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La "leggenda nera" sul Medioevo

Ultimo Aggiornamento: 15/04/2013 21:28
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27/11/2008 23:22
 
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Nel cuore della "leggenda nera" sul Medioevo
Articolo apparso sul n. 46 (1979) di Cristianità
Il rapporto personale elevato a modello delle istituzioni sociali. La riscoperta e la rivalutazione del concetto di feudalesimo: una ulteriore conquista nella battaglia contro - rivoluzionaria, per il ritorno alla verità del linguaggio.

1. Equivoci e travisamenti

In un precedente articolo, pubblicato su questa stessa rivista, ho ricostruito la progressiva formazione, a partire dal Rinascimento fino a giungere all'illuminismo e alla Rivoluzione Francese, di quella "leggenda nera" sul Medioevo cristiano, ancora oggi, e non casualmente, diffusissima, nonostante la infondatezza e il sistematico travisamento della realtà su cui essa riposa (1); ho, inoltre, mostrato come tale progressiva formazione coincida con lo sviluppo del processo rivoluzionario. Un analogo, sistematico travisamento della realtà è possibile constatare a proposito della nozione di "feudalesimo"; anzi, si può dire che le menzogne, le falsificazioni, i luoghi comuni accettati e diffusi, per passività o per convenienza, su questo tema, formano il cuore della "leggenda nera" sul Medioevo. Anche in questo caso è, in proposito, illuminante l'esame dell'uso o, meglio, dell'abuso linguistico quotidiano: come Proudhon parlava di feudalesimo a proposito della monarchia assoluta e il Manifesto del partito comunista parlava di "assolutismo feudale" e di "socialismo feudale" (questa seconda espressione era usata a proposito della politica sociale dei legittimisti in Francia), così oggi si parla correntemente di "feudalesimo dei partiti" o "feudalesimo delle banche", di "feudalesimo dei trusts" o, magari, "della feudalità dei distillatori di acquavite" (2). Vengono, cioè, impiegati sia il sostantivo che l'aggettivo per indicare realtà o tendenze del tutto estranee, anzi, spesso, opposte a ciò che veramente fu, nei secoli della civiltà cristiana, il feudalesimo, sulla base, evidentemente, di una immagine negativa, in particolare connessa all'idea di arbitrio, di sopruso.

Se è vero che l'avversione al feudalesimo è il frutto dell'odio nei confronti della civiltà cristiana costruita dagli uomini del Medioevo, è allora anche vero che la considerazione dei tratti fondamentali di questo sistema di organizzazione sociale non può essere trascurata da coloro che vedono, invece, in quella civiltà, un insieme di fatti storici estremamente importante quale punto di riferimento per la loro azione culturale, civica e politica, volta, appunto, a edificare, in luogo dell'attuale "dissocietà" su basi atee, una nuova società cristiana, fondata sul diritto naturale e cristiano; da ciò le brevi osservazioni del presente articolo.


Elemento tipico e tra i principali della società medioevale, il feudalesimo può riacquistare connotati precisi soltanto se ci liberiamo, oltre che degli abusi linguistici cui accennavo sopra, anche delle utilizzazioni arbitrarie e generiche del concetto. Esemplare (in questo senso) l'uso che del termine fece Marx e hanno poi fatto e fanno i marxisti. Per essi, com'è noto, a caratterizzare e a distinguere le varie epoche storiche sono i rapporti di produzione, che determinano tutti i più vari aspetti della vita umana, da quelli spirituali a quelli istituzionali, da quelli sociali a quelli politici. Per essi, dunque, il feudalesimo è individuato non da elementi come il vassallaggio o il feudo, considerati del tutto secondari, in quanto "sovrastrutturali", ma dall'appropriazione del lavoro delle masse rurali da parte dei "signori"; esso sarebbe, dunque, una delle fasi che ogni popolo, nel suo fatale sviluppo economico, deve attraversare, dopo il sistema basato sullo schiavismo e prima di quello basato sullo sfruttamento capitalista, opera della borghesia, cui seguirà l'avvento della mitica società senza classi, la quale dovrebbe realizzare il paradiso su questa terra e porre fine, sopprimendo ogni contraddizione economica, alla storia.

Ora, non è questa la sede per dimostrare la fallacia della teoria o per esemplificare la debolezza delle sue applicazioni. Basterà dire che gli storici seri e liberi prescindono ormai totalmente da queste categorie, cui la realtà medioevale si ribella in modo particolare. Del resto, è possibile trovare una conferma immediata di questa affermazione da un lato nella inconsistenza e nella genericità delle opere che tentano di mantenersi fedeli a questa impostazione, e dall'altro nelle divergenze che tra gli storici e i teorici marxisti si sono avute e si hanno sia nella caratterizzazione del sistema feudale sia nella definizione dei tempi e dei modi che avrebbero segnato la transizione dal sistema feudale a quello capitalistico (3). Ma già lo stesso Marx si era espresso su questi temi in modo confuso, generico e contraddittorio (4).

A queste considerazioni occorre però aggiungere che, anche in storici non marxisti, si ritrova una eccessiva dilatazione del concetto che viene impiegato per etichettare realtà diverse e inassimilabili, come per esempio ogni periodo in cui si assista a un indebolimento del potere statale centrale (5). Di qui l'uso del termine a proposito delle società di certi periodi di crisi dell'antico Egitto o della Cina, o, magari, a proposito di società africane o dell'America pre-colombiana. L'approfondimento degli studi impone, viceversa, sempre più un uso del termine limitato al Medioevo cristiano (6); anche il caso che più potrebbe essere avvicinato a quello europeo, il caso del Giappone, presenta tuttavia differenze di sostanza tali da richiedere un discorso a parte (7).

2. Per una definizione

Nato non per imposizione arbitraria dall'alto e in base a un disegno astratto, bensì dal fluire stesso della vita, dall'incarnarsi e articolarsi dei princìpi informatori di un'epoca, dal solidificarsi di una consuetudine che tardi raggiunge la codificazione in testi scritti e tardi conosce la riflessione sistematica dei giuristi, il feudalesimo pone indubbiamente alcune difficoltà a chi voglia tentare una definizione. Questa, tuttavia, è necessaria per chiunque si preoccupi della correttezza del discorso (8); ed è d'altronde possibile ove si ricerchino i tratti costanti, i denominatori comuni, senza perdersi nelle differenze locali e temporali, le quali, pur interessanti e significative, appartengono - variazioni sul tema - alla storia interna del fenomeno e non concorrono, quindi, alla sua definizione.

Secondo la prospettiva qui assunta non può essere vista l'essenza del feudalesimo nell'immunità, cioè nella esenzione amministrativa, fiscale e giuridica che spesso, e in modo crescente, si accompagnò ai feudi. Siamo, in questo caso, di fronte a una delle conseguenze più significative e interessanti del fenomeno, ma non già alla sua genesi o alla sua essenza (9). E, a rigore, tale carattere non può essere riconosciuto neppure al beneficio, cioè all'elemento cessione terriera, data non in libera e assoluta proprietà, ma in godimento: anche il beneficio è, preso isolatamente, insufficiente a dare un'idea precisa del feudalesimo, pur essendone indubbiamente un aspetto.

Ciò che è veramente centrale è il rapporto di vassallaggio, ossia la diffusione e istituzionalizzazione di un tipo particolare di rapporti personali e bilaterali ai diversi livelli della struttura sociale.

Molto opportunamente lo storico francese Robert Boutruche da inizio alla sua ampia opera sulla signoria e sul feudalesimo con questo quadro: "Ogni anno, dal IX al XVI secolo, migliaia di volte nella maggior parte dell'Occidente, si ripeteva questo rito. Davanti ai testimoni riuniti nella sala grande di un castello o di una residenza ecclesiastica, si fronteggiavano due personaggi: uno destinato ad obbedire, l'altro a comandare. Il primo, a testa nuda e disarmato, pone le sue mani giunte tra quelle del secondo, si dichiara suo uomo, suo vassallo e qualche volta scambia con lui un bacio sulla bocca. Poi giura, "toccando cuti la mano destra" una reliquia o un Vangelo, di rimanergli fedele. A sua volta il signore promette di essere buono e leale. Di solito la cerimonia è chiusa da un ultimo atto [...]: il subordinato ottiene l'investitura di un feudo [...]. Spesso i due contraenti sono dei potenti di questo mondo; ma possono essere anche modesti signori e poveri vassalli" (10).

Questo è veramente l'elemento generatore e comune che ci consente di parlare, in epoche e luoghi diversi della Cristianità, di feudalesimo. Questo è anche il punto dal quale prendere le mosse per la comprensione del fenomeno. E', del resto, l'elemento che ritroviamo alla base della definizione data dallo storico belga Ganshof: "Il feudalesimo [la féodalité] può essere definito come un insieme di istituzioni legate a obblighi di obbedienza e di servizio principalmente militare da parte di un uomo libero, detto "vassallo", verso un uomo libero, detto "signore", e da obblighi di protezione e di mantenimento da parte del "signore" nei confronti del "vassallo"" (11).

Intorno a questo sistema di relazioni si articolò tutta una società, caratterizzata, sempre secondo le definizioni di Ganshof, dallo sviluppo dei rapporti tra uomo e uomo, dalla esistenza di un ceto militare specializzato, da uno spezzettamento estremo del diritto di proprietà e da un frazionamento del potere pubblico che dette vita "a una gerarchia di istanze autonome" (12). In questo senso è preferibile parlare non più di feudalesimo in senso proprio e ristretto bensì di società feudale (13).


3. Il rapporto feudo-vassallatico

Come abbiamo visto, il rapporto feudo-vassallatico può essere stretto soltanto tra uomini liberi. Di, più, esso deve essere concluso per spontanea scelta dei due contraenti. Troviamo questo principio espresso molto chiaramente da un sovrano carolingio, Carlo il Calvo, nipote di Carlo Magno, nell'847: "noi vogliamo anche che ogni uomo libero nel nostro regno possa scegliere come signore chi egli vorrà, noi stessi o uno dei nostri fedeli" (14). Ma, una volta concluso, il contratto - espresso, secondo il diritto altomedioevale, non già da testi scritti, ma da gesti intensamente simbolici quali l'immixtio manuum, il giuramento e il bacio - non poteva essere rotto unilateralmente. Certamente, ci sono noti alcuni casi in cui, in realtà, l'omaggio fu forzato, ma essi ci sono segnalati dai cronisti sempre come una biasimevole rottura dell'ordinamento consuetudinario: eccezioni, sono appunto sentite come tali dai contemporanei.

Accanto alla libertà, elemento essenziale di questo rapporto è la sua bilateralità. A seguito dell'omaggio sorgevano dei doveri tanto per il vassallo quanto per il signore; questi doveri hanno, al di là dei contenuti concreti, che possono su certi punti cambiare a seconda dei luoghi e dei tempi (perché strettamente uniti al diritto consuetudinario locale), una base unica: la reciproca lealtà. Ciò porta, innanzitutto, una conseguenza negativa, cioè l'obbligo di astenersi da azioni che possano nuocere all'altro uomo, quello al quale si è prestato omaggio o, all'inverso, quello del quale si è accettato l'omaggio, prendendolo sotto la propria protezione. Ma accanto a questo contenuto negativo vi erano anche dei contenuti positivi.

Il vassallo deve al suo signore auxilium et consilium, cioè il servizio militare (in tempi e modi fissati dalle consuetudini) e l'aiuto materiale in casi particolari (per esempio: un contributo per il riscatto del signore caduto prigioniero), nonché l'obbligo di assistere il signore con i propri consigli, in particolare nella discussione delle cause giudiziarie presso il tribunale del signore, ma, in generale, anche per altre decisioni da prendere. Così, per esempio, nel 1122 il conte di Fiandra si rivolse ai suoi riuniti per giudicare un conflitto tra una abbazia e un cavaliere: "Miei signori, ve ne prego per la fede che mi dovete, ritiratevi e decidete con un giudizio inattaccabile, ciò che conviene rispondere a Engelberto da una parte e ai monaci dall'altra" (15).

Quanto al signore, egli deve al suo vassallo "protezione, difesa e garanzia" (16). Gli scrittori medioevali insistono fortemente su questa reciprocità. Così, in una lettera indirizzata nel 1020 al duca di Aquitania, il vescovo Fulberto di Chartres afferma chiaramente: "Dominus quoque fideli suo in his omnibus vicem reddere debet", il signore deve obbedire nei confronti del vassallo a tutte regole cui questi è tenuto verso il signore (17). E' la formula che troviamo ripresa, quasi alla lettera, nello Speculum Iuris di Guglielmo Durant: "il vassallo è tenuto verso il suo signore alla stessa fedeltà cui è tenuto il signore verso il vassallo"(18). E, ancora, è esplicita l'affermazione di Filippo sire di Beaumanoir: "secondo la nostra consuetudine, tanta fede e lealtà deve l'uomo al suo signore, in ragione del suo omaggio, altrettante ne deve il signore al suo uomo" (19).

Allorché uno dei contraenti veniva meno ai suoi impegni, si aveva quel comportamento che veniva chiamato fellonia. Questo comportamento giustificava la rottura del vincolo della fidelitas o fides, con tutte le sue conseguenze: la confisca del feudo, da parte del signore al vassallo fedifrago, o il passaggio del vassallo, col suo feudo, al servizio di un altro signore. Naturalmente, nella pratica, i contrasti di interpretazione potevano essere frequenti; tuttavia, la lettura sia delle cronache che dei poemi dell'epoca ci convince della forza di dissuasione che queste norme erano capaci di esercitare.

A sostegno di questo rapporto vi era indubbiamente, oltre alla sacralità di un impegno preso sul Vangelo, anche un profondo sentimento, che nell'epoca d'oro del feudalesimo (secoli IX-XII) appare generalmente diffuso e anche prevalente rispetto ad altri sentimenti. "In questo periodo - scrive Lewis - il più profondo dei sentimenti è l'amore dell'uomo per l'uomo, la reciproca affezione di guerrieri che muoiono vicini, combattendo contro ogni ostacolo, il sentimento del vassallo verso il suo signore" (20).


4. Trasformazioni e decadenza

La trasformazione principale che il feudalesimo conobbe fu quella di un'accentuazione progressiva dell'elemento reale, il feudo, a danno dell'elemento personale, il rapporto feudo-vassallatico. Una deplorevole tendenza di molti storici ha portato, per la verità, a troppo anticipare e troppo generalizzare questa tendenza; l'importanza centrale del rapporto personale fu a lungo sentita, ancora per secoli come carattere essenziale e fondamentale del feudalesimo. Tuttavia la tendenza vi fu, con le sue conseguenze: gli obblighi del vassallo considerati piuttosto come oneri gravanti sui beni e il possesso del feudo visto da un punto di vista patrimoniale, nonché la pluralità degli impegni vassallatici da parte di un solo vassallo nei confronti di vari signori.

Peraltro, quest'ultimo comportamento veniva avvertito come un problema da superare, come dimostra la nascita di un tipo di impegno che era considerato, in caso di conflitto, superiore all'omaggio semplice, cioè l'omaggio detto "figio". Fino al periodo di crisi generale della società medioevale, questo tipo di omaggio assoluto permise al feudalesimo di conservare il suo carattere di struttura portante dal punto di vista istituzionale e sociale, pure in presenza di una più complessa e articolata rete di rapporti umani.

Si è voluto vedere un segno precoce di decadenza nell'ereditarietà dei feudi, già riconosciuta - limitatamente ai benefici maggiori - da Carlo il Calvo nell'877 e poi - per tutti i vassalli - dall'imperatore Corrado II il Salico nel 1037. In realtà non si può assolutamente parlare di decadenza del feudalesimo per questo periodo, nel quale si ebbe, anzi, una sua maggiore diffusione con la conquista normanna dell'Inghilterra, con la formazione: del Regno di Napoli nell'Italia meridionale, con la nascita, in seguito alla Prima Crociata, degli stati cristiani nel Vicino Oriente e in Terrasanta. Come osservò a suo tempo Bloch, dove di per sé potrebbe trovare il signore un vassallo più fedele se non nella famiglia di colui che lo aveva fedelmente seguito per tanto tempo? D'altronde, la ereditarietà dei feudi non era meccanica e non toccava il carattere vitalizio del rapporto; l'omaggio doveva essere ogni volta prestato nuovamente dal nuovo vassallo.

Piuttosto, la vera decadenza va vista nel progressivo venire meno del nesso beneficio-funzione. Si trattò di un processo complesso e secolare, legato al venire meno della funzione militare della cavalleria feudale, allo sviluppo della monarchia assoluta, alla patrimonializzazione sempre più crescente del feudo (21). Tuttavia, occorre guardarsi dal sottovalutare i residui feudali nelle società di ancièn regime. Per quanto profonde fossero state le trasformazioni operate dall'assolutismo monarchico, la Rivoluzione francese non combatteva soltanto fantasmi allorché stabiliva: "l'assemblea nazionale elimina completamente il regime feudale" (22).

Senza dubbio, i deputati rivoluzionari, nella famosa notte tra il 3 e il 4 agosto 1789, intendevano sotto il nome feudalesimo realtà molto varie, spesso meglio definibili come diritti signorili. E quando Napoleone si prefiggeva di combattere e fare combattere "ogni azione tendente a ristabilire il regime feudale" intendeva riferirsi semplicemente alla restaurazione dell'Ancièn Regime (23). Tuttavia è significativo che si continuasse a vedere nel feudalesimo il tratto essenziale di una società di cui si voleva cancellare ogni traccia, così come è significativo che, insieme ai residui feudali e ai diritti signorili, l'Assemblea Nazionale procedesse contemporaneamente alla eliminazione delle corporazioni e delle comunità cittadine. Il liberalismo assoluto, che non concepiva altre realtà che l'individuo e lo Stato, veniva così introdotto dall'alto, per legge rivoluzionaria, preparazione, neppure troppo remota, alla successiva fase totalitaria.


5. Feudalesimo e autorità

Come si è accennato, si considera normalmente il feudalesimo come a un tempo effetto e causa ulteriore della scomparsa del potere pubblico o statale. Tipico esempio di disgregazione della società, dovrebbe tendere a scomparire non appena, e a suo dispetto, l'autorità si riorganizza. In realtà, questa unione, per quanto diffusa nei manuali e nei libri di storia in genere, non ha fondamento e nasce da preoccupazioni ideologiche e da pregiudizi moderni, per i quali l'unico modello valido di Stato - con il quale comparare tutte le altre forme di organizzazione politica esistenti nel passato - è quello moderno. Analogamente, si attribuisce al Medioevo una confusione tra il pubblico e il privato, solo perché la distinzione che gli uomini medioevali facevano tra questi due concetti era basata su criteri nettamente diversi da quelli oggi correnti (24).

Jacques Ellul ha scritto che "la società medioevale è una società anarchica" (25). L'affermazione, apparentemente paradossale, significa trattarsi, come lo stesso Ellul precisa, di "una società [...] senza potere politico centralizzalo e unico", in quanto i diritti e i poteri attualmente considerati come necessariamente appartenenti allo Stato erano allora ripartiti tra diverse autorità. D'altra parte, lo stesso autore aggiunge, subito dopo, che allo stesso tempo "la società medioevale è una società gerarchica", tutt'altro che disordinata, grazie, da un lato, alla presenza, come punto di riferimento, al vertice, della monarchia o, meglio, del re e, dall'altro, proprio alla catena delle gerarchie feudali (26).

Non siamo di fronte a una pura descrizione teorica, a un modello astratto. In realtà, le ricerche storiche ci mostrano la grande importanza avuta dal feudalesimo nei paesi cristiani sotto il profilo della organizzazione o riorganizzazione della società civile sia nel periodo precedente la nascita del Sacro Romano Impero (secolo VIII), sia in quello successivo alla sua crisi, quando, tra l'altro, una nuova ondata di invasioni pagane (Vikinghi, Ungari, Slavi, Saraceni) si abbatté sulla Cristianità (secoli IX-X).

In seguito, ancora, le monarchie nazionali si costituiranno in Francia, Inghilterra, Castiglia, Aragona, non contro, ma anzi, in una certa misura grazie ai ceti feudali; tanto che gli storici parlano ormai di "monarchie feudali", sia in contrapposizione ai vecchi concetti che volevano queste monarchie frutto esclusivo dell'intesa tra i sovrani e le borghesie mercantili, sia per distinguere questa fase dalla successiva fase assolutistica (27). Si può anche aggiungere che gli stessi comuni, frutto della forte ripresa cittadina dopo il Mille, né nacquero, né si svolsero in chiare antifeudale, come vorrebbero certi vecchi e ripetuti schemi; ciò anche nella stessa Italia centro - settentrionale, nella quale, pure, essi arrivarono a costituirsi in centri di minuscoli Stati, largamente autonomi, anche se di diritto inseriti nella struttura feudale dell'Impero. La nascita stessa del comune fu un fenomeno aristocratico, incomprensibile senza la ricchezza di vita e la libertà d'azione che sempre più appaiono essere i connotati della società feudale (28). Ed è anche significativo che i rapporti tra i vari Stati (compresi i comuni), come anche i rapporti tra le città e i signori del territorio circostante, venissero definiti ricorrendo al diritto feudale, che divenne, in certo qual modo, una specie di diritto internazionale universalmente riconosciuto (29).

6. Conclusione

La rapida presentazione fatta dei tratti fondamentali del feudalesimo quale la Cristianità lo conobbe nei secoli della sua splendida fioritura non esaurisce certo il tema; anzi, a esso soltanto introduce. Ma, se il lettore desideroso di un approfondimento dei fatti e dei problemi troverà nelle note una prima guida, qui soprattutto premeva chiarire la natura deformante e mistificatrice dei luoghi comuni che continuano a oscurare, nel linguaggio e nella coscienza dei più questo termine e questo concetto. Recuperarne la realtà storica e l'essenza concettuale non è una operazione da oziosa accademia, come conferma, del resto, lo sforzo mistificatore del pensiero rivoluzionario.

Se è lecito fare un discorso sull'attualità ed esemplarità del Medioevo (30), in esso rientra senza dubbio anche un discorso sull'attualità del feudalesimo, nella misura in cui, avvertendo l'insopportabilità del rapporto freddo, anonimo e burocratico che caratterizza la nostra vita sociale a ogni livello - da quello politico a quello economico - noi aspiriamo, giustamente, a un ritorno a una società basata, al contrario, sui rapporti personali; e, ancora, nella misura in cui, avvertendo la pericolosità dell'isolamento dell'individuo abbandonato in balia dello Stato, sentiamo la necessità di una ricostruzione della società fondata sui corpi intermedi e sul principio di sussidiarietà, cardine della dottrina sociale cristiana.



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NOTE

(1) Cfr. M. TANGHERONI, La "leggenda nera" sul Medioevo, in Cristianità, anno VI, n. 34-35, febbraio-marzo 1978, pp. 6-9.

(2) Una buona esemplificazione in R. BOUTRUCHE, Signoria e feudalesimo, trad. it., Il Mulino, Bologna 1973, vol. I, Introduzione. L'opera, anche per la sua aggiornata bibliografia, merita di essere considerata un buon punto di riferimento.

(3) Cfr. per esempio, le divergenti posizioni di M. DOBB, Problemi di storia del capitalismo, trad. it., Editori Riuniti, Roma 1972 e P. SWEEZY, La teoria dello sviluppo capitalistico, trad. it., Boringhieri, Torino 1972.

(4) Infatti Marx, nel capitolo XXIV del Capitale, in contrasto con la sua stessa dottrina, indica una serie di fattori che niente hanno a che vedere con le contraddizioni del sistema feudale, per chiarire il fenomeno della cosiddetta accumulazione originaria. Molto nebulose sono anche le considerazioni sulla funzione del mercato. Cfr. A. CAVALLI, Le origini del capitalismo, Loescher, Torino 1963, pp. 9-14 e 37-41, nonché i testi di Marx ivi riportati.

(5) E all'origine di questo errore si ritrova, non certo casualmente, Voltaire: cfr. R. BOUTRUCHE, op. cit., p. 31.

(6) Ma bisogna pure guardarci dall'atteggiamento opposto: restringere talmente l'uso da limitare l'utilizzazione a periodi e regioni ristrette. Contro questa tendenza, che nega l'esistenza di feudalità mediterranee, si è espresso un recentissimo Colloquio, dell'ottobre 1978, organizzato dall'Ecole Française di Roma e consacrato proprio alla discussione di questo tema. Tra i relatori Violante, Tabacco, Duby, Toubert, Bonassic; gli atti saranno stampati entro il 1979.

(7) M. BLOCH consacrò l'ultima parte della sua classica opera La società feudale, trad. it., Einaudi, Torino 1962, alla discussione del tema Feudalesimo o feudalesimi? Il feudalesimo come IL.po sociale: cfr. pp. 627-636; in particolare, sul Giappone, cfr. le pp. 634-636.

(8) Anche se "il nostro secolo non è sicuramente il secolo delle definizioni; si compiace di essere vago, incerto, viscerale", come osserva giustamente M. DE CORTE, Una definizione della destra, in La Destra, n. 1, 1972, p. 3. La vocum proprietas era, invece, la prima preoccupazione degli autori medioevali: cfr., per esempio, G. LE BRAS, La Chiesa del diritto, trad. it., Il Mulino, Bologna 1976, p. 3.

(9) Come riconobbe già E. BESTA, Il diritto pubblico nell'Italia superiore e media dalla restituzione dell'Impero al sorgere dei comuni, Pisa 1925, p. 80.

(10) R. BOUTRUCHE, op. cit., p. 23.

(11) F. L. GANSHOF, Qu'est-ce que la féodalité?, 4a ed. riveduta e ampliata, Presses Universitaires de Bruxelles, Bruxelles 1968, p. 12.

(12) Ibid., p. 11.

(13) Come in M. BLOCH, op. cit., e J. CALMETTE, La société féodale, Armand Colin, Parigi 1952.

(14) Cfr. F. L. GANSHOF, op. cit., p. 37.

(15) Ibid., p. 87.

(16) La formula si trova, per esempio, nell'opera del giurista HENRY DE BRACTON, De Legibus et consuetudinibus Angliae, ed. G. E. Woodbine, New Haven e Londra 1922, II, p. 232; l'opera fu scritta intorno alla metà del secolo XIII.

(17) L'interessante lettera di Fulberto di Chartres, edita anche nella Patrologia Latina del Migne, è riportata e tradotta da R. BOUTRUCHE, op. cit., pp. 368-369.

(18) G. DURANT, Speculum juris, ediz. di Francoforte, 1592, p. 304.

(19) Cfr. F. L. GANSHOF, op. cit., p. 88. Il sire di Beaumanoir fu il più grande dei giuristi francesi dell'età di san Luigi IX.

(20) C . S. LEWIS, L'allegoria d'amore, trad. it., Effiatidi, Torino 1969, p. 11.

(21) Per il passaggio dallo Stato medioevale allo Stato di tipo moderno cfr. diversi saggi nel volume di O. BRUNNER, Per una nuova storia costituzionale e sociale, trad. it., Vita e Pensiero, Milano 1970. Attiene in particolare al nostro tema il saggio Feudalesimo. Un contributo alla storia del concetto.

(22) O. BRUNNER, op. cit., p. 84.

(23) R. BOUTRUCHE, Op. Cit., p. 35.

(24) Per un approfondimento di questo punto si può partire da alcuni saggi contenuti in G. ROSSETTI, Forme di potere e strutture sociali in Italia nel Medioevo, Il Mulino, Bologna 1977.

(25) J. ELLUL, Storia delle istituzioni. Il Medioevo, trad. it., Mursia, Milano 1976, p. 80.

(26) Ibidem.

(27) Cfr., per esempio C. PETIT-DUTALLIS, La monarchie féodale en France et en Angleterre. Albin Michel, Parigi 1971 (ma la prima edizione era del 1933); H. MITTEIS, Le strutture giuridiche e politiche dell'età feudale, trad. it., Morcelliana, Brescia 1962.

(28) Interessante, in questo senso, la lettura di C. VIOLANTE, La società milanese nell'età precomunale, Laterza, Bari 1974 (ristampa dell'edizione del 1953). Utile anche la lettura di G. Volpe, Studi sulle istituzioni comunali a Pisa nel Medio Evo, Sansoni, Firenze 1970; il volume, scritto nel 1902, conserva una grande freschezza.

(29) Cfr. , per esempio, P. BRANCOLI BUSDRAGHI, La formazione storica del feudo lombardo come diritto reale, Giuffré, Milano 1966, parte II, cap. 6, nonché la mia relazione al Colloquio citato alla n. 6 (in corso di stampa).

(30) Cfr. la mia presentazione di R. PERNOUD, Luce del Medioevo, trad. it., Volpe, Roma 1978
[Modificato da Caterina63 01/10/2009 12:03]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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Quel buco nero tra Antichità e Rinascimento
 

di Stefano M. Paci

Altro che “secoli bui”: donne a capo di conventi maschili, maggior età a 14 anni, predicatori di crociate che leggono il Corano. Ecco il Medioevo di Régine Pernoud, la storica francese già direttrice degli archivi nazionali di Parigi i cui libri hanno tirature da bestseller.

[Da «30Giorni», anno III, n. 1, gennaio 1985, pp. 56-59]

Voleva diventare bibliotecaria e si e iscritta alla scuola di Chartres. Lì, ha alzato gli occhi e ha incontrato il Medioevo. Non è più diventata bibliotecaria ma direttrice del Museo della Storia di Francia. Dirige attualmente il Centro Giovanna d’Arco a Orleans. Quando non ê intenta alla stesura dei suoi volumi con i quali ha dato una nuova fisionomia al Medioevo, tiene conferenze in giro per il mondo. Affollatissime, e non solo da specialisti. I suoi libri hanno tirature da bestsellers. Strano, per una studiosa. Ma lei è Régine Pernoud.

È stata amica di Henry Matisse («Ci incontravamo spesso negli ultimi dieci anni della sua vita. L’ho visto dipingere la cappella di Vence. Era straordinariamente attratto dal sacro»). Lo è del cardinale Lustiger («Un uomo eccezionale. I giovani se ne accorgono. Lo chiamano familiarmente ‘Lu’. Peccato che sia forse troppo solo nella Chiesa di Francia»). Lo è del padre Dc Lubac («Penso che sarebbero sufficienti la Bibbia e i suoi libri. Ma forse è meglio non scriverlo»).

Nel suo cuore pare trovar eco, con intelligente curiosità, tutto ciò che rispetta l’uomo. Innanzitutto il Medioevo, la grande passione della sua vita.

Quando parla del Medioevo si infervora. «Anch’io da giovane ero convinta fosse un periodo di ignoranza e sottosviluppo. Per forza. I libri di storia lo liquidano in poche pagine. Noi non sopporteremmo una contabilità che trascuri mille pagine dal registro di bilancio, ma non ci stupiamo di presuntuosi bilanci storici che dimenticano un millennio. Anche studiosi cattolici parlano della Chiesa come se iniziasse nel XVI secolo. Jean Delumeau, nel suo Le christianisme il va à mourir, traccia una sintesi storica che tralascia completamente il Medioevo. Curiosamente, il rinnovamento attuate degli studi medievali viene dagli americani: hanno una visione più completa. Gli europei sono più attenti alle questioni che riguardano l’arte che non al dinamismo dimostrato dalla tecnica nell’XI e XII secolo. Ma questi aspetti sono fondamentali per comprendere le dinamica di una società così complessa».

Complessa? Quotidianamente ascoltiamo riflessioni come ‘non siamo più nel Medioevo’ o ‘c’è un ritorno al Medioevo’. «Qualcuno si sorprenderà — aggiunge ironicamente — sapendo che per ben due volte in assise internazionali (a Parigi nel 1974 in sede dell’Ocse e a Dakar nel 1980) ci si è rivolti a medievalisti perché studiassero soluzioni tecniche per l’agricoltura del Terzo Mondo.
Un medievalista ha persino intitolato un suo libro La rivoluzione industriale del Medioevo: una rivoluzione operata senza rinchiudere i bambini nelle fabbriche perché lavorassero per un salario di fame».

D- Purtroppo per molti il Medioevo è materia privilegiata: si può dire tutto ciò che si vuole nella quasi certezza di non essere smentiti.

R- «È vero: mai nessuno parla della libertà e dell’autonomia che allora veniva data ai giovani — la maggior età per i ragazzi era a 14 anni e per le ragazze a 12 —; o della quantità di manoscritti di medicina e di scienze naturali usciti dai monasteri; o dell’ordine di Fontevrault che aveva due monasteri, uno per uomini e uno per donne, e tra i due si ergeva una chiesa, unico luogo di incontro per monache e monaci. E questo doppio monastero fu posto sotto l’autorità non di un abate, ma di una badessa. Quest’ultima, per volontà del fondatore, doveva essere una vedova, cioè una donna che avesse fatto un’esperienza matrimoniale. Tutto ciò senza provocare nessuno scandalo nella Chiesa. Ebbe anzi un grande successo: venti anni dopo la fondazione, quest’ordine era costituito da 5 mila fra monaci e monache. E, per completare il quadro, aggiungiamo che la prima badessa, Petronilla di Chemillé, aveva allora ventidue anni».

D- Donne a capo di comunità maschili. Eppure, le lotte di un certo femminismo erano per non ricondurre le donne all’epoca medievale in cui erano vessate e trattate come schiave. E la Chiesa poi, così ostile alle donne. Fortuna che il Concilio di Trento ha loro concesso di possedere l’anima.

R- «Quante sciocchezze. Eppure ho sentito anche una nota scrittrice sostenere che la Chiesa ha dato l’anima alle donne solo nel XV secolo. E così si sarebbero battezzati, confessati, ammessi all’eucarestia degli esseri sprovvisti di anima! In tal caso, perché non degli animali? Strano che i primi martiri che sono stati onorati come santi siano donne e non uomini: Sant’Agnese, Santa Cecilia, Sant’Agata e tanti altri. Non è sorprendente che ai tempi feudali la regina venisse incoronata come il re, a Reims generalmente (ma a volte anche in altre cattedrali) eppure sempre dalle mani dell’arcivescovo di Reims? In altre parole, si attribuiva all’incoronazione della regina altrettanto valore che a quella del re. Eleonora d’Aquitania e Bianca di Castiglia hanno dominato il loro tempo, e potevano esercitare un potere incontestato non solo qualora il re fosse deceduto, ma anche nel caso fosse assente o malato. Nel Medioevo, anche donne non provenienti da famiglie nobili hanno goduto nella Chiesa, e attraverso la loro funzione in essa, di un potere straordinario. Alcune badesse agivano come autentici signori feudali e il loro potere era rispettato al pari di quello degli altri signori; alcune donne indossavano la croce come i vescovi; sovente amministravano vasti territori che includevano villaggi e parrocchie. Ciò significa che nella stessa vita laica alcune donne, per le loro funzioni religiose, esercitavano un potere che oggi molti uomini potrebbero invidiare».

D- Sorprende venire a sapere che l’enciclopedia più nota del XII secolo è opera di una religiosa, la badessa Herrada di Landsberg. E che, se Eloisa leggeva in greco e latino, un’altra religiosa, Gertrude di Hefta, era felice nel XIII secolo, di passare dal grado di ‘grammatica’ a quello di ‘teologa’, vale a dire che dopo aver percorso il ciclo di studi preparatori, si apprestava a passare al ciclo superiore come si faceva all’università. Ma le donne che non erano né alte dame né badesse, né tantomeno monache, bensì contadine, o madri di famiglia, o che esercitavano un mestiere?

R- «Dai documenti che abbiamo — risponde la studiosa — emerge un quadro sorprendente. Le donne votavano come gli uomini nelle assemblee cittadine e in quelle dei comuni rurali.
«Negli atti notarili, inoltre, è molto frequente trovare donne sposate che agiscono per conto proprio, potendo possedere ed amministrare i loro beni, per esempio avviando un negozio o un commercio. Gli atti delle inchieste amministrative ordinate da San Luigi tra il popolo minuto iniziativa senza precedenti e, del resto, senza seguito, ci mostrano una folla di donne esercitanti i più vari mestieri: maestra di scuola, medico, farmacista, gessaiuola, tingitrice, copista, miniaturista, rilegatrice…».

D- Chissà se coloro che in buona fede auspicano che la donna finalmente esca dal Medioevo si accorgono di desiderare che la donna possa ritrovare la dignità che ebbe al tempo della regina Eleonora e della regina Bianca? La Régine del Medioevo non risparmia neanche gli orrori dell’Inquisizione medievale alla sua passionata rivalutazione.

R- «Ciò che rende diversa – riprende Madame Pernoud – un’epoca dall’altra è la differente scala di valori che ne permea la mentalità. In storia è elementare tenerne conto, ossia rispettarla. Altrimenti lo storico si trasforma in giudice.
Sotto tanti aspetti l’Inquisizione fu la reazione difensiva d’una società per cui, a torto o a ragione, la preservazione della fede appariva non meno importante della preservazione della salute fisica ai nostri giorni.
«Di qui la generale riprovazione che l’eresia a quel tempo suscitava: l’eresia rompeva un accordo profondo cui aderiva l’intera società; e tale rottura appariva estremamente grave. In realtà, per il credente e la maggioranza del Medioevo, la Chiesa è perfettamente nel suo diritto quando esercita un potere di giurisdizione, in quanto depositaria e custode della fede. Ed è generale l’accettazione di sanzioni quali la scomunica, l’interdetto, che era una specie di scomunica generale. In un intero territorio per costringere all’obbedienza chi ne era responsabile, veniva sospesa ogni cerimonia religiosa: le campane cessavano di suonare, i sacramenti non venivano più amministrati e tutto questo rendeva la vita letteralmente intollerabile per le popolazioni.

Ma di fronte all’eresia catara ( si legga anche QUI), che poggiava su un intollerabile dualismo tra un universo materiale, creato da un dio malvagio, e le anime, create da un dio buono, e che si spinge fino a vedere nel suicidio la perfezione suprema, nel 1231 si ricorse all’Inquisizione. Quando fu decisa pareva accettabile come mezzo di difesa, ma, come tutte le soluzioni facili, non era affatto una soluzione. Qui si coglie un esempio lampante dell’ambiguità della storia, in cui contrariamente alla immagine che se ne dà così sovente, è davvero difficile distinguere buoni e cattivi. L’Inquisizione stessa non era priva di un lato positivo nel concreto della vita pratica. Essa sostituiva la procedura d’inchiesta alla procedura d’accusa. Ma soprattutto in un’epoca in cui il popolino non è affatto disposto a scherzare con l’eretico, introduceva una giustizia regolare. In precedenza, non di rado era stata una giustizia laica, addirittura uno scatenamento di popolo, ad infliggere agli eretici le pene peggiori. Contrariamente a ciò che abitualmente si pensa, la Spagna rifiutò l’Inquisizione. Re Ferdinando III, cugino di San Luigi, re di Francia, nel XIII secolo dichiarò: ‘Nel mio regno non vi sono eretici. Io sono il re di tre religioni: la cristiana, l’ebraica e la musulmana’. Queste parole sono scritte in 4 lingue sulla sua tomba e la Chiesa cattolica lo ha proclamato santo. Con tutto ciò resta il fatto che per noi l’istituzione dell’Inquisizione è l’aspetto più inquietante di tutta la storia del Medioevo. Sono stata motto contenta che il Concilio Vaticano II abbia riconosciuto che l’Inquisizione era un facile ricorso al potere temporale per un fine spirituale e che se nel XIII secolo aveva ancora l’aspetto di vigilanza sui cristiani, è nel XV e XVI secolo che se ne abusa, servendosene a fini politici contro ebrei e mori».

D- Il Rinascimento è la decadenza: non fu il suo amico Matisse a dirlo?

R- «Proprio lui — La Chiesa medievale era realmente penetrata dal Vangelo. Non era più così nel XVII secolo. Basti vedere il diverso approccio all’evangelizzazione. La Chiesa del V e VI secolo aveva saputo ‘passare ai barbari’ e, dopo che l’abate di Cluny nel 1141 fece tradurre il Talmud e il Corano, fu fatto obbligo a tutti i predicatori di crociate di leggere il Corano. L’evangelizzazione dell’America del Sud, invece, fu fondata sul principio che i selvaggi dovessero prima diventare uomini e poi cristiani, che fosse necessario prima inculcare loro l’umanesimo, poi il cristianesimo. Ma la sola, vera liberazione è il Vangelo, che poi crea l’umanesimo e le altre forme di civilizzazione. Oggi quel principio pare ridicolo. Ma c’è qualcuno che nuovamente afferma ‘prima di fare dei cristiani, bisogna fare dell’uomo un essere libero’, come se il Vangelo non fosse la fonte della liberazione».

Non saranno costoro un po’ troppo simili a quegli intellettuali che passando davanti a Notre Dame — come racconta Regine Pernoud in un suo libro — si recavano ad un convegno dal titolo: ‘Era il Medioevo civilizzato?’. Sorride. «Si potrebbe creare uno slogan: Medioevo: l’unico periodo di sottosviluppo che ha creato cattedrali. Troppo spesso la storia la fanno intellettuali che tentano di farla entrare nello schema già preparato nel loro piccolo cervello».

D- Madame Pernoud, fuori i nomi.

R- «Le responsabilità sono varie. Per la Sorbona tra Plotino e Cartesio non c’è nulla. Ma le maggiori vanno imputate agli storici di stampo marxista: essi trattano con disprezzo i dati obiettivi poiché mettono in discussione la loro esistenza di storici. Chi, sulla scia di Marx, contrappone ancora feudalità a borghesia — errore intellettualmente necessario se si vuol mantenere ad ogni costo lo schema signori-borghesi-proletari — usa un metodo storico superato da almeno 50 anni. Il materialismo storico legge la storia in funzione del progresso: o si nega che il Medioevo fosse un’epoca di progresso o si nega il marxismo. L’errore capitale del nostro tempo è credere che la storia si faccia nei nostri cervellini, che la si possa costruire su ordinazione».

Stefano M. Paci

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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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07/12/2009 21:39
 
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L'archivio del Palazzo Bondoni Pastorio,
una finestra sul dibattito culturale del Cinquecento

Vita quotidiana al tempo di Luigi Gonzaga



di Giulio Busi

Eccentrico per posizione geografica, incuneato com'era tra i domini di Venezia, Milano e Mantova, ed eccentrico per vicende dinastiche, col ramo cadetto dei Gonzaga schiacciato dai più forti parenti mantovani, il marchesato, poi principato di Castiglione delle Stiviere merita di solito solo un cenno fugace nelle ricostruzioni storiche del Cinquecento e Seicento. Ma tutt'altro che minore fu il suo ruolo nella storia della spiritualità della prima riforma cattolica, con quel santo, Luigi, destinato come primogenito al governo ma poi rapito da una vocazione di ben altro segno.

Il castello fu distrutto per mano dei francesi già all'inizio del Settecento, e i Gonzaga di Castiglione si estinsero un secolo più tardi, così che della vita quotidiana al tempo di Luigi rimangono solo lacerti di memoria. L'apertura del palazzo e dell'archivio della seconda famiglia del principato, i Pastorio (vedi www.fondazione-bondonipastorio.eu), permette ora di riannodare le fila di quel passato e di gettare luce su di una singolare trama di cultura, fermenti religiosi e strategie politiche che fecero da sfondo all'avventura aloisiana.

A tenere a battesimo solenne Luigi, il 20 aprile 1568, fu appunto un Pastorio, l'arciprete Giovan Battista, mentre al fratello di questi, Giovan Giacomo, fu affidata l'educazione religiosa del giovane signore. Dai documenti Pastorio emerge la profonda erudizione di queste prime guide di Luigi. Si apprende così che Giovan Battista Pastorio era amico intimo di Paolo Manuzio, figlio di Aldo, il massimo tra gli editori del Rinascimento. Era noto che Paolo Manuzio aveva soggiornato per qualche tempo nella vicina Asola, prima di far ritorno a Venezia e poi spostarsi a Roma, dove Pio IV lo avrebbe incaricato di pubblicare i principali testi approvati dal Concilio tridentino. Non si sapeva, invece, che il Manuzio avesse affidato proprio a Giovan Battista Pastorio l'educazione del figliolo Aldo il Giovane, a riprova non solo di una stima personale ma anche di una comunanza di visione umanistico-religiosa.

Ed è appunto questo patrimonio di studia humanitatis, coniugati con i temi della riforma cattolica, che s'indovina nella vicenda dei Pastorio e, più in generale, nella vita intellettuale del principato castiglionese. L'erudizione solida e il tirocinio retorico sono elementi che si colgono anche negli scritti di Luigi e che dovettero venirgli trasmessi già nell'ambiente provinciale sì, ma certo assai ben informato, della sua città natale.

Le nuove testimonianze castiglionesi non arricchiscono tuttavia solo il quadro dell'infanzia e della giovinezza di Luigi. Di grande interesse è anche la fase seicentesca, quando la città divenne un vero laboratorio d'incontro tra esperienza religiosa e vita pubblica. Il titolo di beato, conferito a Luigi da Papa Paolo v nel 1605 fu un onore straordinario non solo per i Gonzaga, ma anche per la città, che si trasformò ben presto in un centro di devozione e di cultura sacra. Nel 1607 la chiesa dei Santi Nazario e Celso venne elevata a Collegiata, e all'arcipretura si aggiunse la dignità abbaziale. La struttura urbanistica e architettonica di Castiglione fu arricchita per rispondere alle nuove esigenze. Nel giro di pochi anni, furono eretti il Collegio dei Gesuiti, la basilica dedicata a Luigi Gonzaga, il convento dei padri cappuccini, mentre l'antica dimora degli Aliprandi divenne il Collegio delle vergini, destinato ad accogliere nobili donne che desideravano vivere in castità. Una simile espansione fu resa possibile, e anzi fortemente voluta, dall'intraprendente Francesco Gonzaga, fratello di Luigi. Divenuto nel 1593 signore della città, Francesco seppe rendere a Rodolfo ii servigi tanto importanti - soprattutto in qualità di ambasciatore - che nel 1610 l'imperatore gli concesse il titolo di principe di Castiglione, con relativi privilegi e prerogative.

Dello strettissimo legame tra principe e vita ecclesiastica testimonia innanzitutto la storia degli abati secolari castiglionesi, che a partire dal 1607 per tutta la durata della signoria dei Gonzaga, esercitarono un fondamentale ruolo religioso, e in alcuni casi politico. Di nuovo un Pastorio, Fausto (1556-1610) fu il primo abate di Castiglione. Uomo di lettere ma anche energico organizzatore, Fausto fu uno dei collaboratori più stretti di Francesco Gonzaga. Per la sua eloquenza, il principe gli affidò alcuni delicati compiti di rappresentanza. E fu ancora il Pastorio a istruire il processo di beatificazione di Luigi Gonzaga.

I principi di Castiglione si servirono degli abati come di rappresentanti fidati, in ambascerie e in missioni diplomatiche. A loro volta, gli abati s'impegnarono affinché fossero garantite l'omogeneità confessionale e la fedeltà della popolazione alla Chiesa e al potere politico.

Ma il caso di Castiglione delle Stiviere si rivela un prezioso campo d'indagine anche visto dalla prospettiva particolare della storia del giudaismo. Se infatti, da un parte, la riforma cattolica permeava profondamente la società, dall'altra gli staterelli indipendenti cercavano di conservare una loro fisionomia autonoma.

Nel settembre del 1610, per esempio, venne giustiziato sulla pubblica piazza di Castiglione un tale Vincenzo Modesti, colpevole di aver preso a sassate e poi aver finito a coltellate Joseph Levi, un banchiere ebreo col quale aveva contratto un debito. L'esecuzione fu organizzata in fretta, perché il caso era scottante:  a molti infatti non andava giù che un cristiano venisse portato alla forca per aver ucciso un ebreo.

Tuttavia, le autorità agirono in difesa della vita e degli interessi ebraici. Il motivo è da cercare innanzitutto nella ragion di Stato, nel calcolo politico e nel desiderio d'indipendenza. Era lo stile ancora rinascimentale delle signorie locali, che si appoggiavano sull'intraprendenza economica degli ebrei, tanto che tra principe e alcuni scelti banchieri si creava un rapporto diretto ed esclusivo. Ancora per tutto il Seicento, gli ebrei mantennero nella città di San Luigi un ruolo importante (a loro era affidato, fra l'altro, l'appalto delle tasse).

Del resto, per difendere la propria autonomia decisionale, i signori locali cercavano di controllare anche la nomina delle cariche ecclesiastiche. Francesco Gonzaga ottenne che il candidato alla dignità abbaziale fosse da lui stesso designato e fu così che, in materia di ebrei, come in una serie di altri argomenti riguardanti la vita sociale, l'abate venne a fare da filtro tra le esigenze teologiche e le necessità di Stato. A Castiglione, dunque, non venne mai istituito un ghetto, e non solo perché sarebbe stato economicamente troppo oneroso.

La "tolleranza" ante litteram verso il piccolo gruppo ebraico castiglionese dimostra, fra l'altro, come l'atteggiamento nei confronti del giudaismo, nell'Italia della riforma, fosse ben più complesso e sfumato di quanto comunemente si creda.



(©L'Osservatore Romano - 7-8 dicembre 2009)

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03/07/2011 20:30
 
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Perchè il Medioevo non è quello di Eco



di Giovanni Fighera
02-07-2011

Quando si sente parlare di Medioevo nei dibattiti televisivi, sui giornali o a scuola, fuoriesce l’inveterato luogo comune, per la verità considerato spesso quasi assunto dogmatico, di un’epoca oscurantista e buia. È un pregiudizio che la storiografia settecentesca ha diffuso nella produzione letteraria, pamphlettistica, giornalistica e saggistica del secolo, ma i germi di questa sarcastica denuncia della decadenza dell’epoca cristiana per eccellenza hanno infestato i secoli seguenti, giungendo fino a noi.

La storiografia più recente, guidata da quella Regine Pernoud che è stata definita la «Signora Medioevo», ha sfatato questo mito negativo e molte pubblicazioni hanno iniziato a rendere merito a un’epoca di fioritura economica, tecnologica, scientifica, artistica e letteraria. Nella cultura comune, però, l’immagine dei «secoli bui» è ben lungi dal morire. La visione dominante è, infatti, quella che lo scrittore Umberto Eco ha trasmesso ne Il nome della rosa: superstizione, roghi, streghe, ignoranza, chiesa corrotta ed eresie sono gli ingredienti dominanti per un mondo di intrighi che sembra più rispondere ad esigenze costruttive di un giallo che ad un’ipotesi di ricostruzione storica veritiera. Così, anche a scuola, la pressoché totalità degli studenti conosce questo Medioevo da Nome della rosa, proprio perché gran parte del mondo dei professori continua a trasmettere nelle proprie lezioni una tale immagine preconfezionata.

Notevole è, invece, la fioritura culturale, sociale, artistica e perfino giuridica di quest’età, così come emerge attraverso le fonti di archivio spesso poco lette e studiate. Per tanti secoli, nel Medioevo, le opere rimangono anonime, sono realizzazione di bottega, appartengono ad una collettività e sono, talvolta, frutto della cooperazione di un gruppo di artigiani o di una comunità cittadina. Per tanto tempo, cioè, il valore di un’opera non è percepito tanto in relazione all’artista, bensì per il pregio tecnico, per il messaggio veicolato e per il fine che si prefigge. L’oggetto rappresentato è più importante dell’autore così che l’attenzione sia incentrata totalmente sulla rappresentazione. Si pensi, ad esempio, al teatro medioevale, quasi tutto anonimo, ma non per questo di scarso valore.

L’anonimato, la «concezione collettiva dell’opera», però, più che motivi di demerito e di scarsa considerazione artistica attribuita all’opera sono sintomi della percezione dell’uomo medioevale di appartenere ad un popolo di credenti, di un sentimento religioso che sente vivo il legame col Mistero che si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi. È interessante notare che, nel Medioevo, per la prima volta nella storia il popolo stesso coopera spontaneamente alla realizzazione delle grandi opere monumentali. In un contesto in cui il benessere sociale è ben lungi dal nostro, molti dedicano il proprio tempo libero gratuitamente per edificare i templi del Signore, le case del popolo di Dio, le Chiese.

La concezione organica ed unitaria della cultura tipica dell’epoca si trasfonde, così, nelle realizzazioni artistiche che comunicano il legame profondo del particolare con il Tutto, con l’Ideale, con il Mistero, con Cristo. Basterà recarsi a Perugia ad ammirare la stupefacente fontana realizzata da Nicola e Giovanni Pisano tra il 1274 e il 1278, guardare le statue dedicate ai simboli, alle virtù teologali, ai segni zodiacali per rendersi conto che l’opera d’arte medioevale risente di questo sforzo didattico ed educativo teso a sussumere le conoscenze fondamentali e ad introdurre al significato della realtà. Le cattedrali sono, così, Biblia pauperum, la Bibbia dei poveri, occasione di scoperta e di conoscenza del mondo. Le opere d’arte sono, spesso, delle summae, ovvero le enciclopedie medioevali. L’arte è, per questo, sommamente pedagogica, didattica ed educativa. L’epoca delle cattedrali che svettano verso il cielo, della musica gregoriana e polifonica, della Divina commedia, della Cappella degli Scrovegni di Giotto, delle storie di S. Francesco nella Basilica di Assisi, l’epoca di castelli e città turrite: questa è l’epoca medioevale. Chi visitando Siena o S. Gimignano, Todi o Rothenburg o. d. T. o, ancora, le meravigliose città della Provenza avrebbe il ben che minimo dubbio a sconfessare la tradizionale definizione di Medioevo come epoca buia ed oscurantista?

Il Medioevo è, invece, l’epoca del culto del bello.

Grandi geni, come Dante e Giotto, hanno illuminato con lo splendore delle loro opere un’epoca che sente profondamente l’identità tra ontologia ed estetica, che avverte che la presenza del bello pervade tutta la realtà. Il Medioevo esprime quello sguardo nuovo sulla realtà che scaturisce dall’avvento di Cristo. «Il Verbo si è fatto carne e venne ad abitare in mezzo a noi». Secondo la fede cristiana, ovvero secondo quanto hanno tramandato gli apostoli, i testimoni diretti della vita di Cristo (o, meglio, degli anni della sua missione), il Logos, l’Essere, che ha le prerogative della bontà, della verità e della bellezza, si è incarnato e da allora abita in mezzo a noi. Si è presentato a noi diversamente da come ci aspettavamo. Nella povertà, nella semplicità, Cristo ha mostrato a noi il volto più profondo dell’Essere, la profondità della realtà che è amore. Ha offerto tutto se stesso per noi, morendo in croce.

Se la Bellezza si è incarnata ed abita in mezzo a noi, la sua rappresentazione non sarà più l’esito di una mente geniale, ma la testimonianza di questa storia della salvezza e della rivelazione culminata nel punto in cui l’Infinito, il Mistero, ha assunto la condizione umana e si è rivelato per la nostra redenzione. È questo il culmine della rivelazione. L’artista addirittura potrà rappresentare Dio, fatto che la tradizione ebraica escludeva, così come pure tutte le religioni e le filosofie orientali. Scrive, infatti, il teologo siriano san Giovanni Damasceno (676-749): «Perciò con fiducia io rappresento Dio non come invisibile, ma diventato visibile per la partecipazione della carne e del sangue. Io non raffiguro l’infinità visibile, ma la carne di Dio che è stata vista».

Così, nell’arte figurativa il volto umano recupera una personalità, diventa individuale, non è più un’astrazione ideale, ma è espressione di una persona unica e irripetibile, nel suo dramma e nella contingenza in cui vive, piena di dignità ancor più nella sofferenza che sopporta. Il volto di Dio, che ha assunto le nostre sembianze, è ora rappresentabile in Gesù Cristo, che ha sofferto per l’uomo fino a morire in croce. Cristo è vero Dio e vero uomo: un paradosso per la saggezza antica pagana. Nell’arte classica, invece, il vertice nell’espressione artistica si raggiunge nella rappresentazione di un volto ideale, fuori dal tempo, imperturbabile, perché massima virtù è il dominio delle proprie passioni e il controllo di sé. Per raffigurare la divinità l’artista greco utilizza l’immagine di un uomo perfetto.

Nella nuova prospettiva cristiana la realtà vale in quanto tale, ma anche perché rimando alla Realtà, quella definitiva, che sta oltre il sensibile. La rappresentazione della bellezza visibile è, per questo motivo, sempre suggestiva, nel senso che «porta con sé un senso, un significato» che sta oltre: è, in questa prospettiva, potente rimando alla bellezza del Dio invisibile. La realtà è, quindi, segno e l’artista vuole, perciò, veicolare il senso profondo del reale. Per questo si può parlare di lettura figurale e simbolica della realtà. Il concetto di figura ben rappresenta la nuova mentalità cristiana. Con queste parole il grande filologo tedesco Erich Auerbach (1892–1957) descrive il concetto di interpretazione figurale: «L’interpretazione figurale stabilisce fra due fatti o persone un nesso in cui uno di essi non significa soltanto se stesso, ma significa anche altro, mentre l’altro comprende o adempie il primo. I due poli della figura sono separati nel tempo, ma si trovano entrambi nel tempo, come fatti o figure reali; essi sono contenuti entrambi […] nella corrente che è la vita storica». L’Antico Testamento è figura del Nuovo Testamento. Tutti noi, secondo tale impostazione, siamo «figura» ovvero profezia di quello che saremo, poi, nell’Aldilà, prefigurazione dello status animae post mortem, cioè della condizione della nostra anima dopo la morte.

Oltre che figurale la cultura medioevale è fortemente simbolica perché rimanda al senso globale, al tutto, all’orizzonte ultimo, al Dio creatore. Potremmo definire «simbolico» ciò che unisce il particolare con l’universale, con il tutto. Più nello specifico il simbolo consiste nell’uso di un animale, di una persona, di un oggetto per esprimere un’altra realtà più profonda. L’uso di un simbolo deve essere comprensibile e interpretabile dalle persone appartenenti alla comunità di un certo luogo e di un certo tempo. Ogni epoca ha, quindi, i suoi simboli. L’esempio che segue permetterà, forse, di capir meglio la natura simbolica della cultura e dell’arte medioevale. Se dovessimo rappresentare il mondo e la realtà con un puzzle, potremmo affermare che l’uomo medioevale possiede pochi pezzi del puzzle rispetto all’uomo d’oggi, ma ha ben chiara quale sia l’immagine da ricomporre; l’uomo medioevale ha, cioè, ben presente il significato positivo del reale. Questa certezza sulla positività della realtà proviene dalla consapevolezza del nesso inscindibile tra verità e bellezza. Presente anche nella cultura classica, questo nesso troverà, poi, nell’arte cristiana la sua formula nell’illuminante definizione di bellezza come splendore del vero.

La concezione medioevale del bello fin qui espressa trova una sua perfetta formulazione teorica nel pensiero di s. Tommaso (1225-1274) che afferma che il bello è una caratteristica dell’Essere, assieme al vero e al bene. Il bello è evidente, luminoso, trasparente nella forma, per cui si può percepire con facilità senza il procedimento analitico tipico della scienza. È dotato anche di integrità, ovvero la compiutezza in tutte le sue parti permette di cogliere la forma dell’oggetto. Infine, fondamentale per la bellezza di un’opera è la proporzione delle parti, che determina l’armonia nel suo insieme. Per s. Tommaso, bello è ciò che, visto, piace. Si rimane, quindi, affascinati e avvinti nella contemplazione della bellezza, ancor prima di conoscerla. Certo, questa attrattiva della bellezza diventa strumento di conoscenza, perché ci sprona ad una intelligenza del reale, cioè ad una «lettura in profondità» (il termine «intelligenza» deriva per l’appunto da intus legere). Il piacere estetico deriva dalla contemplazione dell’oggetto bello: è un piacere disinteressato, che non mira al possesso. Il possesso porterebbe ad un deturpamento della cosa bella e alla scomparsa dell’atteggiamento estatico che porta a goderne. Si avrebbe, così, un decadimento ovvero una corruzione del primigenio impatto che il bello produce alla sua vista.

Il bello desta una potente attrazione proprio perché richiama alla verità e alla bontà dell’Essere. È diabolico fermarsi solo al piacere che il bello produce senza metterlo in relazione con l’Essere di cui l’oggetto o la persona bella è riverbero. Il diabolico consiste, infatti, nella separazione del particolare dal significato, dall’universale. S. Tommaso arriva, poi, ad affermare che, in realtà, ogni ente è dotato delle prerogative del bello e ha, perciò, una sua intrinseca bellezza, anche se non sempre noi riusciamo a coglierla.

Sintetizzando, dunque, quanto sin qui visto a proposito dell’estetica cristiano-medioevale, possiamo, senz’altro, affermare che una delle idee centrali della sua concezione del bello è la coincidenza di verità, bontà e bellezza. La verità, nella prospettiva cristiana, porta sempre con sé l’idea del bene e coincide con una Persona, Cristo, che ha indicato la via per il nostro compimento. Secondo la lettura cristiana, però, anche l’arte classica è riverbero dell’Essere. L’artista cristiano, allora, non censura l’arte classica, anzi la rilegge, la ripropone e la reinterpreta cogliendo anche nelle opere del passato i semi di verità ivi presenti, ovvero i semi del Logos per usare un’immagine del filosofo cristiano Giustino. Così, immagini tipiche della tradizione pagana vengono, talvolta, ripresentate nella nuova arte con un significato nuovo, talvolta addirittura forzato ed erroneo. Celebre è, ad esempio, la rilettura che nel Medioevo si è proposta della IV egloga delle Bucoliche di Virgilio 70 a. C.- 19 a. C.).

La concezione amorosa dantesca e la figura di Beatrice sono tra le più efficaci espressioni della bellezza medioevale. Beatrice è bella proprio perché figura di Cristo. Si pensi alla Vita nova, opera che racconta l’inizio del cambiamento di Dante a partire dall’incontro con questa donna. La donna è, qui, miracolo, meraviglia, segno stesso del divino nella realtà, possibilità per l’uomo di elevarsi e di andare verso il cielo. Nel rapporto con la donna l’uomo ha la possibilità di realizzarsi e di compiersi. Se Cristo è la via e, nel contempo, la verità, e se Beatrice è figura di Cristo, allora anche Beatrice è via per andare a Dio. Questa è la bellissima idea sottesa alla concezione d’amore dantesca espressa nella Vita nova: la donna è «cristofora», il rapporto dell’uomo con lei è sacramentale. Certo, permane in Dante tutta la consapevolezza della possibilità di peccare e di cadere nel peccato di idolatria: rimanere troppo vicino a Beatrice, fermare lo sguardo solo su di lei è il rischio che l’uomo corre tutti i giorni e siamo invitati alla vigilanza, perché nessuna conquista è ottenuta una volta per tutte. Altrimenti, Beatrice può essere per noi la Francesca del V canto dell’Inferno.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Streghe. Meno roghi grazie al papa.

Pubblicato ilagosto 20, 2011

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Col tempo, la giuris­dizione venne estesa anche alle streghe: i processi contro que­ste disgraziate, riconosciuti ufficialmente da Innocenzo VIII nella Summis desiderantes, di cui si è fatto già cenno, continua­rono fino al Settecento, con punte massime tra la fine del Cinquecento e la prima parte del Seicento e si moltiplicarono soprattutto nell’Europa centrosettentrionale, dove le vittime superarono varie centinaia di migliaia, non mancarono in Francia e in Inghilterra, colpita dal fenomeno relativamente tardi. Questi processi anche a Nord delle Alpi non erano pe­rò di competenza dell’inquisizione, ma della giustizia secola­re. L’alto numero delle vittime fu dovuto anche all’uso della tortura che portava a confessioni estorte con la violenza, e ad accuse di innocenti. L’inquisizione spagnola e quella pontifi­cia si mostrarono più ragionevoli. Forse anche per questo (ma sostanzialmente per la diversa psicologia dei popoli me­diterranei, più ottimisti) Spagna e Italia rimasero relativamen­te immuni dal fenomeno (le 83 streghe arse vive nel 1583 per ordine inesorabile di Carlo Borromeo, furono giustiziate a Roveredo, nei Grigioni, Svizzera meridionale, non lungi da Bellinzona, non in Italia). (161)

G. Martina, Storia della Chiesa, Morcelliana, Brescia 20064

 

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15/04/2013 21:28
 
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I 5 falsi miti delle crociate.




Fonte: Uccr
Ecco come abbattere i 5 falsi miti sulle Crociate.


Le crociate rappresentano uno degli eventi più fraintesi della storia occidentale. La stessa parola “crociata” ancora oggi viene utilizzata con una connotazione negativa, quando ad esempio si intende sottolineare un conflitto i cui moventi siano più ideologici che ideali; lo stereotipo più collaudato, invece, è quello che descrive avidi nobili europei dediti alla efferata conquista dei musulmani pacifici, con ricadute negative che perdurano ancora oggi grazie anche alla diffusione di tale tesi “a senso unico” nei maggiori testi scolastici occidentali.
 
 
La storia delle crociate in realtà richiede una sorta di purificazione che è oltretutto doverosa anche alla luce degli ultimi studi che provengono da ambiti accademici molto accreditati. Consapevoli della complessità della tematica, cercheremo di sintetizzare i fatti storici, riprendendo un articolo molto più approfondito, comparso su “Crisis magazine”, circa i luoghi comuni consolidati, penetrati nell’immaginario collettivo. Un articolo simile è stato pubblicato inUltimissima 17/05/11.
 
 
Mito 1): ”le crociate furono guerre di aggressione non provocata”:

E’ una falsità, poiché fin dai suoi inizi, l’Islam è stato un movimento violento e imperialista. A 100 anni dalla morte di Maometto, gli eserciti islamici avevano conquistato terre cristiane in Medio Oriente, Nord Africa e Spagna. La stessa Città Santa di Gerusalemme è stata presa nel 638, gli eserciti musulmani avevano conquistato i due terzi del mondo cristiano e i turchi stavano spingendo verso Costantinopoli, il centro della cristianità bizantina. Nell’XI secolo i cristiani in Terra Santa e i pellegrini che vi si dirigevano vennero a trovarsi in una situazione di costante persecuzione. Dopo la battaglia di Manzikert del 1071, lo stesso imperatore bizantino chiese aiuto ai cristiani in occidente, ma solo con Papa Urbano II venne indetta la prima crociata nel 1095. Dunque le crociate furono missioni di difesa armata, con l’obiettivo di liberare i cristiani d’Oriente e Gerusalemme dal giogo dei musulmani.
 
Mito 2): “le crociate miravano al saccheggio e alla sopraffazione”:

Secondo una corrente di studi più antichi, il boom della popolazione europea registratosi nella metà del secolo XI ha reso necessario le crociate per offrire terre e titoli ai figli di nobili che erano tagliati fuori dalle eredità riservate ai primogeniti. Gli studi degli ultimi quarant’anni, invece, hanno evidenziato, sulla base dei documenti esaminati, come la maggior parte dei crociati erano primogeniti. Come ha affermato il prof. Madden, direttore del Saint Louis University’s Center for Medieval and Renaissance Studies, «non è stato colui che non aveva nulla da perdere a partecipare alle crociate, quanto piuttosto colui che ne aveva di più!» (T. Madden, “New Concise History of the Crusades”, Rowan & Littlefield Publishers, Inc., 2005, pag. 12). Ovviamente, come ha ricordato Giovanni Paolo II nel Giubileo del 2000, non sono comunque mancati episodi inutilmente violenti.
 
Mito 3): “i crociati massacrarono gli abitanti di Gerusalemme”:
 
Questo mito non tiene conto delle regole di guerra vigenti nell’XI secolo. Lo sterminio degli abitanti che avevano rifiutato di arrendersi prima di un assedio era una pratica comune per qualsiasi esercito, cristiano o musulmano. Gli abitanti erano consapevoli di tutto questo quando hanno scelto di non arrendersi, al contrario sarebbero stati autorizzati a rimanere in città e mantenere i loro possedimenti. Nelle città che si sono arrese, infatti, Crociati hanno permesso ai musulmani di mantenere la loro fede e praticarla apertamente. Nel caso di Gerusalemme, la maggior parte degli abitanti era comunque fuggita alla notizia dell’esercito cristiano in arrivo, chi è rimasto è morto, è stato riscattato o espulso dalla città.
 
Mito 4): “le crociate ebbero per obiettivo anche lo sterminio degli ebrei”:
 
Ci si riferisce, all’operato del Conte Emich di Leiningen, ma non solo a lui, il quale da convinto antisemita, imperversò nel 1095 lungo la valle del Reno per dirigersi contro le comunità ebraiche, convincendosi dell’inutilità a marciare per 2500 miglia per liberare i cristiani d’Oriente, quando i “nemici di Cristo”, secondo lui, erano in mezzo ai cristiani. In realtà la sua iniziativa, con l’ausilio di pochi fanatici disposti a tutto, non ebbe mai l’approvazione della Chiesa e anzi molti vescovi cercarono di proteggere gli ebrei locali che si trovavano nelle loro diocesi, come il vescovo di Magonza. Imponenti i discorsi di San Bernardo di Chiaravalle durante la seconda crociata (1147 – 1149) contro l’antisemitismo: «Gli ebrei non devono essere perseguitati, né uccisi, né costretti a fuggire! » (in “Epistolae”). Questi sporadici attacchinon sono dunque da attribuire ai Crociati ma a piccoli gruppi di uomini armati che ha seguito la loro scia.
 
Mito 5): “le crociate sono la fonte della tensione moderna tra Islam e Occidente”:
 
Coloro che cercano risposte per spiegare l’11 settembre 2001 citano le crociate come causa scatenante per l’odio islamico e credono che i musulmani stiano cercando di “correggere gli errori” che derivano da esse. In realtà ci si dimentica che le crociate sono state dimenticate dal mondo islamico fino al XX secolo. A tal proposito è interessante notare come la prima storia araba delle crociate sia stata scritta solo nel 1899 e che il risentimento musulmano nei confronti delle crociate, non ultimo i deliranti appelli di Osama Bin Laden alla “jihad contro ebrei e crociati”, affondi piuttosto le sue radici nel nazionalismo, oltre che nella più recente chiusura del mondo islamico ai costumi occidentali. Dal punto di vista islamico, le Crociate furono un insignificante periodo storico, della sola durata di 195 anni (1096-1291), per la semplice ragione che non ebbero mai successo, a parte la Prima Crociata in cui è stata conquistata Gerusalemme ripresa però da Saladino nel 1187. Le perdite di uomini furono in massima parte cristiane, non certo musulmane! Curioso poi l’aneddoto ricordato nel 1899 da Kaiser Wilhelm durante il suo viaggio a Damasco, volendo visitare la tomba del grande Saladino, il vincitore dei Crociati, l’ha trovata in un grande strato di degrado, dimenticata e lasciata decadere. Lo storico Thomas F. Madden ha commentato: «la memoria artificiale delle crociate è stata costruita dalle moderne potenze coloniali e tramandata dai nazionalisti arabi e islamisti» (T. Madden, “New Concise History of the Crusades”, Rowan & Littlefield Publishers, Inc., 2005, pag. 222).
 
Conclusione:
 
Le crociate non soltanto erano mosse da alti sentimenti di difesa della libertà dei cristiani d’Oriente, oppressi dagli imperatori islamici, ma ritardarono anche di tre secoli l’invasione dell’Europa, tanto che lo storico René Grousset parla di responsabilità “mondiale” che la Chiesa si è assunta nella loro promozione (R. Grousset, “La storia delle crociate”, Piemme 2003). Verrà il giorno in cui si smetterà di considerare le crociate un peccato capitale della Chiesa Cattolica eseguito criminalmente dall’intero mondo occidentale?

Salvatore Di Majo


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(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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