Dall'articolo IV. Dottrina intorno alla fede.
    (pag. 513-523)
    § 7. Analisi del Capo terzo della Costituzione e dei canoni relativi.

    Questo terzo capo consta di due parti principali. Nella prima si tratta della fede in sè stessa; nella seconda della Chiesa in quanto ne è regola prossima e formale. Esordisce il sacro Concilio nel suo dottrinale intorno alla fede collo stabilire, contro i razionalisti assertori dell'assoluta indipendenza dell'umana ragione, la totale dipendenza dell'uomo da Dio come suo Creatore e Signore, e quindi anche la piena sommessione in cui la finita e debole ragione umana deve rimanere a fronte di Dio, verità increata e suprema. Sono queste infatti due ragioni intrinseche e ineluttabili, per cui l'uomo deve accogliere e professare col più profondo ossequio e colla più ferma certezza tutto quanto Iddio siasi degnato di fargli conoscere in qualche modo positivo e indubitato. Imperocchè primieramente, se Dio ha dato all'uomo il suo medesimo essere, se Dio è colui che colla sua provvidenziale azione lo conserva e tutto gli fornisce quanto ha di bene, e che di lui è pertanto il solo vero padrone; egli ha senza dubbio ogni diritto di comandargli, e di esigerne obbedienza a' suoi precetti. In secondo luogo se l'oggetto della ragione è la verità, è dunque dovere dell'umana ragione di tendere all'eterna, assoluta verità. Ma l'umana ragione è debole e limitata, e Dio è verità suprema ed infinita, è infinita sapienza e bontà, che nè può nè vuole ingannare gli esseri da lui stesso creati per renderli beati nella cognizione stessa della verità. Dunque anche da ciò necessariamente scaturisce che se Dio si è degnato manifestare all'uomo alcun vero, o palesargli i suoi voleri qual suo Creatore e Signore, ei deve accogliere le divine comunicazioni col massimo ossequio della mente e del cuore. Perciò nel canone primo il Concilio non lascia di pronunciar l'anatema contro gli pseudofilosofi che negano il dovere per l'umana ragione di tributar tale ossequio alla divina sapienza, bontà e maestà, accogliendo con perfetta adesione quanto le venne manifestato da Dio; nel che consiste appunto la virtù della fede. Tutti quanti i deisti sono adunque colpiti da tale condanna, poichè ammettendo l'esistenza di un Dio vivente e personale, pure ricusano di riconoscere in lui l'autorità di vincolare l'umana ragione a tener per vera alcuna sua manifestazione positiva, e l'umana volontà a praticare alcun suo precetto, che dalla ragione stessa non le sia in modo naturale indicato.

    Ma poichè sulla natura medesima di questa virtù gli antichi errori furono recentemente rinnovati, ed altri ancora ve se ne aggiunsero, il sacro Concilio passa tosto a dichiarare che cosa sotto il di lei nome intenda significare la dottrina cattolica; e primieramente tocca della di lei necessità, ripetendo ciò che già aveva definito il Concilio Tridentino, esser dessa il principio dell'umana salvezza [1], premunendo cosi i fedeli contro l'incredulità e l'indifferentismo che mandano attualmente tante anime in eterna perdizione. Definisce quindi essere la fede una virtù sopranaturale, ed indica le due ragioni per cui è tale, vale a dire e per l'ajuto della grazia divina, mercè della quale soltanto si può praticare, grazia preveniente (adspirante) e concomitante (adjuvante); e pel motivo onde si crede, che è un ossequio diretto verso Dio a motivo dell'autorità di Dio medesimo, il quale non può nè essere ingannato nè ingannare. Mercè di tale definizione il Concilio Vaticano si oppone primieramente ai razionalisti, i quali per illudere i semplici diedero il nome di fede religiosa alla sola cognizione razionale delle verità concernenti Dio e la religione naturale, e riprova puranco la dottrina dei semirazionalisti, che confondendo l'ordine naturale col sopranaturale, trasformano il concetto della fede in quello di semplice scienza naturale, tanto perchè la spogliano del suo motivo formale, quanto perchè la privano di quel suo principale coefficiente, che è la grazia divina. Per questo medesimo motivo il pontefice Innocenzo XI avea già condannato le proposizioni (XIX e XX): «La volontà non può fare, che l'assenso di fede sia in sè stesso più fermo di quello che lo meriti il peso delle ragioni che provocano l'assenso» –– «Quindi alcuno può prudentemente ripudiare l'assenso, che riteneva sopranaturale».

    Quanto all'intervento della grazia nella virtù della fede, è evidente la conformità delle espressioni qui adoperate con quelle usate dal Concilio Arausicano II e dal Tridentino; e se nessun canone in proposito fu sancito dal Concilio Vaticano, lo si deve all'esservisi di già provveduto nei preaccennati concilii. Ma l'errore di coloro, e in particolare di Hermes e suoi seguaci, che fanno della fede un atto di convinzione necessitante per intrinseca evidenza della cosa creduta, e la spogliano del suo carattere sopranaturale tanto per ciò, come perchè la confondono colla scienza di pura ragione, richiedeva inoltre che il Concilio Vaticano facesse menzione eziandio del motivo sopranaturale per cui si crede, cioè dell'autorità di Dio rivelante, escluso il qual motivo tale virtù più non esiste. Così particolarmente contro questi corruttori del concetto della vera fede venne formolato il canone secondo, che esclude dalla comunione dei fedeli quelli che identificano la fede divina colla semplice scienza naturale intorno a Dio ed alle verità morali, appunto perchè non ammettono essere necessario alla virtù della fede che la verità rivelata sia creduta per l'autorità di Dio rivelante. Quindi è che le medesime verità d'ordine naturale, mentre direttamente si dimostrano dalla ragione, e per ciò producono in noi una certezza derivante dall'intrinseca loro cognizione, possono e devono bensì essere anch'esse oggetto di nostra fede in quanto siano pure rivelate da Dio; ma solo per tal motivo, non già per la loro razionale dimostrazione, giusta la felicissima sentenza di S. Agostino: «Quod intelligimus, debemus rationi: quod credimus, auctoritati» [2].

    Ma perchè l'uomo da Dio creato essere ragionevole, cioè intelligente e liberamente volente, è sempre da lui guidato in modo conforme alla propria natura; anche la fede che Dio esige da lui, oltre all'essere ispirata dalla grazia, gli è pure richiesta da prove esteriori dimostranti la verità della divina rivelazione. «L'umana ragione, avea già detto il Santo Padre Pio IX [3], per non essere ingannata in oggetto di tanto a rilievo è d'uopo che diligentemente indaghi il fatto della divina rivelazione, affinchè le consti con certezza che Dio ha parlato». Per il che già quasi due secoli prima di Pio IX il suo santo predecessore Innocenzo XI avea condannato anche l'altra proposizione (XXI): «L'assenso di fede, sopranaturale ed utile alla salute, sta colla notizia solo probabile della rivelazione, anzi col timore con cui si paventa che Dio non abbia parlato». Delle prove per le quali si raggiunge tale certezza, molte ne enumerano gli apologisti del cristianesimo: le veramente apodittiche sono i miracoli e le profezie evidentemente adempiute. Ma contro queste principalissime prove e contro i Libri santi che le contengono, abbiamo veduto con quanta audacia e pertinacia siansi levati increduli d'ogni maniera, e a quante maligne arti siansi appigliati per farne in polvere l'inconcusso valore. Quindi è che a premunire i fedeli contro queste perniciosissime insidie, nel secondo paragrafo del capo si passa a dichiarare la credibilità razionale della divina rivelazione, come dimostrata dai miracoli biblici dell'antico e del nuovo Testamento, e dalle profezie pur consegnate alle divine Scritture, e delle quali vediamo l'adempimento indubitato. E questa dichiarazione vien completata coi canoni terzo e quarto, il primo de' quali pronuncia l'anatema contro quei razionalisti che impugnano la convenienza e l'opportunità degli argomenti esteriori a comprovare la rivelazione divina, e riducono le testimonianze valevoli della sua verità, e quindi anche i criterii della fede, a soli argomenti interni, indimostrabili, inconsistenti e fallaci; sicchè questo canone condanna primieramente quei deisti che non ammettono alcun fatto superiore all'ordine naturale, ma colpisce anche il sistema ermesiano, che riduce, come abbiamo veduto, tutta la certezza teoretica della divina rivelazione ad una mera probabilità, comunque somma, e ci fa indurre ad ammetterla come vera e reale dalla sola ragione pratica, cioè dalla necessità morale, la quale non vale ad escludere il dubbio teoretico: l'altro canone egualmente condanna quelli che negano la stessa possibilità dei miracoli [4] e che mediante i diversi sistemi già enumerati sovvertono ogni fede a questi e ai divini documenti che li riportano; oppure che negano la possibilità di distinguere i miracoli veri dai falsi, o da fatti meravigliosi ma semplicemente naturali, e quindi anche la possibilità di dimostrare mercè di essi l'origine divina del cristianesimo. Circa il qual canone si potrà avvertire, che nulla vi si dice rispetto alle profezie. La ragione di tale omissione sta non solo in ciò che anche la vera profezia è una specie di miracolo, e può quindi considerarsi compresa essa pure sotto questo nome; ma più ancora in ciò, che il miracolo è il fatto il quale più vivamente e prontamente colpisce i nostri sensi, nè puossi supporre esservi chi ammetta la prova de' miracoli, e voglia poi rigettar quella de' vaticinii. Per questo lo schema primitivamente proposto al Concilio non accennava all'argomento delle profezie neppure nel contesto del Capo; ma fattasi da alcuni Padri nelle adunanze conciliari l'osservazione che un tal silenzio avrebbe potuto dar ansa a sospettare che il Concilio non desse molto peso a questo speciale argomento, ne fu ivi inserita esplicita menzione; ciò che non si vide necessario di fare nel canone per la suesposta ragione, che chi ammette i miracoli non negherà le profezie, e chi vuol negare gli argomenti dimostrativi del cristianesimo, è anzitutto contro i miracoli che scaglia i suoi dardi. La settima proposizione del Sillabo fa riscontro agli errori condannati nei precitati canoni, come trova nella parte finora analizzata di questo Capo le verità da contrapporvisi.

    Il Concilio non enumera le altre prove della divinità del cristianesimo, le quali in buon numero sono presentate e svolte dai teologi e dagli apologisti; però le comprende complessivamente sotto la frase di fatti divini, fra i quali specifica solo i miracoli e le profezie, come quelli che non potendo procedere che dalla divina onnipotenza, sono segni certissimi della divina rivelazione, e veramente accomodati all'intelligenza di tutti, perchè fatti che cadono sotto i sensi di chiunque, e a giudicare della realtà dei quali basta l'integrità dei sensi corporei ed un criterio comune, come basta questo solo a giudicare ch'essi superano ogni potere dell'uomo ed ogni forza della fisica natura. Tutte le altre prove palesano bensì sommamente probabile la divinità del cristianesimo; non ne possono però dare quell'assoluta certezza che deriva invece da quei due capitali argomenti.

    Ma perchè alcuno potrebbe da ciò inferire che da questa sola dimostrazione estrinseca della verità cristiana l'uomo valga ad essere attirato alla virtù della fede, insiste nuovamente il Concilio nel terzo paragrafo sulla massima che senza l'ajuto dello Spirito Santo, indicato colle parole stesse del Concilio Arausicano II, non si può consentire al Vangelo com'è necessario per conseguir la salute, cioè per l'autorità di Dio rivelante; a motivo che per ammettere quest'azione divina della rivelazione, la quale direttamente non vediamo col nostro intelletto, è necessario un atto della volontà, che non può produrlo fuorchè sorretta della grazia divina. Per questo vien pure dichiarato che la fede in sè, ancorchè non operi per la carità, è dono di Dio, e l'atto di essa è un'opera pertinente alla salute. Non dice il Concilio opera meritoria, perchè se non è accoppiata alla carità, non è meritoria de condigno; ma la dice opera appartenente alla salute, perchè anche in chi non è nella carità è meritoria de congruo, e primo passo all'acquisto della giustificazione nel santo battesimo, e base alla conversione del peccatore. Queste dottrine vanno ancora contro l'Hermes, che abbiam veduto costituire un atto naturale necessario della sua fede di cognizione, la quale secondo lui sarebbe pure la vera fede, e riconoscere opera della grazia la sola fede di cuore, cioè quella operante per la carità; ma sono pure una confutazione degli errori giansenistici già segnalati, che non ammettono grazia ove non è carità, e quindi non iscompagnano da questa la vera fede, e la fede che colla carità non sia congiunta qualificano per peccato, come dicono peccati tutti gli atti degli infedeli e dei peccatori. Dichiara altresì il Concilio che alla grazia divina potrebbe l'uomo resistere, contro la solenne massima gianseniana che, nello stato di natura decaduta, alla grazia di Dio non mai si resiste.

    A tutti questi punti speciali di dottrina pone il suggello il canone quinto, il quale nuovamente prende di mira gli ermesiani, e insieme i giansenisti, condannando nella prima parte quanti asseriscono, la fede essere un atto naturale necessariamente prodotto dagli argomenti razionali dimostrativi della verità del cristianesimo (semi-razionalisti, e in ispecie ermesiani); nella seconda quelli che sostengono non essere necessaria la grazia divina che a produrre la fede viva, quella cioè che opera per la carità, ossia la fede già unita alla carità (ermesiani, e insieme giansenisti).

    Però la divina rivelazione, essendo un fatto storico già compiuto, è per sè una lettera morta, che ha bisogno d'un interprete vivente, il quale posseda l'istessa infallibile autorità di Dio rivelante, onde poter meritamente esigere dall'individuo umano l'ossequio d'una vera fede; mentre questa non può essere basata che sulla certezza divina di non potere esser tratto in errore. Un tale interprete esiste infatti per l'ineffabile bontà e sapienza di Dio, ed è il magistero della Chiesa cattolica. Siccome però la divina rivelazione è anche un fatto completo, a cui cioè se nulla si può detrarre, nulla nemmeno si può aggiungere; così questo magistero non fa che proporre, dilucidare, svolgere le verità rivelate; nè mai potrà alterarne il sacro deposito con arbitrarie addizioni. Questo magistero è dunque la regola prossima e formale della fede; laonde di esso in rapporto alla fede tratta la seconda parte di questo Capo, incominciando dal quarto capoverso, in cui, avuto riguardo non soltanto al fatto della divina rivelazione, ma anche all'ufficio ed alla autorità da Cristo conferiti alla sua Chiesa, si dichiara contro tutti gli avversarii di questo esteriore magistero, essere da credersi con fede divina e cattolica tutto quanto si contiene nella parola di Dio, sia scritta, sia tradizionale (per cui ciò si dice di fede divina), e che dalla Chiesa vien proposto da credersi come divinamente rivelato (sicchè si dice inoltre di fede cattolica), tanto per solenne giudizio (cioè nei Concilii generali, o in Concilii particolari solennemente approvati dalla Santa Sede in materie dogmatiche, o mediante giudizii dogmatici della medesima Santa Sede sempre ritenuti irreformabili anche innanzi alla dogmatica definizione dell'infallibilità pontificia), quanto mediante l'ordinario ed universal magistero (insegnamento generale de' vescovi e del clero loro soggetto, in comunione coll'Apostolica Sede); imperocchè quello che si è sempre universalmente insegnato e si insegna nella Chiesa cattolica mediante l'ordinario magistero dell'episcopato unito al romano Pontefice, è indubbiamente dottrina divinamente rivelata. Perciò la stretta necessità di aderire non solo ai dogmi dalla Chiesa dichiarati con solenni definizioni, ma anche a questo suo perpetuo e comune insegnamento, era stata chiaramente proposta dall'augusto Pio IX nella lettera 11 dicembre 1863 all'arcivescovo di Monaco in occasione del congresso dei dotti cattolici che ivi erasi tenuto. L'esistenza e la necessità di un interprete vivente delle divine Scritture fu ammessa perfino da alcuni dotti protestanti, contro gli stessi principii fondamentali della loro setta; sicchè, per esempio il Lessing, illustre letterato e poeta, confessò apertamente che la sacra Scrittura doveva essere intesa secondo la dottrina a viva voce trasmessa nei primi secoli, e secondo questa ne doveva anche essere determinato il canone [5]; ma sventuratamente, per non aderire al vero concetto della Chiesa, questa verità non era da loro intraveduta che in un modo affatto manco ed imperfetto.

    Nel quinto capoverso primieramente si rappresenta con toccante vivezza, a motivo della somma importanza dell'oggetto, la necessità di questa fede per ottenere tanto la giustificazione quanto la vita eterna; quindi si vengono ad accennare gli argomenti che dimostrano la divina istituzione della Chiesa cattolica, perchè questa si possa conoscere da tutti come custode e maestra della dottrina rivelata, e tutti accogliendo e professando i di lei insegnamenti, possano soddisfare al dovere di abbracciare la vera fede e di perseverarvi costantemente. In due classi possono distinguersi questi argomenti, e così li distingue anche il Concilio, primieramente ricordando che tutti i titoli, i quali per divina disposizione rendono evidente la credibilità della fede cristiana, appartengono alla sola Chiesa cattolica, e quindi provano la divina istituzione di lei, e di lei sola; ed enumerando poscia anche i diversi titoli, per cui la Chiesa cattolica, pur considerata solo in sè stessa, si presenta come un'istituzione sopranaturale e divina, e secondo una bella espressione di Bossuet, si giustifica da sè medesima [6]. Anche quest'ultima enumerazione non era nel progetto primitivo della Costituzione, e si deve all'iniziativa presa da qualche Padre nelle trattazioni conciliari; nè si può negare, che, se anche non esistessero le sacre Scritture ad attestarne la divina fondazione, il fatto della perpetua durata della Chiesa cattolica in mezzo a tante guerre, persecuzioni, eresie, opposizioni d'ogni maniera, i suoi martiri, le sue continue conquiste che ne compensano esuberantemente le defezioni, la massima conseguenza, utilità e perfezione della sua dottrina, l'eroica santità di moltissimi dei suoi figli, i miracoli infine che in ogni secolo certissimamente si avverano in mezzo a lei, non siano splendidissime testimonianze, ch'essa veramente, ed essa sola, è la casa di Dio e la porta del cielo [7].

    Per il che ben giustamente nell'ultimo paragrafo o capoverso si addita la Chiesa cattolica come un gran vessillo levato in mezzo alle nazioni, per tutti invitare alla vera fede quelli che ancor non credono, e per tenere i credenti strettamente intorno a sè raccolti nella piena certezza del sicuro possesso della verità. E da ciò prende il Concilio a mostrare anche l'altro funestissimo errore ermesiano, che ciascuno, sia che ancor non appartenga, o sia che già appartenga alla Chiesa cattolica, quando non abbia già eseguito un tal processo, sospendendo l'assenso ad ogni credenza, deve mettersi nello stato di dubbio reale e positivo, per conseguire colla propria razionale investigazione quell'evidenza necessitante che in lui crei l'assenso alla divina rivelazione. Il Concilio dimostra pertanto l'assurdità di tale pretensione non solo dall'evidenza stessa della vera Chiesa, ma anche dall'azione salutare della grazia, la quale tutti quelli che ancor non conoscono la verità, eccita e soccorre onde ne vengano in cognizione, e quelli che già la possedono conferma onde siano in essa perseveranti; per il che costoro con tutta facilità veggono e sentono di essere sulla retta via, nè mai possono provare un bisogno di cangiamento, nè possono essere agitati da verun dubbio ragionevole circa la verità della fede che professano, e quindi si trovano in condizione ben diversa da quelli che, non avendo ancor conosciuto o abbracciato la vera fede, non possono invece trovare il bramato riposo nè della mente nè del cuore, perchè non possono veder soddisfatte le esigenze della ragione in rapporto alla fede ed ai doveri religiosi. Perciò nell'ultimo canone è condannato come eretico chiunque asserisca questa parità di condizione tra i fedeli e quelli che alla cognizione della vera fede non ancora pervennero, nel senso che anche un cattolico possa aver giusto motivo di mettersi nel preindicato dubbio reale e positivo circa la verità della propria fede, e di perdurarvi finchè non abbia compiuta la dimostrazione scientifica della di lei verità. Ognun vede però che con ciò non si nega la lecitudine di approfondire ognor più quella dimostrazione in qualche modo razionale, che già ne teniamo, quando il dubbio volontario non sia per noi il punto di partenza, poichè ogni catechismo insegna che il dubbio volontario circa la fede è un peccato contro di essa; ed è anzi cosa commendevolissima se quello studio si faccia per sempre più confermarci nella fede noi stessi, per renderne ragione a chi ce ne ricerchi, e per attirare ad essa nei modi a noi possibili chi abbia la sventura di non ancora conoscerla o professarla.

    Dietro quanto fu quì esposto ognuno potrà comprendere altresì con quanta ragione Pio IX abbia segnalato nel Sillabo quali riprovevolissimi errori le proposizioni (XV): «È libero a chiunque l'abbracciare e il professare quella religione, che, condotto dal lume della ragione, avrà giudicata vera» –– (XVI) «Gli uomini possono trovare la via dall'eterna salute, e conseguire l'eterna salute nel culto di qualunque religione» –– (XVII) «Per lo meno bisogna sperar bene dell'eterna salute di tutti quelli, che non si trovano nella vera Chiesa a di Cristo» –– (XVIII) «Il protestantismo non è altro che una diversa forma della stessa religione cristiana, nella quale si può piacere a Dio egualmente come nella Chiesa cattolica».

    Dichiarato adunque qual dono preziosissimo di Dio sia la cattolica fede, e come ad un tempo siano inescusabili per le prove evidentissime di sua verità quelli che non l'abbracciano o che l'abbandonano, a tutta ragione ci esorta il santo Concilio Vaticano nella conclusione del Capo, a tenervici costanti colla più ferma adesione, e a rendere vive grazie al Padre delle misericordie, che ci chiamò a questa felice sorte, non che a mirare ognora al Redentore divino, pei cui meriti soltanto l'abbiamo conseguita e la conserviamo, sicchè per la sua grazia perseveriamo in essa irremovibili, e mediante la sua imitazione veniamo anche a non esser trovati degeneri dalla fede medesima che professiamo.

    NOTE:
  • Paolo Angelo Ballerini (Milano, 14 settembre 1814 – Seregno, 17 aprile 1897), dal 1848 direttore de L'Amico Cattolico, nel 1853 fu canonico ordinario del Duomo e nel 1855 pro vicario. Accompagnò a Vienna l'arcivescovo di Milano Bartolomeo dei conti Romilli di Bergamo per il concordato dell'Austria con la S. Sede ma, dal 1859, alla morte dell’Arcivescovo Romilli, si erano creati dei forti attriti per la sua successione tra il governo di Torino e la Santa Sede: a questa situazione contingente della città di Milano si deve l’origine dell'Osservatore Cattolico, il giornale a cui don Davide Albertario, sacerdote e giornalista cattolico intransigente, legherà il suo nome negli anni successivi; peraltro Mons. Ballerini fu amico e protettore dell'Albertario.

    L'arcivescovo Romilli era morto il 7 maggio del 1859 in corrispondenza dello scoppio della guerra (II guerra d’Indipendenza), e su proposta dell'Imperatore d'Austria Francesco Giuseppe, secondo il concordato vigente, fra la battaglia di Magenta del 4 giugno (1859) e la pace di Villafranca dell’8 luglio, Pio IX aveva preconizzato alla sede milanese proprio Mons. Ballerini, già vicario generale del defunto arcivescovo, conosciuto come molto devoto alla S. Sede. Il nuovo governo piemontese rifiutò di riconoscere la nomina con la scusa che la proposta imperiale non aveva valore in quanto gli austriaci non erano più padroni di Milano, ma Mons. Ballerini fu consacrato in segreto presso la certosa di Pavia da Mons. Caccia Dominioni, già vicario capitolare della diocesi e ausiliare del Romilli. Ballerini, la cui consacrazione restò segreta, fu oggetto di una violentissima campagna di stampa e fu anche minacciato di morte, si ritirò a Cantù aiutando il parroco nel ministero delle confessioni, dopo aver nominato suo vicario episcopale Mons. Caccia Dominioni che governò la diocesi in sua vece, per lunghi anni obbedendo al Ballerini al quale il governo rifiutava sempre l'exequatur. Contro Caccia Dominioni e Ballerini si scatenerà la stampa cattolico-liberale e conciliatorista filo-governativa.

    La difficile situazione della diocesi di Milano si risolse nel 1867 quando Pio IX venne a compromesso con il governo (che si era già trasferito a Firenze): Mons. Ballerini rinunciò all'arcivescovado di Milano e fu promosso Patriarca latino di Alessandria in Egitto, con dimora a Seregno, e mons. Luigi dei conti Nazari di Calabiana fu traslato dalla sede vescovile di Casale Monferrato a quella di Milano. Precedentemente nel '66 era morto il vicario Caccia Dominioni e il Ballerini aveva dovuto manifestare pubblicamente la sua qualità di vescovo di Milano rendendo nullo (almeno per un po'…) il tentativo del governo di porre sulla cattedra di S. Ambrogio un personaggio dell’area liberale e conciliatorista.

    Mons. Ballerini, difensore dell'infallibilità e del Sillabo, morì a Seregno in fama di santità.

    [Fonti: Con il Papa e per il Papa: vita di don Albertario, in Sodalitium, anno XXIII, n° 1, febbraio 2007 pag. 37 sgg.; Luigi Biraghi - Lettere alle sue figlie spirituali vol. III, Brescia 2005, pag. 161-162 (nota). N.d.R.]

    [1] Conc. Trid. Sess. VI, c. 8.

    [2] De utilitate credendi, cap. XI.

    [3] Lettera enciclica del 9 novembre 1846.

    [4] Come dagli altri increduli, è questa negata anche dal Bonavino, ossia Ausonio Franchi, unicamente perchè cogli altri panteisti e materialisti nega la personalità di Dio. La ragione è più che sufficiente. Così nel Razionalismo del popolo, nella Religione del secolo decimonono, ecc.

    [5] Opere complete di Lessing, tomo VI.

    [6] Discorso sulla Storia universale, Parte II, cap. 31.

    [7] Tutti questi argomenti sono pure egregiamente proposti in un breve paragrafo della già citata Enciclica del S. Padre Pio IX , in data 9 novembre 1846.




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    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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