A tutti voi che passate da qui: BENVENUTI
Se avete desiderio di capire che cosa insegna la Bibbia che il Magistero della Santa Chiesa, con il Sommo Pontefice ci insegna, questo Gruppo fa per voi. Non siamo "esperti" del settore, ma siamo Laici impegnati nella Chiesa che qui si sono incontrati da diverse parti d'Italia per essere testimoni anche nella rete della Verità che tentiamo di vivere nel quotidiano, come lo stesso amato Giovanni Paolo II suggeriva.
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I DIECI COMANDAMENTI...ragionati

Ultimo Aggiornamento: 07/02/2016 22:48
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03/12/2008 10:51
 
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Cominceremo qui una analisi dei Dieci Comandamenti....non avranno una cronologia numerica perchè questo lavoro è tratto dalle risposte che ho potuto dare a specifiche domande sui Comandamenti...a diversi interlocutori [SM=g27988]

Quanto segue, se gradito, potrà essere ricopiato altrove ma INTEGRALMENTE Comandamento per Comandamento, e citando l'autore e la fonte...Grazie!


Quinto Comandamento: Non uccidere....

Amici........proviamo a parlare di questo Comandamento: NON UCIDERE......
parto da una domanda che mi è stata rivolta da un amico: PERCHE' NON DEVO UCCIDERE? E perchè se non devo uccidere la legittima difesa è tollerata? Se sono un essere libero, perchè la decisione di abortire viene descritta come un omicidio?

...Gesù ha detto che il Vangelo è per i semplici, bene, vediamo di non complicarci le risposte.. [SM=g27987] ....

Partiamo da quella frase di Genesi che una certa cultura pacifista sta sfruttando e strumentalizzando: NESSUNO TOCCHI CAINO!
Ma cosa vuol dire?

Il nome CAINO significa ACQUISIZIONE... e secondo alcune interpretazioni troverebbe origine dall'esclamazione di Eva: "Ho acquistato un uomo dal Signore" probabilmente riconoscendo ad Egli una sorta di perdono dopo la disobbedienza.....
In sostanza, in questa storia, Dio ci rivela che non fa distinzione circa la CREATURA, e tuttavia sottolinea con questo monito "NESSUNO TOCCHI CAINO" la differenza fra il soggetto E CIO' CHE IL SOGGETTO FA.. [SM=g27988] ...per questo Dio dimostra di preferire Abele, ma al tempo stesso DIFENDE LA VITA di Caino la quale gli appartiene quanto quella di Abele....l’uomo si identifica con ciò che fa, con ciò che sceglie o non sceglie....e di fatto il Siracide dice: TI SARA' DATO CIO' CHE AVRAI SCELTO.....portando così l'uomo a ragionare sul fatto che egli NON HA ALCUN DIRITTO DI SCEGLIERE PER LA VITA O LA MORTE DELL'ALTRO anche se avesse agito come Caino!

Ma allora la LEGITTIMA DIFESA? La pena di morte che è essa stessa definita lecita nel Catechismo?

Semplice.....come dice san Paolo: TUTTO MI E' LECITO, MA NON TUTTO GIOVA siamo invitati più a ragionare sul GIOVAMENTO che non sulla LEICITA' di un atto.....
da qui la condanna di Dio ALL'ISTINTO DELLA VENDETTA.....mi è lecito uccidere certamente, devo DIFENDERMI perchè la mia vita ha un valore immenso, e difendermi nel momento in cui la mia vita e quella dei miei cari fosse in pericolo....così uno Stato ed una Nazione hanno il diritto di usare le armi quando NON CI FOSSE ALTRA STRADA per difendere i propri cittadini....
Ma tutto questo difendersi a cosa giova?
Ecco la rivoluzione di Cristo:
PORGI L'ALTRA GUANCIA........RIPONI LA SPADA NEL FODERO.....CAMBIATE LE VOSTRE ARMI IN VOMERI... [SM=g27988] ...

Ma attenzione....la strategia PACIFICA(non pacifista eh!) di Gesù Cristo NON è quella sbandierata dal PACIFISMO.....
Quando infatti Gesù guarisce l'orecchio del servo ferito dalla spada di Pietro e dice a Pietro di riporre l'arma, la scena NON finisce li..... finisce SUL GOLGOTA, SULLA CROCE....ossia Gesù PAGA ANCHE PER QUEL GESTO!
Porgere l'altra guancia allora significa molto di più che l'assumere l'aria fritta di pacifista che non vuole combattere solo perchè è contro un sistema piuttosto che un altro.. [SM=g27988] .... significa PORGERE SE STESSI ALL'INGIUSTIZIA, DARE LA PROPRIA VITA, CAPOVOLGERE LA SITUAZIONE CHIAMANDO IN CAUSA COLUI CHE PUO' RISOLVERE OGNI PROBLEMA.......infatti i martiri E' IN NOME DI CRISTO che porgevano la guancia, non nel loro nome.. [SM=g27986] ...

Ma allora come posso difendermi?

Bè indubbiamente l'uso delle armi legittimato già nell'A.T. viene, con il Cristo, RIDEMENSIONATO PER LE CAUSE "GIUSTE" ossia quando SONO COSTRETTA....questa COSTRIZIONE si genera a seconda delle CULTURE....a seconda dell'uso della ragione e della forza a seconda di quale delle due prevale.....
Come spiega san Tommaso d'Aquino la punizione deve essere equiparata al danno inflitto.....attenzione NON come la legge del Taglione "occhio per occhio", ma molto più cristianamente la punizione della pena di morte E' UN ATTO ESTREMO quando è preclusa ogni altra via.....e di conseguenza, con LA CULTURA, LA RAGIONE, LA SAPIENZA se per l'omicida la giustizia umana può trovare come punizione altre vie, LE SI ASSUMANO basta però che l'omicida soddisfi la giustizia che deve ottenere maggiormente chi è stato VITTIMA.....NON DUNQUE VENDETTA, MA GIUSTIZIA.....

Chiarito questo aspetto e avendo risposto così alla seconda domanda, ritorniamo sul senso biblico del NON UCCIDERE perchè dobbiamo rispondere ancora alla prima domanda....PERCHE' NON DEVO UCCIDERE?

Comunemente si dice: PERCHE' L'ALTRO E' MIO FRATELLO......benissimo e giustissimo, ma non è la risposta piena..... la risposta piena è: PERCHE' L'ALTRO CHE MERITEREBBE DI MORIRE E' IMMAGINE DI DIO....E' LA CAUSA CHE PORTO' DIO A FARSI UOMO E A DARE LA SUA VITA ANCHE PER LUI.. [SM=g27988] ...

Fermarsi esclusivamente sull'aspetto del FRATELLO confonde ed è ambiguo e porta al PACIFISMO.....ma se andiamo oltre e CERCHIAMO NELL'ALTRO IL VOLTO DI QUESTO DIO allora il fine e il comandamento NON UCCIDERE acquista un valore immenso: CHI UCCIDE CAINO UCCIDE L'IMMAGINE DI DIO...ma attenzione, lo stesso discorso vale per Abele: CHI UCCIDE ABELE UCCIDE L'IMMAGINE DI DIO !...
Compreso questo si comprende anche perchè siamo contro l'aborto e perchè la Scrittura stessa definisce l'aborto un omicidio.. [SM=g27988] ...

L'uomo non è semplicemente IL FRATELLO reso tale dall'Incarnazione di Dio, ma è di più, mediante il Dio fatto uomo, L'UOMO SOTTOLINEA QUESTA IMPRONTA=IMMAGINE DI DIO che porta con se anche quando fosse il peggiore degli assassini....Dio condanna espressamente l’agire di Caino che è da omicida, ma salvaguarda la sua natura umana che è un valore per se stessa, intoccabile non solo dall’esterno, ma addirittura da se stessi..... Nessuno può svalorizzare, distruggere, annientare il valore dell’essere umano: neppure - si noti - se stessi. Il peggiore uomo non può intaccare né corrodere la dignità della propria umanità......Dio protegge e rispetta accanitamente questa dignità dell’essere umano, l’ha rispettata in Adamo ed Eva nel momento del peccato contro Lui stesso, e la rispetterà sempre in ogni essere umano FIN DAL SUO CONCEPIMENTO E FINO ALLA SUA MORTE NATURALE.... al punto che Cristo può dire "non son venuto per i giusti, ma per i peccatori".....in sostanza NON UCCIDERE semplicemente perchè Cristo è venuto per SALVARE QUELL'OMICIDA: salvare ossia A CONVERTIRE, salvargli non la vita in questo mondo, MA NELL'ALTRO ... [SM=g27988] non a caso infatti la condizione di Caino riguarda OGNUNO DI NOI, ogni omicida, ogni invidioso (Caino uccide per gelosia), ognuno di noi quando matura in sè il desiderio di VENDETTA che poi sfocia spesse volte nell'omicidio, o se non nell'uccidere porta anche ad altre tragiche conseguenze come il fare del male anche senza giungere ad uccidere...

Riguardo all'aborto, dunque, chiediamoci : COME PUO' UNA MAMMA ARRIVARE AD UCCIDERE IL PROPRIO FIGLIO? E' un atto CONTRO NATURA....non può essere definito AMORE una madre che uccide il proprio figlio nel grembo perchè sapendolo malato non vuole farlo soffrire...NON E' AMORE, E' EGOISMO.....E' PAURA DI AFFRONTARE LA SOFFERENZA....E' PAURA DI AFFRONTARE LE INCOGNITE CHE QUESTA VITA PORTERA'...così come non è naturale che una donna decida di abortire perchè quel figlio NON ERA PROGRAMMATO!! [SM=g27994] è contro-natura!!

Questo Comandamento ci invita allora a riflettere sulla DISTINZIONE che c'è nell'uomo FRA IL SUO ESSERE E IL SUO AGIRE.....una distinzione che la cultura laicista vuole annientare oscurandola con una dottrina FALSA sull'UGUAGLIANZA che porta infatti a questo FALSO pacifismo che agisce solo in virtù di PREFERENZE IDEOLOGICHE...annientando e penalizzando L'IMMAGINE DI DIO SCOLPITA IN OGNI UOMO, oscurando quella comprensione dell'Uomo in quanto tale rispetto a Dio che si è fatto UOMO....di conseguenza l'Uomo oggi, IL BAMBINO CONCEPITO, dice: NON UCCIDERE PERCHE' ANCH'IO HO DIRITTO DI VIVERE....verissimo, ma la motivazione non è corretta.....NON DEVO NON UCCIDERTI SEMPLICEMENTE PERCHE' TU SEI STATO CREATO AD IMMAGINE DI DIO.....e solo Dio ha il diritto di farti vivere o morire....TU APPARTIENI A DIO NON A ME, SEI PARTE DI LUI....SE TI UCCIDO UCCIDO LA SPERANZA CHE E' IN TE FIN DA QUANDO SEI STATO CONCEPITO NEL GREMBO MATERNO....DA QUANDO DIO TI CHIAMAVA PER NOME PRIMA ANCORA CHE TU NASCESSI...... [SM=g27988]

dice infatti il Salmo 21


[10]Sei tu che mi hai tratto dal grembo,
mi hai fatto riposare sul petto di mia madre.
[11]Al mio nascere tu mi hai raccolto,
dal grembo di mia madre sei tu il mio Dio.
[12]Da me non stare lontano,
poiché l'angoscia è vicina
e nessuno mi aiuta.

[13]Mi circondano tori numerosi,
mi assediano tori di Basan.
[14]Spalancano contro di me la loro bocca
come leone che sbrana e ruggisce.
[15]Come acqua sono versato,
sono slogate tutte le mie ossa.
Il mio cuore è come cera,
si fonde in mezzo alle mie viscere.
[16]E' arido come un coccio il mio palato,
la mia lingua si è incollata alla gola,
su polvere di morte mi hai deposto.

[17]Un branco di cani mi circonda,
mi assedia una banda di malvagi;
hanno forato le mie mani e i miei piedi,
[18]posso contare tutte le mie ossa.
Essi mi guardano, mi osservano:
[19]si dividono le mie vesti,
sul mio vestito gettano la sorte.

[20]Ma tu, Signore, non stare lontano,
mia forza, accorri in mio aiuto.
[21]Scampami dalla spada,
dalle unghie del cane la mia vita.
[22]Salvami dalla bocca del leone
e dalle corna dei bufali.
[23]Annunzierò il tuo nome ai miei fratelli,
ti loderò in mezzo all'assemblea.

[24]Lodate il Signore, voi che lo temete,
gli dia gloria la stirpe di Giacobbe,
lo tema tutta la stirpe di Israele;
[25]perché egli non ha disprezzato
né sdegnato l'afflizione del misero,
non gli ha nascosto il suo volto,
ma, al suo grido d'aiuto, lo ha esaudito.

[26]Sei tu la mia lode nella grande assemblea,
scioglierò i miei voti davanti ai suoi fedeli.
[27]I poveri mangeranno e saranno saziati,
loderanno il Signore quanti lo cercano:
«Viva il loro cuore per sempre».
[28]Ricorderanno e torneranno al Signore
tutti i confini della terra,
si prostreranno davanti a lui
tutte le famiglie dei popoli.
[29]Poiché il regno è del Signore,
egli domina su tutte le nazioni.
[30]A lui solo si prostreranno quanti dormono sotto terra,
davanti a lui si curveranno
quanti discendono nella polvere.

E io vivrò per lui,
[31]lo servirà la mia discendenza.
Si parlerà del Signore alla generazione che viene;

[32]annunzieranno la sua giustizia;
al popolo che nascerà diranno: . . .





e così termina il brano del Salmo:

. . . «Ecco l'opera del Signore!».



Se ancora oggi si uccide....è perchè non abbiamo ancora incarnato in noi IL VERBO DEL PADRE... [SM=g27992] ...

e si uccide in mille modi, non solo con la pena di morte che con la sua moratoria E' STATO LO SPECCHIO PER LE ALLODOLE....TUTTO FUMO E NIENTE ARROSTO se l'Uomo e le Nazioni non incarneranno nel proprio seno IL VERBO DEL PADRE le moratorie resteranno belle parole ideologiche....
Anche le BANCHE in qualche modo "uccidono", sono responsabili, quando soffocano le famiglie per i debiti, quando le conducono AL SUICIDIO per la disperazione....anche i sistemi economici DI TUTTI I PARTITI.....TENDONO ad uccidere l'uomo rendendolo SCHIAVO DEL DENARO....Oggi è in atto una grave crisi economica....impareremo qualcosa da questo?

...tanti sono i modi per CALPESTARE LA DIGNITA' UMANA ED OFFUSCARE QUESTO QUINTO COMANDAMENTO: NON UCCIDERE, e NON UCCIDERE prima di tutto L'IMMAGINE DI DIO CHE VIVE IN TE......se avrai compreso questo, avrai permesso al Verbo di incarnarsi in TE e avrai in orrore ogni forma di omicidio.. [SM=g27988] ...


__________________
"Se sarete ciò che dovrete essere, metterete fuoco in Italia e nel mondo intero" (S.Caterina da Siena)
[Modificato da Caterina63 30/06/2009 21:14]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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03/12/2008 11:35
 
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Dai Comandamenti: è lecito venerare le immagini?
Amici....attraverso un contatto email ho affrontato questo tema, ne approfitto allora per rendervi partecipi di questi chiarimenti.. [SM=g27988] ..

Come al solito forse risulterò un pò lunga, ma abbiate pazienza, non si possono spiegare certe domande con piccole battute a mo di slogan....

Buona meditazione

Salve Caterina e grazie per avere risposto.
Quello che sto cercando, come ripeto da quando ho cominciato a leggere la Bibbia, è la vera fede in Cristo che mi porta al ns Dio Padre. Non mi tornano gli insegnamenti della chiesa perchè sto capendo: perchè la Chiesa permette di pregare i santi che sono raffigurati in statue? quando Dio ha detto, ...non vi farete statue, idoli e non scolpirete figure di animali, di uomini ecc. ora non mi viene il versetto per intero, anzi scusami se sono impreciso, ma cercherò di esserlo in futuro. Ed allora di domando perchè la C. permette questo? che giustificazioni possiamo avere se ci inginocchiamo davanti ad una statua od altro e le adoriamo perchè, Caterina, quando ci inginocchiamo davanti ad un qualcosa, quella è una forma di venerazione e non ci possono essere dubbi. Se tu puoi spiegarmi questo, che è soltanto uno dei tanti problemi che mi attanagliano ti sono grato.
Grazie Un cordiale saluto

*****




Caro ****,

il contributo che posso darti parte soprattutto dalla mia personale esperienza perché alla base di tutto, come sai, c’è l’incontro con il Risorto e di conseguenza l’esperienza personale si fa comunitaria, accoglie questo Risorto che è il vero volto di Cristo visibile nella Chiesa…....e da qui colui che ha ricevuto si fa discepolo e con i discepoli dona agli altri quanto ha ricevuto… Ti prego dunque di porti all'ascolto e di meditare perchè ciò che esporrò non sono le "mie" opinioni, ma è l'Insegnamento VERO della Chiesa [SM=g27988]

Prima di aiutarti a comprendere le tue domande, è allora necessario che comprendiamo che cosa è la Chiesa…… si parlava di Chiesa MISTICA E MILITANTE…...perchè se vogliamo capire perché la Chiesa insegna questo e quello, allora dobbiamo anche capire che cosa è QUESTA CHIESA…

Naturalmente cercherò di aiutarti a piccoli passi….
Intanto la Chiesa NON è quello che dice essere la Riforma Protestante…semplicemente perchè Lutero tentò di cancellare 1500 anni di storia con un colpo di spugna…NON fondò “una nuova chiesa”, ma uscì dall’unica Chiesa…....


Ora attenzione l’unità della Chiesa NON dipende affatto ed esclusivamente da noi, ma è un dono che va chiesto a Cristo….ma non andiamo OT, ne riparleremo altrove..

Allora che cosa è questa Chiesa?
E’ UNA IMMAGINE intanto per cominciare……l' immagine DEL CORPO DI CRISTO
Come vedi ci avviciniamo alla comprensione delle immagini…. [SM=g27988]
- La Chiesa è MISTICA(=Maestra-Sacramentale)
- La Chiesa è TEMPORALE(=-Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo- Gesù)
- La Chiesa è TRIONFANTE(=la Gerusalemme Celeste, si riallaccia alla chiesa mistica, è l’eternità)


Se vuoi fare un pio esercizio…prendi ora davanti a te un CROCEFISSO….concentrati e guardalo, fissalo, CONTEMPLALO poi ad alta voce chiediti: “che cosa vedo?”
Vedrai un Corpo MARTORIATO, piagato, disprezzato, crocefisso….ebbene QUEL CORPO CHE TU VEDI E’ LA CHIESA……QUELLA IMMAGINE CHE VEDI E' QUALCOSA DI REALE E CONCRETO...

- Corpo Mistico(=Gesù ne è il Maestro per mezzo dello Spirito Santo)
- Corpo Temporale(=il Verbo si è incarnato, è entrato NEL TEMPO e in questo TEMPO egli ha iniziato a governare attraverso il suo Corpo VISIBILE, la Chiesa)
- Corpo Trionfante(=Gesù è veramente Risorto e ritornerà Glorioso e Giudice Universale….)

Certo, per fare questi esercizi ci vuole anche la FEDE, ci vuole umiltà, ci vuole PREGHIERA.. come ben sai senza fede potresti leggere TUTTA la Bibbia e impararla a memoria che non comprenderesti una sola jota…ma non basta solo la fede….ANCHE SATANA AVEVA FEDE IN SE STESSO E CREDEVA CHE QUELLO CHE AVEVA DAVANTI ERA IL FIGLIO DI DIO…..cosa seppe infatti dimostrare Satana? Di conoscere a memoria le Scritture, MA NON SAPEVA COM-PRENDERLE… [SM=g27987] .dunque per com-prendere le Scritture ABBIAMO BISOGNO DEL CORPO DI CRISTO…..abbiamo bisogno della Chiesa

Adesso veniamo alle statue……sperando di averti aiutato a comprendere perché nella nostra fede cattolica L’IMMAGINE è per noi così importante…

Chiariamo intanto che un conto è l’adorazione altra cosa è la venerazione….

La Chiesa NON ha mai insegnato L’ADORAZIONE all’immagine o ai segni o ai simboli, MA LA loro VENERAZIONE…se questo non fosse vero all’ora noi adoreremmo nell’Eucarestia UNA IMMAGINE PRIVA DI VITA VERA…con tutto ciò che ne conseguirebbe…. [SM=g27988]

Io non adoro l’Ostia in quanto ostia…..adoro IN e DI quell’Ostia IL SUO CONTENUTO….QUELLO CHE ESSA NASCONDE E CELA…IL DIO CON NOI, DIO VIVO E VERO…al contrario nel Protestantesimo si cela una pericolosa idolatria….perchè da una parte essi non credono in quella presenza viva e vera (non hanno il sacerdozio quindi non accadrebbe nulla nello scimmiottare i movimenti del sacerdote), ma dall’altra quel “pane” che usano lo chiamano SANTA CENA……attenzione…è la stessa cosa delle statue…esse sono SANTE PER NOI… infatti essi NON adorano quel pane (come noi non adoriamo le statue o la pagnotta) il quale NON contiene nulla se non le sostanze di cui è fatto….ma VENERANO quel pane che per loro SIMBOLEGGIA IL CORPO DI CRISTO donato a noi…al contrario noi ADORIAMO IL CONTENUTO che quell'Ostia contiene e VENERIAMO l'immagine che la stuatua o una icona di un santo ci rappresenta... [SM=g27988]

Ora….per comprendere così la nostra VENERAZIONE alle immagini (NON le statue, le statue SONO E RAFFIGURANO QUALCOSA, in sé stesse non costituiscono NULLA…eh!) dobbiamo ritornare a quella IMMAGINE DELLA CHIESA sopra riportato e naturalmente eccoci alle SCRITTURE…….

Come ti accennavo NON è difficile prendere la Bibbia e leggerla….il difficile sta nella sua COM-PRENSIONE….

Il termine COM-PRENDERE che ricorre nelle stesse parole di Gesù e degli apostoli, è composta da due parole “Come –e- PRENDERE” di conseguenza il FEDELE il credente deve imparare a come-prendere le Scritture…possiamo fare come Satana che usa le Scritture LETTERALMENTE contro Cristo (=le tentazioni di Gesù nel deserto) e quindi CONTRO IL SUO CORPO, oppure usarle come Cristo ha insegnato attraverso LE PARABOLE, ESEMPI, IMMAGINI, MIRACOLI, SEGNI, SACRAMENTI ecc…. [SM=g27987] ascoltando gli Apostoli ai quali per mezzo di Pietro sono state date LE CHIAVI del Regno dei Cieli e il potere di legare e sciogliere e il potere di rimettere i peccati…a loro sono stati affidati i MISTERI DA AMMINISTRARE (cfr.2Cor.4)…..in una parola ASCOLTARE LA CHIESA……



Ma cosa ci dice la Bibbia su queste IMMAGINI?

Quando Dio diede il Comandamento di non adorare le immagini devi pensare che in quel tempo il Popolo d’Israele era circondato di popoli che adoravano IDOLI, animali e cose inanimate….ad essi sacrificavano ANCHE I BAMBINI….(non ti dimenticare infatti che Abramo quando gli viene chiesto di sacrificare Isacco, il suo unico figlio, non fa una piega, NON SI MERAVIGLIA per quella richiesta, perché ad un dio si offriva la vita umana….) quando infatti Mosè riceve le Tavole della Legge che cosa stava facendo il Popolo di Dio appena salvato dalla schiavitù dell’Egitto? STANCO DI ASPETTARE AVEVA COSTRUITO UN VITELLO D’ORO E LO ADORARONO PER PORTARLO DAL FARAONE E RICEVERE LA GRAZIA…. [SM=g27995]

Quindi il Comandamento contro l’adorazione delle immagini, essendo parola eterna, va calata dentro il suo contesto culturale e sociale di ogni tempo….

Infatti Dio punirà quell’atto condannando il popolo a girovagare per 40 anni nel deserto e Mosè pagherà di persona non potendo entrare nella terra promessa…

Ma Dio che comprende LE NECESSITA’ dell’uomo insegna loro cosa devono fare per SODDISFARE il senso spirituale…e gli fa costruire L’ARCA dell’Alleanza…ISTITUISCE IL SACERDOZIO (Libro del Levitico)….
Mosè che è prefigurazione del Cristo INNALZA IL SERPENTE DI RAME….e chi lo guardava veniva sanato…il senso di INNALZARE ci riporta alla Croce issata sul Calvario e il serpente, che racchiude molti significati, ci riporta al serpente della Genesi, ma anche ALLA SUA SCONFITTA (apocalisse cap.12)
Dunque Dio finisce per TOLLERARE il senso vivo nell'uomo di ADORARE E RIVOLGERSI A QUALCOSA, ma al tempo stesso ISTRUISCE, DA DEI COMANDI DI COME SI POSSA FARE QUESTO SENZA BESTEMMIARE DIO E SENZA IDOLATRARE...

Per concludere….quando noi VENERIAMO la statua di un santo la nostra mente ripercorre LE SUE GESTA…..ergo noi non stiamo adorando un corpo inanimato, ma ben sapendo che la PERSONA li raffigurata E’ VIVA IN CRISTO, CON CRISTO E PER CRISTO…ad essa ci rivolgiamo nella famosa COMUNIONE DEI SANTI che professiamo nel Credo Apostolico….

Un altro esempio è la PREGHIERA PER I DEFUNTI (e non semplicemente “ai”)….chiedere aiuto alla preghiera dei defunti, così come invocare l'intercessione dei santi è tutt'altra cosa dall'evocare gli spiriti….

Già nell'Antico Testamento, Dio aveva proibito l'evocazione degli spiriti dei defunti (Dt 18,10-14; cf. anche Es 22,17; Lv 19,31; 20,6.27).
È molto noto il racconto con cui il re Saul contro la sua stessa disposizione aveva voluto consultare una donna negromante (cf. lSam 28,3-25). Anche gli apostoli mantengono questa proibizione nel Nuovo Testamento in quanto rifiutano tutte le arti magiche (At 3,6-12; 16,16-18; 19,11-21).
Il Concilio Vaticano II, che raccomanda d'invocare le anime dei beati, ricorda anche ripetutamente che il magistero della Chiesa si è dichiarato contro ogni forma di evocazione degli spiriti (cf. LG 49, n. 148: EV 1/419).

Nel concilio Vaticano II, la commissione dottrinale spiegò quello che si deve intendere con la parola «evocazione»; essa sarebbe qualsiasi metodo «con cui si cerca di provocare con tecniche umane una comunicazione sensibile con gli spiriti o le anime dei defunti per ottenere notizie e diversi aiuti» (cf COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Problemi attuali di escatologia, 16 novembre 1991, in EV 13/531).

Anche il recente Catechismo della Chiesa cattolica respinge l'evocazione degli spiriti dei morti tra le varie forme e figure designate normalmente sotto il nome di spiritismo, e in particolare contesta il ricorso ai medium come «volontà di dominio sul tempo, sulla storia e infine sugli uomini» (CCC 2116), mentre la Nota pastorale della Conferenza episcopale toscana parla dell'evocazione delle anime dei defunti come di «una forma di alienazione dal presente e una mistificazione della fede nell'aldilà» (Firenze, 15 aprile 1994)…..

Come vedi caro **** si tratta di COME-PRENDERE quello che leggiamo nella Bibbia… [SM=g27988]

San Paolo dice “Tutto mi è lecito, ma non tutto giova”…. Ergo sta a noi comprendere cosa NON giova alla nostra esperienza cristiana e prettamente cattolica, specialmente quando allontanandoci dalla Chiesa che è Madre e Maestra, tentiamo di com-prendere da noi stessi le sacre Scritture!

Per concludere….ti farò un esempio concreto valido per tutti….
Nella Bibbia leggiamo che solo a Dio va la nostra Preghiera (cfr. Mt.4,10 quando Gesù discute CON SATANA), benissimo, prendiamo allora la preghiera dell’AVE MARIA che ci viene contestata dai Protestanti come segno di IDOLATRIA….

ATTENTI ALL'INGANNO... [SM=g27988] ...

1)Intanto l'Ave Maria, almeno la prima parte NON PUO' ESSERE UN ERRORE tanto meno un ricorso idolatrico dal momento che è tratta, scritturalmente dal Vangelo di Luca: " Ave Maria (Salve Miriam) piena di grazia, il Signore è con te (vv.28); Tu sei benedetta fra tutte le donne e benedetto è il frutto del tuo seno (vv.42); GESU' (=l'ha aggiunto la Chiesa.....)".......
...Lutero si auspicava che si continuasse a dire INSIEME LA PRIMA PARTE, QUESTA.....COME EMERGE DAL SUO COMMENTO AL MAGNIFICAT.......

2) prima di passare alla seconda parte dell'Ave Maria tanto contestata , leggiamo l’inganno INTERPRETATIVO quando i protestanti citano Mt.4,10...per dire che noi facciamo idolatria...facciamo attenzione...prima di dire quelle parole Gesù....STA PARLANDO CON SATANA E NON CON SUA MADRE MARIA O CON QUALCHE SANTO...(Gesù tra l’altro essendo Dio NON aveva certo bisogno di ricorrere ai santi eh!!!)
.....infatti al verso 9 si legge Satana che dice a Gesù: " TUTTE QUESTE COSE IO TI DARO', SE PROSTRATO A TERRA MI ADORERAI..." allora Gesù dirà quella frase che gli evangelici vorrebbero usare CONTRO LA MADRE DI GESU'... MA....quando mai LA VENERAZIONE A MARIA O AI SANTI chiede la prosperità in terra?
E’ Maria che nel Magnificat dirà: TUTTE LE GENERAZIONI MI CHIAMERANNO BEATA, PERCHE’ GRANDI COSE HA FATTO IN ME L’ONNIPOTENTE E SANTO E’ IL SUO NOME….quindi possiamo serenamente INVOCARE LA BEATITUDINE DI MARIA e chiederla (tale beatitudine) a Maria stessa per noi… quale nostra stessa meta da raggiungere grazie ai favori che LEI ottiene (Nozze di Cana) ed otterrà dal Padre e dal Figlio PER MEZZO DELLO SPIRITO SANTO….

3) seconda parte dell'Ave Maria che i protestanti ci contestano: "Santa Maria Madre di Dio (Madre del Verbo Gv.1; Lc.2,26; Mt.1,25); PREGA PER NOI PECCATORI (Maria sotto la croce ha pregato per quanto stava accadendo, pregando per gli uccisori -NOI- del suo Figlio, ed ha pregato ed ottenuto a Cana il primo prodigio del Figlio a favore di due sposi); ADESSO.....E NELL'ORA DELLA NOSTRA MORTE ( COMUNIONE DEI SANTI)....amen!

Certo….non nascondo che nella Chiesa diamo spesse volte spettacolo di indecenza nella venerazione ai Santi, notiamo esaltazione, superstizione….superficialità…. ma tutto questo che è parte dei nostri limiti umani e delle nostre debolezze, nulla toglie a quella COMUNIONE DEI SANTI attraverso la quale la venerazione che ad essi facciamo non ha nulla a che vedere con il monito di Dio di NON adorare ALTRI DEI….visto che Maria, Regina dei Santi e i Santi stessi NON sono “altri dèi”….non sono “il vitello d’oro”…..tanto meno non sono adorati da noi…MA VENERATI, AMATI e certamente non dispiacerà se per Maria abbiamo un sentimento più marcato, più FILIALE, avere LA MADRE DI DIO CON NOI, se l'abbiamo presa con noi come Gesù ci dona ai piedi della Croce, bè, non può che comportare un atteggiamento più marcato di venerazione... [SM=g27987]

Spero di averti aiutato nella comprensione….scusandomi per la lunghezza, ma di meno non si può fare!


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[Modificato da Caterina63 30/06/2009 21:14]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Settimo Comandamento: Non rubare

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Articolo 7: Il settimo comandamento
I. La destinazione universale e la proprietà privata dei beni
II. Il rispetto delle persone e dei loro beni
III. La dottrina sociale della Chiesa
IV. L'attività economica e la giustizia sociale
V. Giustizia e solidarietà tra le nazioni
VI. L'amore per i poveri
In sintesi



E QUI:
Catechismo del Concilio di Trento
it.wikisource.org/wiki/Catechismo_del_concilio_di_Trento/Parte_III/Settimo_Coma...
[SM=g27988]

Settimo Comandamento: Non rubare


Così insegna la Chiesa da SEMPRE:

341 Chi si rende colpevole di rapina

Più esteso quindi è il campo della rapina. Poiché anche quelli che non danno la mercede dovuta agli operai sono rapinatori e san Giacomo li invita alla penitenza con queste parole: "Piangete, o ricchi, ululando sulle sciagure che vi piomberanno addosso" (Gc 5,1). E più sotto aggiunge la ragione per cui devono fare penitenza: "Ecco che la mercede degli operai che hanno mietuto i vostri terreni, da voi defraudata, grida e il grido è entrato nelle orecchie del Signore degli eserciti" (Gc 5,4). Questo genere di rapine è severamente condannato nel Levitico (19,13), nel Deuteronomio (24,14), nel libro di Malachia (3,5) e nel libro di Tobia (4,15). In questa classe di rapinatori sono inclusi coloro che non pagano o carpiscono e prendono per sé le gabelle, i tributi, le decime e simili cose, dovute ai rettori della Chiesa e ai magistrati.
Si rendono rei di questa colpa gli usurai inesorabili e crudeli nelle rapine, che derubano e dissanguano il misero popolo con le loro usure. Consiste l'usura nel ricevere un'aggiunta in più oltre il capitale dato, sia denaro o qualsiasi altra cosa, che possa esser acquistata o stimata per denaro. Così infatti sta scritto nel libro di Ezechiele: "Non riceverà usura e sovrabbondanza [di denaro]" (18,17) e il Signore dice nel Vangelo di Luca: "Date in prestito, senza aspettarne nulla" (6,35). Sempre fu considerato gravissimo questo delitto, anche presso i pagani, e odioso più d'ogni altro. Da ciò il motto: "Cos'è far usura? E che cosa è uccidere un uomo?"; poiché quelli che danno a usura vendono due volte la medesima cosa, o vendono quel che non esiste.
Commettono rapine anche i giudici corrotti dal denaro, che emettono giudizi venali e che, adescati con denaro e condoni, capovolgono le giustissime cause degli umili e dei diseredati.
Sono condannati per la medesima colpa di rapina quelli che frodano i creditori, i debitori fraudolenti e tutti coloro che, ottenuto un certo lasso di tempo per pagare, comprano mercanzie sulla parola propria o altrui e non mantengono la parola giurata. Il crimine di costoro è anche più grave, perché i mercanti, in conseguenza del loro inganno e della loro frode, vendono più cara ogni cosa, con grave danno di tutta la cittadinanza. A costoro sembra convenire il detto di David: "II peccatore prenderà in prestito e non pagherà" (Sal 36,21).
E che diremo di quei ricchi che troppo duramente esigono, da quelli che non hanno da pagare, quel che presero in prestito e, contro la proibizione di Dio, tolgono loro come pegno, anche le cose necessarie al mantenimento del loro corpo? Dice infatti Dio: "Se riceverai in pegno dal tuo prossimo il vestito, glielo restituirai prima del tramonto.
Esso infatti è l'unica cosa con cui si può coprire, è l'indumento della sua carne e non ha altro in cui possa dormire; se griderà giustizia a me lo esaudirò, perché sono misericordioso" (Es 22,26). La crudeltà della loro pretesa chiameremo dunque a buon diritto "rapacità" e "rapina".
Nel numero di coloro che vengono chiamati rapinatori dai santi Padri sono quelli che, durante la carestia, incettano frumento e fanno sì che per loro colpa il mercato sia più caro e più difficile. Ciò vale anche per tutto quel che riguarda il mantenimento e tutte le cose necessarie alla vita; a essi si riferisce quella maledizione di Salomone: "Chi nasconde le derrate, sarà maledetto fra le genti" (Prv 11,26).
I parroci dunque liberamente rimprovereranno costoro dei loro misfatti e più ampiamente spiegheranno le pene minacciate per questi peccati.


342 Chi è obbligato alla restituzione

Ciò che abbiamo detto riguarda le cose proibite; ora veniamo a parlare delle cose comandate da questo precetto, tra le quali ha il primo posto la soddisfazione o restituzione; infatti il peccato non viene rimesso, se non si restituisce il maltolto. Ma, poiché non soltanto chi ha commesso un furto deve restituire il maltolto a colui che ha derubato, ma anche tutti quelli che parteciparono al furto sono obbligati alla restituzione, bisogna spiegare chi siano quelli che non possono sfuggire a quest'obbligo di soddisfare o di restituire.
Parecchie sono le categorie di siffatta gente. La prima è di coloro che comandano di rubare; essi sono non solo compagni e autori del furto, ma anche i più malvagi tra quel genere di ladri.
La seconda categoria, pari alla prima nella volontà sebbene inferiore negli effetti, e tuttavia da considerarsi allo stesso grado, è di quelli che, non potendo comandare, sono consiglieri e suggeritori di furti.
Terza categoria è di coloro che vanno d'accordo con i ladri.
Quarta, quella di coloro che partecipano al furto, dal quale traggono lucro (se si può chiamar lucro quel che li conduce agli eterni tormenti, qualora essi non si ravvedano); di loro così parla David: "Se vedevi un ladro correvi con lui" (Sal 49,18).
Quinta categoria di ladri sono coloro che, potendo impedire il furto, sono tanto lontani dall'impedirlo e dall'opporsi che, anzi, lasciano e permettono che esso avvenga.
Sesta categoria sono coloro che, sapendo con certezza che è stato commesso un furto e dove, non svelano la cosa, ma fingono di non saperla.
L'ultima categoria comprende tutti i complici, i custodi, i patrocinatori e quanti offrono loro un ripostiglio e un rifugio. Tutti costoro sono tenuti alla riparazione verso i derubati e devono esser caldamente esortati a compiere questo dovere indispensabile.
Né sono del tutto immuni da questa colpa neppure coloro che approvano e lodano il furto. Non sono poi alieni da questa medesima colpa i figli di famiglia e le mogli, che sottraggono di nascosto denaro ai padri e ai mariti.


343 Bisogna inculcare la misericordia

In correlazione con questo comandamento sta la divina sentenza che noi dobbiamo aver compassione dei poveri e dei bisognosi; alleviarne le tristi condizioni e le angustie con i nostri mezzi e i nostri servigi. E siccome questo argomento deve esser trattato spessissimo e con la massima ampiezza, i parroci cercheranno nei libri di uomini santissimi come Cipriano, Giovanni Crisostomo, Gregorio Nazianzeno e altri, che ottimamente scrissero intorno all'elemosina, ciò che loro occorre per soddisfare a quest'obbligo. Infatti bisogna infiammare i fedeli all'ardore e all'alacrità nel soccorrere coloro che devono vivere della pietà altrui. Bisogna anche insegnare quanto sia necessaria l'elemosina, affinché tutti possiamo mostrarci veramente, in pratica e con l'opera nostra, liberali verso i bisognosi, con questa argomentazione validissima che, cioè, nel supremo giorno del giudizio. Dio avrà in abominio e condannerà al fuoco eterno coloro che tralasciarono o trascurarono gli obblighi dell'elemosina; invece loderà e introdurrà nella patria celeste coloro che benignamente trattarono gli indigenti.
L'una e l'altra massima furono pronunciate dalla bocca di nostro Signore Gesù Cristo: "Venite, benedetti del Padre mio, possedete il regno preparato per voi; via da me, maledetti, nel fuoco eterno" (Mt 25, 34s.41s). Inoltre i sacerdoti citino i passi adatti a persuadere, per esempio: "Date e vi sarà dato" (Lc 6,38). Espongano la promessa di Dio, della quale non si può pensare niente di più ricco e magnifico: "In verità vi dico, nessuno ha abbandonato la casa... che non riceva il centuplo adesso in questo mondo e nel mondo a venire la vita eterna" (Mc 10, 29.30).
Aggiungano quel che fu detto da Cristo: "Procuratevi amici con la disonesta ricchezza perché, quand'essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne" (Lc 16,9).


344 Vari modi di esercitare la misericordia

Espongano, poi, le varie specie di questo dovere, in modo che chi non può largire ai bisognosi tanto da sostentare la vita, almeno conceda prestiti al povero, secondo il precetto di Cristo nostro Signore: "Date in prestito, senza aspettarne nulla" (Lc 6,34). Il santo re David così esprime la felicità di chi agisce in tal modo: "Beato l'uomo che ha misericordia e da in prestito" (Sal 111,5). È degno poi della cristiana pietà, quando non ci sia possibilità di beneficare altrimenti quelli che per vivere hanno bisogno della pietà altrui, esercitare un lavoro con le proprie mani, evitando così anche l'ozio, per poter alleviare l'indigenza dei bisognosi. A ciò esorta tutti l'Apostolo con il suo esempio, nella lettera ai Tessalonicesi, con le parole: "Voi stessi sapete quanto sia necessario imitarci" (2 Ts 3,7). Parimenti agli stessi: "Attendete a star quieti, ad adempiere il vostro ufficio e a lavorare con le vostre mani, come vi abbiamo ammaestrati" (1 Ts 4,11 ).
E agli Efesini: "Chi rubava, ormai non rubi più; piuttosto lavori operando con le proprie mani quel che è buono, per avere di che dare il necessario a chi soffre" (Ef 4,2.8).
Bisogna anche curare la frugalità e aver riguardo ai beni altrui, per non essere di peso ne molesti agli altri. Questa temperanza, certo, appare in tutti gli Apostoli, ma soprattutto splende in san Paolo di cui è quel motto ai Tessalonicesi: "Ricordatevi, o fratelli, del nostro lavoro e della nostra fatica: lavorando notte e giorno, per non aggravare nessuno di voi, vi predicammo il Vangelo di Dio" (1 Ts 2,9). E lo stesso Apostolo in un altro luogo afferma: "Con fatica e con sudore, lavorando notte e giorno, per non aggravare nessuno di voi" (2 Ts 3,8).


345 Bisogna tener lontani i cristiani da queste colpe

Ma perché il popolo fedele si tenga lontano da tutto questo genere di nefandi delitti, sarà compito dei parroci rintracciare nei Profeti e prendere dagli altri Libri divini le parole di abominio dei furti e delle rapine e le terribili minacce fatte da Dio a coloro che commettono quelle colpe. Esclama il profeta Amos: "Ascoltate, voi che calpestate il povero e fate perire i miseri della terra, dicendo: "Quando passerà il mese e venderemo le mercanzie? Allora potremo diminuire la misura, aumentare il siclo e usare stadere ingannevoli" " (Am 8,4.5). Sono dello stesso tenore molte espressioni in Geremia (7,8s), nei Proverbi (21,6) e nel Siracide (10,9). Non c'è poi da dubitare che l'origine dei mali, da cui è oppressa questa età, sia in gran parte compresa in queste cause.
Ma perché i cristiani s'avvezzino a trattare con tutti i mezzi imposti dalla liberalità e dalla benignità i bisognosi e i mendichi, la qual cosa si riferisce all'altra parte del comandamento, i parroci esporranno i grandissimi premi che Dio promette in questa vita e nell'altra agli uomini benefici e munifici.



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Sempre la Chiesa HA PARLATO E INSEGNATO LA VERA MISERICORDIA......

Il Nuovo CCC ci ha aggiunto una perla preziosa:

III. La dottrina sociale della Chiesa


2419 « La rivelazione cristiana [...] ci guida a un approfondimento delle leggi che regolano la vita sociale ». (295) La Chiesa riceve dal Vangelo la piena rivelazione della verità dell'uomo. Quando compie la sua missione di annunziare il Vangelo, attesta all'uomo, in nome di Cristo, la sua dignità e la sua vocazione alla comunione delle persone; gli insegna le esigenze della giustizia e della pace, conformi alla sapienza divina.

2420 La Chiesa dà un giudizio morale, in materia economica e sociale, « quando ciò sia richiesto dai diritti fondamentali della persona o dalla salvezza delle anime ». (296) Per ciò che attiene alla sfera della moralità, essa è investita di una missione distinta da quella delle autorità politiche: la Chiesa si interessa degli aspetti temporali del bene comune in quanto sono ordinati al Bene supremo, nostro ultimo fine. Cerca di inculcare le giuste disposizioni nel rapporto con i beni terreni e nelle relazioni socio-economiche.

2421 La dottrina sociale della Chiesa si è sviluppata nel secolo diciannovesimo, all'epoca dell'impatto del Vangelo con la moderna società industriale, le sue nuove strutture per la produzione dei beni di consumo, la sua nuova concezione della società, dello Stato e dell'autorità, le sue nuove forme di lavoro e di proprietà. Lo sviluppo della dottrina della Chiesa, in materia economica e sociale, attesta il valore permanente dell'insegnamento della Chiesa e, ad un tempo, il vero senso della sua Tradizione sempre viva e vitale. (297)

2422 L'insegnamento sociale della Chiesa costituisce un corpo dottrinale, che si articola a mano a mano che la Chiesa, alla luce di tutta la parola rivelata da Cristo Gesù, con l'assistenza dello Spirito Santo, interpreta gli avvenimenti nel corso della storia. (298) Tale insegnamento diventa tanto più accettabile per gli uomini di buona volontà quanto più profondamente ispira la condotta dei fedeli.

2423 La dottrina sociale della Chiesa propone principi di riflessione; formula criteri di giudizio, offre orientamenti per l'azione:
Ogni sistema secondo cui i rapporti sociali sarebbero completamente determinati dai fattori economici, è contrario alla natura della persona umana e dei suoi atti. (299)

2424 Una teoria che fa del profitto la regola esclusiva e il fine ultimo dell'attività economica è moralmente inaccettabile. Il desiderio smodato del denaro non manca di produrre i suoi effetti perversi. È una delle cause dei numerosi conflitti che turbano l'ordine sociale. (300)
Un sistema che sacrifica « i diritti fondamentali delle singole persone e dei gruppi all'organizzazione collettiva della produzione » è contrario alla dignità dell'uomo. (301) Ogni pratica che riduce le persone a non essere altro che puri strumenti in funzione del profitto, asservisce l'uomo, conduce all'idolatria del denaro e contribuisce alla diffusione dell'ateismo. « Non potete servire a Dio e a mammona » (Mt6,24; Lc 16,13).

2425 La Chiesa ha rifiutato le ideologie totalitarie e atee associate, nei tempi moderni, al « comunismo » o al « socialismo ». Peraltro essa ha pure rifiutato, nella pratica del « capitalismo », l'individualismo e il primato assoluto della legge del mercato sul lavoro umano. (302) La regolazione dell'economia mediante la sola pianificazione centralizzata perverte i legami sociali alla base; la sua regolazione mediante la sola legge del mercato non può attuare la giustizia sociale, perché « esistono numerosi bisogni umani che non hanno accesso al mercato ». (303) È necessario favorire una ragionevole regolazione del mercato e delle iniziative economiche, secondo una giusta gerarchia dei valori e in vista del bene comune.


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"Se sarete ciò che dovrete essere, metterete fuoco in Italia e nel mondo intero" (S.Caterina da Siena)
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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Ottavo Comandamento: non dire falsa testimonianza

IQT - Catechismo della Chiesa CattolicaIl testo ufficiale del Catechismo della Chiesa Cattolica. E' possibile effettuare ricerche attraverso l'indice tematico.
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Articolo 8: L'ottavo comandamento
I. Vivere nella verità
II. « Rendere testimonianza alla verità »
III. Le offese alla verità
IV. Il rispetto della verità
V. L'uso dei mezzi di comunicazione sociale
VI. Verità, bellezza e arte sacra
In sintesi


E QUI:
Catechismo del Concilio di Trento
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Ottavo Comandamento: Non dirai contro il prossimo tuo falsa testimonianza


347 Necessità di una frequente spiegazione di questo comandamento

Quanto sia non solo utile, ma anche necessaria un'assidua spiegazione di questo comandamento e un'assidua esortazione a questo dovere, lo ricorda san Giacomo con queste parole: "Se uno non sbaglia nel discorrere, è uomo perfetto" e ancora: "La lingua è un piccolo membro, eppur capace di grandi effetti. Ecco qual grande selva incendia un così piccolo fuoco! " (Gc 3,2.5) con quel che segue, sempre a questo proposito.
Siamo ammoniti così di due cose: primo, che molto ampiamente è diffuso questo vizio della lingua, il che è confermato anche dalla sentenza del Profeta: "Ogni uomo è mendace" (Sal 115,11) di modo che questo è quasi il solo peccato che sembra estendersi a tutti gli uomini; secondo, che da esso derivano mali innumerevoli, poiché spesso per colpa d'un maldicente si perdono la ricchezza, la fama, la vita, la salvezza eterna, tanto di colui che è offeso, perché non può sopportare pazientemente le ingiurie e cerca di vendicarle con animo inconsiderato, come di colui che offende, perché, per un inconsulto pudore o spaventato dalla falsa opinione della stima pubblica, non può indursi a dare soddisfazione all'offeso.
Perciò bisognerà ammonire i fedeli di ringraziare quanto più possono Dio di questo salutare comandamento che ordina di non dire falsa testimonianza: comandamento che non solo ci vieta di offendere gli altri, ma con la sua osservanza impedisce anche che siamo offesi dagli altri.

Così diceva ancora, e insegnava di già il grande Concilio di Trento:

349 Altri peccati proibiti con questo comandamento

E proibita da questo comandamento non solo la falsa testimonianza, ma anche la detestabile mania e abitudine di denigrare gli altri. E incredibile quante sciagure gravi, pericolose e cattive derivino da questa peste. Il vizio di parlare con maldicenza e con offesa degli altri occultamente, spesso è rimproverato dalle divine Scritture: "Con il maldicente", dice David, "non mi sedevo a mensa" (Sal 100,5) e san Giacomo: "Non vogliate denigrarvi a vicenda, o fratelli" (Gc 4, 11).

Né abbondano soltanto i richiami della Sacra Scrittura, ma anche gli esempi dai quali è dimostrata la gravità della colpa. Aman accese tanto Assuero contro i Giudei con la falsa accusa di delitti, che questi comandò d'uccidere tutti gli uomini di quel popolo (Est 13,3ss). E piena la Storia Sacra di simili esempi, con il ricordo dei quali i sacerdoti cercheranno di tener lontani i fedeli da una colpa tanto malvagia.

Affinché si capisca la gravità di questo peccato con cui si denigrano gli altri, bisogna ricordare che non soltanto con l'usare la calunnia, ma anche con l'accrescere e amplificare le colpe si lede la stima di cui gode un uomo. E quando uno commette occultamente un'azione che, se risaputa, sarebbe nociva alla sua fama, chi la divulga dove, quando, o a chi non sarebbe necessario, a buon diritto è detto denigratore e maldicente. Fra tutte le denigrazioni, nessuna è più grave di quella di denigrare la dottrina cattolica e i suoi difensori. Cade in codesta colpa chi colma di lodi gli autori di malvagio dottrine e di errori.

Né sono separati dal numero ed esenti dalla colpa di costoro quelli che, prestando orecchio ai detrattori e maldicenti, non riprendono i calunniatori, ma volentieri li approvano. Infatti, se sia più condannabile il calunniare o l'ascoltare un calunniatore, non si saprebbe dire facilmente, come scrivono san Girolamo e san Bernardo; non ci sarebbe infatti chi calunnia, se non ci fosse chi ascolta il calunniatore.

Appartengono alla medesima razza quelli che, con le loro arti, separano gli uomini e li spingono l'uno contro l'altro e si dilettano molto di suscitare discordie, in modo che, rompendo, con finti discorsi, strettissime unioni e alleanze, inducono uomini amicissimi a perpetue inimicizie e li spingono alle armi. Questa peste, il Signore l'ha in abominio: "Non sarai infamatore ne sobillatore in mezzo al popolo" (Lv 19,16). Tali erano molti dei consiglieri di Saul, che cercavano di alienare il suo favore da David e incitare il re contro di lui.

Commettono infine questo peccato gli uomini lusingatori e adulatori che, con blandizie e lodi simulate, si insinuano nelle orecchie e nell'animo di coloro di cui ricercano il favore, il denaro e gli onori, chiamando male il bene e bene il male, come scrive il Profeta (Is 5,20). David ammonisce di tener lontani costoro e di cacciarli dalla nostra società con queste parole: "II giusto mi rimprovererà nella sua misericordia e mi sgriderà; ma l'olio del peccatore non ungerà il mio capo" (Sal 140,5). Quantunque, infatti, costoro non sparlino affatto del prossimo, tuttavia gli nuocciono moltissimo, giacché essi, con il lodare i suoi peccati, gli offrono una ragione per perseverare nei vizi finché vive.

Però in questo genere di vizi è peggiore l'adulazione usata per la calamità e la rovina del prossimo. Così fece Saul che, desiderando gettare David in preda al furore e al ferro dei filistei perché fosse ucciso, lo blandiva con queste parole: "Ecco la mia figlia maggiore Merob, te la darò per moglie; sii soltanto guerriero valoroso e combatti le guerre del Signore" (1 Sam 18,17). Così fecero i Giudei quando, con insidioso discorso, parlarono con Cristo Signore: "Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via del Signore secondo la verità" (Mt 22,16; Mc 12,14). Molto più pericoloso, poi, è il discorso che gli amici, gli affini e i congiunti fanno talvolta per illudere quelli che, colpiti da malattia mortale, sono ormai in punto di morte. Affermano che egli non è in imminente pericolo; lo consigliano a stare lieto e allegro e lo distolgono dalla confessione dei suoi peccati; infine tengono lontano il suo animo da ogni cura e pensiero dei supremi pericoli, nei quali soprattutto si trova. Perciò bisogna fuggire ogni sorta di menzogne, ma specialmente quelle dalle quali uno può ricevere grave danno.

Colma d'empietà è la menzogna quando si mente contro la religione o in cose di religione. Ma Dio si offende gravemente anche con le ingiurie e le calunnie contenute nei libelli chiamati infamanti e per altri simili oltraggi. Inoltre, cadere nella menzogna scherzosa o ufficiosa, quand'anche nessuno ne abbia danno o vantaggio, è in generale cosa da non farsi, come ammonisce l'Apostolo: "Deponendo la menzogna, dite la verità" (Ef4,25). Infatti, da ciò nasce una grande inclinazione a menzogne più frequenti e più gravi. Dalle menzogne dette per scherzo gli uomini prendono l'abitudine di mentire, in modo che vengon tenuti nella considerazione pubblica come non veritieri; perciò han bisogno di giurare continuamente affinché il loro discorso sia creduto.

Per finire, nella prima parte di questo comandamento è condannata la simulazione e non solo le parole dette con simulazione, ma anche le azioni cosiffatte partecipano di questa colpa. Infatti, tanto le parole che le azioni sono indizi e segni di quel che è nell'intimo d'ognuno. Perciò il Signore, redarguendo spesso i Farisei, li chiama ipocriti. E ciò basti per la prima parte del comandamento, che riguarda quanto esso proibisce.

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Importante anche quanto ci insegna OGGI la Chiesa dal CCC


V. L'uso dei mezzi di comunicazione sociale


2493 Nella società moderna i mezzi di comunicazione sociale hanno un ruolo di singolare importanza nell'informazione, nella promozione culturale e nella formazione. Tale ruolo cresce in rapporto ai progressi tecnici, alla ricchezza e alla varietà delle notizie trasmesse, all'influenza esercitata sull'opinione pubblica.

2494 L'informazione attraverso i mass-media è al servizio del bene comune. (377) La società ha diritto ad un'informazione fondata sulla verità, la libertà, la giustizia e la solidarietà:

« Il retto esercizio di questo diritto richiede che la comunicazione nel suo contenuto sia sempre vera e, salve la giustizia e la carità, integra; inoltre, nel modo, sia onesta e conveniente, cioè rispetti scrupolosamente le leggi morali, i legittimi diritti e la dignità dell'uomo, sia nella ricerca delle notizie, sia nella loro divulgazione ». (378)

2495 « È necessario che tutti i membri della società assolvano, anche in questo settore, i propri doveri di giustizia e di carità. Perciò si adoperino, anche mediante l'uso di questi strumenti, a formare e a diffondere opinioni pubbliche rette ». (379) La solidarietà appare come una conseguenza di una comunicazione vera e giusta, e di una libera circolazione delle idee, che favoriscono la conoscenza ed il rispetto degli altri.

2496 I mezzi di comunicazione sociale (in particolare i mass-media) possono generare una certa passività nei recettori, rendendoli consumatori poco vigili di messaggi o di spettacoli. Di fronte ai mass-media i fruitori si imporranno moderazione e disciplina. Si sentiranno in dovere di formarsi una coscienza illuminata e retta, al fine di resistere più facilmente alle influenze meno oneste.

2497 Proprio per i doveri relativi alla loro professione, i responsabili della stampa hanno l'obbligo, nella diffusione dell'informazione, di servire la verità e di non offendere la carità. Si sforzeranno di rispettare, con pari cura, la natura dei fatti e i limiti del giudizio critico sulle persone. Devono evitare di cadere nella diffamazione.

2498 « Particolari doveri in questo settore incombono sull'autorità civile in vista del bene comune [...]. È infatti compito della stessa autorità, nel suo proprio ambito, difendere e proteggere [...] la vera e giusta libertà di informazione ». (380) Mediante la promulgazione di leggi e l'efficace loro applicazione il potere pubblico provvederà affinché dall'abuso dei media « non derivino gravi danni alla moralità pubblica e al progresso della società ». (381) L'autorità civile punirà la violazione dei diritti di ciascuno alla reputazione e al segreto intorno alla vita privata. A tempo debito e onestamente fornirà le informazioni che riguardano il bene generale o danno risposta alle fondate inquietudini della popolazione. Nulla può giustificare il ricorso a false informazioni per manipolare, mediante i mass-media, l'opinione pubblica. Non si attenterà, con simili interventi, alla libertà degli individui e dei gruppi.

2499 Il senso morale denuncia la piaga degli stati totalitari che sistematicamente falsano la verità, esercitano mediante i mass-media un'egemonia politica sull'opinione pubblica, « manipolano » gli accusati e i testimoni di processi pubblici e credono di consolidare il loro dispotismo soffocando o reprimendo tutto ciò che essi considerano come « delitti d'opinione ».

VI. Verità, bellezza e arte sacra

2500 La pratica del bene si accompagna ad un piacere spirituale gratuito e alla bellezza morale. Allo stesso modo, la verità è congiunta alla gioia e allo splendore della bellezza spirituale. La verità è bella per se stessa. All'uomo, dotato d'intelligenza, è necessaria la verità della parola, espressione razionale della conoscenza della realtà creata ed increata; ma la verità può anche trovare altre forme di espressione umana, complementari, soprattutto quando si tratta di evocare ciò che essa comporta di indicibile, le profondità del cuore umano, le elevazioni dell'anima, il mistero di Dio. Ancora prima di rivelarsi all'uomo mediante parole di verità, Dio si rivela a lui per mezzo del linguaggio universale della creazione, opera della sua Parola, della sua Sapienza: dall'ordine e dall'armonia del cosmo, che sia il bambino sia lo scienziato sanno scoprire, « dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l'autore » (Sap13,5), « perché li ha creati lo stesso autore della bellezza » (Sap13,3).

« La Sapienza è un'emanazione della potenza di Dio, un effluvio genuino della gloria dell'Onnipotente, per questo nulla di contaminato in essa si infiltra. È un riflesso della luce perenne, uno specchio senza macchia dell'attività di Dio e un'immagine della sua bontà » (Sap7,25-26). « Essa in realtà è più bella del sole e supera ogni costellazione di astri; paragonata alla luce, risulta superiore; a questa, infatti, succede la notte, ma contro la Sapienza la malvagità non può prevalere » (Sap7,29-30). « Mi sono innamorato della sua bellezza » (Sap8,2).

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adoperiamo, dunque, bene questi strumenti moderni mettendoli AL SERVIZIO DEL SIGNORE, ELARGITORE DI OGNI BENE E DI OGNI DONO.. [SM=g27988] ....
[Modificato da Caterina63 30/06/2009 21:16]
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L'educazione nel nostro tempo

Alle fonti dell'essere cristiano


La Congregazione per l'Educazione Cattolica ha nominato per il prossimo triennio il nuovo rettore dell'Università Pontificia Salesiana, che entra in carica il luglio. Docente di Filosofia dell'educazione e di pedagogia della scuola nella Facoltà di scienze dello stesso Ateneo, il rettore ha recentemente dato alle stampe il volume Educare cristianamente. Lettere spirituali a educatori insegnanti e formatori (Torino, Elledici, 2008, pagine 206, euro 13), dal quale pubblichiamo un estratto.

di Carlo Nanni

A scuola con i ragazzi e le ragazze, con i colleghi e le colleghe, a casa e fuori casa, in parrocchia e in giro si è sempre più messi in questione su ciò che è fondamentale nella nostra vita:  chi siamo, cosa vogliamo essere, come comportarci con gli altri, come far fronte agli avvenimenti, alle novità e ai cambiamenti velocissimi che ci si parano davanti quasi ogni giorno. Non c'è da spaventarsi più di tanto. In fondo si tratta di un'occasione per qualificare meglio l'esistenza e le relazioni personali, e in particolare dare maggior spessore all'insegnamento e alla funzione educativa.

Ma è indubbio che certi modi di vedere tradizionali non sono più all'altezza del tempo e della storia. Anzi, secondo molti, c'è da rivedere gran parte di quella che diciamo la modernità, vale a dire la mentalità e la cultura che da dopo la rivoluzione francese, in Occidente e nel mondo intero, si è offerta come simbolo e strumento di progresso, di successo, di ideale libertà, fraternità, giustizia.

L'uomo occidentale moderno si sente tutto centrato su se stesso e costruttore del suo destino. Il rischio è la caduta nel soggettivismo e in una spasmodica ricerca dell'efficienza e della produttività. La libertà è pensata quasi esclusivamente come assenza di costrizione e soprattutto come libertà di scelta, possibilità di fare ciò che si vuole.

La razionalità esaltata è quella scientifica e tecnologica. Di fronte alle difficoltà presenti magari ci si rifugia nelle tradizioni o nella religione, che però rischia, così, di rimanere fonte di passività e di oscurantismo, strumento di oppressione e di autoritarismo individuale, familiare e sociale.

Un corretto e solido pensiero cristianamente ispirato ci può aiutare a superare questi possibili rischi dell'umanesimo moderno-occidentale illuministico.

Infatti, ci invita a pensare l'uomo, uomo-donna, come persona, cioè al contempo soggetto responsabile e aperto agli altri, agli animali, alle cose, al mondo, a Dio, che si presentano "di fronte" con una loro consistenza ontologica, cioè in rapporto, ma non riconducibili, al mondo dell'io e alle sue aspirazioni, e tanto meno fagocitabili da esso. Anche i figli, somigliano, ma non sono la fotocopia o la riproduzione dei genitori. Gli alunni non si riducono a puri "destinatari", cioè a "complementi di termine" della maestria degli insegnanti.

L'agire ne deve fare i conti. Secondo Antonio Rosmini, il pensatore cristiano dell'Ottocento recentemente beatificato, la regola aurea dell'agire era riassumibile nella massima:  "adegua il tuo amore all'essere di ciascuna realtà con cui hai a che fare".

Il personalismo cristiano ci ha, inoltre, stimolato a dare spessore alla nostra libertà di scelta:  rapportandola con il bene da fare, con i valori da riconoscere e da attuare; impegnandola a dar senso al mondo e alle cose, oltre che a se stessi; spingendola a partecipare responsabilmente e solidarmente a uno sviluppo storicamente sostenibile, umanamente degno per tutti e per ciascuno, per gli individui, per i popoli e per le nazioni.

Ma c'è un punto in cui si ha dà rivalutare attentamente i personali modi di vedere!
L'Occidente moderno è fondamentalmente empirico, sociologistico, sbilanciato sul pubblico:  pensa cioè fatti, persone, eventi e cose solo in quanto appaiono alla superficie dell'esperienza storico-spaziale; distende i pensieri nel tempo e nello spazio sociale, limitandosi a ciò che è di pubblico interesse, mettendo da parte o privatizzando ciò che riguarda l'interiorità e la spiritualità personale. L'eterno è come non ci fosse:  c'è solo l'attuale, il futuro, l'ulteriore, l'oltre.

Per questo siamo tendenzialmente materialisti, presentisti e molto trascinabili dalla mentalità consumistica del "tutto insieme e subito" e del "piglia consuma e butta via". Il faccia-a-faccia fa dimenticare il profondo e l'alto delle relazioni. L'orizzontale fa perdere di vista il verticale. La vita, invece, in ogni suo momento, è giocata all'incrocio e nella dinamicità di tutte e due le coordinate:  quella orizzontale e quella verticale. Noi non siamo chiusi in noi stessi. Oltre che verso il sé e verso l'altro noi siamo protesi verso il profondo e verso l'alto, come diceva Pier Giorgio Frassati.

In questo clima di multicultura, di innovazione tecnologica e di globalizzazione, l'ispirazione cristiana invita a riandare alle radici della spiritualità, a recuperare culturalmente e mentalmente la specificità cristiana. Nell'orizzonte della creazione, dell'incarnazione e della presenza dello Spirito Santo nel tempo e nella storia, l'ispirazione cristiana permetterà di non essere travolti dalla globalizzazione, perché darà la possibilità non solo di aprirci all'altro, al mondo e al futuro, ma anche di rivolgere lo sguardo verso l'alto e verso il profondo. Potremo, cioè, cogliere e sentire intuitivamente e misteriosamente che la nostra vita è in Dio; che il tempo e l'eterno sono collegati intrinsecamente in ogni istante della nostra esistenza; che possiamo camminare nel tempo ma attaccati all'eterno, per cui anche l'offerta di un bicchiere d'acqua diventa atto divino, come fatto a Dio!

Potremo, in particolare, vivere la scuola e l'insegnamento come un modo concreto di "camminare nello Spirito" e come "ricerca del Regno di Dio", nella compagnia di Gesù e secondo il suo Vangelo, nella giustizia e nella verità, "facendo la verità nella carità":  in quel Dio, che nel turbinio del tempo, come ci ricorda anche Dante per bocca di Piccarda Donati, "in la sua voluntade è nostra pace" (Paradiso, III, 85).



(©L'Osservatore Romano - 30 giugno 1 luglio 2009)

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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25/01/2010 13:16
 
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Ringraziando l'amica Gabbianella1 che nel forum di Famiglia Cattolica mi ha dato l'idea per un approfondimento... posto qui una ulteriore riflessione...

IL PER-DONARE...

Perdonare NON è letteralmente incluso nei Dieci Comandamenti, tuttavia Gesù lo include in quella Legge dell'Amore che parte dai Comandamenti....AMA IL PROSSIMO TUO COME TE STESSO..... COSA DICONO I COMANDAMENTI? e inoltre aggiunge: AMATE I VOSTRI NEMICI.... e cosa dice ai suoi crocifissori? PADRE, PERDONA LORO, NON SANNO QUELLO CHE FANNO!

Gesù ci invita ad accogliere i Comandamenti non come una schiavitù della Legge, MA COME ATTO D'AMORE ORDINATO AL NOSTRO STESSO BENE E AL BENE DEL NOSTRO PROSSIMO....questa è la Legge dell'Amore: donare-per....

Dice una storiella edificante:

Questa storia racconta di due amici che camminavano nel deserto.
Ad un certo punto del viaggio cominciarono a discutere,
ed un amico diede uno schiaffo all'altro;
questi addolorato, ma senza dire nulla,
scrisse sulla sabbia :
" IL MIO MIGLIORE AMICO
OGGI MI HA DATO UNO SCHIAFFO."
Continuarono a camminare, finché trovarono un'oasi,
dove decisero di fare un bagno.
L'amico che era stato schiaffeggiato rischiò di annegare,
ma il suo amico lo salvò.
Dopo che si fu ripreso, scrisse su una pietra :
" IL MIO MIGLIORE AMICO
OGGI MI HA SALVATO LA VITA."
L'amico che aveva dato lo schiaffo
e aveva salvato il suo migliore amico domandò :
" Quando prima, ti ho colpito, hai scritto sulla sabbia,
e adesso lo fai su una pietra. Perché ?"
L'altro amico rispose :
quando qualcuno ci ferisce dobbiamo scriverlo sulla sabbia,
dove i venti del perdono possano cancellarlo.
Ma quando qualcuno fa qualcosa di buono per noi,
dobbiamo inciderlo nella pietra,
dove nessun vento possa cancellarlo.

IMPARA A SCRIVERE LE TUE FERITE NELLA SABBIA
E AD INCIDERE NELLA PIETRA LE TUE GIOIE !




********************************************************************************

 ....non vorrei essere io a risvegliarvi dai dolci sogni e gettavti violentemente nella cruda realtà dove il concetto di perdono non è affatto semplice nè facile come dalla storiella che abbiamo appena letto....

Attenzione al PERDONISMO poichè perdonare NON è affatto facile e non è un atto umano, ma divino, infatti il termine stesso, composto da due termini dice: PER-DONO....DONO-PER...

Per-donare dunque è un dono che ci viene da Dio, il non credente capace di perdonare, compie un atto divino senza saperlo... il cristiano perdona NON in nome suo, ma in nome di Cristo...anche quando non lo cita...
Il Sacerdote ci assolve dai peccati nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo...

Ma questo perdonare non è facile...
tu hai postato una bellissima storia EDIFICANTE ma la realtà è diversa...
provate a pensare ad una madre alla quale HANNO VIOLENTATO ED UCCISO UN FIGLIO....qui non si tratta più di uno schiaffo...

Il tipo di sofferenza ricevuta nella storiella raccontata è ben diversa DALLA VIOLENZA che si riceve dal nemico per il quale Gesù dice "AMATE I VOSTRI NEMICI".....

Il perdonare s'innesca soprattutto quando riceviamo un torto personale, rivolto esclusivamente alla nostra persona....altra cosa è quando riceviamo una violenza che colpisce anche i nostri affetti più cari....qui s'innesca davvero il Calvario, IL CROCEFISSO...
ecco che qui io, madre colpita negli affetti non posso capire questo perdono, posso però dire: "PADRE PERDONA LORO, NON SANNO QUELLO CHE FANNO"

è un RIMANDARE A DIO un per-dono troppo grande e troppo pesante per la mia umanità ferita...
nel Padre Nostro diciamo: rimetti a noi i nostri debiti, come noi LI RIMETTIAMO ai nostri debitori....

attenzione alle parole, NON diciamo un semplice "perdona i nostri debiti, ma RIMETTI....
rimettere significa DELEGARE A QUALCUNO PIU' POTENTE DI NOI IL NOSTRO DEBITO COME NOI ABBIAMO DELEGATO A DIO QUANTI ERANO IN DEBITO CON NOI
...

Cristo ha portato la Legge dell'Amore che contempla il dono-per-AMORE...ossia PER-DONARE-AMORE.....

Diceva Ratzinger nella Messa il giorno prima che fosse eletto Pontefice:

La misericordia di Cristo non è una grazia a buon mercato, non suppone la banalizzazione del male. Cristo porta nel suo corpo e sulla sua anima tutto il peso del male, tutta la sua forza distruttiva. Egli brucia e trasforma il male nella sofferenza, nel fuoco del suo amore sofferente. Il giorno della vendetta e l’anno della misericordia coincidono nel mistero pasquale, nel Cristo morto e risorto. Questa è la vendetta di Dio: egli stesso, nella persona del Figlio, soffre per noi. Quanto più siamo toccati dalla misericordia del Signore, tanto più entriamo in solidarietà con la sua sofferenza – diveniamo disponibili a completare nella nostra carne “quello che manca ai patimenti di Cristo” (Col 1, 24).

La "vendetta" di Dio è la LEGGE DELL'AMORE CHE SI DONA-PER....

Nel momento in cui si richiama il concetto del perdonare esclusivamente come un gesto che possa farci stare bene, finiamo per banalizzare il male perchè anche chi deve essere perdonato DEVE CONVERTIRSI....
Se è vero che il mio perdonare deve essere gratuito, è anche vero che l'altro DEVE ESSERE RICHIAMATO ALLA CONVERSIONE DEL MALE FATTO...
altrimenti si rischia la banalizzazione del male e si finisce per pretendere il perdono dalla vittima come un atto dovuto...

 



Nel suo Discorso alla Sinagoga di Roma, così Benedetto XVI ha consegnato la riflessione sui DIECI COMANDAMENTI da condividere con chiunque abbia a cuore l'Amore vero e autentico:




5. Numerose possono essere le implicazioni che derivano dalla comune eredità tratta dalla Legge e dai Profeti. Vorrei ricordarne alcune: innanzitutto, la solidarietà che lega la Chiesa e il popolo ebraico “a livello della loro stessa identità” spirituale e che offre ai Cristiani l’opportunità di promuovere “un rinnovato rispetto per l’interpretazione ebraica dell’Antico Testamento” (cfr Pontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana, 2001, pp. 12 e 55); la centralità del Decalogo come comune messaggio etico di valore perenne per Israele, la Chiesa, i non credenti e l’intera umanità; l’impegno per preparare o realizzare il Regno dell’Altissimo nella “cura del creato” affidato da Dio all’uomo perché lo coltivi e lo custodisca responsabilmente (cfr Gen 2,15).

6. In particolare il Decalogo – le “Dieci Parole” o Dieci Comandamenti (cfr Es 20,1-17; Dt 5,1-21) – che proviene dalla Torah di Mosè, costituisce la fiaccola dell’etica, della speranza e del dialogo, stella polare della fede e della morale del popolo di Dio, e illumina e guida anche il cammino dei Cristiani. Esso costituisce un faro e una norma di vita nella giustizia e nell’amore, un “grande codice” etico per tutta l’umanità. Le “Dieci Parole” gettano luce sul bene e il male, sul vero e il falso, sul giusto e l’ingiusto, anche secondo i criteri della coscienza retta di ogni persona umana. Gesù stesso lo ha ripetuto più volte, sottolineando che è necessario un impegno operoso sulla via dei Comandamenti: “Se vuoi entrare nella vita, osserva i Comandamenti” (Mt 19,17). In questa prospettiva, sono vari i campi di collaborazione e di testimonianza. Vorrei ricordarne tre particolarmente importanti per il nostro tempo.

Le “Dieci Parole” chiedono di riconoscere l’unico Signore, contro la tentazione di costruirsi altri idoli, di farsi vitelli d’oro. Nel nostro mondo molti non conoscono Dio o lo ritengono superfluo, senza rilevanza per la vita; sono stati fabbricati così altri e nuovi dei a cui l’uomo si inchina. Risvegliare nella nostra società l’apertura alla dimensione trascendente, testimoniare l’unico Dio è un servizio prezioso che Ebrei e Cristiani possono offrire assieme.

Le “Dieci Parole” chiedono il rispetto, la protezione della vita, contro ogni ingiustizia e sopruso, riconoscendo il valore di ogni persona umana, creata a immagine e somiglianza di Dio. Quante volte, in ogni parte della terra, vicina e lontana, vengono ancora calpestati la dignità, la libertà, i diritti dell’essere umano! Testimoniare insieme il valore supremo della vita contro ogni egoismo, è offrire un importante apporto per un mondo in cui regni la giustizia e la pace, lo “shalom” auspicato dai legislatori, dai profeti e dai sapienti di Israele.

Le “Dieci Parole” chiedono di conservare e promuovere la santità della famiglia, in cui il “sì” personale e reciproco, fedele e definitivo dell’uomo e della donna, dischiude lo spazio per il futuro, per l’autentica umanità di ciascuno, e si apre, al tempo stesso, al dono di una nuova vita. Testimoniare che la famiglia continua ad essere la cellula essenziale della società e il contesto di base in cui si imparano e si esercitano le virtù umane è un prezioso servizio da offrire per la costruzione di un mondo dal volto più umano.

7. Come insegna Mosè nello Shemà (cfr. Dt 6,5; Lv 19,34) – e Gesù riafferma nel Vangelo (cfr. Mc 12,19-31), tutti i comandamenti si riassumono nell’amore di Dio e nella misericordia verso il prossimo. Tale Regola impegna Ebrei e Cristiani ad esercitare, nel nostro tempo, una generosità speciale verso i poveri, le donne, i bambini, gli stranieri, i malati, i deboli, i bisognosi. Nella tradizione ebraica c’è un mirabile detto dei Padri d’Israele: “Simone il Giusto era solito dire: Il mondo si fonda su tre cose: la Torah, il culto e gli atti di misericordia” (Aboth 1,2). Con l’esercizio della giustizia e della misericordia, Ebrei e Cristiani sono chiamati ad annunciare e a dare testimonianza al Regno dell’Altissimo che viene, e per il quale preghiamo e operiamo ogni giorno nella speranza.





Fraternamente CaterinaLD

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18/10/2010 19:19
 
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"Le dieci parole dell’alleanza". Piccola catechesi sui dieci comandamenti
Parrocchia S. Maria della Misericordia, 7 ottobre 2010


1. "Lascia partire il mio popolo, perché possa servirmi nel deserto" [Es 7,16]. È con queste parole che Mosè inizia il suo "combattimento" contro il Faraone. Egli chiede in nome di Dio la libertà per poter rendere culto al Signore.



Esiste dunque una correlazione fra la liberazione dal giogo faraonico e il culto dovuto al Signore. L’una, per così dire, è condizione dell’altro.

C’è un aspetto o un particolare in questo inizio dello scontro Faraone-Mosè. Il Faraone cerca un compromesso, dopo il flagello delle piaghe. Concede, ma solo agli uomini; in seguito concede di partire anche alle donne e ai bambini, ma non di portare il proprio bestiame. Mosè però rifiuta ogni compromesso, perché è consapevole che il culto dovuto a Dio non è regolato dall’uomo, ma da Dio stesso. L’uomo non rende culto a Dio secondo le proprie regole e secondo le sue misure: è Dio che stabilisce come deve essere onorato. L’atto liturgico non è un atto di cui l’uomo possa disporre a piacimento.

Alla fine, sappiamo, il Faraone cede e, dopo tre mesi di peregrinazione nel deserto il popolo di Israele arriva al deserto del Sinai [Es 19,1], e Dio scende sulla vetta del monte e pronuncia le Dieci Parole [i dieci comandamenti] nel contesto della stipulazione di un patto, di un’alleanza fra Dio e il popolo, che stabilisce anche minuziose regole liturgiche.

Se riflettiamo attentamente noi vediamo in questo evento del Sinai la compresenza di tre grandezze o realtà: il culto, la regola fondamentale della vita espressa in dieci formulazioni, un ordinamento giuridico [cfr. per es. tutto il cap. 21]. Usando un vocabolario più vicino al nostro diremmo: nell’evento del Sinai sono compresenti liturgia, etica e diritto.

Questa compresenza è ricca di significato. Cerchiamo di capirla nelle sue linee essenziali.

Dio chiede di essere onorato non solo con e nell’atto liturgico, ma con e nella nostra vita. Egli pertanto proprio nel contesto liturgico istruisce l’uomo circa il modo giusto, retto di vivere una vita buona: l’uomo onora Dio con una vita santa. I profeti di Israele hanno con forza insuperabile condannato e combattuto l’idea che si possa onorare Dio coi soli sacrifici, permettendosi poi nella vita di ogni giorno di opprimere l’orfano e la vedova, di non rendere giustizia al povero. Anzi, nella coscienza di Israele, soprattutto dopo la distruzione del Tempio che aveva reso impossibile il culto, ed anche a causa del confronto che avviene soprattutto ad Alessandria, della comunità giudaica colla critica greca al culto, si fa strada la convinzione di un "culto razionale". Esso consiste in una vita vissuta secondo ragione. Non possiamo per ora approfondire questo tema, molto suggestivo.

Dunque nello stesso atto liturgico con cui il popolo rende a Dio il culto dovuto. Questi istruisce l’uomo su come vivere perché tutta la sua vita sia un culto gradito. Le Dieci Parole sono questa istruzione.

Prima di procedere oltre, devo ora fare una riflessione. Nella prospettiva dell’Alleanza, nella prospettiva biblica l’agire moralmente retto non è pensato e vissuto come una semplice esigenza della natura umana, così come l’azione ingiusta non è pensata e vissuta semplicemente come un tradimento della propria umanità. Il male morale è fare "ciò che non piace agli occhi del Signore"; è "abbandonare la via, i comandi del Signore". Il contesto liturgico in cui Dio dice all’uomo le Dieci Parole, significa che nelle scelte dell’uomo entra in gioco il suo rapporto con Dio. L’idea di un’etica autonoma in questo senso è del tutto sconosciuta alla tradizione ebraico-cristiana. Il che è come dire: il fondamento ultimo della distinzione fra bene e male è Dio stesso e la sua santità.

Quanto ho detto finora è espresso mirabilmente in un testo assai noto di S. Ireneo: "La gloria di Dio è l’uomo vivente, ma la vita dell’uomo è vedere Dio" [Adv Haereses IV, 20,7]. "La vita stessa dell’uomo, l’uomo che vive rettamente, è la vera adorazione di Dio, ma la vita diventa vita vera solo se riceve la sua forma dallo sguardo rivolto a Dio. Il culto serve a questo: a consentire tale sguardo e a donare così quella vita, che diventa gloria per Dio" [J. Ratzinger, Opera Omnia 11, Teologia della liturgia, LEV 2010, 31].

Se, alla fine, può non essere difficile cogliere, nel contesto dell’Alleanza, la correlazione liturgia – Dieci Parole [ethos], risulta a noi ben più difficile cogliere la ragione profonda della presenza in questo contesto anche dell’ordinamento giuridico.

Nel discorso che il Santo Padre ha tenuto il 17 settembre alla Westminster Hall, ha detto: "Se i principi morali che sostengono il processo democratico non si fondano, a loro volta, su nient’altro di più solido che sul consenso sociale, allora la fragilità del processo si mostra in tutta la sua evidenza. Qui si trova la reale sfida per la democrazia". E poco oltre: "La questione centrale in gioco, dunque, è la seguente: dove può essere trovato il fondamento etico per le scelte politiche".

In queste parole del S. Padre noi scopriamo la ragione ed il significato permanente di ciò che è accaduto al Sinai. Certamente, e la proposta cristiana ha lavorato in questo senso, l’intreccio liturgia-ethos da una parte e diritto dall’altra deve essere sciolto. E la distinzione netta fra reato e peccato è un dato definitivamente guadagnato nella coscienza occidentale. Ma le parole del S. Padre che ho sopra citato, ci invitano a riflettere che un ordinamento giuridico che si sradichi completamente dall’ordinamento etico non può non divenire mero esercizio di potere [quod principi placuit legis vigorem habet] ed offrire il fianco all’ingiustizia mascherata di legalità. Ed ugualmente, l’esclusione di ogni riferimento a Dio pone l’uomo nella condizione … di chi soffre il mal di mare anche in terra ferma. L’adorazione di Dio è il principale scudo della dignità dell’uomo; la liturgia è il luogo in cui l’uomo prende coscienza della sua dignità.

Concludo questo primo punto della mia riflessione. Che cosa, in sostanza, ho cercato di dirvi? Il dono delle Dieci Parole, fatto nel contesto liturgico della statuizione dell’Alleanza, dice che è il rapporto con Dio la chiave di volta di tutto l’arco dell’esistenza; e che quando questo rapporto viene negato o comunque ignorato, è l’intera esistenza umana a disgregarsi.

2. La fede cristiana ha portato il senso delle Dieci Parole alla sua pienezza.

Nel discorso del monte Gesù riprende tre delle Dieci Parole: la quinta "non uccidere" [Mt 5,21-26]; la sesta "non commettere adulterio" [ibid. 5,27-28]; l’ottava "non giurare il falso" [ibid, 5,31-32]. Sono cioè richiamate le Parole che difendono i beni umani fondamentali: la vita, il matrimonio, la fiducia sociale. Ovviamente questa di Gesù non era una scelta escludente ma esemplificativa.

Ma la ripresa viene fatta per semplificare una grande affermazione di Gesù: "Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli" [ibid. 20]. Gesù precedentemente aveva parlato di un "compimento" della Legge, delle Dieci Parole in primo luogo.

"Dare compimento" significa attuare le divine Parole secondo l’intenzione, la misura di Dio. È questa modalità di osservare le Dieci Parole – secondo l’intenzione e la misura divina – che costituisce quella giustizia voluta nell’uomo dal divino Legislatore. Che cosa ciò significhi, viene esemplificato dalla interpretazione che Gesù dà delle tre Parole circa l’omicidio, l’adulterio, la falsa testimonianza.

Le Dieci Parole diventano interiori all’uomo e raggiungono il suo cuore, il suo desiderio ed il movente del fondo del suo agire. Si tratta di rigorizzazione? Si tratta di alleggerimento? L’alternativa ci porta fuori strada. È "portare a termine" un "movimento di significato" già presente nella prima Alleanza del Sinai. Il nuovo ethos ci fa contemporaneamente entrare nella profondità delle Dieci Parole e scendere nell’interno, nel cuore dell’uomo chiamato alla "giustizia superiore".

Questo si realizza storicamente nel contesto della stipulazione della nuova ed eterna Alleanza, che accade sulla Croce, di cui l’Eucaristia è il memoriale perpetuo.

Partiamo ancora dalla prima Alleanza, quella del Sinai nel contesto della quale Dio dice al popolo le Dieci Parole. La stipulazione dell’Alleanza sinaitica non si limita al fatto che Dio parla al popolo, e questi ascolta: non è semplicemente un dialogo. Essa istituisce una misteriosa "consanguineità" fra il popolo e Dio: è questa il nucleo essenziale dell’Alleanza. È una reciproca appartenenza. La formula sintetica dell’Alleanza è: "io sono il vostro Dio – voi siete il mio popolo".

Quando Gesù istituisce l’Eucaristia parla del suo Sangue come del "Sangue dell’Alleanza nuova" [cfr. Lc 22,20]. S. Paolo riferisce le parole di Gesù [è la testimonianza più antica] nel modo seguente: "questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue" [1Cor 11,25].

È nel contesto della stipulazione della nuova Alleanza, anticipata nell’istituzione dell’Eucaristia, che Dio in Gesù dona la nuova Legge: la nuova Legge della carità.

La promulgazione della nuova Legge avviene secondo l’evangelo di Giovanni attraverso un gesto che ha dell’incredibile: Gesù lava i piedi agli apostoli [cfr. Gv 13,3-17].

I Padri della Chiesa commentando questo racconto, dicono che essa ha il carattere di un sacramento e di un esempio.

Parlando di "sacramento" non intendono ciò che noi oggi intendiamo quando diciamo "i sette sacramenti". Con quella parola intendono denotare l’intero mistero di Cristo nel suo insieme, dall’incarnazione nel grembo di Maria alla risurrezione. La lavanda dei piedi – pensano i Padri – è una metafora sintetica e perfetta di tutto il mistero di Cristo. In che senso? Nel senso che nella sua incarnazione, morte e risurrezione la persona umana è lavata: è risanata, trasformata e santificata così che può "avere parte con Cristo" [ibid. 8].

Ma quel gesto è anche un esempio. Trasformati e santificati senza nessun nostro merito, diventiamo capaci e quindi responsabili di un nuovo modo di vivere e di agire. Quale? lo stesso che la lavanda dei piedi voleva mostrare. Al termine del racconto della lavanda dei piedi Gesù pertanto dice agli apostoli e a tutti noi: "vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così anche voi gli uni gli altri" [Gv 13,34].

La nuova Alleanza nel sangue di Cristo e la nuova Legge si muove tutta su questo "come io – così voi". Ciò che lega i due poli è l’atto redentivo di Cristo che trasforma radicalmente l’uomo mediante il dono dello Spirito. Nuova Alleanza, nuova persona umana, nuova legge. Tutto questo accade ogni volta che celebriamo l’Eucaristia.

Ritorniamo ora al discorso del monte. Nella luce della verità eucaristica ne abbiamo finalmente la vera e più profonda comprensione.

L’interpretazione che Gesù dà delle Dieci Parole non si muove secondo una dialettica di rigorizzazione. Ma indica la via della nostra piena assimilazione a Lui; ci istruisce circa il modo di vivere una vita coerente coll’Alleanza Nuova eucaristicamente partecipata.

L’apostolo Paolo esprime tutto questo in modo sintetico: "chi ama il suo simile ha adempiuto la legge … l’amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l’amore" [Rom 13,8-10]. L’apostolo usa la stessa parola, al sostantivo, che Gesù nel discorso del monte aveva usato come verbo [cfr. Mt 5,17]: pleroma, peróo. L’amore realizza la misura intera delle Dieci Parole.

Ma non si tratta della enunciazione di una verità etica astratta. Un esegeta contemporaneo scrive: "Se il Cristo è il fine della legge, l’obiettivo verso il quale puntava la storia della salvezza, allora l’amore, che lo ha mosso nella sua intera esistenza e attività salvifica (8,35), può essere definito il compimento della legge stessa. Essa diventa, in tal modo, la norma della condotta cristiana, e se praticato adeguatamente – consegue tutto ciò che la legge propugnava e perseguiva"[J. Fitzmeyer, Lettera ai Romani, Piemme 1999, 805].

Lo stesso pensiero lo ritroviamo nella lettera ai Galati: "tutta la legge … trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso" [5,14]. Siamo stati inseriti e siamo [eucaristicamente] inseriti nell’amore, nella capacità di amare di Cristo. Egli è la pienezza della Legge. Noi, in Lui, siamo capaci di realizzare pienamente le Dieci Parole perché siamo resi capaci di amare.

Concludo questo secondo punto. Attraverso la celebrazione dell’Eucaristia entriamo nella Nuova ed Eterna Alleanza stipulata nel sangue di Cristo. Dentro ad essa ci è donata la Nuova Legge: la partecipazione alla stessa carità di Cristo. Ed è in forza di questa partecipazione che realizzo in maniera compiuta le Dieci Parole.

3. Faccio due riflessioni conclusive. Il tempo ormai non mi consente di svilupparle come meriterebbero.

La prima.
Al Sinai nasce un popolo: il popolo di Israele. Esso, mediante le Dieci Parole, comprende che la libertà di cui il Signore gli aveva fatto dono, doveva essere una libertà condivisa. Le Dieci Parole erano le esigenze di una libertà veramente condivisa.

Il testo paolino della lettera ai Galati sopra citato si pone nel contesto di una profonda concezione della libertà. "La libertà del cristiano … non si vede attuata là ove egli è padrone di se stesso e del suo mondo, ma, ove, dimentico di sé e abbandonando se stesso, egli è a disposizione di Dio e degli altri uomini. Sono prigioniero e schiavo se sono vincolato a me stesso" [H. Schlier, Lettera ai Galati, Paideia, Brescia 1966, 252]. Nella Nuova ed Eterna Alleanza le Dieci Parole diventano pienamente ciò che fin dal principio intendevano essere: il codice della libertà condivisa.

La seconda.
La riflessione che la teologia cristiana dai Padri in poi ha compiuto sulle Dieci Parole, ha compreso sempre più profondamente che esse esprimevano una verità circa il bene della persona, che anche la ragione poteva conoscere. Esprimevano esigenze inscritte nella natura della persona umana.

Da questa comprensione, la modernità concluse alla fine che queste esigenze non avevano bisogno per giustificarsi di nessun riferimento e fondamento trascendente. Esse valgono "anche se Dio non ci fosse".

Questa espulsione della giustificazione teologica ha avuto come oggetto una vera e propria devastazione nella comprensione etica dell’uomo. Si è spezzata la connessione fra l’originaria rivelazione che Dio fa di se stesso e l’inclinazione naturale a fare il bene ed evitare il male.

È oggi uno dei compiti essenziali della Chiesa rieducare l’uomo a scoprire Dio nella profondità della sua coscienza. È stato questo il grande carisma del b. J.H. Newman: farci riscoprire il legame originario fra l’io e la verità, passando fra la Scilli di un io senza verità [relativismo] e la Cariddi di una verità senza io [scientismo.] Ma questo tema esigerebbe una riflessione assai prolungata.




Fraternamente CaterinaLD

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[SM=g1740733] I Dieci Comandamenti
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non diamoli per scontati, "sapere cosa sono i Dieci Comandamenti" significa comprendere il senso e il perchè, un Dio Buono e Misericordioso, ci chiede di rispettarli, di viverli....
Spesse volte il rifiuto alla loro obbedienza deriva dal fatto che non li abbiamo compresi affatto, perchè se li comprendessimo davvero, e comprendessimo in quale modo l'Amore di Dio ci è venuto incontro dandoci queste "Parole", le rispetteremmo assai di più...
Dal "Non uccidere" abbiamo invece firmato la condanna a morte dei Concepiti; dal non desiderare la Donna d'altri, abbiamo sostenuto il divorzio; dal non commettere atti impuri, si sta arrivando a sostenere "famiglia" ciò che non lo è... il vizio, il tradimento, la perversione stanno diventando forme legali della società...
Senza i Dieci Comandamenti non ci sarebbe alcun futuro per l'uomo....


Buona meditazione [SM=g1740733]


Movimento Domenicano per il Rosario
www.sulrosario.org
info@sulrosario.org




[SM=g1740717]


[SM=g1740757]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Giovani sacerdoti

Giovani sacerdoti

La trasmissione «Le Iene» manda in onda le impietose interviste ad alcuni sacerdoti nei pressi di san Pietro, che non ricordano il decalogo…

ANDREA TORNIELLI
Città del Vaticano

 

 

 

L’ultima puntata de «Le Iene», programma satirico e dissacrante di una Tv italiana, non è passato certo inosservato per i credenti. Negli anni scorsi le incursioni degli inviati del programma, attraverso l’uso di registrazioni video nascoste, avevano smascherato qualche sacerdote troppo cedevole ai piaceri della carne. Ma la scorsa settimana, l’argomento non erano più la morale e i peccati del clero, bensì la fede.

 

 

L’inviata de «Le Iene», infatti, stazionando nei pressi di Piazza San Pietro, ha intervistato diversi sacerdoti (e anche un cardinale, senza che questo si presentasse come tale e senza che l’intervistatrice lo identificasse) sui dieci comandamenti. Qualche domanda sul loro significato e sulla loro attualità, quindi, a sorpresa, domande dirette del tipo: può dire ai nostri ascoltatori che cosa afferma il nono comandamento? Oppure: qual è il quinto comandamento?

 

 

L’esito, almeno per quanto riguarda le interviste montate e andate in onda, è stato deludente, anzi, devastante. I sacerdoti si sono dimostrati insicuri davanti alla telecamera, non ricordavano l’ordine dei comandamenti, alcuni li hanno confusi scambiandoli uno per l’altro. Sono abbondati i «non ricordo», «mi coglie di sorpresa»,«nell’ordine non li so dire», «al momento non posso elencarli in sequenza», «sono nel pallone… devo andare a ripassarli», etc. etc.

 

 

C’è da dire, a parziale giustificazione degli intervistati, che si è trattato, tranne che in un caso, di preti non italiani, ma spagnoli, americani, portoghesi, indiani, che non padroneggiavano a dovere la lingua italiana, e che ciononostante in modo disponibile e simpatico hanno accettato di rispondere alle domande de «Le Iene». I preti in questione non si sono sottratti all’occhio impietoso della telecamera nemmeno quando hanno cominciato a tentennare. Qualcuno ha ricordato il quinto ma non il nono, qualcun altro – un sacerdote italiano con la barba – ha preferito sottolineare che l’importante è l’amore e ammettendo di non ricordare i comandamenti nel loro ordine ha preferito citare sant’Agostino: «Ama e fa ciò che vuoi». Ed è probabile che più di qualcuno sia rimasto confuso dalla domanda a bruciapelo e abbia avuto un vuoto di memoria.

 

 

A riscattare la categoria (ma non sappiamo in realtà quante e quali interviste siano andate invece a buon fine), ci ha pensato il cardinale brasiliano Claudio Hummes, già arcivescovo di San Paolo del Brasile e Prefetto emerito della Congregazione del clero, che, per nulla intimidito dall’intervistatrice, ha azzeccato ogni risposta dimostrandosi preparatissimo.

 

 

Al di là dell’interno de «Le Iene», che hanno messo alla berlina questi sacerdoti, tutti in clergyman, con il colletto, ma incapaci di ricordare nella giusta sequenza il decalogo, l’episodio non può non sconcertare. In un caso, mentre don Felice non riusciva a trovare le parole, sono state le persone che passavano di là a suggerirgli che il settimo comandamento è «non rubare». Esiste dunque un problema, e non secondario. Un problema originato anche dalla catechesi post-conciliare che ha abbandonato l’apprendimento mnemonico e sintetico contenuto nel vecchio Catechismo di san Pio X.

 

 

«Non ho visto il filmato, ma ne ho registrato gli echi negativi in non pochi cristiani e anche in alcuni non cattolici e non credenti. Ho percepito un disagio fortissimo – spiega a Vatican Insider il vescovo di San Marino e Montefeltro, Luigi Negri – e si dimostra che la vera crisi che attraversa la Chiesa cattolica è una crisi di carattere culurale. Cioè una crisi di cultura primaria. Il dogma è stato per secoli la cultura primaria e aveva nei comandamenti un punto di riferimento sostanziale». «Se viene meno questo riferimento – conclude il vescovo – manca il riferimento educativo fondamentale che il popolo ha».

 

 

 

 

 

 

Questo è il testo del decalogo:

1) Io sono il Signore, tuo Dio, non avrai altro Dio al di fuori di me.

2) Non pronunciare invano il nome del Signore tuo Dio.

3) Ricordati di santificare le feste

4) Onora il padre e la madre.

5) Non uccidere.

6) Non commettere atti impuri.

7) Non rubare.

8) Non pronunciare falsa testimonianza.

9) Non desiderare la moglie del tuo prossimo.

10) Non desiderare la casa del tuo prossimo né alcuna delle cose che sono del tuo prossimo.


[SM=g1740733]

 

e mentre il web si riempiva di commenti per il video delle jene.... un santo Sacerdote faceva una Predica mirata su questi Comandamenti...

 

Festa di Tutti i Santi 2011


Santi Comandamenti


Predica 1 Novembre 2011 di padre Konrad Festa di Tutti i Santi
sui Dieci Comandamenti

(Avvisiamo che questa Predica tratta dall'audio, non è stata rivista e corretta da Padre Konrad - come è solito fare - pertanto potrebbe subire, in futuro, un leggero cambiamento nel testo)

In nomine Patri, et Filii, et Spiritus Sancti.
Carissimi fedeli, l'unico scopo della vita umana è la nostra santificazione, per questo siamo stati creati, per nient'altro che questo.
Il Signore ci da ottanta o novanta anni di vita, normalmente, solo per questo.
Se noi arriviamo alla fine dei nostri giorni e non siamo ancora santi, abbiamo fallito.

Cosa è la Santità?
La santità è la perfezione della Carità, ossia, la perfezione dell'Amore sovrannaturale, nel senso assoluto dei termini la santità, la perfezione della Carità, la perfezione dell'Amore sovrannaturale è solo Dio stesso, Dio è la santità, Dio è la Carità, e Dio che è la santità e la Carità ci comanda di essere Santi anche noi: "siate Santi, perchè Io sono Santo", dice il Signore quattro volte nel Libro del Levitico.
Ma cosa è la santità per noi? Cosa è la perfezione della Carità per gli uomini?
Nostro Signore Gesù Cristo + risponde: "nessun uomo ha un amore più grande di questo, di dare la sua vita per i suoi amici". Parla della santità, parla della perfezione dell'amore per un uomo, per noi, esprime la santità in termini di quell'atto che Lui ha compiuto da uomo per salvare il mondo. Questa è dunque la santità per noi: dare la nostra vita per i nostri amici. 

Per quali amici? Per Dio stesso, perché Dio è il nostro più grande, più caro e amorevole Amico, è in un certo senso il nostro unico Amico, perché Lui ci ha creati, ci conserva in esistenza, ci ha dato e ci da tutto ciò che siamo e che abbiamo; ci ha redenti con la Sua Passione e la Sua Morte e ci vuol dare tutto a noi, cioè Se Stesso e per sempre.
Dobbiamo, dunque, dare la nostra vita per Lui in primo luogo e in assoluto, e poi dobbiamo dare la nostra vita per il nostro prossimo, questo in secondo luogo e in modo relativo, perchè amiamo il prossimo solo in Dio e a causa di Dio, questo difatti è il soggetto del Comandamento nuovo del Signore: che vi amiate gli uni e gli altri, come Io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri.
Questa stessa perfezione dell'amore viene insegnata in due altri testi particolari della Sacra Scrittura, il primo testo è: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente, con tutte le tue forze e il prossimo come te stesso", il secondo testo è quello dei Dieci Comandamenti di cui i primi tre stabiliscono l'amore per Dio e gli altri sette stabiliscono l'amore per il prossimo: chi mi ama - dice il Signore - tiene i miei Comandamenti.

Per spiegare meglio ciò che sono i Dieci Comandamenti bisogna sapere che non solo vietano ciò che è peccato, ma che anche ci incitano alla perfezione della Carità.
E difatti lo scopo della vita umana non è solo di evitare il peccato, soprattutto il peccato mortale per poter raggiungere il Cielo, bensì di perfezionarci, come ho detto all'inizio di questa Omelia, per raggiungere quel grado di gloria in Cielo che Dio ha stabilito per noi prima della creazione del mondo.

Guardiamo un attimo il lato positivo dei Comandamenti:
- i primi tre stabiliscono l'adorazione e l'onore dovuto a Dio, tanto privato quanto pubblico, nonché la Fede, la Speranza e la Carità verso di Lui;
- il quarto stabilisce l'onore per i Genitori e per i Superiori,
- il quinto (con le parole del Catechismo di Trento) ci ingiunge, anche, di estendere la nostra concordia e caritatevole amicizia verso i nemici per avere pace con tutti, sia pure affrontando con pazienza, ogni contrarietà;
- il sesto ci ingiunge alla purezza dell'amore, alla castità ed alla modestia;
- il settimo ci impone di essere benevoli e generosi verso il prossimo;
- gli ultimi tre, l'ottavo, il nono e il decimo ci insegnano di non parlare male del prossimo, di pregare per ciò che ci conviene di possedere, di apprezzare i nostri beni e di ringraziarne il Signore.
Per tenere i Comandamenti e per perfezionarci occorre la pratica delle virtù, soprattutto le virtù Cardinali della prudenza, della giustizia, della temperanza e fortezza, occorre anche un lavoro assiduo contro le nostre imperfezioni di carattere o di abitudine, forse siamo approssimativi nelle azioni e nelle nostre parole, siamo rozzi, maleducati un pò, indifferenti al prossimo, un pò liberi nelle parole, un pò maliziosi, aspri, amari, suscettibili, permalosi, distratti, disordinati, inaffidabili, inclini al risentimento, pensieri contro la Carità, all'eccesso di tristezza, di ira, di paura o persino di gioia. Questo lavoro sul nostro carattere, sulle nostre abitudini, anche quasi più del lavoro contro il peccato è il lavoro più difficile che ci sia, si chiama "il lavoro dei Santi", nelle parole di santa Teresina che provengono dalla Sacra Scrittura: "il lavoro fra tutti più penoso è quello che si intraprende sopra se stessi per arrivare a vincersi".

Una parola sulla Preghiera.
Stiamo aspettando la Vita Eterna qua, dove vogliamo essere con Dio per sempre, se non pensiamo, se non parliamo, se non preghiamo mai a Lui, quale tipo di preparazione è questa per la Vita Eterna. Una mezza Ave Maria mentre mi addormento non basta! Devo afferrare del tempo, la mattina e la sera, per la Preghiera anzi, devo provare a vivere sempre nella presenza di Dio con l'attenzione della mente, verso di Lui, che non dimentichi mai che Lui è il mio più grande Amico che occorre adorare, lodare, ringraziare, di cui occorre chiedere favori, a cui devo dare e dedicare tutta la mia vita.
Ho parlato del lato attivo della santificazione, ma c'è anche il lato passivo.
La vita, dopo la caduta, è dura, siamo la per lavorare e soffrire, per portare la nostra croce dietro a Lui, e questa sofferenza ci santifica più di tutte le azioni che potremmo compiere. Lui ha dato la Sua vita per i suoi amici, cioè a noi, nella sofferenza, quella sofferenza che ha manifestato il Suo Amore, così anche noi dobbiamo dare la nostra vita a Lui, con tutta la nostra sofferenza, perché questa manifesterà anche il nostro amore. Ci saranno sempre sofferenze e difficoltà, ma queste possiamo accettarle per amore di Lui ed offrirglieLe come i nostri più preziosi tesori, uniti con le Sue sofferenze in Croce. Per la Sua gloria, per la salvezza del mondo, e per la santificazione della nostra anima.
Amen.

In nomine Patri, et Filii, et Spiritus Sancti.
Sia lodato Gesù Cristo +

[SM=g1740722]

 

[Modificato da Caterina63 07/11/2011 00:14]
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I Dieci comandamenti: perché annunciare la legge del Sinai oggi?
di don Fabio Rosini

Mettiamo a disposizione on-line sul nostro sito una riflessione scritta da don Fabio Rosini per il numero di gennaio 2004 della rivista Note di pastorale giovanile con il titolo “Perché annunciare la legge del Sinai oggi?” a partire dall’esperienza di tanti giovani che seguono la catechesi sui Dieci comandamenti come introduzione ad un cammino di fede presente ormai non solo in Roma, ma anche in altre diocesi italiane.
Riflettere sui Dieci comandamenti è un invito a tornare all’essenziale, a prendere sul serio la vita e la sua domanda di significato, a misurarsi (per essere misurati!) con la bellezza e la verità della rivelazione ebraico-cristiana.
I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza di questo testo sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.

Il centro culturale Gli scritti (23/11/2007)


Ultimamente stanno tornando di moda i Dieci Comandamenti. Articoli sulla stampa, libri, riflessioni e quant’altro, danno spazio a questa tematica. Questo è un fenomeno sorprendente se si pensa a quanto forte sia stato l’impulso, nella storia del pensiero occidentale recente, a liberarsi di ogni imposizione, di ogni legge. Arriviamo a chiederci se non sia perfino opportuno rispolverare i Dieci Comandamenti ed usarli come mezzo di annuncio a riguardo di quel destinatario specifico che sono i giovani. Esistono dei crocevia storici che rendono questo o quell’altro argomento puntuale o fuor di proposito. È questo il tempo per “tenere a mente la legge data sul monte Oreb al servo di Dio, Mosè”? (cf Mal 3,22)

Dobbiamo prendere coscienza di alcune cose. La storia dell’ultimo secolo è la prima storia fruita in modo globale; ormai da vario tempo ciò che di
rilevante accade, che ne so, in Messico, è universalmente noto in poche ore. Sappiamo quello che i mezzi di comunicazione fanno sapere, e siamo sottoposti ad una cascata, ad una inondazione di informazioni. Queste informazioni sono in realtà selezionate, addomesticate, ma questo è un altro argomento.
A latere c’è un altro fenomeno strettamente collegato: la scomparsa, nelle società sviluppate, come la nostra, dell’analfabetismo. Era ieri che una parte non piccola di persone non erano in grado di leggere, anche se questo ci sembra lontanissimo nel tempo. Quindi la gente “sa” di più, i giovani in primis.

Ma cosa sanno? Sapere poco può significare sapere bene, sapere molto (nel campo divulgativo di cui stiamo parlando) è spesso sapere male, superficialmente. Qualità e quantità hanno i loro contrasti. Le persone di questo inizio millennio sanno molto e male. Esiste poi un ulteriore effetto “forchetta” fra due fenomeni culturali non piccoli. Da una parte il lungo processo di distruzione della figura paterna-autorevole, iniziato nell’illuminismo ed arrivato ad oggi. L’antipatia per l’autorità si sviluppa e cresce, via via, fino agli slogan del 1968 e alla odierna cultura individualista, anti-paterna, e quindi non-fraterna. Dall’altra parte abbiamo l’evoluzione della scienza, che mentre è epidermicamente ancora letta positivisticamente come “certezza”, ha avuto nei principi di relatività, di indeterminazione e di indecidibilità (rispettivamente di Einstein, Heisemberg e Goedel) un momento devastante di ristrutturazione ed approfondimento. Gli assiomi di una visione positivista, “certa”, della scienza, sono obsoleti.

Tiriamo le somme: io, giovane di oggi, so molte cose, assai contraddittorie e ricevute da molte fonti contrapposte. Sociologicamente non accetto le autorità, non credo nei padri, di qualsiasi genere. A livello culturale professo un relativismo evanescente, una visione del mondo a livello gassoso, tutto è vero e tutto è falso, niente è certo. È chiaro che questa è un’analisi tagliata con l’accetta, in poche righe, una generalizzazione che richiederebbe mille distinguo. Ma cerchiamo di arrivare da qualche parte e non cadiamo nei tombini degli approfondimenti sterili.

Quale è il risultato del quadretto appena disegnato? Una disperata mancanza di certezze. Questa mancanza non è quasi mai consapevole, è uno spiffero di angoscia nel fondo del cuore delle persone di oggi. La legge di gravitazione universale, che impone al mio corpo di cadere sulla sedia che mi sorregge, e di starci stabile, è anche una legge esistenziale. Per “essere” io ho bisogno di un appoggio, di una base, di un fondamento. Se qualcuno mi avverte che la sedia di cui mi sto servendo spesso si sfascia di colpo, la mia rilassatezza conosce una crisi. Così se le mie basi esistenziali, le cose certe, necessarie per assestare in una qualche maniera il mio io, sono per definizione dubitabili, relative, inaffidabili, come sto io?

La cultura dei talk-show, del dibattito, dell’esternazione di otto punti di vista contrapposti, della libertà per la libertà, specie quella di opinione, scrive nelle coscienze in via di formazione, come quelle giovanili, una confusione molto più devastante di quanto si pensi. Sarebbe il caso di approfondire, e non è questo il momento, cosa possa significare un atto di fede per soggetti addestrati
in tale contesto. Richiede forse una forma di estrazione quasi fisica dall’ambito odierno.

E i Dieci Comandamenti? Dopo 200 anni di devastazioni abbiamo un uomo che per saper tanto, non sa proprio niente. Abbiamo un analfabetismo esistenziale, ogni scelta è incerta, e si vive a casaccio. Abbiamo perso le istruzioni per l’uso. Adoperiamo la vita, il corpo, l’affettività, l’amicizia, il tempo, come un elettrodomestico sconosciuto, spingiamo i bottoni a caso. La felicità sembra un incidente fortuito, e l’alchimia della vita pare ineffabile. Pecore senza pastore, che hanno rifiutato il pastore culturalmente, esistenzialmente, scientificamente.

“In quel tempo non c’era un re in Israele; ognuno faceva quel che gli pareva meglio” (Gdc 21,25). La storia, però, è provvidenziale. Tutto questo non è pura perdizione, ma occasione, questo è un ottimo punto di partenza. Anche perché la verità non è così lontana ed inarrivabile, è un uomo, il Figlio Unigenito del Padre. Il Re che ci manca. Possiamo rifiutarlo, dimenticarlo, ma ci manca, senza di Lui non sappiamo che fare; proviamo e sbagliamo, ci sembra all’inizio di stare meglio e poi scopriamo di vivere al buio. Arriva il benefico momento in cui siamo ridimensionati, ci siamo fatti male, siamo finalmente delusi dalle menzogne. E iniziamo ad essere destinatari idonei di una parola, quella di Chi diceva che sono beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Il regno dei cieli si annuncia ai poveri.

La vita ha le sue istruzioni per l’uso, ha la sua filigrana di autenticità. Noi, annunciatori, sappiamo (se lo sappiamo) che nella santa volontà del Padre c’è la nostra pace, la nostra certezza, e che esiste un uso buono delle cose. Proprio questo sono i 10 comandamenti: la via della pace, la via della
sapienza. Se è vero che bisogna passare dalla Legge alla Grazia, è pur vero che l’uomo che non conosce neanche la Legge è un cieco senza punti di riferimento.

Il buon gioco dell’annuncio dei 10 comandamenti (soprattutto come radiografia di Cristo, del suo modo di pensare, della sua obbedienza al Padre e del suo amore per noi) trova la sua forza proprio nel dolore sordo di questa generazione.

C’è un “ma”. Iddio ci salvi dai toni clericali. Qui è dove si inceppa questo meccanismo della Provvidenza, perché è la parte che ci riguarda, che dipende da noi. Se il messaggio è la Sapienza del Padre, rivelata al Sinai e destinata ad ogni persona di ogni epoca, e il destinatario è questa pecora dolorante del terzo millennio, chi è l’emittente? Un moralizzatore? Un emettitore di rimandi ai “doveri”? Un espettoratore di richiami ai “valori”? Un apodittico diffusore di imperativi categorici kantiani? Un paladino dell’etica? Per amor di Dio, no!

Questi anni hanno visto il moltiplicarsi, anche in ambito ecclesiale, degli studi sui dieci comandamenti, e di conseguenza il crescere dell’interesse attorno alle ipotesi pastorali che trattino il decalogo. Ma il rischio è che ci si metta a suonare con un nuovo strumento la solita vecchia musica. La gente prima di ascoltare il contenuto di quello che si dice, ascolta la musica delle parole. E se la musica è noiosa, o, peggio, esigente, moralista, non ascolta. Molto spesso quando si è nell’occasione di ascoltare tanti predicatori odierni, si stacca l’audio e si pensa ai fatti propri.

Per essere ascoltati bisogna prima ascoltare quello spiffero di angoscia dentro di noi, saper parlare ai poveri da poveri e non da teoreti. E, magari, parlare da innamorati. Non perché lo si sappia fare. Perché lo si è. Un progetto pastorale formulato teoricamente diventa facilmente una sterile operazione di algebra ecclesiale.

Dobbiamo temere un neo-moralismo. Il Cristianesimo non è un’etica. Il Cristianesimo è una persona, Cristo. I Dieci Comandamenti sono stati applicati da Dio Padre, in primis, a se stesso, e lo abbiamo visto nel corpo crocifisso del suo Figlio Unigenito. I Dieci comandamenti sono lo stile di vita di Dio.


[Approfondimenti]



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09/09/2012 14:30
 
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[SM=g1740733] VIDEOMESSAGGIO DEL SANTO PADRE IN OCCASIONE DELL’INIZIATIVA "DIECI PIAZZE PER DIECI COMANDAMENTI" PROMOSSA DAL RINNOVAMENTO NELLO SPIRITO SANTO, 09.09.2012

Ieri sera, in Piazza del Popolo a Roma, si è aperta l’iniziativa "Dieci Piazze per Dieci Comandamenti" promossa dal Rinnovamento nello Spirito Santo, una serata di evangelizzazione e di festa che proseguirà nel corso dell’anno in altre città italiane.
Nel corso dell’evento è stato trasmesso su schermi giganti un Videomessaggio del Santo Padre Benedetto XVI il cui testo riportiamo di seguito:

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE

in audio e video
it.gloria.tv/?media=330466



Cari fratelli e sorelle!

Sono lieto di porgere un cordiale saluto a tutti voi che partecipate nelle piazze di varie città italiane a questa catechesi sui Dieci Comandamenti e aderite all’iniziativa «Quando l’Amore dà senso alla tua vita…». In particolare saluto e ringrazio gli aderenti al Movimento ecclesiale Rinnovamento nello Spirito Santo, che hanno organizzato questa lodevole iniziativa, con il sostegno del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione e della Conferenza Episcopale Italiana.

Il Decalogo ci riporta al Monte Sinai, quando Dio entra in modo particolare nella storia del popolo ebreo, e tramite questo popolo nella storia dell’intera umanità, donando le «Dieci Parole» che esprimono la sua volontà e che sono una sorta di «codice etico» per costruire una società in cui il rapporto di alleanza con il Dio Santo e Giusto illumini e guidi i rapporti tra le persone. E Gesù viene a dare compimento a queste parole, innalzandole e riassumendole nel duplice comandamento dell’amore: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente… Amerai il prossimo tuo come te stesso» (cfr Mt 22,37-40).

Ma domandiamoci: che senso hanno queste Dieci Parole per noi, nell’attuale contesto culturale, in cui secolarismo e relativismo rischiano di diventare i criteri di ogni scelta e in questa nostra società che sembra vivere come se Dio non esistesse?
Noi rispondiamo che Dio ci ha donato i Comandamenti per educarci alla vera libertà e all’amore autentico, così che possiamo essere davvero felici. Essi sono un segno dell’amore di Dio Padre, del suo desiderio di insegnarci il retto discernimento del bene dal male, del vero dal falso, del giusto dall’ingiusto. Essi sono comprensibili da tutti e proprio perché fissano i valori fondamentali in norme e regole concrete, nel metterli in pratica l’uomo può percorrere il cammino della vera libertà, che lo rende saldo nella via che conduce alla vita e alla felicità.

Al contrario, quando nella sua esistenza l’uomo ignora i Comandamenti, non solo si aliena da Dio e abbandona l’alleanza con Lui, ma si allontana anche dalla vita e dalla felicità duratura. L’uomo lasciato a se stesso, indifferente verso Dio, fiero della propria autonomia assoluta, finisce per seguire gli idoli dell’egoismo, del potere, del dominio, inquinando i rapporti con se stesso e con gli altri e percorrendo sentieri non di vita, ma di morte. Le tristi esperienze della storia, soprattutto del secolo scorso, rimangono un monito per tutta l’umanità.

«Quando l’Amore dà senso alla tua vita…». Gesù porta a pienezza la via dei Comandamenti con la sua Croce e Risurrezione; porta al superamento radicale dell’egoismo, del peccato e della morte, con il dono di Se stesso per amore. Solo l’accoglienza dell’amore infinito di Dio, l’avere fiducia in Lui, il seguire la strada che Egli ha tracciato, dona senso profondo alla vita e apre a un futuro di speranza.

Cari amici, auguro che questa iniziativa susciti un rinnovato impegno nel testimoniare che la via dell’amore tracciata dai Comandamenti e perfezionata da Cristo è l’unica capace di rendere la nostra vita, quella degli altri, quella delle nostre comunità più piena, più buona e più felice. La Vergine Maria accompagni questo cammino, mentre imparto la mia Benedizione.


it.gloria.tv/?media=167143



[SM=g1740717]


[SM=g1740722]

[SM=g1740738]
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02/06/2013 23:33
 
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[SM=g1740717] [SM=g1740720] SESTO COMANDAMENTO.... il più duro da digerire perchè spesso.... si tenta di giustificare gli atti impuri con la scelta della libertà....
la libertà di cui siamo dotati non è anarchia nei confronti di noi stessi e della società, anche nella gestione della libertà esistono delle regole. Lo stesso discorso di Gesù: ama il prossimo tuo, è preceduto da "come AMI TE STESSO" [SM=g1740727]  se amiamo noi stessi in modo disordinato, egocentrico, egoistico, anarchico, è impossibile poi amare il prossimo in modo corretto....
Da questo peccato non deriva solamente un danno a sè stessi ed alla propria anima, ma implica seri danni al prossimo ed alla società, danni a coloro che, amando disordinatamente, finiremo per corrompere.... Gli ATTI sono sempre importanti e si dicono "impuri" quando in essi viene annullata la purezza dei pensieri, la gratuità di amare senza ricevere qualcosa in cambio, rapportarsi con se stessi e con gli altri in modo sbagliato e senza regole....

Vi forniamo alcuni consigli....

Un sacerdote risponde - da AmiciDomenicani

Esiste qualche documento ufficiale della Chiesa, oltre al catechismo della chiesa cattolica, cioè prima del 1991/1992, che attesti che la masturbazione è un peccato mortale?

Quesito

Buonasera,
ho visto il vostro sito e la ringrazio per il suo lodevole servizio.
Vorrei porle una domanda. Esiste qualche documento ufficiale della Chiesa, oltre al catechismo della chiesa cattolica, cioè prima del 1991/1992 , che attesti che la masturbazione è un peccato mortale?
mille grazie


Risposta del sacerdote

Carissimo,
1. ce ne sono parecchi, ma il più autorevole è la dichiarazione Persona humana della Congregazione per la dottrina della fede. È del 29.12.1975.
Questo documento presenta le valutazioni del Magistero su tre questioni particolari: omosessualità, rapporti prematrimoniali e masturbazione.

2. Ecco che cosa dice della masturbazione:
“Spesso, oggi, si mette in dubbio o si nega espressamente la dottrina tradizionale cattolica, secondo la quale la masturbazione costituisce un grave disordine morale. La psicologia e la sociologia, si dice, dimostrano che, soprattutto tra gli adolescenti, essa è un fenomeno normale dell'evoluzione della sessualità. Non ci sarebbe colpa reale e grave, se non nella misura in cui il soggetto cedesse deliberatamente ad un'auto soddisfazione chiusa in se stessa («ipsazione»), perché in tal caso l'atto sarebbe radicalmente contrario a quella comunione amorosa tra persone di diverso sesso, che secondo certuni sarebbe quel che principalmente si cerca nell'uso della facoltà sessuale.
Questa opinione è contraria alla dottrina e alla pratica pastorale della chiesa cattolica. Quale che sia il valore di certi argomenti d'ordine biologico o filosofico, di cui talvolta si sono serviti i teologi, di fatto sia il magistero della chiesa - nella linea di una tradizione costante -, sia il senso morale dei fedeli hanno affermato senza esitazione che la masturbazione è un atto intrinsecamente e gravemente disordinato.
La ragione principale è che, qualunque ne sia il motivo, l'uso deliberato della facoltà sessuale, al di fuori dei rapporti coniugali normali, contraddice essenzialmente la sua finalità.
A tale uso manca, infatti, la relazione sessuale richiesta dall'ordine morale, quella che realizza, «in un contesto di vero amore, l'integro senso della mutua donazione e della procreazione umana».
Soltanto a questa relazione regolare dev'essere riservato ogni esercizio deliberato sulla sessualità.
Anche se non si può stabilire con certezza che la Scrittura riprova questo peccato con una distinta denominazione, la tradizione della chiesa ha giustamente inteso che esso veniva condannato nel nuovo testamento, quando questo parla di «impurità», di «impudicizia», o di altri vizi, contrari alla castità e alla continenza.
Le inchieste sociologiche possono indicare la frequenza questo disordine secondo i luoghi, la popolazione o le circostanze prese in considerazione; si rilevano così dei fatti. Ma i fatti non costituiscono un criterio che permette di giudicare del valore morale degli atti umani.
La frequenza del fenomeno in questione è, certo, da mettere in rapporto con l'innata debolezza dell'uomo in conseguenza del peccato originale, ma anche con la perdita del senso di Dio, la depravazione dei costumi, generata dalla commercializzazione del vizio, la sfrenata licenza di tanti spettacoli e di pubblicazioni, come anche con l'oblio del pudore, custode della castità” (n.9).

3. Il documento poi mette in risalto alcuni condizionamenti che possono portare ad una diminuzione di responsabilità del soggetto che compie questi atti.
“La psicologia moderna offre, in materia di masturbazione, parecchi dati validi e utili, per formulare un giudizio più equo sulla responsabilità morale e per orientare l'azione pastorale. Essa aiuta a vedere come l'immaturità dell'adolescenza, che può talvolta prolungarsi oltre questa età, lo squilibrio psichico, o l'abitudine contratta possano influire sul comportamento, attenuando il carattere deliberato dell'atto, e far sì che, soggettivamente, non ci sia sempre colpa grave.
Tuttavia, in generale, l'assenza di grave responsabilità non deve essere presunta; ciò significherebbe misconoscere la capacità morale delle persone” (n. 9).

Ti saluto, ti ricordo al Signore e ti benedico.
Padre Angelo


Pubblicato 24.01.2013

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Un sacerdote risponde - da AmiciDomenicani

Due domande sugli atti impuri e sulla necessità della confessione prima di fare la Santa Comunione

Quesito

Gentile P. Angelo,
ho una domanda da rivolgerle.
Io e la mia fidanzata siamo sulla via del matrimonio, e ne stiamo facendo il percorso in preparazione. Purtroppo per ragioni contingenti non abbiamo la possibilità di sposarci prima di un anno, anche se il matrimonio (e quello Cristiano) è il grande desiderio che abbiamo entrambi. Ossia, non ci interessa tirare in lungo il fidanzamento, avendo scorto qual è la nostra vocazione.
Purtroppo, per umana debolezza, capitano occasioni di rapporti intimi seppur non completi. (non starò a sciorinarle la solita discussione sul fatto che queste debolezze sono dettate da un amore vicendevole e sincero etc., intanto lo dicono tutti e lei lo sa già) Nonostante ciò, non sottacciamo il problema ma anzi ne parliamo e cerchiamo di camminare orientati al Signore. Sono perfettamente cosciente che questi gesti sono di impazienza rispetto a quello che si vivrà nel matrimonio, ed anzi l'esserne cosciente mi spaventa ancor più per il giudizio del Signore.
Innanzitutto vorrei chiederle: si tratta di un peccato di materia grave? (ed in tal caso, mi pare di capire che la materia grave sarebbe sufficiente a escludere il Paradiso (o Purgatorio) in caso di morte non in stato di grazia, equiparabilmente al caso di un omicidio per esempio).

La seconda domanda. Un prete molto fidato, che le assicuro non essere di stampo progressista ma fedele alla Chiesa, confessandomi mi ha detto che dopo tali episodi, se non ho la possibilità di confessarmi subito, posso ugualmente ricevere la comunione facendo pentimento personale e rimettendo in cuor mio l'intento di confessarmi non appena possibile. Lei è d'accordo?

La ringrazio per il lavoro nascosto ma prezioso che fa rispondendo alle domande e rendendole pubbliche, lei fa un grande servizio alla Chiesa.
Un caro saluto e una preghiera per lei.


Risposta del sacerdote

Carissimo,
1. circa la prima domanda non precisi di che cosa si tratta, ma, escluso il rapporto sessuale, presumibilmente si tratta di atti impuri.
Ebbene, se si tratta di atti impuri ci troviamo di fronte ad un peccato grave.
Certo non è equiparabile ad un omicidio.
Ma anche saltare la Messa alla domenica per pigrizia è peccato mortale e analogamente non è paragonabile ad un aborto.
Come in Paradiso vi sono stelle di diversa grandezza (cf 1 Cor 15,41), così inversamente anche all’inferno.

2. Sei un ragazzo che finora ha vissuto con una certa coerenza la propria fede cristiana.
Io ti direi: cogli la necessità di dover procrastinare le nozze come un invito del Signore a rendere ancora più puro il vostro amore.
Le impurità non lo fanno crescere.
Fanno crescere invece l’egoismo e l’aggressività, come si evince da quella bella presentazione della castità offerta da un documento del Magistero ecclesiastico: “La castità è energia spirituale che libera l’amore dall’egoismo e dall’aggressività” (pontificio consiglio per la famiglia, Sessualità umana: verità e significato, 19).

3. A dire il vero, mi sembra impossibile che una coppia che abbia vissuto gioiosamente il fidanzamento in castità, ad un certo punto senta l’esigenza delle impurità. Le sentirebbe come una cosa che stride e che non rende bello l’amore vicendevole.
Quello che viene detto per i rapporti prematrimoniale, e cioè che non sono autentico amore (è Giovanni Paolo II che lo dice), vale anche per le impurità.

4. Il Catechismo della Chiesa Cattolica dice a proposito del nostro argomento: “L’alternativa è evidente: o l’uomo comanda alle sue passioni e consegue la pace, oppure si lascia asservire da esse e diventa infelice (Cf Sir 1,22).
«La dignità dell’uomo richiede che egli agisca secondo scelte consapevoli e libere, mosso cioè e indotto da convinzioni personali, e non per un cieco impulso o per mera coazione esterna. Ma tale dignità l’uomo la ottiene quando, liberandosi da ogni schiavitù di passioni, tende al suo fine con scelta libera del bene, e si procura da sé e con la sua diligente iniziativa i mezzi convenienti» (Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 17)” (CCC 2339).

5. Dice ancora: “Colui che vuole restar fedele alle promesse del suo Battesimo e resistere alle tentazioni, avrà cura di valersi dei mezzi corrispondenti: la conoscenza di sé, la pratica di un’ascesi adatta alle situazioni in cui viene a trovarsi, l’obbedienza ai divini comandamenti, l’esercizio delle virtù morali e la fedeltà alla preghiera” (CCC 2340).

6. Sulla seconda domanda puoi leggere la risposta pubblicata sul sito, e oggi (in data 28 novembre 2012) è ancora la prima di quelle poste in evidenza: Perché chi è consapevole di essere in peccato mortale, per quanto pentito, non può fare la Santa Comunione, ma deve premettere la Confessione
| Teologia dogmatica | Sacramenti | visto 744 volte | Pubblicato 12.10.2012 | (leggi tutto...).

7. Quanto ti ha detto il tuo parroco non è corretto.
Dovrebbe portarti un documento scritturistico o ecclesiale a favore della sua tesi.
Mentre invece i documenti sono tutti a sfavore, a cominciare dal più importante: “Ciascuno, dunque, esamini se stesso e poi mangi del pane e beva dal calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna. È per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti” (1 Cor 11,28-30).
Come vedi, ho messo in evidenza quello che ha detto il Signore per bocca di Paolo: e poi.
Non viene detto “intanto ne mangi e poi”.
Per questo Giovanni Paolo II ha detto “vige e vigerà sempre la norma….” (Ecclesia de Eucharistia 36).

8. Conviene, dunque, essere obbedienti al Signore e non avremo mai da pentircene.
Proprio in data odierna Benedetto XVI nella catechesi del mercoledì ha detto: “Dio non è il concorrente della nostra esistenza, ma piuttosto ne è il vero garante, il garante della grandezza della persona umana” (28 novembre 2012).

Ti ringrazio per l’incoraggiamento che ci dai dicendoci che il nostro lavoro è prezioso per molti. Ne siamo profondamente convinti. È una grazia poter lavorare in questo sito.
Ti ringrazio molto per la preghiera che mi hai promesso. È un grande dono che mi fai.

Lo ricambio di cuore per te e per la tua ragazza e per il vostro futuro.
Intanto Vi benedico.
Padre Angelo


Pubblicato 02.05.2013

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Un sacerdote risponde - da Amici Domencani

Un giovane omosessuale parla della propria convivenza omosessuale e pone alcune domande

Quesito

Caro padre,
rinnovo anche io i miei complimenti per questa interessante rubrica che Lei cura con grande disponibilità. Le vorrei porre alcune domande, se Lei ha tempo di rispondere.
Premetto che ho grandissimo rispetto per quanti nella Chiesa compiono la loro missione con altruismo e dedizione, per quanti mettono la fede e la loro scelta di vita al servizio dell'Altro. Riconosco anche che su molti temi la morale cristiana ha contribuito non poco a formare la nostra società quale la conosciamo, e che lo stesso concetto di un Dio che si fa uomo e viene fra noi è davvero una cosa preziosa, che fa del Cristianesimo un vero promotore della speranza e della dignità del genere umano. Premetto questo, dico, per sottolineare che la mia lettera a Lei non ha nè intenti polemici nè tantomeno è intrisa di preconcetti di sorta, ma è stata spinta da quella stessa ricerca della verità che tutti noi abbiamo. Io sono ateo, non per imposizione familiare ma per scelta consapevole, maturata durante i miei studi universitari che sono stati di carattere tecnico-scientifico. Sono anche bisessuale, e vivo una relazione con un ragazzo a me coetaneo. Spesso la mia curiosità mi porta a cercare risposte, opinioni, e mi capita sovente di leggere quanto spesso si scrive nei siti di ispirazione cattolica sul tema. Mi è capitato quindi di leggere che l'omosessualità ha carattere promiscuo, che l'omosessuale si sente inferiore agli altri esponenti del proprio sesso, che l'amore che prova un omosessuale è qualcosa di imperfetto. Fermo restando che so bene quale è la posizione della Chiesa in materia, le volevo esporre il mio caso.
Io e il mio partner siamo fedeli l'un l'altro e abbiamo una qualità del dialogo tra di noi che raramente ho ritrovato perfino nei rapporti eterosessuali. Lui è un ragazzo molto in gamba, molto preso dal suo lavoro e molto serio. La nostra vita sessuale è anche abbastanza casta, se così si può dire, nel senso che non ci incontriamo col solo fine di avere rapporti, e spesso non lo facciamo. Siamo entrambi lontani da quello stereotipo di omosessualità che spesso i media ci propinano, e devo dire che nella mia esperienza nel mondo omosessuale raramente ho trovato persone di quel tipo. Più spesso normalissimi ragazzi con un normalissimo comportamento e modo di relazionarsi con gli altri, io stesso ho amici in prevalenza maschi con i quali mi relaziono normalmente. Non penso di avere sentimenti di inferiorità rispetto agli altri, almeno non da quando ho accettato questo aspetto di me stesso, scoprendo anche con l'esperienza che gli omosessuali non sono persone spregevoli o quelle "macchiette" che magari sono la loro rappresentazione nell'immaginario collettivo, ma ragazzi come gli altri che spesso, dovendo affrontare fin da piccoli questa loro particolarità, sviluppano una forza interiore davvero notevole. Non mi posso nemmeno definire promiscuo, e non lo sono mai stato. Il mio ragazzo, anche lui bisessuale, ha sì avuto un periodo di esperienze sessuali molto intense, ma adesso ha deciso di cercare qualcosa di più, e sono felice che l'abbia trovato in me.
Io non ho la pretesa che l'affetto reciproco che proviamo sia qualcosa di perfetto, ma non penso nemmeno che sia negativo, per quanto tutti i giorni mi aiuti ad affrontare la vita. E quindi questa è la mia prima domanda, che vuole essere, spero, un'occasione di confronto: quanto può essere vero che certi pregiudizi pesino sul giudizio di questa condizione? E poi, possiamo davvero dire che non ci siamo aspetti positivi nell'amore e nel rispetto che ci possono essere in un rapporto omosessuale?

E qui viene la seconda parte di questa mia lettera, in cui cercherò di spiegarLe una mia esperienza passata che mi ha fatto molto pensare. Anni fa ho conosciuto un ragazzo della mia vecchia cerchia di amici (con il quale, premetto, non c'è stato alcun intento da parte mia di natura sessuale, nè il gruppo che frequentavamo veniva dal mondo gay), e quella conoscenza è stata proprio la ragione che mi ha fatto allontanare da quel gruppo. Era un ragazzo cattolicissimo, che viveva la sua religiosità con uno zelo quasi ossessivo, come se dovesse espiare chissà che colpe. Assisteva il parroco di una nota chiesa della mia città, nella quale (con scarso successo) tentava di portarmi la domenica. Col passare del tempo, mi sono accorto che aveva atteggiamenti equivoci con la maggior parte di noi ragazzi, toccando le parti intime col pretesto del "gioco".
Era una cosa estremamente volgare ed invadente, che strideva col suo "slancio missionario", se così lo possiamo chiamare. Era anche parecchio ossessivo nel cercare continuamente uno di questi miei amici, il quale era eterosessuale ed aveva una ragazza, e non so per quale misteriosa pazienza ne tollerasse l'invadenza. E perciò le chiedo: agli occhi della chiesa un simile atteggiamento è giustificabile dalla sola fede? O piuttosto in simili esempi ci si crea un alibi nella fede stessa per vivere la propria omosessualità con il dovuto equilibrio psichico? Sono più colpevole io che, ateo, vivo questa storia con altro ragazzo, o lui che, credente, molesta le altre persone? Mi rendo conto che la risposta non è semplice, spero che con questi miei (lunghi, e mi scuso) aneddoti sia riuscito a esprimere adeguatamente il problema.

La ringrazio molto per il suo tempo e la disponibilità
(segue il nome)


[SM=g1740733] Risposta del sacerdote

Carissimo,
mi complimento anzitutto per la pacatezza del tuo ragionare. Ho letto con vero interesse la tua email, che senz’altro aiuta ad aver maggior rispetto per gli omosessuali.

1. Comincio dal fondo e cioè dal ragazzo “cattolicissimo”, che però non manca di invadenza e non teme di insidiare e provocare.
Omosessuali del genere - penso che tu ne convenga - sono una mina vagante.
Se io fossi parroco, cercherei di tenerlo lontano il più possibile dall’ambito della vita parrocchiale, soprattutto dei ragazzi, e cercherei di tenerlo lontano anche da me, perché non si dica che il parroco lo stima, ecc…

2. Non intendo giudicare la qualità della fede di quel ragazzo “cattolicissimo”. Non potrei farlo e i cuori li scruta solo Dio.
Mi permetto però di osservare che almeno oggettivamente vive nell’impurità e col suo comportamento stimola altri a fare altrettanto.
Inoltre posso solo dire - sempre astenendomi da giudizi sulle singole persone - che l’impurità spegne il gusto delle cose di Dio e impedisce quella vera interiorità che si esprime nel gusto della Parola di Dio e nel permettere a Cristo di invadere con la sua grazia e i suoi sentimenti il nostro cuore.

3. Ne ho conosciuti e ne conosco anch’io omosessuali, cosiddetti credenti, praticanti e anche qualcosa d’altro.
Ma in loro - parlo di quelli che hanno pratica omosessuale - noto una costante: comunicano poco o niente di spirituale, forse qualche volta sono innamorati di riti e qualcosa d’altro, ma la sostanza della vita cristiana mi pare che a loro sfugga.
Quando si mettono a parlare di Cristo e del suo vangelo la loro parola è vuota, non riscalda nessuno, perché anzitutto non riscalda il loro cuore che è occupato da qualcosa d’altro. Faranno talvolta svolazzi culturali, che faranno dire a chi li ascolta: “ma guarda che persona colta”, ma non avvicinano a Cristo e non innamorano di Cristo neanche di un unghia.
Spesso scambiano il Vangelo con un messaggio di ordine politico o sociale e riducono la vita cristiana a questo.
Per carità, il cristiano deve impegnarsi anche socialmente. Ma la vita cristiana non può essere ridotta a questa.
Ho l’impressione che talvolta si possa dire di taluni di loro quanto ha detto il Signore: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini; perché così voi non vi entrate, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarci” (Mt 23,13).
Non entrano nel mistero e non introducono gli altri perché per primi non ne fanno l’esperienza.

4. Rimane sempre vero quello che dice la Sacra Scrittura: “Quelli infatti che vivono secondo la carne, pensano alle cose della carne; quelli invece che vivono secondo lo Spirito, alle cose dello Spirito. Ma i desideri della carne portano alla morte, mentre i desideri dello Spirito portano alla vita e alla pace. Infatti i desideri della carne sono in rivolta contro Dio, perché non si sottomettono alla sua legge e neanche lo potrebbero. Quelli che vivono secondo la carne non possono piacere a Dio” (Rm 8,5-8).
Per non equivocare sul termine carne, so bene che la parola “carne” nella Sacra Scrittura ha molteplici significati.
Ma ha anche quello comunemente inteso. Lo ricorda l’autorevole commento alla Bibbia di Gerusalemme al passo citato di San Paolo: “Paolo insiste particolarmente sulla carne come sede delle passioni e del peccato, votata alla corruzione e alla morte al punto da personificarla come una forza del male, nemica di Dio (Rm 8,7s) e ostile allo Spirito (Rm 8,4-9.12s)”.
Di qui il male immenso che alcuni omosessuali “credenti, praticanti e qualcosa d’altro”, fanno alla Chiesa e di qui anche l’odio che hanno verso gli “spirituali”. Parlo di odio, perché ormai non capiscono più che cosa ci sia di male nella loro condotta e trovano “disumano” l’insegnamento della Chiesa e dei loro confratelli.
Penso ad un tale “credente, praticante e qualcosa d’altro”, le cui lettere piene di livore contro il Card. Ratzinger su questo argomento venivano pubblicate su certe riviste cattoliche, e che è poi miseramente finito in prigione per quello che ha fatto che, secondo il senso comune, costituisce ancora una grave perversione e anche un delitto.

5. Ma ormai mi sono diffuso troppo su questo.
Vengo a te, la cui condotta, come tu stesso lo riconosci, non è secondo Dio e il Magistero della Chiesa e di fatto ti trovi “senza Dio”, ateo.
Mi dispiace moltissimo che tu sia “senza Dio”: senza Dio come punto di riferimento.
Quel Dio che ha fatto dire agli uomini da lui ispirati: “Dio è luce e in lui non vi sono tenebre” (1 Gv 1,5), per te è diventato tenebra, non ha niente da dirti, niente da comunicarti.
Ma non è Lui che in questo momento ti fa passare di istante in istante nell’esistenza? Non è lui che ti mantiene la capacità di pensare e di volere?
Lo sai bene che la tua vita non è nelle tue mani e che ti può essere tolta in qualsiasi momento.

6. C’è qualcosa in te e nella tua condotta che mi fa bene sperare: non ti vedo travolto dalla lussuria. Anzi, la comunione e la condivisione spirituale è ciò che ti interessa maggiormente.
Mi chiedi se ritenga del tutto sbagliata la tua convivenza omosessuale dal momento che tu vi trovi qualcosa di costruttivo. Vi è amore, rispetto, condivisione.
Io a questo punto farei una distinzione: l’amore, il rispetto vicendevole e la volontà di condividere non sono propri dell’omosessualità, ma dell’amicizia.
Quante amicizie autentiche si coltivano anche con persone dello stesso sesso, senza essere omosessuali.
In quante famiglie non si trova nel marito o nella moglie quella condivisione spirituale che si sperimenta con altre persone, sposate o non sposate dello stesso sesso! Ma con questo non si diventa omosessuali per forza.

7. Ora ti domando con la medesima pacatezza con la quale mi hai scritto: il rispetto e l’amicizia con colui che attualmente è il tuo partner non possono essere vissuti intensamente e sempre meglio anche senza convivenza e pratica omosessuale?
La convivenza e la pratica omosessuale aggiungono qualcosa a questo oppure lo offuscano in qualche modo?

8. Un documento del Magistero della Chiesa scrive: “Come accade per ogni altro disordine morale, l’attività omosessuale impedisce la propria realizzazione e felicità, perché è contraria alla sapienza creatrice di Dio. Quando respinge le dottrine erronee riguardanti l’omosessualità, la Chiesa non limita ma piuttosto difende la libertà e la dignità della persona, intese in modo realistico e autentico” (Homoxessualitatis problema 7).
Un docente di teologia morale ha scritto: “La gratificazione omosessuale in ultima analisi viene sentita come inadeguata. Essa si accompagna spesso a sentimenti di frustrazione e di depressione” (k. peschke, Teologia morale, p. 577).
Credo che anche tu convenga su questo: gli organi sessuali, o meglio le persone, sono fatti e sono fatte per congiungersi in maniera omosessuale?
Non c’è forse nell’attività sessuale compiuta secondo natura un disegno più alto e misterioso che rivela nello stesso tempo la grandezza di quell’unione?
Se i tuoi genitori, anziché sposarsi, avessero fatto pratica omosessuale, saresti al mondo? E non è preziosa la tua vita?

Ti ringrazio per l’attenzione.
Sono contento di ricordarti nelle mie preghiere e di darti la mia benedizione, con l’augurio che ti possano portare – lo dico senza reticenze - all’unione con Colui che ti ha creato, che ti tiene in vita e che è il tuo ultimo fine, perché solo Lui sazia e tutto quello che è meno di Lui non sazia.
Ti saluto fraternamente.
Padre Angelo


Pubblicato 05.09.2012



[SM=g1740771] IN QUESTO LINK troverete altro materiale sulla questione etica e morale collegata a questo Comandamento....


e dal Catechismo della Chiesa Cattolica, cliccate qui per il SESTO COMANDAMENTO....

[SM=g1740733]

 

[Modificato da Caterina63 03/06/2013 00:36]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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19/06/2013 10:59
 
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S. Tommaso d'Aquino

Opuscoli teologico - spirituali

I DIECI COMANDAMENTI SPIEGATI DA SAN TOMMASO D'AQUINO




1. «Non avrai altri dèi oltre a me» (Esodo 20, 3)

 

    S'è veduto che tutta la legge di Cristo è basata sulla carità, e questa a sua volta si esprime compiutamente nei due precetti dell'amore, verso Dio e verso il prossimo.

    Consegnando a Mosè il decalogo, Dio gli presentò due tavole di pietra, sulla prima delle quali erano incisi i tre precetti relativi all'amore verso Dio, sulla seconda i rimanenti sette, relativi all'amore verso il prossimo. L'intera legge, dunque, veniva riassunta nei due obblighi fondamentali [della carità].

    «Non avrai altri dèi».

    Per comprendere il perché di questo primo comandamento bisogna sapere che gli antichi violavano in vari modi tale diritto [esclusivo del vero Dio].

    Vi era chi rendeva un culto ai demoni. «Gli dèi pagani sono spiriti malvagi» (Sal 95, 5), perciò questo è il peggiore e più orribile dei peccati.

    Ancora oggi sono in molti a trasgredire il primo comandamento, ossia tutti coloro che si dedicano alle opere della magia per indovinare il futuro, e ai sortilegi. Entrambe presuppongono, come osserva sant'Agostino, un patto d'intesa col demonio. Anche Paolo raccomandava: «Non voglio che voi siate in comunione coi demoni» (I Cor 10, 20); e, ancora: «non potete partecipare alla mensa del Signore e a quella degli spiriti maligni» (I Cor 10, 21).

    Altri adoravano i corpi celesti, considerando gli astri quasi altrettanti dèi. Vedi, nel libro della Sapienza: «Credettero dèi, governatori del mondo, il fuoco o il vento o l'aria veloce, o il firmamento stellato, o le acque violente o i luminari del cielo» (Sap 13, 2). Fu per questo motivo che Mosè raccomandò agli israeliti di non starsene troppo a osservare il firmamento, nel timore che finissero con l'adorare il sole, la luna e le stelle. Ecco il testo: «Quando tu alzerai gli occhi al cielo e vedrai lassù il sole, la luna e le stelle e tutti gli astri del firmamento, non ti lasciar sedurre al punto di prostrarti davanti a tali creature per adorarle» (Dt 4, 19). Ribadisce lo stesso concetto anche in altro passo del Deuteronomio (cf. Dt 5, 7-8).

    Contro il primo comandamento peccano gli astrologi, i quali sostengono che gli uomini siano guidati dai corpi celesti (169), mentre in realtà si tratta semplicemente di creature destinate a servire. Soltanto Dio è il nostro signore.

    Non son mancati neppure adoratori degli elementi terrestri, gente che credette il fuoco, il vento o l'aria manifestazioni degli spiriti invisibili (cf. Sap 13, 2). E cadono in un errore consimile quanti usano dei beni inferiori, nutrendo per i medesimi eccessivo attaccamento. L'avaro ad esempio è un idolatra (cf. Ef 5, 5).

    Altri hanno adorato gli uccelli, oppure gente come loro o magari se stessi, mossi da diversi motivi: un affetto carnale, l'adulazione, là vana ostentazione di sé.

    Leggiamo, quanto ai primi, nella Scrittura, che «un padre grandemente afflitto per l'immatura morte del figlio, ne fece riprodurre l'immagine, poi l'onorò come Dio mentre non era che un morto, istituendo per i suoi un culto con proprie cerimonie. L'empia abitudine si diffuse in seguito e s'osservò come legge» (Sap 14, 15).

    Servi adulatori han reso un culto ad altri uomini, venerandoli più che Dio stesso e non solo in loro presenza ma dinanzi a immagini che li riproducevano (cf. Sap 14, 17). Il Signore ha avvertito: «Colui che ama il padre o la madre più di me, non è degno di me» (Mt 10, 37), e il salmo 145 ci ammonisce: «Non riponete fiducia nei potenti, uomini [come voi] incapaci di provvedere alla vostra salvezza» (Sal 145, 2-3).

    Infine, spinti dalla presunzione certuni si fecero chiamare «dèi», come si può vedere nel caso di Nabucodonosor» (170). E in Ezechiele leggiamo, d'uno di essi: «Il tuo cuore si è inorgoglito e tu hai detto: 'Io sono un dio, e abito nella dimora di un dio, nel cuore del mare'» (Ez 28, 2). E qualcosa del genere fanno quelli che si attengono più alle proprie idee personali che ai divini precetti. Praticano verso se stessi un'autentica religione: nella continua ricerca di piaceri carnali, mostrano di adorare come un dio il proprio corpo. È di essi che l'Apostolo ha scritto: «Il ventre, per loro, è la divinità» (Fil 3, 19).

    Da tutto ciò e da costoro dobbiamo tenerci lontani.

    «Oltre a me». Dobbiamo adorare esclusivamente l'unico vero Dio. Ed eccone le ragioni.

 

    I. La dignità di Dio. Anche nei suoi confronti, così come succede tra noi, negandogli l'ossequio dovuto gli si fa ingiuria. Chiunque occupi un rango elevato ha diritto a un particolare rispetto, tanto che verrebbe considerato traditore del re quell'uomo che gli rifiutasse un atto di riverenza.

    Ebbene, vi sono taluni che si comportano così di fronte a Dio [negandogli l'adorazione]. «Hanno sostituito la gloria di Dio incorruttibile, con immagini di uomini mortali» (Rm I, 23), il che spiace a lui, sommamente, avendo proclamato per bocca di Isaia: «Io sono il Signore; questo è il mio nome: non darò la mia gloria a nessun altro, né agli idoli l'onore che è dovuto a me» (Is 42, 8).

    Uno dei punti su cui si fonda la dignità divina deriva dalla sua onniveggenza; lo stesso suo nome sembra trarre origine dal verbo «vedere», dal vedere tutto e tutti, prerogativa della deità. Il profeta poteva perciò sfidare i falsi dèi: «Annunziate ciò che accadrà in avvenire, e noi riconosceremo che siete dèi» (Is 41, 23). «Nessuna cosa al mondo sfugge allo sguardo di Dio, ma tutto è chiaro e svelato agli occhi di colui al quale dobbiamo rendere conto» (Eb 4, 13).

    Attentano a simile capacità che loro non compete gli indovini; contro i quali dice Isaia: «Vi pare serio che un popolo debba consultare qualcun altro che non sia il proprio Dio, e per i vivi interpellare i morti?» (Is 8, 19).

 

    2. Un ulteriore motivo di ossequio ce lo offre la generosità del Signore. Da Dio ci proviene ogni bene. Egli è il munifico creatore. «Tu allarghi la mano, e tutti sono provvisti di beni» (Sal. 3, 28). Anche questa dote [universale] pare sia contenuta nel nome «Dio»: il donatore per eccellenza, colui che riempie di bontà il creato.

    Daresti a vedere di esser parecchio ingrato, se non ammetti che tutti i beni ti provengono da lui; anzi finiresti per inventarti un altro dio, come quegli israeliti che, rientrati dall'Egitto, si costruirono un idolo. Andiamo dietro all'oggetto del nostro cuore (cf. Os 2, 5), imitando i figli di Israele, ogni volta che riponiamo la speranza non in Dio ma in qualcun altro. Invece «beato è l’uomo che fa assegnamento su Dio» (Sal 39, 5), e l'apostolo Paolo interrogava in proposito i cristiani della Galizia: «Ora che avete conosciuto Dio ­ anzi, che siete stati amati e conosciuti da lui -, come mai vi rivolgete di nuovo a quei deboli e miserabili elementi, dei quali volete ancora essere schiavi?» (Gal 4, 9-10).

 

    3. La fedeltà alle promesse fatte. Noi abbiamo rinunziato al diavolo, promettendo d'impegnarci solo dalla parte di Dio, e non dobbiamo mancare di parola. Assai grave è il rischio che si incorre, secondo che ricorda l'Apostolo: «Se uno viola la legge di Mosè, in base alla deposizione di due o tre testimoni morrà senza alcuno scampo; quanto più acerbi supplizi pensate voi che si meriti chi avrà calpestato il Figliolo di Dio, e avrà tenuto come profano il sangue del testamento grazie al quale fu santificato, e avrà fatto oltraggio allo Spirito?» (Eb 10, 28-29). E aggiunge che «una donna sarà chiamata adultera se, vivendo ancora il marito, essa diventa la donna d'un altro» (Rm 7, 3) e secondo la legge mosaica costei avrebbe meritato d'essere mandata al rogo. Perciò, stia attento il peccatore che crede di poter battere due strade, che zoppica da entrambi i lati (cf. I Re 18, 21).

 

     4. L'inclemenza del dominio diabolico, adombrata nelle parole di Geremia: «Servirete giorno e notte ad altri dèi, che non vi daranno requie» (Ger 16, 13). Il tentatore infatti non si contenta di far cadere una sola volta ma, piuttosto, si ingegna di moltiplicare le cadute. «Chi fa il peccato è schiavo del peccato» (Gv 8, 34), e san Gregorio commenta: «L'errore che non vien cancellato dalla penitenza, presto ne trascina altri con sé».

    La sottomissione al Signore è ben diversa. I suoi precetti non risultano opprimenti: «Il mio giogo è soave, [dice il Signore] e leggero il mio peso» (Mt 11, 30). Può considerarsi abbastanza soddisfatto l'uomo che prende a dedicarsi al servizio di Dio con l'assiduità che poneva nel peccare.

    Ai cristiani, Paolo rivolge questo appello: «Come un tempo avete messo le vostre membra a servizio dell'impurità e dell'iniquità per soddisfare le concupiscenze, così ora mettete le vostre membra a servizio della giustizia, per raggiungere la santità» (Rm 6, 19.).

    I servi del diavolo diranno invece: «Ci siamo allontanati dalla via della verità... Ci stancammo, percorrendo le vie dell'iniquità e della rovina, e attraversammo deserti impraticabili» (Sap 5, 7). Davvero, conclude Geremia, «si consumarono in una vita iniqua» (Ger 9, 5).

 

    5. L'immensità del premio. Da nessun altro vengono promesse ricompense sublimi come quelle derivanti dalla osservanza della legge di Cristo. Ai musulmani si dice sian riservati fiumi di latte e di miele, ai giudei una terra promessa, ma ai cristiani la stessa gloria degli angeli. «[Gli eletti] saranno in cielo simili agli angeli di Dio» (Mt 22, 30). Tenendo presente questa prospettiva, Pietro poté esclamare; «Signore, da chi potremmo andare? Tu hai parole di vita eterna!» (Gv 6, 69).

 

2. «Non nominare il nome del Signore tuo Dio invano» (Esodo 20,7)

 

    Come non esiste che un unico Dio da adorare, così ve n'è uno soltanto al quale dobbiamo il massimo rispetto. Il suo nome va pronunziato con deferenza, mai vanamente. Ora, il termine vano può avere tre significati.

    Equivale in certi casi a falso; vedi ad es. il salmo 11: «Ciascuno ha detto al suo prossimo cose che nascondevano inganni» (Sal 11, 3). Stai usando sconsideratamente il nome del Signore allorché vorresti servirtene per rendere credibile un discorso fatto di bugie. «Non giurare il falso, poiché io odio tutto questo, dice il Signore» (Zc 8, 17). E, ancora nel medesimo profeta: «Tu morrai perché hai preferito menzogne nel nome del Signore» (Zc 13, 3).

    L'uomo insincero offende Dio, fa danno a sé medesimo e agli altri.

    Se infatti il giurare per Iddio è un chiamarlo a testimone, quando tu giuri a giustificazione della falsità, o credi che egli non conosca come stiano effettivamente le cose (e allora tu non lo consideri onnisciente mentre tutto è aperto e chiaro dinanzi al suo sguardo (cf. Eb 4, 13); oppure supponi che egli possa sopportare la menzogna, proprio lui che l'ha in abominio e punisce i bugiardi (cf. Sal 5, 7); o infine ti ritieni al sicuro dalla sua collera, quasi che non ti possa punire come meriti.

    Usando invano il nome di Dio l'uomo si fa del male, condannandosi a subire il giudizio divino. Dire: «Ti assicuro, per Iddio, che è come sostengo io!» altro non equivale che a: «Se sto mentendo, Dio farà bene a punirmi»!

    E arreca danno agli altri. Non è possibile infatti che sussista tra le persone un rapporto durevole, se non su una base di reciproca fiducia. Ma è appunto in caso di sospetto che si ricorre al giuramento (cf. Eb 6, 16), sicché ne deriva in sostanza un'offesa a Dio, un castigo di più per noi stessi e scapito per una serena convivenza.

    Vano, in altro senso, sta per inutile. «Il Signore conosce i pensieri degli uomini, e sa che sono inconcludenti» (Sal 93, 11). Quindi, se adoperiamo il suo nome a conferma di cose frivole, lo nominiamo invano.

    Affinché gli uomini non giurassero il falso, ciò fu proibito nell'antica legge. Ad esempio: «Non pronunziare invano il nome del Signore, Iddio tuo, poiché il Signore non riterrà innocente chi avrà proferito il suo nome, senza ragione» (Dt 5, 11). Cristo, invece, dispone che non si giuri affatto: «Sapete che fu detto agli antichi: 'Non spergiurare'. Io però vi dico di non giurare mai, 

né per il cielo, perché è trono di Dio; né per la terra, ché è sgabello dei suoi piedi» (Mt 5, 33-34). E la ragione è semplice: nell'uomo non c'è parte che sia corriva a malfare quanto la lingua: nessuno, come ha scritto Giacomo, potrà domarla perfettamente (cf. Gc 3, 8); e potremmo esser portati con facilità a giurare solennemente [senza motivo proporzionato]. «Il vostro parlare sia: sì, sì; no, no» (Mt 5, 37).

    Rettamente inteso, il giuramento va usato come le medicine: farvi ricorso quale rimedio davvero inevitabile. «Quel che v'è di più [nei vostri discorsi), è ispirato dal Maligno» (Mt 5, 37). «Non avvezzare la tua bocca al giuramento, né prender l'abitudine di pronunziare il nome santo... Chi giura e nomina continuamente Dio, non rimarrà immune da colpa» (Sir 23, 9).

    Il peccato [in genere] o l'ingiustizia vengono talvolta indicati col nome vano. «Figli degli uomini, perché avete duro il cuore e amate la vanità?» (Sal 4, 3). Così, una persona che giurasse per compiere più agevolmente qualcosa di illecito, usa invano quel nome sacro.

    Due sono le parti della giustizia: fare il bene, astenersi dal male. Così, se tu hai giurato di compiere un furto o qualcosa del genere, hai già violato la giustizia, e sebbene un simile giuramento non sia vincolante, tu sei spergiuro. Fu il caso di Erode nei confronti di Giovanni Battista (cf. Mc 6, 23, 26).

    Ugualmente va contro la virtù della giustizia chi con giuramento si impegnasse di non fare un determinato bene, come l'entrare a far parte della Chiesa o di un Ordine religioso. Anche qui, pur non dovendosi tener fede alla parola data, chi lo avesse giurato diverrà spergiuro.

    In conclusione, non si deve giurare in assenza di una causa proporzionata, né circa una materia illecita. Dice bene la Scrittura: «Giurerai per la vita del Signore con sincerità, ponderatezza e giustizia» (Ger 4, 2).

    Un ultimo possibile significato della parola vano potrebbe aversi usandolo nel senso di sciocco. «Stolti per principio sono tutti quegli uomini che vogliono ignorare Dio» (Sap 13, 1). Del pari, chi adopera il nome di Dio stoltamente, come fanno i bestemmiatori, lo pronuncia invano. «E chi avrà bestemmiato il nome del Signore, sia messo a morte» (Lv 24, 16).

    «Non nominare il nome del tuo Dio invano». Del nome divino, non si può fare un vario uso.

 

    I. Come si è veduto, per dare maggior forza al discorso, ossia nel giuramento. E un'implicita ammissione che Dio è la verità per essenza, ed è allora una maniera di riconoscerne le prerogative: la legge perciò prescriveva che, dovendosi giurare, lo si facesse chiamando Dio a testimone (171). Non sbaglia quindi chi, avendo a impegnarsi solennemente, si appella ad altri. «Non giurate pronunziando il nome degli idoli» (Es 23, 13).

    Ad ogni modo, anche nel caso che si giurasse su una qualunque creatura, in fondo è sempre Dio a essere coinvolto. Giuri sopra la tua vita, sulla tua testa? Bene: tu metti l'una o l'altra a rischio di subire il castigo da parte di Dio. Ma [con tranquillità] l'Apostolo poteva scrivere: «Io chiamo Dio in testimone contro la mia vita [se non ho detto la verità]» (2 Cor 1, 23).

    Altrettanto si dica quando giuri sopra il Vangelo: giuri su colui che ne è l'ispiratore. Chiunque abbia l'abitudine di giurare su Dio o su suo Vangelo con leggerezza, pecca.

 

    2. Il nome santo può essere invocato per santificare le cose. Lo facciamo nel conferire il battesimo, del quale san Paolo dice: «[Eravate esclusi dalla eredità del regno di Dio, ma] siete stati mondati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore nostro Gesù Cristo» (I Cor 6, 11). Il sacramento riceve la propria efficacia esattamente in forza dell'invocazione della Trinità. E Geremia invocava sul popolo il nome del Signore (cf. Ger 14, 9).

 

    3. Lo adoperiamo per scacciare l'Avversario. Prima di somministrare il battesimo si procede alla rinunzia d'ogni rapporto con il diavolo. Un tuo ritorno al peccato equivarrebbe al vano uso del nome salvifico.

 

    4. Usarlo [correttamente] è lo stesso che enunciare la propria fede in Dio. «Come [i pagani] invocheranno uno in cui non credono [per non averne sentito parlare]?» (Rm 10, 14). Invece «chiunque invocherà il nome del Signore [con fede] sarà salvo» (Rm 10, 13).

    La nostra dichiarazione di fede può essere verbale, quando parliamo della gloria di Dio: «Sono creature che mi glorificano tutti coloro che invocano il mio nome» (Is 43, 7). Usi male del suo nome se denigri la gloria che spetta al Signore.

    La fede può esprimersi concretamente, nel compimento di quelle opere che tornano a gloria di Dio. «La vostra luce risplenda davanti agli uomini, affinché essi vedano le vostre buone opere e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5, 16). Fanno il contrario coloro di cui parla l'Apostolo: «Per colpa vostra il nome di Dio è oggetto di derisione tra i pagani» (Rm 2, 24).

 

    5. È un valido rifugio. «Solida torre è il nome del Signore: il giusto vi cerca riparo e si sente al sicuro» (Prv 8, 10). Gesù promette la vittoria sui demoni a chi invocherà con fede il proprio nome (cf. Mc 16, 17), l'unico nome di cui gli uomini possano disporre per conseguire la salvezza (cf. At 4, 12).

 

    6. Infine, nel nome di Dio si concludono egregiamente le imprese umane. Ce lo raccomanda l'Apostolo: «Qualunque cosa si compia da parte vostra, in parole o in opere, tutto fate nel nome del Signore Gesù Cristo, rendendo per mezzo suo, grazie a Dio Padre» (Col 3, 17). «Nostro aiuto è il nome del Signore, che ha creato i cieli e la terra» (Sal 123, 8).

    Quindi, se uno comincia a fare qualcosa nel nome di Dio e poi non la porta a compimento, come nel caso di un voto inadempiuto, anche costui ha fatto un uso indebito del nome santo. «Quando hai fatto un voto a Dio, non indugiare a soddisfarlo poiché egli non ama gli stolti: quello che hai promesso, adempilo. E meglio non far voti, che farli e poi non mantenerli... Perché dar motivo a Dio di sdegnarsi per le tue parole?» (Sir 5, 3; cf. 75, 12).

 



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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19/06/2013 11:01
 
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[SM=g1740758] 3. «Ricordati del giorno di riposo, per santificarlo» (Esodo 20, 8)

 

    Occupa convenientemente il terzo posto, dato che prima dobbiamo venerare Dio col cuore, indi con le parole, e prestargli infine il dovuto ossequio nell'agire. Per questo egli ha stabilito che gli uomini avessero un giorno determinato, in cui dedicarsi [più interamente] al suo servizio.

    Tale opportunità è ben motivata.

 

    I. Il comandamento del giorno sabatico (172) doveva confutare l'errore - previsto dallo Spirito Santo - di quei filosofi che avrebbero sostenuto l'esistenza ab aeterno del creato. «Negli ultimi giorni verranno degli uomini beffardi, schernitori, che vivono secondo le loro passioni. E diranno: dov'è la promessa della sua venuta? Poiché, da quando i padri sono morti, tutto è rimasto come era fin dal principio della creazione. Ma essi a bella posta vogliono ignorare come in principio vi erano i cieli e una terra, che la Parola di Dio aveva fatto emergere dalle acque» (2 Pt 3, 3-5).

    Dio ha voluto che, a ricordo della creazione operata in sei tempi - nonché del settimo, in cui egli cessò dal chiamare altre creature all'esistenza -, osservassimo anche noi un giorno di riposo. È appunto il «ricordati di santificare la festa».

    I giudei celebravano di sabato la memoria della prima creazione. Cristo operò la seconda proprio il giorno in cui si concludeva la settimana [giudaica]. Da questa seconda creazione non ebbe origine l'uomo terrestre, bensì l'uomo spirituale: la nuova creatura, quella che ha valore agli occhi del Padre (cf. Gal 6, 15). Essa prese a vivere in forza della risurrezione di Gesù (cf. Rm 6, 4-5). Ora, la risurrezione del Signore avvenne nel giorno che i cristiani hanno a lui dedicato. Per questo noi celebriamo la domenica [giorno della risurrezione, o della nuova creazione], come i giudei avevano il sabato in venerazione.

 

    2. Esso ha valore di insegnamento religioso intorno al redentore, il cui corpo nel sepolcro fu esente dal processo di decomposizione. La sua carne, secondo il salmista, riposò nella speranza (cf. Sal 15, 9), ossia nella certezza che «il Santo» non sarebbe stato abbandonato alla corruzione della morte (cf. Sal 15, 10). Con la quiete del giorno festivo è simboleggiata la sua deposizione dalla croce, come i sacrifici ne prefigurarono la morte. Noi non pratichiamo più i riti sacrificali dell'antica alleanza per il motivo che, sopraggiunta la realtà messianica, i simboli hanno perso il loro significato. Col sorgere del sole svaniscono le ombre notturne. Tuttavia veneriamo il sabato in onore della gloriosa Vergine che pure in tal giorno serbò la fede nel Cristo, sebbene [come uomo] lo sapesse morto.

 

    3. Poi [tale precetto] ha il compito di dar maggiore efficacia alla promessa quiete [eterna], allorché si avvererà qualcosa di assai più grande e durevole di quanto profetava Isaia ai deportati in Babilonia: «Il Signore ti darà riposo dalla tua pena, dai tuoi affanni e dalla dura servitù in cui eri tenuto» (Is 14, 3) e abiteremo in un soggiorno di pace, in dimora sicura, in luoghi di perfetta quiete (cf. Is 23, 18).

    L'uomo attende di potersi riposare sia dal peso della vita terrena, sia dagli assalti delle tentazioni, sia dalla dipendenza da satana. Cristo ha promesso tutto ciò a coloro che seguiranno lui: «Venite a me voi tutti che siete affaticati e stanchi, e io vi darò completo riposo. Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me, perché sono mite e umile di cuore; e troverete pace per le anime vostre; poiché il giogo è soave, e leggero il mio peso» (Mt 11, 28-30).

    Dobbiamo riflettere sul fatto che se il Creatore operò in sei fasi (173), riposandosi in quella successiva, lo fece per mostrarci che ogni cosa dev'essere compiuta nel miglior modo possibile. Anche se avremo faticato poco, troveremo un abbondante riposo (cf. Sir 51, 35), poiché l'eternità eccede senza paragone il tempo presente: assai più che mille anni di fronte alla durata di un giorno (cf. Sal 89, 4).

 

    4. Esso si rivela quale mezzo adattissimo ad alimentare l'amore verso Dio. Da un lato è vero che «il nostro corpo corruttibile è di peso all'anima, e questa abitazione di argilla grava la mente nei suoi pensieri» (Sap 9, 15), ossia l'uomo tende sempre a cose che sono inferiori a lui per natura, se non cerca di sottrarsi al loro fascino. Opportuno quindi un giorno che faciliti questa elevazione.

    Vi sono uomini che stabilmente si dedicano alla quiete [della contemplazione], che sembrano ripetere in continuazione: «Benedirò il Signore in ogni tempo» (Sal 33, 2) e fan proprio l'invito dell'Apostolo di pregare senza intermissione (cf. I Ts 5,17): vivono quasi un lungo giorno consacrato a Dio.

    Altri ve ne sono, che fanno questa offerta del loro tempo a intervalli regolari. Ad esempio, lodano il Signore sette volte al dì [nella recita del divino ufficio]. Affinché i rimanenti uomini non si scordassero di Dio completamente, è stato necessario assegnar loro un giorno stabilito: l'unico modo per evitare che il loro amore verso di lui si raffreddi troppo. Anch'essi potranno gustare le delizie dell'incontrarsi con Dio, venerandolo almeno nel giorno del riposo (cf. Is 58, 13-14), e con Giobbe troveranno gioia nell'Onnipotente, nel sollevare il volto e il cuore verso di lui (cf. Gb 22, 26).

    Il giorno della festa non è stato istituito perché l'uomo lo trascorra per intero nei divertimenti, bensì per rendere più intensa la lode e la preghiera (174). Sant'Agostino sosteneva che arare in giorno di festa sarebbe stato un male minore che immergersi senza freno nei passatempi.

 

     5. Con esso ci viene fornita la possibilità di esercitare le opere di misericordia. È sempre esistita infatti gente che, disumana verso sé e verso gli altri, non smetterebbe mai d'affaticarsi pur di accumulare nuovi guadagni. Ordina perciò il Signore: «Osserva il giorno del riposo santificandolo, come il Signore, Iddio tuo, ti ha comandato. Lavora sei giorni... ma al settimo c'è riposo, è sacro al Signore, Iddio tuo; non fare nessun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava... affinché anch'essi possano prender fiato al pari di te» (Dt 5, 12-14).

    «Ricordati di santificare il giorno del riposo». Abbiamo detto che, mentre i giudei celebravano il sabato, noi cristiani dedichiamo al Signore la domenica e altre feste tra le principali. Vediamo adesso come convenga vivere tali giornate.

    Cominciamo intanto col far notare che la Scrittura non dice semplicemente «osserva», bensì «ricordati di santificare» il giorno di festa.

    Santo si può intendere in due sensi. Indica ciò che è puro («Voi siete stati lavati, siete stati santificati» (I Cor 6, 11)), o una cosa consacrata al culto di Dio (e può dirsi santo un luogo, un determinato tempo, le vesti e i vasi sacri). Ebbene, la festa dobbiamo celebrarla tenendo presenti entrambi i significati del termine. Dobbiamo cioè dedicarci al giorno del riposo con animo puro, attendendo in prevalenza al divino servizio. Bisognerà astenersi da alcune cose, e farne invece alcune altre.

    Evitare cioè tre generi di occupazioni, cominciando dai lavori servili. «Abbiate cura... di non portare un peso in giorno di sabato... In tale giorno non fate alcun lavoro» (Ger 17, 22); altrettanto prescriveva il Levitico: «Non farete in quel giorno alcuna opera servile» (Lv 23, 25). Per opera servile deve intendersi quella che affatica il corpo: infatti l'attività liberale è propria dell'anima, come il pensare e simili occupazioni più spirituali, riguardo alle quali l'uomo non può subire costrizioni.

    Tuttavia, quattro scusanti possono giustificare il lavoro fisico nel giorno festivo.

    La necessità: il Signore stesso difese i discepoli che [per sfamarsi] coglievano spighe di sabato (cf. Mt 12, 1-2). Per l'utilità della Chiesa: così il Vangelo narra che i sacerdoti in quel giorno compivano tutto ciò che era richiesto dai sacrifici cultuali (cf. Mt 12, 1-5). Per aiutare il prossimo: Gesù curò di sabato l'uomo dalla mano inaridita, e ridusse al silenzio quei giudei che lo avevano contestato, portando loro l'esempio della pecora tratta in salvo (cf. Mt 12, 10-13). Per ordine della superiore autorità: ad esempio, il Signore ordinò che gli israeliti praticassero la circoncisione anche di sabato (cf. Gv 7, 22-23).

    Poi dovremo astenerci [più che mai nel giorno sacro] dalle colpe. Si può qui applicare l'avvertenza di Geremia: «Se volete salva la vita, non portate pesi di sabato» (Ger 17, 21), poiché il peccato è un tremendo fardello per l'anima, che faceva sospirare Davide: «Le mie iniquità... come un grave peso mi opprimono» (Sal 37, 5).

    Orbene, anche il lavoro servile può costituire peccato, una specie di schiavitù interiore (cf. Gv 8, 34). Cosicché l'invito a non compiere lavori servili nel tempo della festa, può intendersi come un ulteriore invito a non cadere in peccato. Viola quindi questo precetto chi pecca nel giorno di festa. Potrebbe ripeterci il profeta, a nome del Signore: «I vostri sabati e le adunanze rituali non le posso soffrire» (Is I, 13-14). E sapete perché? Per il fatto che «il vostro è un ritrovarsi che sa d'iniquo» (Is I, 13-14). Per questo Jahvè dichiarava di odiarle, d'essere stanco di sopportarle.

    Va evitata l'inerzia totale. «L'ozio è il maestro di tutti i vizi» (Sir 33, 29), per cui Girolamo raccomandava a Rustico: «Abbi sempre qualcosa da fare, in modo che il demonio ti trovi continuamente occupato». Non sarebbe nel giusto chi si contentasse di osservare le feste principali, per poi restarsene in ozio nei rimanenti giorni. «Fa onore al re osservare la giustizia» (Sal 98, 4), nel nostro caso il discernimento. Nella storia dei Maccabei si racconta che alcuni israeliti si erano nascosti e, (convinti che. non fosse lecito neppur difendersi di sabato, quando i nemici irruppero su di loro li massacrarono (cf. I Mac 2, 29-38). Accade qualcosa di simile a molti che trascorrono inerti i giorni della festa. «La videro i suoi nemici, e risero dello stato di abbandono [in cui giaceva Gerusalemme]» (Lam I, 7). Era assai meglio imitare quegli altri giudei che stabilirono, prudentemente: «Chiunque venga a battaglia contro di noi in giorno di sabato, combatteremo contro di lui, per non morire» (I Mac 2, 41).

    «Ricordati di santificare la festa». Sin qui si è veduto che santo può avere il senso di cosa monda o consacrata a Dio. E abbiamo esaminato pure da quali pratiche ci si debba astenere per la durata del giorno festivo.

    Vediamo adesso quali siano le specifiche occupazioni dei giorni santi.

    È conveniente innanzitutto attendere all'offerta del sacrificio. Jahvè prescrisse che ogni giorno gli fossero immolati due agnelli, uno al mattino, l'altro all'ora del véspro. Ma di sabato l'offerta doveva essere raddoppiata (cf. Nm 28, 9). E questo indica che nel giorno festivo dobbiamo offrire a Dio in sacrificio, per intero, il nostro essere. «Tutto proviene da te, e noi non facciamo che restituirti quello che la tua mano ci ha dato» (I Cr 29, 14).

     Rimettiamo nelle sue mani la nostra anima, dolendoci dei peccati commessi («Sacrificio a Dio è uno spirito contrito» (Sal 50, 19) e ringraziandolo dei benefici («S'innalzi la mia preghiera come un incenso al tuo cospetto» (Sal 140, 2)). Il giorno festivo infatti è particolarmente idoneo a procurarci quella letizia spirituale che promana dalla preghiera, per cui in tal giorno dovremo moltiplicare il nostro dialogo col Signore.

    È giusto affliggere il corpo, [tra l'altro] mediante il digiuno («Vi esorto, o fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi quale ostia viva» (175) oltre che mediante la lode («L'offerta della lode mi onorerà» (Sal 49, 23); perciò nel giorno festivo vengono moltiplicati i canti.

     Farai bene a sacrificare qualcosa dei tuoi averi, distribuendo il superfluo. «Non vogliate dimenticarvi della beneficenza e della comunione [nella carità], poiché con tali vittime si guadagna la benevolenza di Dio»  (Eb 13, 16). Una carità operosa e più abbondante che negli altri giorni della settimana, facendo sì che la letizia divenga generale. «Mandate una parte [dei vostri cibi e delle vostre bevande] a quelli che non han potuto preparare nulla, perché questo giorno è sacro al Signore» (Ne 8, 10).

    Dobbiamo inoltre dedicarci alla meditazione delle divine verità, come fanno tuttora gli ebrei. «Gli oracoli dei profeti si leggono tutti i sabati» (At 13, 27). Dunque, i cristiani, che devono mostrarsi più perfetti di loro, devono frequentare la chiesa per ascoltarvi la parola di Dio e i canti della liturgia. «Chi è da Dio, ascolta le parole di Dio» (Gv 8, 47).

    Il nostro parlare dev'essere [più che mai] teso alla edificazione del prossimo: «Non esca dalla vostra bocca alcun cattivo discorso, ma tale che sia atto a insegnare le verità della fede e risulti utile a coloro che ascoltano» (Ef 4, 29). Ciò, assieme alla riflessione sulla divina parola, fa del bene a chi vive nel peccato, poiché mutano in meglio le sue disposizioni interiori. «La mia parola non è forse come il fuoco, dice il Signore, come il martello che frantuma le pietre?» (Ger 23, 29).

    Non ne ricavano frutto invece quei buoni che non si preoccupano di comunicare ad altri la Parola che hanno ascoltato, oppure non l'ascoltano essi stessi. «I cattivi discorsi corrompono i costumi virtuosi. State all'erta, voi giusti, e non peccate» (I Cor 15, 33-34); e un salmo ci esorta alla continua meditazione della legge di Dio, quale mezzo validissimo per evitare di offenderlo (cf. Sal 118, 11). La dottrina [del Signore] infatti istruisce chi non sa («La tua parola è una lampada dinanzi ai miei piedi, una luce sui miei sentieri» (Sal 118, 105), e infervora il tiepido: «La parola del Signore lo infiammò» (176).

    Infine, sarà utile dedicarci alle pratiche che alimentano la pietà, come fanno i più progrediti [nella vita spirituale]. «Fate esperienza di quanto sia soave il Signore» (Sal 33, 9). Ne trarrà vantaggio l'anima, innanzi tutto: l'anima che desidera quei momenti di quiete, non meno che il corpo affaticato. E non c'è luogo in cui lo spirito si senta rinascere, meglio che accanto al Signore. «Sii per me un Dio protettore e un luogo in cui sentirmi al riparo» (Sal 30, 3). Resta in vigore [anche per noi cristiani] un giorno in cui poter riposare: chi partecipa del riposo di Dio, trova ristoro dalle proprie fatiche (cf. Eb 4, 9-10). Rientrati nella quiete dello spirito, ci riposeremo in compagnia della Sapienza (cf. Sap 8, 16).

    Prima però di poter giungere a questa pace, l'anima deve purificarsi da tre motivi d'inquietudine. Dal travaglio che è frutto del peccato («Il cuore dell'empio è simile a un mare in tempesta, che non riesce a calmarsi») (Is 57, 20); dalle passioni della carne, giacché «la carne ha desideri opposti a quelli dello spirito e lo spirito desideri contrari a quelli della carne» (Gal 5, 17); dalle occupazioni profane. «Marta, Marta tu t'inquieti e ti affanni per troppe cose» (Lc 10, 41).

    Dopo, sì, l'anima può, senza impacci, riposare in Dio, stare nell'intimità del suo Signore (cf. Is 58, 13-14).

    Ecco perché i santi hanno preferito sempre staccarsi da tutto: questa [pace dell'anima] è simile alla perla di gran valore, di cui parla Matteo: il mercante che ne ha scoperto l'esistenza si dà da fare, e investe in essa il suo capitale pur di entrarne in possesso (cf. Mt 13, 46).

    È [un anticipo del]la vita eterna, [del] gaudio interminabile. È il luogo del nostro riposo, dove abbiamo scelto di abitare per sempre (cf. Sal 131, 14). E che Dio ci accompagni!

 

    4. «Onora tuo padre e tua madre, affinché siano prolungati i tuoi giorni sopra la terra che il Signore, tuo Dio, ti dà» (Esodo 20, 12)

 

    La perfezione dell'uomo, dunque, consiste nell'amare Dio e il prossimo. I primi tre comandamenti riguardanti la carità verso Dio erano incisi sulla prima delle tavole di pietra; sulla seconda, i rimanenti sette, relativi alla carità verso se stessi e gli altri uomini.

    Non possiamo limitarci a esprimere solo verbalmente questo nostro amore: come raccomanda l'apostolo Giovanni, dobbiamo manifestarglielo in concreto e con sincerità (cf. I Gv 3,18), evitando di nuocergli e, al contrario, facendo gli tutto il bene possibile. Ecco perché tra i comandamenti ne troveremo alcuni che invitano a ben fare, altri invece che vietano di recar danno al prossimo.

    Si noti però che mentre rientra nei limiti delle nostre capacità il cercar di non ledere il prossimo, mai riusciremmo a beneficiare tutti quanti i bisognosi. Dice in proposito sant'Agostino che tutti devono esser oggetto del nostro amore, ma non siamo tenuti ad aiutare ciascuna persona in particolare.

    La precedenza spetta ai congiunti, poiché «se uno non ha cura dei suoi, e massimamente di quelli della propria famiglia, ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele» (I Tm 5, 8). Primi fra tutti, nostro padre e nostra madre. Scrive Ambrogio che «Dio va amato per il primo, ma subito appresso vengono i genitori». E Aristotele ce ne fornisce la ragione: mai potremo ricambiare interamente la somma di benefici che, in quanto figli, abbiamo ricevuto dai nostri genitori. Offeso gravemente, un padre potrebbe giungere a scacciare suo figlio, mentre costui non potrà fare altrettanto, in nessun caso.

    I genitori danno ai figli tre sorta di beni. L'inizio della terrena esistenza. «Onora tuo padre con tutto il cuore e non dimenticare le pene sofferte da tua madre. Ricordati che senza di loro mai saresti venuto al mondo» (Sir 7, 27-28). Il nutrimento e tutto il resto che è necessario per vivere; un figlio nasce nudo, e riceve dai genitori riparo e vesti. Essi, infine, provvedono alla sua educazione. «Per precettori abbiamo avuto i nostri parenti carnali» (Eb 12, 9). «Hai dei figli? Allevali bene» (Sir 7, 23).

    Due sono gli insegnamenti di base che occorre dare ai figli il più presto che si può, considerando che «abituato il fanciullo a una buona condotta, egli non l'abbandonerà nemmeno quando comincerà a invecchiare» (Prv 22, 6). È un bene che l'uomo si avvezzi al giogo [della disciplina] fin da piccolo (cf. Lam 3, 27).

    Queste due raccomandazioni fondamentali son le medesime che Tobia dava al proprio figliolo: il timor di Dio e la fuga da ogni specie di ingiustizia (cf. Tb 4, 6). Una simile impostazione esemplare condanna quei genitori che, all'opposto, godono delle malefatte dei propri figli. [Dal canto loro] «i figli nati da unioni illegittime, nel giorno del giudizio attesteranno l'immoralità dei genitori» (Sap 4, 6), e talvolta Dio punisce il peccato dei genitori nella loro prole (177).

    E allora evidente che, ricevendo la vita, il nutrimento e l'educazione, noi dobbiamo avere nei loro riguardi un rispetto maggiore di quello che si ha verso gli altri superiori da cui otteniamo determinati beni temporali. Dopo Dio, che ci ha dato l'anima, vengono i genitori. «Chi teme il Signore, onora suo padre, e serve i propri genitori come suoi signori: essi lo hanno generato, ed egli [li ricambia] coi fatti e le parole, con grande condiscendenza. Figlio mio, onora tuo padre... affinché riposi su di te la sua benedizione» (Sir 3, 8-10).

    Così facendo, tu onori te stesso. Difatti, come afferma la Scrittura, «la gloria di un uomo sta nell'onore di suo padre, mentre fa vergogna a un figlio un padre disonorato» (Sir 3, 13).

    Essi provvidero alle nostre necessità per tutto il tempo della fanciullezza; quindi dobbiamo pensare a essi, al sopraggiungere della tarda età. «Figlio, soccorri tuo padre nella sua vecchiaia e non lo contristare durante la sua vita. Anche se gli vien meno la mente, abbine compassione: non disprezzarlo vantandoti del tuo vigore» (Sir 3, 14-15). «Quanto spregevole è chi trascura suo padre! e chi disgusta sua madre è maledetto da Dio» (Sir 3, 18).

    Cassiodoro, per umiliare certi figli snaturati, narra che le giovani cicogne usano ricoprire con le proprie penne i genitori che, a causa dell'età, le hanno perdute, e li nutrono dividendo con loro il cibo, non essendo quelli più in grado di procurarselo. Una commovente delicatezza, questo restituire quanto si ricevette in dono nei primi anni della vita!

    Essi ci hanno dato un'educazione, e dobbiamo ubbidire. «Figlioli, siate ubbidienti in tutto ai genitori» (Col 3, 20): in tutto, tranne ovviamente in ciò che fosse peccato. In tal caso la sola, vera pietà [filiale] sarà il mostrarsi irremovibili, come san Girolamo consiglia a Eliodoro. Del resto, conosciamo tutti le parole di Gesù: «Se uno non ama meno di me il padre e la madre, non è degno di me» (Lc 14, 26). Dio infatti è il nostro padre più vero: forse non è lui «che t'ha procreato, colui che t'ha fatto e per cui tu sussisti?» (Dt 32, 6).

    «Onora tuo padre e tua madre». Solo a questo comandamento fa seguito una postilla: «affinché ti siano prolungati i giorni sopra la terra», onde cioè rassicurarci che sebbene si tratti di precetto conforme a natura, gli è stato annesso un premio da parte di Dio.

    Ben cinque [anzi] sono i beni destinati a quanti tengono nel dovuto ossequio i propri genitori.

 

    I. La grazia, attualmente, e in futuro l'eterna gloria: due cose desiderate in sommo grado. La benedizione paterna accompagnerà il figlio rispettoso sino alla fine (cf. Sir 3, 9-10), mentre assai diversa è la sorte di chi oserà insultare i genitori: sono maledetti, tali figli, perfino della legge, come si può vedere nelle pagine del Deuteronomio (cf. Dt 27, 16).

    L'evangelista Luca ci ricorda che «chi è ingiusto nelle piccole cose, è ingiusto anche nelle grandi» (Lc 16, 10); orbene, la vita fisica è quasi un nulla a paragone della vita di grazia. Perciò, se ti mostri ingrato riguardo al beneficio primario che ricevesti dai tuoi genitori, ti rendi indegno di esser ammesso alla vita soprannaturale della grazia (maggiore della precedente), e assai più indegno della vita eterna di gloria, massimamente desiderabile.

    2. Altra cosa che gli uomini bramano è la longevità. La Scrittura promette una vita più lunga a chi onora i genitori (cf. Sir 3, 7). Fa attenzione però che una vita è veramente lunga quando è piena di [autentici] beni. Essa non si misura, infatti, in base alla durata temporale bensì all'attività, come insegna il filosofo (Aristotele). Un'esistenza ricca di opere virtuose. Quindi può dirsi con verità che l'uomo onesto, e [tanto più] il santo, ha vissuto a lungo anche se morisse giovane. È per lui l'elogio della Sapienza: «Divenuto perfetto in breve tempo, compì le opere di una lunga vita. La sua anima era gradita a Dio» (Sap 4, 13-14).

    Fa degli ottimi affari quel tale che in una giornata riesca a combinare quanto ad altri riesce di concludere nell'arco di un anno intero. E non dimentichiamo neppure che, alle volte, un protrarsi dell'esistenza terrena può condurre a una [triste] morte e fisica e spirituale, vedi il caso di Giuda.

    Chi tribola i genitori raccoglie frutti mortiferi. Dai nostri genitori ricevemmo la vita, come gli uomini d'arme hanno in custodia dal re un feudo. E se è giusto che, in pena del loro tradimento, i feudatari perdano la signoria di cui godevano, così non sono degni di vivere quei figli che sono ingiusti verso chi li mise al mondo. «L'occhio che schernisce il padre e disprezza l'età della madre, sia cavato dai corvi della valle e lo divorino i figli dell'aquila» (Prv 30, 17). (Le giovani aquile possono raffigurare i re e i principi, i corvi gli ufficiali subalterni).

    Se non sempre la morte precoce viene a punire i figli ingrati, non per questo potranno sperare d'essere sfuggiti alla morte spirituale.

    Dal canto suo, un padre non deve eccedere nel lasciare ai figli troppa libertà; non dovrà mai rinunziare interamente all'autorità paterna (cf. Sir 33, 21; 20).

 

    3. Chi ha saputo onorare i propri genitori, avrà in sorte a sua volta figli riconoscenti e amabili. E nell'ordine delle cose che un padre accumuli beni per i figli. Non altrettanto sicura è la gratitudine da parte di questi ultimi. Però «chi avrà rispettato suo padre, sarà allietato dai figli» (Sir 3, 6). Anche qui può ripetersi: «Nella misura in cui avrete misurato, sarà misurato a voi» (Mt 7, 2).

 

    4. Ne deriva una buona fama. «La gloria di un uomo sta nell'onore di suo padre» (Sir 3, 13) e, al contrario, «quanto è spregevole colui che non si cura [delle necessità] di suo padre» (Sir 3, 18)!

 

    5. Forse verranno anche le ricchezze. «La benedizione del padre consolida le famiglie nate dalla sua prole; la maledizione della madre ne sradica le fondamenta» (Sir 3, 11).

    «Onora tuo padre e tua madre», dunque. Si noti però che il rispetto è dovuto non solo a coloro che ci hanno fisicamente generato, bensì a chiunque possa dirsi nostro padre o nostra madre per altri titoli. Anch'essi meritano l'ossequio da parte nostra.

     Chiamiamo infatti padri gli apostoli e altri santi che hanno alimentato la nostra fede con la dottrina e l'esempio. «Quand'anche aveste migliaia di maestri in Cristo, non avreste tuttavia molti padri. Difatti io vi ho generati in Cristo Gesù per mezzo del vangelo» (1 Cor 4, 15). Anche altrove la Scrittura ci invita a tessere l'elogio degli uomini pii, che hanno contribuito ad alimentare in noi l'amore per la vita integra (cf. Sir 44, 1). Ma che sia una lode fatta non semplicemente di belle parole. Imitiamoli, con la maggiore fedeltà possibile. «Ricordatevi dei vostri capi spirituali, che vi predicarono la parola di Dio: e considerando quale fu il termine della loro vita, imitatene la fede» (178).

     Chiamiamo giustamente padri anche i nostri superiori. Dobbiamo venerarli in quanto ministri di Dio. Ha detto Gesù, rivolto a essi: «Chi ascolta voi, ascolta me; chi vi disprezza, è me che disprezza» (Lc 10, 16). Venerarli mediante l'ubbidienza. «Ubbidite a coloro che vi guidano e siate disciplinati, perché essi vegliano sulle vostre anime e dovranno renderne conto» (Eb 13, 17). È giusto, inoltre, contribuire al loro sostentamento.

     Sotto un analogo profilo vanno considerati anche i nostri governanti. Ad esempio, i servi si rivolsero a Naam, capo dell'esercito del re dell'Aram, con l'appellativo di «Padre» (2 Re 5, 13), e ciò in quanto [i sovrani e i loro ministri] hanno il compito di promuovere il bene dei sudditi. Comportiamoci, a nostra volta, da sudditi leali. Insegna l'apostolo Paolo: «Ognuno sia soggetto alle autorità superiori poiché non c'è autorità che non venga da Dio. Chi si oppone all'autorità, resiste all'ordine stabilito da Dio» (Rm 13, 2). E non già in quanto mossi dal timore, non per la sola paura del castigo, ma spinti dall'amore [almeno del bene comune], secondo una retta coscienza. Il motivo lo si è visto, poiché come ha detto l'Apostolo, il potere trova in Dio la sua origine; quindi è un debito da soddisfare, in diversi modi: «A chi è dovuta l'imposta [sia versata] l'imposta; a chi la gabella, la gabella. A chi [spetta] la riverenza, la riverenza; a chi l'onore, l'onore» (179). «Figlio mio, temi il Signore e il re» (Prv 24, 21).

   Hanno diritto a una particolare benevolenza, i benefattori. Essi ascoltarono l'invito del Signore (cf. Sir 4, 10), aiutando ci come fa un padre, perciò noi siamo tenuti a ricambiare. «Non dimenticare - ad esempio - la bontà di chi ti è stato garante: egli ha esposto la sua vita per te» (Sir 29, 20). Agli ingrati potranno applicarsi le parole della Sapienza: «La speranza dell'ingrato svanirà [quando egli tornerà a trovarsi nel bisogno] come brina invernale e si disperderà come inutile acqua che passa» (Sap 16, 29).

    C'è infine una paternità che deriva dalla canizie. Gli anziani contribuiscono al tuo sapere, insieme ai genitori (cf. Dt 32, 7). «Alzati in piedi davanti a chi ha già i capelli bianchi; onora i vecchi» (Lv 19, 32). «In mezzo ai grandi non ritenerti pari e quando uno [di essi] parla non prender tu la parola» (180); e ancora: «Ascolta in silenzio: in cambio del rispetto che dimostri, sarai ben voluto» (Sir 32, 9).

    Tutti costoro, dunque, devono esser trattati con particolare onore: hanno in sé un qualche riflesso del Padre che sta nei cieli. Avendo in mente anche loro, Gesù ha detto: «Chi disprezza voi, disprezza me» (Lc 10, 16).




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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19/06/2013 11:01
 
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5. «Non uccidere» (Esodo 20, 13)  

 

    Tra i diversi mali da cui la legge divina intende tenerci lontani, il massimo che possiamo recare al prossimo è quello di privarlo della vita. Ciò è espressamente proibito dal quinto comandamento.

    Vi sono state in proposito tre erronee interpretazioni.

    Taluni sostennero che non sia lecito uccidere neppure le bestie. Ma è falso, dato che non vi può essere alcun male nel [retto] uso delle creature che sono soggette al dominio dell'uomo. Rientra nel disegno naturale che le piante siano alimento per gli animali, come taluni di questi serviranno a nutrire gli altri, e tutto ciò che è commestibile è ordinato al sostentamento del genere umano. «Tutto ciò che si muove e che ha vita vi servirà da cibo: io vi do tutto questo, come vi detti l'erba verde» (Gn 9, 3). Anche Aristotele insegna, nel suo trattato di Politica, che la caccia va considerata alla stregua d'una giusta guerra.

    Anche san Paolo ci rassicura: «Mangiate di tutto quello che si vende al mercato, senza preoccuparvi di niente per scrupolo di coscienza, perché 'del Signore è la terra con tutto quello che essa contiene'» (I Cor 10, 25; cf. Sal 23, 1). Quindi il «non uccidere» equivale a non uccidere l'uomo.

     Altri hanno creduto di vedere nel precetto in questione il divieto assoluto di qualsiasi condanna a morte. Sarebbero degli omicidi, secondo costoro, gli stessi giudici secolari che comminassero, a norma di legge, la pena capitale. Li contraddice però Agostino, facendo notare come Dio non può perdere, a motivo del quinto comandamento, i suoi diritti sopra la vita umana. «Son io che posso far morire, e sempre io l'unico capace di ridar la vita» (Dt 32, 39). Di conseguenza è lecito anche a coloro che, per mandato divino, esercitano la giustizia. Agiscono in rappresentanza di Dio, dato che ogni [giusta] legge promana da lui: «È nel mio nome che regnano i re, e i magistrati applicano il diritto» (Prv 8, 15). Così ragiona l'Apostolo: «Vuoi non aver paura dell'autorità? Comportati bene e riceverai la sua approvazione. Se invece agisci male, temi; non per nulla porta la spada; essendo ministra di Dio, deve punire chi opera il male» (Rm 13, 3-4.). Anche a Mosè fu raccomandato [per il bene del popolo eletto]: «Non permettere che viva chi si è rivelato nocivo» (181). Facoltà analoga appartiene ai rappresentanti di Dio, che ne ricevano da lui il mandato. In altri termini, se Dio, autore della legge, non infrange la medesima infliggendo la pena di morte prevista per determinati peccati (182), non pecca chi ne esegue il volere. Senso autentico del precetto è dunque: «Non uccidere (di tua iniziativa)».

     Nel comandamento «non uccidere» altri vollero vederci la proibizione di attentare alla vita altrui: il suicidio così risulterebbe lecito. Citavano il caso di Sansone (cf. Gdc, 16, 28-30), di Catone (183), e di un certo numero di vergini [cristiane] che, come racconta Agostino nel De civitate Dei, si gettarono tra le fiamme [per sfuggire agli aggressori]. Ma è lo stesso dottore della Chiesa che formula un giudizio negativo: «Chi si uccide, uccide una persona umana». Ora, se non è lecito privare alcuno della vita, tranne che per comando divino, neppure può esser consentita l'uccisione di se stessi; a meno che non sia ancora Dio a ordinarlo o [lo consenta] mediante un impulso dello Spirito, come si crede avvenisse a Sansone. Diversamente: non uccidere e non ucciderti.

     Un uomo può divenire omicida in diversi modi. Fisicamente, macchiandosi le mani di sangue (cf. Is I, 15), il che non solo va contro il dovere di amare il prossimo come amiamo noi stessi (e un omicida si priva della grazia che è seme di vita eterna (cf. I Gv 3, 15), ma va contro l'istinto naturale. Difatti «ogni essere vivente è attratto da quelli della sua specie» (Sir 13, 19). Per questo, Dio prescrisse a Mosè di mettere a morte chi avesse percosso un altro, da farlo morire (cf. Es 21,12). L'assassino è più crudele del lupo, del quale si legge che rifiuta di cibarsi della carne di un suo simile (184).

     Anche con la bocca si può dare la morte, ad es. istigando qualcun altro a commettere omicidio, oppure ricorrendo alla provocazione, accusando [ingiustamente] o calunniando. È proprio vero che [spesso] «gli uomini hanno lance e saette al posto di denti, e per lingua una spada acuta» (Sal 56, 5).

    Dando manforte a chi non esita a versare il sangue. Ed equivale a condividere la responsabilità nel crimine (cf. Prv 1, 15) il frequentare uomini malvagi.

    Lo stesso si dica di chi approva l'operato di un [ingiusto] uccisore. «Chi fa cose inique - e fra le altre iniquità c'è l'omicidio - è degno di morte; e non solo chi le fa, ma anche chi le approva» (Rm 1, 32). E bada che tu dai il consenso quando, potendo intervenire, non fai nulla per sventare un delitto. «Libera chi [innocente] è condotto a morte» (Prv 24, 11). Casi analoghi: se ne hai i mezzi ma, per negligenza o avarizia, neghi il tuo soccorso a chi sta nel bisogno. «Dai da mangiare, scrive sant'Ambrogio, a chi muore di fame: se ti rifiuti, hai finito d'ucciderlo ».

    Abbiamo parlato di chi uccide una persona fisicamente. C'è anche chi spegne nell'anima la vita della grazia, col trascinarla nel peccato mortale. Satana «fu omicida dal primo momento» (Gv 8, 44), sospingendo l'uomo appunto verso la colpa grave. C'è pure chi nel medesimo tempo, uccidendo una donna incinta, danneggia il bimbo quanto alla vita fisica, e quanto ai diritti della sua anima (185). Uguale danno fa a se stesso il suicida.

    «Non uccidere». Nel vangelo secondo Matteo, Cristo ci ha lasciato questo ammaestramento: che la nostra giustizia dev'essere superiore a quella ispirata dall'antica legge (cf. Mt 5, 21-22). I cristiani cioè devono osservare con impegno maggiore i precetti evangelici, di quanto i giudei non praticassero le prescrizioni legali. Una fatica più grande meriterà migliore ricompensa, poiché «chi semina poco mieterà poco, mentre chi semina molto, mieterà anche molto» (2 Cor 9, 6). Nella legge [mosaica] erano promesse ricompense temporali e terrene: «Se sarete docili e ubbidirete, avrete in premio i beni del paese» (Is 1, 19); invece nella legge evangelica vengono assicurati beni celesti ed eterni. Quindi la giustizia di un uomo, consistente nell'osservanza della divina volontà, dev'essere più perfetta, in proporzione dei beni superiori [che vi sono connessi].

    Un precetto del vangelo qui viene esaminato a parte. «Voi avete udito che fu detto agli antichi: 'Non uccidere; e chiunque avrà ucciso sarà condannato in giudizio'; ma io vi dico che sarà condannato in giudizio chiunque va in collera con suo fratello» (Mt 5, 21-22), ossia dovrà subire la pena stabilita dalla legge. «Se - ad esempio - uno trama contro il suo prossimo per ucciderlo con inganno, anche dal mio altare lo strapperai a forza, per farlo morire» (186).

    Ognuno di noi deve guardarsi dall'ira, con molta attenzione.

 

    1. Non lasciamoci, innanzi tutto, trasportare troppo facilmente dalla collera. «Ognuno sia pronto ad ascoltare, ma lento a parlare e cauto nell'abbandonarsi all'ira, poiché l'uomo adirato non compie ciò che è giusto dinanzi a Dio» (Gc 1, 19). È un peccato, l'ira, e Dio la punisce.

    A questo punto si impone un problema: qualunque specie d'ira è contraria alla virtù? Gli stoici sostennero che nessuna passione può giungere a dominare il savio, e affermavano anzi che la vera virtù consiste nella imperturbabilità dello spirito. I seguaci di Aristotele (187) invece ritenevano che il sapiente potesse adirarsi, purché in misura contenuta. Tra le due, quest'ultima è l'opinione più prossima al vero.

    Il vangelo infatti ci documenta la presenza di codesto e altri simili moti nell'animo del Cristo (188), in cui allo stato sorgivo si trovava la perfetta sapienza.

    Del resto la stessa ragione ci dice che se tutte le passioni (189) fossero di per sé incompatibili con la virtù, alcune facoltà dell'anima risulterebbero inutili; la loro presenza nell'uomo sarebbe addirittura nociva, non potendosi esprimere sempre in maniera opportuna. Gli appetiti (190) irascibile e concupiscibile avrebbero solo l'apparenza dell'utile.

    Dobbiamo concluderne piuttosto che vi è una sorta d'ira che si può e si deve condannare, e una virtuosa indignazione.

    Vi può essere ira semplicemente a livello del giudizio, senza ripercussioni sensitive: e questa, più che ira vera e propria, è riprovazione critica. Così, diciamo che il Signore si adira nel castigare i cattivi. «Sopporterò le conseguenze dell'ira del Signore, poiché l'ho offeso» (Mic 7, 9).

    Una forma d'ira più strettamente effetto di passione scaturisce dall'appetito sensitivo (191). Essa è, a volte, controllata dalla riflessione come nel caso di uno che si adira nel momento opportuno, in una misura adeguata alle concrete circostanze e per un ragionevole motivo. Si tratta allora di un atto virtuoso, ed equivale allo zelo (192). Il filosofo (Aristotele) scrive infatti che la mansuetudine non è [tanto] l'astensione dall'ira [quanto piuttosto la capacità di temperare i propri interventi] (193).

    Infine c'è una irascibilità che sfugge al dominio della ragione ed è sempre peccato, veniale o mortale, secondo i casi, in rapporto con il movente.

    Può essere peccato grave sia in se stessa, sia per gli elementi che l'accompagnano. L'omicidio è grave di sua natura, in quanto vìola direttamente (194) un comandamento di Dio. Può darsi che talvolta, a un moto che di per sé costituirebbe trasgressione grave della legge, non segua il consenso (metti il caso di un impulso sensuale inducente alla fornicazione, cui però non si aderisca): non vi è gravità di peccato.

    Un ragionamento del genere vale per l'ira che, dovendola definire, è un moto dell'animo teso a vendicare un'offesa subìta. Questa è, sostanzialmente, l'ira. Orbene, se tale impulso è tanto violento da travolgere al tutto la ragione, si avrà peccato mortale; mancando invece il deliberato consenso, la mancanza è leggera. Tanto più se poi la reazione non è neppure esagerata: il consenso non ne aggraverebbe la valutazione morale.

    Le parole: «Chiunque va in collera col suo fratello sarà condannato in giudizio» (Mt 5, 22) vanno intese come riprovazione del proposito di danneggiare qualcuno in grave misura. Potrebbe essere, se c'è consenso, colpa grave. Dio saprà giudicare ogni nostra azione, egli che «chiamerà in giudizio a rispondere su tutto ciò che è occulto, bene o male che sia» (Qo, 12, 14).

    Oltre a ciò, non dobbiamo adirarci con leggerezza considerando il desiderio che ciascuno di noi nutre per la libertà e quindi la ripugnanza a divenire schiavi. Ebbene, un uomo in preda all'ira non è certo padrone di sé. «Il furore è capace di crudeltà e la collera è impetuosa» (Prv 27, 4); o, ancora: «Son pesanti le pietre e la sabbia, ma la furia dello stolto è più insopportabile dell'una e dell'altre» (Prv 27, 3).

 

    2. L'ira va controllata anche per evitare di subire troppo a lungo la sua influenza. «Se vi adirate, non lasciate che l'ira stessa vi trasporti al peccato» (Sal 4, 5). Perciò «non tramonti il sole sul vostro risentimento» (Ef 4, 26). Nel Vangelo, Gesù medesimo ci spiega il perché ci convenga tentare la riconciliazione con il nostro avversario, finché siamo a tempo (cf. Mt 5, 25).

 

    3. Tutt'altro che trascurabile il rischio di scendere a vie di fatto. L'ira comincia con invadere il cuore, fino a mutarsi in odio. Da reazione istintiva, essa si trasforma in uno stato di persistente malanimo. L'apostolo Giovanni ci avverte: «Colui che odia il proprio fratello è un [potenziale] omicida» (I Gv 3, 15); anzi equivale in qualche modo a un dare la morte anche a se stesso, privando l'anima della vita di grazia. Sant'Agostino, nella sua regola cenobitica, ha scritto in proposito: «Fate in modo di non aver mai liti tra voi, o almeno finitele al più presto, perché l'ira non abbia a crescere sino a trasformarsi in odio e, facendo una trave da un semplice fuscello, renda l'anima omicida» (195). E Giacobbe, chiamati i figlioli attorno al giaciglio, maledisse la violenza di Simeone e di Levi, la loro vendetta crudele (cf. Gn 49, 7).

 

    4. Da un risentimento covato nell'intimo possono venire le offese verbali. «Lo stolto manifesta subito la sua collera» (Prv 12, 16), mediante parole ingiuriose o un contegno altezzoso.

    Riguardo a chi insulta il suo prossimo, Gesù ha emesso una severa sentenza: «Chi avrà detto al suo fratello 'racha', sarà condannato nel sinedrio; e chi gli avrà detto 'pazzo', sarà condannato al fuoco della Geenna» (196). Invece «una risposta dolce placa l'ira, proprio come una parola pungente eccita la collera» (Prv 15, 1).

 

    5. Più che mai l'ira va tenuta sotto controllo affinché non ci spinga a forme di rappresaglia fisica. Sempre bisogna stare attenti che nel nostro agire sia salva la giustizia e la misericordia. La collera tende a impedire l'esercizio di entrambe le virtù. Infatti, come insegna san Giacomo, «l'uomo adirato non compie ciò che è giusto dinanzi a Dio» (Gc 1, 20); se anche volessimo, non potremmo giudicare equamente. Rispose bene perciò un certo filosofo al suo offensore: «Ti punirei, se non mi trovassi in preda all'ira». E anche la misericordia è inattuabile finché si è in collera (cf. Prv 27, 4). Non pochi uomini giunsero a divenire omicidi, spinti dal furore (cf. Gn 49, 6).

    Ecco le ragioni per cui Cristo ci insegna ad astenerci non soltanto dall'omicidio, ma dalla stessa ira [che può provocarlo]. Il bravo medico non si limita a estirpare quei mali che vede a fior di pelle, bensì li rimuove dalla radice, onde evitare una ricaduta. In altri termini, il Signore vuole che ci asteniamo da ciò che è incentivo di [sempre più grave] peccato. Dall'ira, quindi, che è il fomite dell'omicidio.

 

6. «Non commettere adulterio» (Esodo 20, 14)

 

    Dopo quella di uccidere, segue la proibizione di adulterare l'unione matrimoniale; ed è logico, dal momento che con le nozze l'uomo e la donna diventano quasi un'unica persona: «Saranno, dice il Signore, una sola carne» (Gn 2, 24). Perciò, dopo l'ingiuria [omicida, o comunque lesiva] contro un individuo non ve n'è altra più atroce di quella che offende la persona che maggiormente gli è congiunta.

    L'adulterio è vietato tanto alla donna, quanto all'uomo. Vediamo prima però la trasgressione da parte della donna, dato che in lei sembra assumere una particolare gravità.

 

    I. Con una relazione extraconiugale, la donna commette tre gravi peccati, come si può rilevare da una pagina del Siracide: «La donna che lascia il marito... prima ha disubbidito alla legge dell'Altissimo, poi ha mancato contro il suo sposo, infine s'è macchiata d'adulterio e [forse] ha avuto prole da un uomo non suo» (Sir 23, 32-34).

    Essa pecca quindi da incredula, nel senso che non ha voluto adeguarsi alla legge di Dio emanata espressamente contro l'adulterio. «Non divida, la creatura, quello che Dio ha congiunto» (Mt 19, 6).

    Trasgredisce all'impegno solenne, da lei concluso di fronte alla Chiesa e per il quale venne invocato Dio quale testimone e garante del vincolo di fedeltà. Facile applicare al caso ciò che segue: «Il Signore è testimone tra te e la donna della tua giovinezza, verso la quale ora ti mostri infedele; eppure ella era la tua compagna e la donna nei confronti della quale ti sei impegnato» (Mt 2, 14).

    Pecca di tradimento, voltando le spalle all'uomo [cui è legata da un sacro rapporto d'amicizia]. Se la donna maritata non si appartiene più ma è del marito (e similmente l'uomo ammogliato divide con la sposa la potestà su se stesso) tanto che san Paolo fa notare come la pratica della astinenza coniugale da parte di uno di essi richieda il consenso dell'altro (cf. 1 Cor 7, 4), per questo la donna adultera non è leale: si consegna illecitamente a un altro, simile a chi muta proprietario di sua iniziativa. «Essa ha abbandonato il marito avuto nella giovinezza, dimenticando il patto giurato al proprio Dio» (Prv 2, 17).

    Pecca infine commettendo un furto, nel caso avesse figli dall'unione illegittima: un furto non certo lieve perché sottrae l'asse ereditario alla legittima prole. In un caso del genere, la donna dovrebbe cercare di affidare a un convento o a un monastero i figli naturali (o sistemarli in qualche altra maniera adatta) (197) sì da escludere una loro compartecipazione alla successione nei beni ereditari.

    Macchiandosi d'adulterio perciò una donna agisce da sacrilega, ed è rea di tradimento e ladra.

 

    2. Quantunque spesso ci si illuda del contrario, i mariti adulteri peccano non meno che le precedenti.

    Infatti, sulla base della Scrittura sopra citata («Neppure lo sposo è padrone assoluto del proprio corpo» (1 Cor 7, 4)) i coniugi si trovano su un piano di parità giuridica: né l'uno, né l'altra può gestire l'uso del matrimonio prescindendo dal consenso della controparte. Per farcelo meglio comprendere, Dio non trasse la donna da un piede o, che so io, dalla testa di Adamo, bensì dal suo fianco (198). Ma solo con l'avvento del Cristo il matrimonio acquistò la pienezza dei valori; fino a quel momento un giudeo poteva prendersi diverse mogli, mentre la donna non godeva di analogo privilegio. Era tollerata perciò una disparità di trattamento.

    L'uomo dovrebbe riuscire più agevolmente a controllarsi, se si considera la tipica passionalità femminile. San Pietro ricorda ai mariti il dovere di trattare con comprensione la sposa, «sapendo che la donna è un essere più debole» (1 Pt 3, 7).

    Quindi, se pretendi dalla tua sposa una fedeltà che tu però non intendi osservare, vai contro l'impegno [che pure ti sei assunto].

    Eppoi, godendo di una maggiore autorità (lui che è una guida per sua moglie, che da lui prenderà chiarimenti in materia di fede) (cf. 1 Cor 14, 34-35), l'uomo deve proporsi a modello. Anche per questo, Dio affidò a un uomo - Mosè - il precetto di cui parliamo.

    Un sacerdote che venga meno al dovere specifico di istruire pecca più che un semplice laico, e il vescovo più del sacerdote. Analogamente, nel compiere l’adulterio pecca [più gravemente] l'uomo, in quanto egli viene a mancare alla parola data e al dovere del buon esempio.

    Dal canto loro le mogli tengano a mente la raccomandazione di Cristo: «Osservate e fate tutto ciò che [di bene] essi vi dicono: ma non agite secondo le opere loro» (Mt 23, 3).

    «Non commettere adulterio». La proibizione, si è detto, riguarda tanto l'uomo, quanto la donna. Ora bisogna aggiungere l'opinione di certuni che, pur dicendo si convinti che l'adulterio costituisca un [grave] peccato, non credono che lo sia anche la fornicazione. Ma li confuta apertamente san Paolo: «Dio giudicherà i fornicatori e gli adulteri» (Eb 13, 4). «Non sapete che gli ingiusti non possiederanno il regno di Dio? Attenti a non illudervi: né fornicatori, né adulteri... saranno eredi del regno di Dio» (1 Cor 6, 9). Dato che nessuno viene escluso dal regno dei cieli, tranne che a causa di gravi violazioni della legge divina, evidentemente anche la fornicazione è da considerarsi tale.

    Magari però tu vuoi dire che di gravità non può parlarsi, come nel caso dell'adulterio, poiché fornicando non si svilisce [necessariamente] il corpo di una donna coniugata. Allora ti rispondo che l'oltraggio riguarda, qui, un corpo ancora più nobile: il corpo [mistico] di Cristo, del quale fai parte tu e il tuo prossimo, o i vostri stessi corpi che furono consacrati dal battesimo. «Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? - ci domanda l'apostolo Paolo; e prosegue: «E io potrei prendere le membra di Cristo per farne membra d'una meretrice? Non sia mai!» (I Cor 6, 15). Quindi sbaglia chi dice che la fornicazione non è peccato mortale.

    Ne concludiamo [anzi] che il sesto comandamento intende proibire non solo l'adulterio [e la fornicazione], ma qualunque dissolutezza carnale, fuori dell'unione matrimoniale.

    Altro errore è quello di quanti affermano che i rapporti coniugali non siano mai esenti da colpa. Diversamente Paolo non direbbe: «Il matrimonio sia da tutti tenuto in onore» (Eb 13, 4). L'unione tra gli sposi dunque non soltanto non costituisce in se stessa alcuna violazione morale, ma è altresì meritoria ogni volta che gli sposi si trovino in stato di grazia. Talvolta le loro dimostrazioni d'affetto potranno comportare delle venialità, e qualche altra volta raggiungere la colpa grave (199).

    Se il reciproco effondersi nell'amore si accompagna all'intento di procreare, i coniugi agiscono virtuosamente, ed è atto di giustizia rendere il debito coniugale; allorché, invece, pur non eccedendo i limiti propri del matrimonio, si abbia di mira unicamente la soddisfazione della sensualità, avremo anche un peccato veniale. Superati invece i suddetti limiti (magari sul piano della semplice fantasia), la colpa è grave.

    È bene inoltre conoscere i vari motivi in base ai quali sono vietati l'adulterio e la fornicazione.

 

    1. La vita spirituale ne riceve una ferita profonda. «L'adultero - infatti - è corto di senno: solo chi vuole rovinarsi agisce come lui» (Prv 6, 32). L'espressione della Volgata propter cordis inopiam sottolinea bene l'inaridimento della sensibilità di spirito, nell'uomo carnale.

 

    2. Mette a rischio la stessa vita fisica, poiché stando alla legislazione mosaica, gli adulteri erano passibili della pena capitale (cf. Lv 20,10-12; cf. Dt 22, 22). E anche se attualmente un tale rischio non esiste, la cosa si risolve sempre a danno del colpevole: se infatti il massimo castigo veniva accettato con rassegnazione, otteneva al reo il perdono della colpa; invece, restando qui impunita, essa dovrà essere espiata nella vita ultraterrena.

 

    3. Questo genere di peccati, conduce allo sperpero delle proprie sostanze: l'esempio più convincente l'abbiamo nel figliol prodigo, il quale «scialacquò tutto il suo patrimonio con una vita dissoluta» (Lc 15, 11-13). Anche il Siracide avverte: «Non abbandonarti nelle mani di una cortigiana, se non vuoi rovinare te stesso e le tue fortune» (Sir 9, 6).

 

    4. Umilia i figli nati da una illecita unione. «I figli degli adulteri non giungeranno a maturità e sparirà il seme di un letto illegittimo; eppoi, anche se vivessero a lungo, non godranno di nessuna stima, e la loro vecchiaia sarà senza onore» (Sap 3, 16-17). Anche tra le fila del clero questi sfortunati non troveranno posto, finché sia possibile reclutare chierici privi di demerito (200).

 

    5. La persona coinvolta nell'adulterio, e specialmente la donna, ne esce degradata. «La donna adultera sarà considerata come un rifiuto che si calpesta per la strada» (Sir 9, 10), mentre di un uomo che sia incorso nel medesimo fallo leggiamo nella Scrittura: «[L'adultero] non raccoglierà che battiture e infamia; la sua vergogna non sarà dimenticata» (Prv 6, 33). E san Gregorio [Magno] pone infine in rilievo come, pur costituendo un crimine minore rispetto ai peccati in cui prevale la perversione dell'intelligenza, tuttavia i peccati della carne rivestono un aspetto di particolare ignominia; e la ragione è semplice: essi avviliscono l'uomo al livello della bestia. L'uomo cioè, non avendo compreso a quale onore Dio l'abbia innalzato, si è abbrutito, simile nel modo di vivere agli animali inferiori (cf. Sal 48, 21).

 



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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19/06/2013 11:03
 
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7. «Non rubare» (Esodo 20, 15)

 

    Con la sua legge, Dio proibisce ripetutamente il danneggiamento del prossimo: nella persona («non uccidere»), nel congiunto cui è legato da un sacro vincolo («non commettere adulterio») e, come stiamo vedendo, nei beni esteriori («non rubare»).

    Il divieto si estende a qualunque sottrazione indebita, sotto qualsiasi forma.

 

    I. Costante del furto è che lo si effettua [generalmente] di nascosto; nessuno si lascerebbe vuotare la casa, se potesse indovinare in quale momento il ladro passerà all'azione (cf. Mt 24, 43). Un modo d'agire esecrabile, il suo, che lo accomuna al tradimento; e [quando egli viene scoperto] sarà additato al pubblico disprezzo (cf. Sir 5, 17).

    2. C'è però chi ruba con aperta violenza (201), e ovviamente accresce la gravità del fatto. Principi e re sono [spesso] classificabili entro questa categoria, e il profeta Sofonia adopera parole sferzanti: «Le autorità [di Gerusalemme] sono in mezzo a lei come leoni ruggenti; i suoi giudici son come lupi della sera, che non lascian niente per il mattino» (Sof 3, 3).

    Essi agiscono contro i disegni del Signore, che vuol trovare rettitudine negli uomini investiti di pubblica autorità, onde poter ripetere: «E in mio nome che regnano i re e i magistrati applicano il diritto» (Prv 8, 15).

    Anche costoro s'impadroniscono dei beni altrui, o nascostamente o col sopruso, facendo concorrenza ai ladri e correndo dietro ai donativi (cf. Is I, 23); oppure raggiungono i propri intenti emanando leggi [inique] e) e stabilendo tasse già destinate in partenza ad alimentare il reddito personale. Tanto che Agostino si chiede che altro siano i regni, se non latrocini su vasta scala. Di sicuro lo sono, perlomeno, le inique pubbliche amministrazioni.

 

    3. Si ruba col trattenere il salario dovuto all'operaio. Perciò il Levitico raccomanda che la paga giornaliera del bracciante non rimanga a lungo tra le mani dell'amministratore (cf. Lv 19, 13).

    È sottinteso, una volta di più, l'obbligo di dare a ciascuno il suo, si tratti [del servo o] del padrone, del chierico o del suo prelato. E l'invito alla giustizia che san Paolo rivolge a tutti: «Rendete a ognuno quanto gli è dovuto: a chi l'imposta, l'imposta; a chi la gabella, la gabella; a chi la riverenza, la riverenza; a chi l'onore, l'onore» (Rm 13, 7). Siamo tenuti infatti a versare il nostro contributo a quanti amministrano il bene comune (202).

 

    4. A riprovazione delle [frequenti] frodi commerciali, dice il Signore: «Nella tua sacca non nascondere due pesi, uno esatto e l'altro più grande. Non avere in casa due misure, quella giusta e quella che hai manipolato» (203); «Non commettere ingiustizie... nelle misure di lunghezza, di peso e di capacità. Usate bilance giuste, fate pesi giusti, siano esatti l'efa e l'hin» (204); o ancora, tra i Proverbi: «Doppio peso è in abominio presso Dio; bilancia falsa non è cosa buona» (Prv 20, 23).

    Un discorso del genere vale ovviamente per quegli osti che mescolano l'acqua al vino. E viene condannato anche l'interesse eccessivo richiesto nelle usure. L'usuraio [assieme agli altri operatori di frode] rischia d'essere escluso dal regno dei cieli (cf. Sal 14, 1). L'avvertimento riguarda banchieri e cambiavalute, che combinano imbrogli d'ogni sorta, e i venditori di panni e l'intera classe dei negozianti...

    Prevedo un'obiezione: «Ma perché non dovrei esser libero di dare [a interesse] il denaro che mi è stato chiesto in prestito, come faccio quando consegno a nolo un cavallo oppure in affitto una casa?».

    Ti rispondo che, se in tale genere di affari c'è peccato, esso deriva dal volersi far pagare due volte una stessa e identica cosa. Nei beni immobili infatti, o comunque alienabili, vanno distinti il bene preso in se stesso, dal suo uso. Posso perciò far pagare una quota d'affitto a chi si serve della mia abitazione, restandone io proprietario. E altrettanto dicasi in casi consimili.

    Ove però esistano beni che si risolvono nell'uso dei medesimi - cioè come mezzo per effettuare gli scambi -, non ce ne possiamo servire per ricavarne un usufrutto (205). Mentre infatti usiamo il frumento impiegandolo [per la semina o l'alimentazione], il denaro esaurisce il suo ruolo nel mediare lo scambio di altri beni. Così se vendi il tuo denaro, vendi [la medesima cosa, di cui hai già ricevuto l'equivalente] due volte.

    5. Nello stesso peccato [di appropriazione indebita] cadono quanti si comprano qualche carica onorifica, temporale o [peggio] di natura spirituale. Del primo caso leggiamo nella Scrittura: «Ingoiò ricchezza e la vomiterà, gliela ricaccerà dal ventre Iddio» (Gb 20, 15). I tiranni e tutta la genìa di signorotti che servendosi della violenza si sono posti a capo di un regno, di una provincia o di un feudo, sono dei ladri e in quanto tali hanno l'obbligo di restituire il maltolto.   

    A chi si è procacciato benefizi ecclesiastici a suon di quattrini, Gesù ha detto: «Chi non entra nell'ovile per la porta ma vi sale da un'altra parte, è ladro e brigante» (Gv 10, 1). Simoniaci, dunque, uguale a ladri.

    «Non rubare». Molte le ragioni che ci devono indurre a evitare qualunque tipo di violazione del settimo comandamento.

    Spesso è un autentico crimine, paragonabile all'omicidio. Dichiara Ben Sirac (206): «Uccide il prossimo chi gli sottrae il cibo, e sparge sangue chi priva l'operaio della sua mercede» (Sir 34, 25); e qualche versetto più avanti: «Un assassino e uno che campa defraudando l'operaio sono fratelli [degni l'uno dell'altro]» (Sir 34, 27).

    Il furto poi comporta non pochi rischi. Forse nessun altro peccato è così pericoloso. Perché una colpa venga perdonata si richiede il pentimento e una corrispondente soddisfazione. Nella maggior parte dei casi, il pentimento sopraggiunge presto: prendi, che so, un delitto compiuto per impulso dell'ira; oppure la fornicazione, al placarsi della concupiscenza, e via dicendo.

    Ora, anche ammesso che il ladro si penta, non è detto che egli sia egualmente pronto a rendere la refurtiva; e in più si aggiunga il dovere di risarcire gli eventuali danni causati al legittimo proprietario, oltre alla penitenza che gli verrà imposta per il peccato stesso... Per questo esclamava un profeta: «Guai a colui che accumula roba non sua! Quando la smetterà di affondare nella melma?» (Ab 2, 6). Dal fango denso di un pantano è difficile tirarsi fuori.

    Il frutto dei latrocini si rivela sterile. Non giova certo allo spirito: «Non tornano utili i tesori di mal acquisto» (Prv 10, 2). Le ricchezze infatti producono un guadagno spirituale solo nella misura in cui vengono date in elemosina o per offrire sacrifici di culto (cf. Prv 13, 8); ma di ciò che si possiede ingiustamente sta scritto: «Io, il Signore, amo il [rispetto del] diritto, e odio la rapina che vorrebbe alimentare gli olocausti» (Is 61, 8). Analoga riprovazione la trovi in una pagina del Siracide: «Chi offre un sacrificio pagandolo col denaro dei poveri, somiglia a chi sgozza il figlio sotto gli occhi di suo padre» (Sir 34, 24).

    Né ci si può illudere che giovino a lungo: «Guai a chi compie illecite rapine nella speranza di mettere in alto il suo riparo e sfuggire ai colpi della sventura!... Certo, grideranno [contro di lui] le pietre dei muri, e faranno loro eco le travi dei bastioni» (207).

    «Chi accresce le sue ricchezze con usura e interessi, le accumula [non per sé ma] per chi sente pietà verso i poveri» (Prv 28, 8). In altri termini; «La ricchezza del peccatore passa nelle mani del giusto» (Prv 13, 22).

    Infine, il furto cagiona un danno ai beni già posseduti [magari onestamente]: li manda in rovina, un po' come il fuoco che cade sopra la paglia. «Il fuoco divorerà la tenda dell'uomo venale» (Gb 15, 34).

    E tieni presente che un ladro non danneggia solo la propria anima, ma l'esistenza dei suoi figli, obbligati spesso a rimetterci di tasca [nell'indennizzo delle vittime].

 

8. «Non dir falsa testimonianza contro il tuo prossimo» (Esodo 10, 16)

 

    Dopo il divieto di nuocere al prossimo mediante azioni ingiuste, il Signore ci comanda di non fargli del male nemmeno con le parole, deponendo il falso contro di lui, sia di fronte a un giudice, sia nei rapporti abituali.

    Nel corso di un processo, possono violare il precetto tre categorie di persone.

    Innanzitutto, colui che accusa falsamente un altro. «Non andar seminando la diffamazione tra il tuo popolo - si legge nel Levitico - e non portare accuse infondate contro il prossimo, per attentare alla sua vita» (Lv 19, 16). Erra anche chi ha l'obbligo di parlare, e non lo fa: manca al dovere della correzione fraterna (208).

    Il falso testimone non rimarrà impunito (cf. Prv 19, 5). E possono aver connessione con [la non-osservanza del]l'ottavo comandamento tutti gli altri precetti fin qui esaminati: si deforma la verità, spesso, per coprire un omicidio, un furto e via dicendo.

    La pena cui essi [anticamente] andavano incontro è descritta nel Deuteronomio: «I giudici faranno una diligente inchiesta, e se troveranno che quel testimone mentisce e ha deposto il falso contro un suo fratello, trattate lui come aveva pensato di fare al fratello... Il tuo occhio non si muova a compassione: gli farai pagare vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano e piede per piede» (Dt 19, 18.19; 21).

    Ed è giusto il principio, dal momento che «una mazza, una spada, un'acuta saetta è il delatore del prossimo con le sue false accuse» (Prv 25, 18).

    Incorre nella medesima riprovazione la persona del giudice che si pone al servizio dell'iniquità. «Non commettere ingiustizia nel giudicare; non guardare se uno è povero e non aver preferenze per chi è grande, ma giudica con imparzialità il tuo prossimo» (Lv 19. 15).

    Nel parlare quotidiano, facilmente vanno contro l'ottavo comandamento le seguenti persone.

    I maldicenti. Chi sparla del prossimo non è gradito a Dio (cf. Rm I, 30), anzi gli dà disgusto poiché nulla l'uomo ha di più caro, che la propria [buona] fama. Il buon nome è meglio di un unguento prezioso o di grandi ricchezze (cf. Qo 7, 2; cf. Prv 22, 1), e i detrattori cercano di toglierceli. «Se il serpente morde prima d'essere incantato, non c'è nulla da fare per l'incantatore» (Qo 10, 11). Non provvedendo a riparare dopo aver leso in maniera grave l'altrui fama, costoro non si salvano.

    Poi viene chi dà facile credito al maldicente. Raccomanda la Scrittura: «Fa siepe di spine alle tue orecchie, non ascoltare una lingua facile a dir male degli altri; e alla tua bocca metti un chiavistello» (Sir 28, 28). L'uomo [assennato] non deve ascoltare volentieri questi tali: deve anzi mostrarsi accigliato, severo. Può darsi che si ottenga quanto, figuratamente, dicono i Proverbi: come il vento di tramontana dissipa la pioggia, così un ascoltatore dallo sguardo carico di rimprovero può costituire un freno per la lingua del maldicente (cf. Prv 25, 23).

    Seguono le persone pettegole, pronte a riportare tutto ciò che han raccolto in giro. Eppure «vi sono sei cose che il Signore detesta, anzi sette che il suo spirito abomina; [e quest'ultima è rappresentata da] chi semina discordie tra i fratelli» (Prv 6, 16). «Maledetto il delatore... che manda in rovina quanti vivono in pace... Un colpo di sferza produce una piaga ma un colpo di lingua guasta più a fondo» (Sir 28, 15).

    Dei cortigiani [nel senso peggiorativo], ossia degli adulatori un salmo riferisce la mentalità: «Il peccatore vien lodato per i suoi progetti [infami], e l'iniquo è applaudito» (Sal 10, 3). «Bada, popolo mio, che chi ti chiama 'beato' ti sta illudendo» (Is 3, 12). Perciò il savio si augura di essere rimproverato, nei suoi errori, con misericordia; preferisce essere sgridato piuttosto che lasciarsi ungere il capo con l'olio profumato dei malvagi (cf. Sal 140, 5).

    La mormorazione, per concludere, così frequente nei sudditi. La Sapienza ci esorta: «Guardatevi dalle vane mormorazioni e trattenete la lingua dalla critica facile» (Sap I, 11), tanto più che [alle volte] «un superiore si lascia piegare dalla pazienza, e una parola moderata può vincere la durezza» (Prv 25, 15).

    «Non dir falsa testimonianza contro il tuo prossimo», in sintesi, proibisce ogni sorta di deformazione della verità. «Guardati dalle menzogne, perché l'avvezzarsi a questo errore non è affatto un bene» (Sir 7, 14). E ciò per quattro motivi.

 

    I. Il mentire ci rassomiglia al diavolo. Come un uomo lo si riconosce dal suo modo di parlare, dalla particolare cadenza, tipica di una regione o di un paese (cf. Mt 26, 73), vi sono uomini che potremmo chiamare diabolici, figli del demonio, per l'enormità o la sottigliezza dei loro raggiri. Il diavolo è menzognero, padre dell'inganno, egli che per primo osò alterare la verità: «No, voi non morrete; [anzi] diventereste come Dio, acquistando la conoscenza del bene e del male» (Gn 3, 4).

    Chi invece è veritiero si comporta da figlio di Dio, verità per essenza.

    2. Si guastano i rapporti sociali. Sarà impossibile una pacifica convivenza qualora venga a mancare la fiducia reciproca. L'apostolo Paolo perciò fa appello alla sincerità: «Ognuno parli col prossimo senza doppiezza, giacché siamo tutti membra [del corpo mistico di Cristo]» (Ef 4, 25).

 

    3. Ne va di mezzo oltre tutto la propria fama. Difatti non si concede facilmente credito a un uomo che racconta frottole come se niente fosse. Non gli credi neppure quando dice la verità. «Da ciò che è sporco si può ricavare qualcosa di pulito? E come ottenere, da un bugiardo, la verità?» (Sir 34, 4).

 

    4. L'anima ne subisce detrimento. Il bugiardo, ossia una bocca menzognera, «uccide l'anima» (Sap I, 11). Tu [Signore] detesti [e ti proponi di annientare] chi trama insidie ai danni del prossimo (cf. Sal 5, 7). Non di rado, quindi, la menzogna è peccato mortale.

    Si impone una valutazione morale dei diversi tipi di bugie: ve ne sono di assai gravi, ma anche di leggere.

    E colpa mortale sostenere l'errore circa le verità di fede. Devono guardarsene [in particolare] i teologi, specie se in vista, e i predicatori. E la più grave, tra le alterazioni della verità, denunciata fin dal tempo dell'apostolo Pietro, che scrive: «Come ci furono in mezzo al popolo [israelitico] dei falsi profeti, ci saranno pure in mezzo a voi [cristiani] dei falsi dottori, che introdurranno con astuzia delle sette rovinose» (2 Pt 2, 1).

    C'è chi sostiene il falso, per desiderio di apparire sapiente [sempre in materia di fede]. Se costoro arrivassero a burlarsi dei credenti e a mettere in ridicolo la loro osservanza (cf. Is 57, 4), potrebbero peccare anche mortalmente, assieme a chi danneggia in modo grave il prossimo, con le sue menzogne.

    Altri, invece, se non dicono il vero, lo fanno senza danneggiare gli altri: ad esempio, per un senso di male intesa umiltà, nel confessarsi. Li disapprova sant'Agostino: «Come bisogna ammettere quello che uno ha compiuto, così non bisogna inventare ciò che non si è fatto». Una bugia non fa mai piacere a Dio, che non ha bisogno delle nostre favole (cf. Gb 13, 7). Egli sa bene infatti che «c'è il perverso che si umilia a bella posta, mentre ha l'animo pieno di intenzioni malvage» (Sir 19, 23). E c'è anche il giusto che eccede nell'avvilire se stesso.

    Si dicono pure le bugie nel timore d'essere umiliati, come accade a chi inavvertitamente abbia affermato qualcosa di erroneo e, resosene conto, si vergogna di rettificare. Tu però «non arrossire nell'ammettere che hai sbagliato» (Sir 4, 30).

    Non manca chi ricorre al raggiro onde ottenere ciò che vuole, oppure per evitarsi un castigo. Si rifugiano nella menzogna, «si sono trincerati nella frode», secondo una espressione di Isaia (Is 28, 15). Efficace una sentenza dei Proverbi: «Chi cerca di costruire sopra la menzogna, si pasce di vento» (Prv 10, 4).

    Qualcuno giura il falso nel tentativo di rendersi utile verso qualche amico, per scamparlo da morte o da altra incresciosa situazione. Bisogna anche qui andar molto cauti: «Non aver riguardo di qualsiasi persona con tuo danno, [ma] neppure devi mentire a spese dell'anima tua» (Sir 4,26).

    C'è chi racconta bugie solo per gioco; però bisogna starci ugualmente attenti, ché l'abitudine non conduca pian piano a violazioni gravi del comandamento. Infatti «il fascino della frivolezza oscura il bene, e nell'impeto della passione resterà travolto l'animo semplice» (Sap 4, 12).

 

9. «Non desiderare la casa del tuo prossimo... né il suo servo né la sua serva, né il suo bue o il suo asino, né alcun'altra cosa che appartenga al tuo prossimo» (Esodo 20, 17)

 

    La differenza fondamentale tra legge divina e legge umana è questa: che mentre la seconda decide su parole e fatti esteriori, la prima giudica perfino i moti dell'animo. Il legislatore umano potrà valutare sempre e soltanto l'aspetto esterno d'una vicenda, invece Dio vede ogni cosa di fuori e di dentro. Non sbaglia Davide nel chiamarlo: «Dio del mio cuore» (Sal 72, 26). L'uomo si ferma alle apparenze, ma Dio scruta in fondo all'animo (cf. 1 Sam 16, 7).

    Vedremo adesso perciò un comandamento che riguarda i pensieri, gli affetti e i desideri del cuore umano. Agli occhi di Dio, acquista valore morale anche una semplice intenzione. Quindi egli ci proibisce non solo di sottrarre al prossimo la roba che gli appartiene, ma anche di considerarla nostra bramandola ardentemente. E i motivi [che ispirano un tale precetto] sono tanti.

 

    1. La concupiscenza è insaziabile. Una sorta di appetito senza fine. L'uomo saggio però deve prefiggersi un limite in tutto, essendo inoltre un'assurdità avviarsi per una strada che non ha termine. «Chi ama il danaro, mai di danaro è sazio» (Qo 5, 9), e avuta una casa se ne sognerà una seconda, ci si vorrà impadronire con ogni mezzo di un terreno da aggiungere agli altri possedimenti, divenendo da soli i proprietari di un mezzo paese (cf. Is 5, 8).

    L'unica spiegazione che dia un perché a tanta insaziabilità sta nel fatto che l'animo umano è stato adeguato a ricevere Dio. «Ci hai fatti per te, Signore - esclama sant'Agostino -, e il nostro cuore sarà irrequieto fin quando non si abbandonerà in te». Tutto ciò che non è Dio, non può essere sufficiente a colmare questo vuoto interiore. «Soltanto lui sazia di beni ogni tuo anelito» (Sal 102, 5).

 

    2. Questa brama continua, ci priva della quiete, di cui abbiamo tanto bisogno. Chi già possiede qualcosa, nutre in sé la cupidigia di acquistare dell'altro, e sta continuamente all'erta per custodire i suoi beni. «La sazietà del ricco non lo lascia dormire» (Qo 5, 11), poiché il suo cuore veglia accanto ad essi (cf. Mt 6, 21). Non per nulla, Cristo ha paragonato le ricchezze alle spine [delle preoccupazioni] di cui ha scritto l'evangelista (cf. Lc 8, 14), come osserva san Gregorio.

 

    3. La cupidigia svilisce le ricchezze, dal momento che l'avaro, nel timore di perderle non le utilizza: né per sé, né [tanto meno] a favore del prossimo. Tutto consiste nel tenerle sottochiave. A che altro infatti gli servono i tesori? (cf. Sir 14, 3).

 

    4. Rende difficile l'esercizio dell'equità e della giustizia (209). La raccomandazione che possiamo leggere nell'Esodo vale sempre e per chiunque: «Non accettare regali; poiché il regalo acceca anche coloro che hanno la vista chiara e perverte le parole dei giusti» (Es 23, 8). Infatti chi è condizionato dai doni che riceve, non resterà imparziale (cf. Sir 31, 5).

 

     5. Soffoca la carità verso i bisogni altrui. Sant'Agostino ha sottolineato il rapporto che esiste tra amore del prossimo e amor del denaro: più è forte quest'ultimo, più si attenua il precedente; e viceversa. «Non cambiate un amico per un po' di denaro, e un fratello [nemmeno] per l'oro di Ofir» (210). Altrettanto vale a proposito della carità verso Dio: come non si può servire nel medesimo tempo a due padroni, così neppure e al Signore e alle ricchezze (cf. Mt 6, 24).

 

    6. In conclusione [l'avidità] è fonte di svariati errori, radice di tutti i mali, fino a condurre al furto, all'omicidio e a crimini anche peggiori (cf. I Tm 6, 10). Scrive san Paolo: «Contentiamoci di poco; poiché quelli che vogliono arricchire, cadono nella tentazione [di agire senza scrupoli], nel laccio del diavolo, [ossia] in molti desideri inutili e nocivi, che travolgono gli uomini nella rovina e nella perdizione» (I Tm 8-9).

    Nota che la cupidigia si configura quale colpa grave se l'invidiare l'altrui benessere non ha attenuanti di sorta, che lo renderebbero meno grave.

 

10. «Non desiderare la donna del tuo prossimo» (Esodo 20, 17)

 

    Nella sua prima lettera, san Giovanni ha scritto che «tutto ciò che è nel mondo è concupiscenza della carne, licenziosità degli occhi e superbia di vita» (I Gv 2, 16). L'oggetto dei nostri desideri rientra sempre in questa sfera; e già due di tali fomiti [ossia l'insaziabilità degli sguardi e il desiderio smodato di primeggiare] risultano proibiti dal nono comandamento: «Non desiderare la casa [o altre proprietà] del tuo prossimo». Infatti una residenza [sontuosa o, almeno, vasta] viene considerata dagli uomini quale espressione di grandezza, cioè di quell'appetito di denaro e di gloria di cui parla il salmo 111 (cf. Sal 111, 3). Non si desidera una bella casa senza vagheggiare insieme una posizione privilegiata.

     Quindi, dopo il divieto di porre gli occhi sugli splendidi palazzi altrui e di invidiarne gli onori, segue quest'altro, che intende raffrenare i desideri carnali. «Non desiderare la donna del tuo prossimo».

     In seguito al peccato originale, nessuno, oltre al Cristo e alla Vergine Maria, sfugge ai richiami della concupiscenza. L'acconsentirvi non è mai una scelta morale indifferente: come minimo comporta qualche venialità e, se arriva a dominarci, allora la colpa è grave. «Non regni il peccato nel vostro corpo destinato alla morte, divenendo schiavi delle sue concupiscenze» (Rm 6, 12). L'apostolo Paolo non si fa illusioni, conosce bene e ammette la presenza della sensualità nelle proprie membra (211).

     Il peccato si impossessa dell'uomo quando la concupiscenza gli occupa il cuore, mediante il consenso. Allora diveniamo schiavi dei piaceri (cf. Rm 6, 12). In concreto, «chiunque avrà guardato una donna, per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei, nel suo cuore» (Mt 5, 28), poiché Dio, in una intenzione volontaria, vede il germe dell'azione.

     Poi traduce in parole i pensieri che ha coltivato nell'animo. La bocca infatti «parla per la sovrabbondanza del cuore» (212); di qui il richiamo di Paolo: «Dalle vostre labbra non esca alcun cattivo discorso...; qualunque amarezza e animosità, e arroganza, maldicenza e ogni sorta di malizia sia rimossa da voi» (Ef 4, 29).

    Non è senza responsabilità morale il comporre canzoni vane, perfino secondo antichi saggi pagani, tanto che si giunse a mettere al bando dalle città gli autori di poesie erotiche.

    Passa infine all'azione, asservendo le membra ai propositi della concupiscenza, ossia alla schiavitù della carne (cf. Rm 6, 19).

    Per non cadere in questo genere di peccato bisognerà impegnarsi seriamente, trattandosi di un'insidia latente; ed è sempre un'ardua impresa spuntarla su un nemico che ti si nasconde in casa.

    Vi sono tuttavia diversi sistemi per riuscirvi.

 

    I. Fuggire le occasioni che puoi avere attorno, le amicizie pericolose e tutto ciò che fortuitamente potrebbe facilitare la resa. Quindi «non fissare una vergine, per non restare affascinato dalla sua avvenenza... Non guardare a destra e a sinistra per le vie della città [sempre per la suddetta ragione], girellando per le piazze. Distogli i tuoi occhi da una donna formosa e non fissare una bellezza che non ti appartiene. Molti si sono traviati per una donna piacente: il desiderio divamperebbe, come un incendio» (Sir 9, 5-9). «E’ mai possibile - si legge nei Proverbi - mettersi il fuoco in grembo e non bruciarsi le vesti?... Tale è colui che vuol godere la donna del prossimo: chiunque la tocca non resterà senza danno» (Prv 6, 27-29). Perciò fu giusto l'ordine impartito a Lot, di allontanarsi dai dintorni della regione [maledetta] (213).

 

    2. Non dar adito ai pensieri che forniscono incentivo al risveglio della concupiscenza. Ci si riesce mortificando i sensi. In base alla propria esperienza, l'apostolo Paolo poteva scrivere: «Castigo il mio corpo. e lo tratto come uno schiavo» (I Cor 9, 27).

 

    3. Insistere nella preghiera, dal momento che «se non è il Signore a custodire la città, faticano inutilmente quelli che vogliono custodirla» (Sal 126, 1). «Ho capito che non potrei serbarmi casto, se Dio non mi dà grazia» (Sap 8, 21). E insomma quel genere di «demoni» che «non si può scacciare altro che con la preghiera e col digiuno» (Mt 17, 20). Se ti trovassi di fronte a due che si stanno affrontando e tu vuoi aiutare uno di loro, mentre dai una mano a quest'ultimo, devi negare al primo qualunque appoggio. Ora, tra la carne e lo spirito c'è una guerra incessante; perciò, se vuoi la vittoria dello spirito, bisogna che tu gli dia il soccorso necessario: e lo fai mediante la preghiera. Bisogna anche fiaccare la ribellione dei sensi: e a ciò provvede il digiuno, che frena [gli eccessi del] la carne.

 

    4. Farsi trovare sempre impegnato in qualche buona faccenda, poiché «l'ozio è il maestro d'ogni sorta di mali» (Sir 33, 29) e, come spiega Ezechiele, «questa fu la colpa di Sodoma: superbia, sovrabbondanza di cibo e lo star senza far nulla» (Ez 16, 49). San Girolamo raccomanda [in una lettera a Paolino] (214): «Fa' sempre qualcosa di buono, affinché il diavolo ti trovi già occupato». Tra tutte, la migliore occupazione consiste nello studio della Bibbia; e prosegue, il santo: «Ama lo studio della Scrittura; non troverai allora tanto incantevoli le depravazioni della carne».

     Possiamo ormai concludere. Abbiamo preso in esame il decalogo, di cui il Signore [rispondendo a un giovane che lo aveva interrogato] disse: «Se vuoi entrare nella vita [eterna], osserva i comandamenti» (Mt 19, 17).

    Alla radice dei singoli precetti troverai sempre l'amore verso Dio e quello verso il prossimo.

    All'uomo che vuole amare Dio si impongono tre doveri: non avere altre deità (perciò sta scritto: «Non adorerai gli dèi stranieri»). Al vero Dio va reso il dovuto onore, quindi «non nominare invano il suo nome». Trova in lui, di buon grado, il tuo ristoro: «Ricordati del giorno di riposo, per santificarlo».

    Per mostrare poi al prossimo un amore autentico, l'uomo deve esercitare la riconoscenza [specie nei confronti dei principali benefattori]: «Onora tuo padre e tua madre»; non danneggiarne la persona fisica: «Non uccidere»; né fare oltraggio alle persone che a lui sono care: «Non commettere adulterio»; o portargli via i beni di fortuna: «Non rubare». Non deve fargli del male con le parole - [soprattutto] «non dire falsa testimonianza» -, e neppure con desideri illeciti. Perciò «non desiderare né la roba né la donna del tuo prossimo».

 

[SM=g1740733]


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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 Un sacerdote risponde

La nostra prof di religione dice che il decalogo non è stato dato da Dio

Quesito

Caro Padre Angelo,
Seguo con interesse il suo blog che risponde alle domande che le vengono poste da tanti giovani.
Ne ho una anch'io.
La prof. di religione, parlando del bel racconto biblico di Mosè che riceve le tavole della legge, ha detto che non va letto come un fatto realmente accaduto. 
Secondo la prof. si tratterebbe di una narrazione che ha lo scopo di insegnare che   tutti gli uomini, fin da prima di Mosè, hanno sempre percepito una legge interiore: onora Dio, i genitori e gli anziani, non rubare, non uccidere, ecc. 
Che cosa dice la Chiesa in proposito?
Grazie. 
Luigi.


Risposta del sacerdote

Caro Luigi,
1. è vero che i comandamenti, prima di essere scritti su tavole di pietra, erano stati scritti da Dio nel cuore dell’uomo.
Ogni uomo li poteva riconoscere.
Ma ai tempi di Mosè (e non solo a quei tempi) il cuore dell’uomo si era molto indurito e proprio per questo non riusciva più a leggere i dettami della coscienza.
Per questo S. Agostino dice: “Affinché gli uomini non potessero lagnarsi che la legge era incompleta, Dio ha scritto sulle tavole della legge ciò che essi non leggevano nei loro cuori. Certamente questi precetti vi erano scritti, ma non volevano leggerli. Dio li mise sotto i loro occhi perché fossero costretti a vederli nella loro coscienza: la voce di Dio, avvicinandosi in qualche modo agli uomini esteriormente, li costrinse a rientrare nel loro intimo” (In Psalm., 57, 1).

2. Fatta questa premessa, non c’è ombra di dubbio che siano stati dati da Dio stesso.
Il testo sacro dice: “Quando il Signore ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli diede le due tavole della Testimonianza, tavole di pietra, scritte dal dito di Dio” (Es 31,18).
Col dito di Dio, e cioè scritti in modo soprannaturale e dati da Dio stesso. 
Altri precetti sono dati da Mosè, ma questi - come viene sottolineato -vengono da Dio stesso.

3. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ripetutamente dice che sono dati da Dio.
Lo afferma quando dice che li conosciamo per divina rivelazione: “I dieci comandamenti appartengono alla Rivelazione di Dio. 
Al tempo stesso... mettono in luce i doveri essenziali e, quindi, indirettamente, i diritti fondamentali inerenti alla natura della persona umana.
Il decalogo contiene un’espressione privilegiata della legge naturale” (CCC 2070).
E “Quantunque accessibili alla sola ragione, i precetti del Decalogo sono stati rivelati. Per giungere ad una conoscenza completa e certa delle esigenze della legge naturale, l’umanità peccatrice aveva bisogno di questa rivelazione: Una completa esposizione dei comandamenti del Decalogo si rese necessaria nella condizione di peccato, perché la luce della ragione si era ottenebrata e la volontà si era sviata.
Noi conosciamo i comandamenti di Dio attraverso la Rivelazione divina che ci è proposta nella Chiesa, e per mezzo della voce della coscienza morale” (CCC 2071).

4. Il Catechismo della Chiesa Cattolica dice ancora in maniera assertiva: “Le « dieci parole » sono pronunciate da Dio durante una teofania (Il Signore vi ha parlato faccia a faccia sul monte dal fuoco: Dt 5,4)” (CCC 2059).
Questa teofania (manifestazione di Dio) è avvenuta nel modo in cui l’Esodo la descrive: “Il terzo giorno, sul far del mattino, vi furono tuoni e lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di corno: tutto il popolo che era nell'accampamento fu scosso da tremore. Allora Mosè fece uscire il popolo dall'accampamento incontro a Dio. Essi stettero in piedi alle falde del monte. Il monte Sinai era tutto fumante, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco, e ne saliva il fumo come il fumo di una fornace: tutto il monte tremava molto. Il suono del corno diventava sempre più intenso: Mosè parlava e Dio gli rispondeva con una voce. Il Signore scese dunque sul monte Sinai, sulla vetta del monte, e il Signore chiamò Mosè sulla vetta del monte. Mosè salì. 21Il Signore disse a Mosè: «Scendi, scongiura il popolo di non irrompere verso il Signore per vedere, altrimenti ne cadrà una moltitudine! Anche i sacerdoti, che si avvicinano al Signore, si santifichino, altrimenti il Signore si avventerà contro di loro!». Mosè disse al Signore: «Il popolo non può salire al monte Sinai, perché tu stesso ci hai avvertito dicendo: «Delimita il monte e dichiaralo sacro»». Il Signore gli disse: «Va', scendi, poi salirai tu e Aronne con te. Ma i sacerdoti e il popolo non si precipitino per salire verso il Signore, altrimenti egli si avventerà contro di loro!». Mosè scese verso il popolo e parlò loro” (Es 19,16-25)

5. Il capitolo 20 dell’Esodo comincia così: “Dio pronunciò tutte queste parole: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d'Egitto, dalla condizione servile….” (Es 20,1-2).
Segue l’esposizione del decalogo

6. Questo dunque è l’insegnamento della Chiesa e questo è quanto ci dice la Sacra Scrittura.
Per converso bisognerebbe chiedere alla tua prof di religione quali sono le prove che porta per dire che non sono stati dati direttamente da Dio.
Come potrai appurare non ne ha neanche una.
Mentre la Sacra Scrittura mette Dio al centro di questa sua auto comunicazione o rivelazione.
La nostra fede, come del resto quella del popolo d’Israele, è basata sulla rivelazione di Dio.
Se la neghi, cessi di essere credente.
“Così il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla con un altro” (Es 33,11).
Non si tratta dunque di un modo di esprimersi di Mosè.

Ti saluto, ti ricordo al Signore e ti benedico. 
Padre Angelo

 




Fraternamente CaterinaLD

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07/02/2016 16:37
 
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[SM=g1740717] Onora tuo padre e tua madre e avrai la vita

Una catechesi speciale, diversa, vissuta sulla propria pelle. Non ci sono parole o indottrinamento, ma le brevi cose che si dicono sono il contenuto migliore di mille trattati. Mamma e papà, non sono solo delle parole, dei termini sui quali giocare a fare i genitori, ma sono la fonte della vita, una vita che va oltre la morte e che ci segna per sempre, in eterno.

gloria.tv/media/aDF37PTMy3d
www.youtube.com/watch?v=9FWSRGrt9lg

QUARTO COMANDAMENTO

Nel quarto comandamento è detto: "Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore, tuo Dio" (Es 20,12).

Onorare il padre e la madre apre la seconda tavola della legge, quella che racchiude i comandamenti orientati alla carità verso il prossimo. Dio ci comanda l'amore verso chi ci ha generato, verso i genitori, mettendo quindi loro al primo posto nella lista dell'amore al prossimo, perché loro sono il prossimo più prossimo a noi. Sarebbe un'illusione voler bene alle persone lontane, dimenticandoci di quelle vicine. Come è possibile dividere il proprio pane con l'affamato, ospitare il misero senza ricovero, vedere un ignudo e vestirlo se poi il proprio cuore è refrattario all'amore verso i propri genitori, se non altro per la gratitudine di averci dato la possibilità di esistere?

I genitori hanno il diritto di essere amati in modo speciale, perché ci hanno dato la vita, perché sono i nostri benefattori, i nostri veri e autentici amici che ci aiutano nel cammino della vita. "Onora tuo padre con tutto il cuore e non dimenticare i dolori di tua madre. Ricordati che loro ti hanno generato; potrai ricambiarli per quanto hanno fatto?" (Sir.7,27-28).

Onorare i genitori significa amarli, rispettarli, preoccupandoci di non causare loro dispiaceri e avere riconoscenza verso di loro per tutto l'amore che ci donano. Nella formula del comandamento è inserita la parola "onore", anziché quella di amore o di timore, benché i genitori debbano essere vivamente amati e temuti. Chi ama non sempre rispetta e obbedisce, e chi teme non sempre ama. Invece quando si onora qualcuno, lo si ama e lo si rispetta. Fanno eco le esortazioni di san Paolo: "O figli, obbedite nel Signore ai vostri genitori, com'è giusto" (Ef 6,l). Dice infatti san Paolo: "La pietà giova a tutto, comprendendo in sé la promessa della vita presente e della futura" (1 Tm 4,81).

Voler bene al padre e alla madre è una gioia, perché chi ama è benedetto dal Signore. "Onora tuo padre e tua madre. È questo il primo comandamento associato a una promessa, perché tu sia felice e goda di una vita lunga sopra la terra" (Ef. 6,2-3). Facendo il bene ne gode il corpo e anche lo spirito, perché dove c'è il Signore vi è ogni sorta di grazia. Chi onora i propri genitori espia i peccati e accumula tesori celesti: "II Signore vuole che il padre sia onorato dai figli, ha stabilito il diritto della madre sulla prole. Chi onora il padre espia i peccati; chi riverisce la madre è come chi accumula tesori. Chi onora il padre avrà gioia dai propri figli e sarà esaudito nel giorno della sua preghiera. Chi riverisce il padre vivrà a lungo; chi obbedisce al Signore dà consolazione alla madre" (Sir. 3.2-6).

II padre e la madre devono essere amati sempre, anche quando, per malattia o vecchiaia, non possono più amarci come vorremmo. I1 vero figlio si riconosce nel momento in cui il genitore ha bisogno di lui. È una responsabilità che non bisogna sfuggire. Anzi, più loro hanno bisogno di noi, più noi dobbiamo aver cura di loro. Dice la Bibbia: "Figlio, soccorri tuo padre nella vecchiaia, non contristarlo durante la sua vita. Anche se perdesse il senno, compatiscilo e non disprezzarlo, mentre sei nel pieno vigore. Poiché la pietà verso il padre non sarà dimenticata, ti sarà computata a sconto dei peccati. Nel giorno della tua tribolazione Dio si ricorderà di te; come fa il calore sulla brina, si scioglieranno i tuoi peccati. Chi abbandona il padre è come un bestemmiatore, chi insulta la madre è maledetto dal Signore" (Sir 3,12-16).

Su coloro che sono grati con i propri genitori si riversano le ricompense di Dio, invece molti castighi sono riservati ai figli ingrati. Sta scritto: "Chi insulta il padre e fa fuggire la madre, è un figlio spudorato e turpe" (Prv 19,26); "Chi maledice suo padre e sua madre, la sua luce si spegnerà come quando fa buio" (Prv 20,20); "L'occhio che deride il padre e rifiuta l'obbedienza alla madre, lo strapperanno i corvi del torrente, lo divoreranno le aquile" (Prv 30, 17).

Genitori e figli costituiscono la famiglia nella quale ognuno dovrebbe trovare una sicurezza, un affetto, un aiuto, una ragione, una speranza, un futuro. Perciò, al dovere dei figli di onorare i propri genitori, corrisponde il dovere dei genitori di amare i propri figli: "Figli, obbedite ai vostri genitori nel Signore, perché ciò è giusto... E voi, padri, non esasperate i vostri figli, ma educateli, correggendoli ed esortandoli nel Signore" (Ef 6,1-4).

La mamma, per un figlio, è la prima immagine della sposa che egli vorrebbe per sé. Il padre, per una figlia, ha il volto dello sposo che ella ha sempre sognato. Perciò è importante che i genitori siano reali testimoni di amore, di saggezza umana e spirituale, di fede, di gioia, di semplicità. Tuttavia può succedere che i figli siano il fallimento spirituale dei genitori ma non è sempre così. A volte da buoni genitori possono esserci figli cattivi, e viceversa. Questo è il frutto della libertà del proprio agire ed ognuno è responsabile delle proprie azioni. "Colui invece che fa la verità viene alla luce, perché si riveli che le sue opere sono operate in Dio" (Gv. 3,21).

"Padri! Non provocate i vostri figli, perché non si perdano di coraggio" (Col 3,21). Perciò occorre evitare l'eccessiva severità, ma è preferibile correggere anziché punire i propri figli. Tuttavia molto spesso accade invece che i figli siano sciupati dall'esagerata mitezza dei genitori. Da questa malsana indulgenza scaturisce l'esempio di Eli, sommo sacerdote, il quale, essendo stato troppo debole con la propria figliolanza, incontrò l'estremo castigo (1 Sam 4,18).

"Se uno dice: "Io amo Dio" e poi odia il proprio fratello, è mentitore: chi infatti non ama il proprio fratello che vede non può amare Dio che non vede. E noi abbiamo da lui questo comandamento; chi ama Dio ami anche il proprio fratello" (1 Gv 4,20-21). Analogamente, se non rispettiamo e non amiamo i genitori, cui dobbiamo secondo Dio tanto ossequio e che ci sono sempre al fianco, quale tributo di onore saremo mai capaci di offrire a Dio sommo e ottimo padre, che sfugge a ogni sensibile percezione?

"Allora la tua luce spunterà come l'aurora e le tue ferite ben presto guariranno; la tua giustizia ti camminerà davanti e dietro la gloria del Signore. Allora se chiami, il Signore risponderà, e alle tue grida egli dirà: Eccomi" (Is 58, 8-9).







[SM=g1740738]


[Modificato da Caterina63 07/02/2016 22:48]
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