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Se avete desiderio di capire che cosa insegna la Bibbia che il Magistero della Santa Chiesa, con il Sommo Pontefice ci insegna, questo Gruppo fa per voi. Non siamo "esperti" del settore, ma siamo Laici impegnati nella Chiesa che qui si sono incontrati da diverse parti d'Italia per essere testimoni anche nella rete della Verità che tentiamo di vivere nel quotidiano, come lo stesso amato Giovanni Paolo II suggeriva.
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I DIECI COMANDAMENTI...ragionati

Ultimo Aggiornamento: 07/02/2016 22:48
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19/06/2013 11:03
 
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7. «Non rubare» (Esodo 20, 15)

 

    Con la sua legge, Dio proibisce ripetutamente il danneggiamento del prossimo: nella persona («non uccidere»), nel congiunto cui è legato da un sacro vincolo («non commettere adulterio») e, come stiamo vedendo, nei beni esteriori («non rubare»).

    Il divieto si estende a qualunque sottrazione indebita, sotto qualsiasi forma.

 

    I. Costante del furto è che lo si effettua [generalmente] di nascosto; nessuno si lascerebbe vuotare la casa, se potesse indovinare in quale momento il ladro passerà all'azione (cf. Mt 24, 43). Un modo d'agire esecrabile, il suo, che lo accomuna al tradimento; e [quando egli viene scoperto] sarà additato al pubblico disprezzo (cf. Sir 5, 17).

    2. C'è però chi ruba con aperta violenza (201), e ovviamente accresce la gravità del fatto. Principi e re sono [spesso] classificabili entro questa categoria, e il profeta Sofonia adopera parole sferzanti: «Le autorità [di Gerusalemme] sono in mezzo a lei come leoni ruggenti; i suoi giudici son come lupi della sera, che non lascian niente per il mattino» (Sof 3, 3).

    Essi agiscono contro i disegni del Signore, che vuol trovare rettitudine negli uomini investiti di pubblica autorità, onde poter ripetere: «E in mio nome che regnano i re e i magistrati applicano il diritto» (Prv 8, 15).

    Anche costoro s'impadroniscono dei beni altrui, o nascostamente o col sopruso, facendo concorrenza ai ladri e correndo dietro ai donativi (cf. Is I, 23); oppure raggiungono i propri intenti emanando leggi [inique] e) e stabilendo tasse già destinate in partenza ad alimentare il reddito personale. Tanto che Agostino si chiede che altro siano i regni, se non latrocini su vasta scala. Di sicuro lo sono, perlomeno, le inique pubbliche amministrazioni.

 

    3. Si ruba col trattenere il salario dovuto all'operaio. Perciò il Levitico raccomanda che la paga giornaliera del bracciante non rimanga a lungo tra le mani dell'amministratore (cf. Lv 19, 13).

    È sottinteso, una volta di più, l'obbligo di dare a ciascuno il suo, si tratti [del servo o] del padrone, del chierico o del suo prelato. E l'invito alla giustizia che san Paolo rivolge a tutti: «Rendete a ognuno quanto gli è dovuto: a chi l'imposta, l'imposta; a chi la gabella, la gabella; a chi la riverenza, la riverenza; a chi l'onore, l'onore» (Rm 13, 7). Siamo tenuti infatti a versare il nostro contributo a quanti amministrano il bene comune (202).

 

    4. A riprovazione delle [frequenti] frodi commerciali, dice il Signore: «Nella tua sacca non nascondere due pesi, uno esatto e l'altro più grande. Non avere in casa due misure, quella giusta e quella che hai manipolato» (203); «Non commettere ingiustizie... nelle misure di lunghezza, di peso e di capacità. Usate bilance giuste, fate pesi giusti, siano esatti l'efa e l'hin» (204); o ancora, tra i Proverbi: «Doppio peso è in abominio presso Dio; bilancia falsa non è cosa buona» (Prv 20, 23).

    Un discorso del genere vale ovviamente per quegli osti che mescolano l'acqua al vino. E viene condannato anche l'interesse eccessivo richiesto nelle usure. L'usuraio [assieme agli altri operatori di frode] rischia d'essere escluso dal regno dei cieli (cf. Sal 14, 1). L'avvertimento riguarda banchieri e cambiavalute, che combinano imbrogli d'ogni sorta, e i venditori di panni e l'intera classe dei negozianti...

    Prevedo un'obiezione: «Ma perché non dovrei esser libero di dare [a interesse] il denaro che mi è stato chiesto in prestito, come faccio quando consegno a nolo un cavallo oppure in affitto una casa?».

    Ti rispondo che, se in tale genere di affari c'è peccato, esso deriva dal volersi far pagare due volte una stessa e identica cosa. Nei beni immobili infatti, o comunque alienabili, vanno distinti il bene preso in se stesso, dal suo uso. Posso perciò far pagare una quota d'affitto a chi si serve della mia abitazione, restandone io proprietario. E altrettanto dicasi in casi consimili.

    Ove però esistano beni che si risolvono nell'uso dei medesimi - cioè come mezzo per effettuare gli scambi -, non ce ne possiamo servire per ricavarne un usufrutto (205). Mentre infatti usiamo il frumento impiegandolo [per la semina o l'alimentazione], il denaro esaurisce il suo ruolo nel mediare lo scambio di altri beni. Così se vendi il tuo denaro, vendi [la medesima cosa, di cui hai già ricevuto l'equivalente] due volte.

    5. Nello stesso peccato [di appropriazione indebita] cadono quanti si comprano qualche carica onorifica, temporale o [peggio] di natura spirituale. Del primo caso leggiamo nella Scrittura: «Ingoiò ricchezza e la vomiterà, gliela ricaccerà dal ventre Iddio» (Gb 20, 15). I tiranni e tutta la genìa di signorotti che servendosi della violenza si sono posti a capo di un regno, di una provincia o di un feudo, sono dei ladri e in quanto tali hanno l'obbligo di restituire il maltolto.   

    A chi si è procacciato benefizi ecclesiastici a suon di quattrini, Gesù ha detto: «Chi non entra nell'ovile per la porta ma vi sale da un'altra parte, è ladro e brigante» (Gv 10, 1). Simoniaci, dunque, uguale a ladri.

    «Non rubare». Molte le ragioni che ci devono indurre a evitare qualunque tipo di violazione del settimo comandamento.

    Spesso è un autentico crimine, paragonabile all'omicidio. Dichiara Ben Sirac (206): «Uccide il prossimo chi gli sottrae il cibo, e sparge sangue chi priva l'operaio della sua mercede» (Sir 34, 25); e qualche versetto più avanti: «Un assassino e uno che campa defraudando l'operaio sono fratelli [degni l'uno dell'altro]» (Sir 34, 27).

    Il furto poi comporta non pochi rischi. Forse nessun altro peccato è così pericoloso. Perché una colpa venga perdonata si richiede il pentimento e una corrispondente soddisfazione. Nella maggior parte dei casi, il pentimento sopraggiunge presto: prendi, che so, un delitto compiuto per impulso dell'ira; oppure la fornicazione, al placarsi della concupiscenza, e via dicendo.

    Ora, anche ammesso che il ladro si penta, non è detto che egli sia egualmente pronto a rendere la refurtiva; e in più si aggiunga il dovere di risarcire gli eventuali danni causati al legittimo proprietario, oltre alla penitenza che gli verrà imposta per il peccato stesso... Per questo esclamava un profeta: «Guai a colui che accumula roba non sua! Quando la smetterà di affondare nella melma?» (Ab 2, 6). Dal fango denso di un pantano è difficile tirarsi fuori.

    Il frutto dei latrocini si rivela sterile. Non giova certo allo spirito: «Non tornano utili i tesori di mal acquisto» (Prv 10, 2). Le ricchezze infatti producono un guadagno spirituale solo nella misura in cui vengono date in elemosina o per offrire sacrifici di culto (cf. Prv 13, 8); ma di ciò che si possiede ingiustamente sta scritto: «Io, il Signore, amo il [rispetto del] diritto, e odio la rapina che vorrebbe alimentare gli olocausti» (Is 61, 8). Analoga riprovazione la trovi in una pagina del Siracide: «Chi offre un sacrificio pagandolo col denaro dei poveri, somiglia a chi sgozza il figlio sotto gli occhi di suo padre» (Sir 34, 24).

    Né ci si può illudere che giovino a lungo: «Guai a chi compie illecite rapine nella speranza di mettere in alto il suo riparo e sfuggire ai colpi della sventura!... Certo, grideranno [contro di lui] le pietre dei muri, e faranno loro eco le travi dei bastioni» (207).

    «Chi accresce le sue ricchezze con usura e interessi, le accumula [non per sé ma] per chi sente pietà verso i poveri» (Prv 28, 8). In altri termini; «La ricchezza del peccatore passa nelle mani del giusto» (Prv 13, 22).

    Infine, il furto cagiona un danno ai beni già posseduti [magari onestamente]: li manda in rovina, un po' come il fuoco che cade sopra la paglia. «Il fuoco divorerà la tenda dell'uomo venale» (Gb 15, 34).

    E tieni presente che un ladro non danneggia solo la propria anima, ma l'esistenza dei suoi figli, obbligati spesso a rimetterci di tasca [nell'indennizzo delle vittime].

 

8. «Non dir falsa testimonianza contro il tuo prossimo» (Esodo 10, 16)

 

    Dopo il divieto di nuocere al prossimo mediante azioni ingiuste, il Signore ci comanda di non fargli del male nemmeno con le parole, deponendo il falso contro di lui, sia di fronte a un giudice, sia nei rapporti abituali.

    Nel corso di un processo, possono violare il precetto tre categorie di persone.

    Innanzitutto, colui che accusa falsamente un altro. «Non andar seminando la diffamazione tra il tuo popolo - si legge nel Levitico - e non portare accuse infondate contro il prossimo, per attentare alla sua vita» (Lv 19, 16). Erra anche chi ha l'obbligo di parlare, e non lo fa: manca al dovere della correzione fraterna (208).

    Il falso testimone non rimarrà impunito (cf. Prv 19, 5). E possono aver connessione con [la non-osservanza del]l'ottavo comandamento tutti gli altri precetti fin qui esaminati: si deforma la verità, spesso, per coprire un omicidio, un furto e via dicendo.

    La pena cui essi [anticamente] andavano incontro è descritta nel Deuteronomio: «I giudici faranno una diligente inchiesta, e se troveranno che quel testimone mentisce e ha deposto il falso contro un suo fratello, trattate lui come aveva pensato di fare al fratello... Il tuo occhio non si muova a compassione: gli farai pagare vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano e piede per piede» (Dt 19, 18.19; 21).

    Ed è giusto il principio, dal momento che «una mazza, una spada, un'acuta saetta è il delatore del prossimo con le sue false accuse» (Prv 25, 18).

    Incorre nella medesima riprovazione la persona del giudice che si pone al servizio dell'iniquità. «Non commettere ingiustizia nel giudicare; non guardare se uno è povero e non aver preferenze per chi è grande, ma giudica con imparzialità il tuo prossimo» (Lv 19. 15).

    Nel parlare quotidiano, facilmente vanno contro l'ottavo comandamento le seguenti persone.

    I maldicenti. Chi sparla del prossimo non è gradito a Dio (cf. Rm I, 30), anzi gli dà disgusto poiché nulla l'uomo ha di più caro, che la propria [buona] fama. Il buon nome è meglio di un unguento prezioso o di grandi ricchezze (cf. Qo 7, 2; cf. Prv 22, 1), e i detrattori cercano di toglierceli. «Se il serpente morde prima d'essere incantato, non c'è nulla da fare per l'incantatore» (Qo 10, 11). Non provvedendo a riparare dopo aver leso in maniera grave l'altrui fama, costoro non si salvano.

    Poi viene chi dà facile credito al maldicente. Raccomanda la Scrittura: «Fa siepe di spine alle tue orecchie, non ascoltare una lingua facile a dir male degli altri; e alla tua bocca metti un chiavistello» (Sir 28, 28). L'uomo [assennato] non deve ascoltare volentieri questi tali: deve anzi mostrarsi accigliato, severo. Può darsi che si ottenga quanto, figuratamente, dicono i Proverbi: come il vento di tramontana dissipa la pioggia, così un ascoltatore dallo sguardo carico di rimprovero può costituire un freno per la lingua del maldicente (cf. Prv 25, 23).

    Seguono le persone pettegole, pronte a riportare tutto ciò che han raccolto in giro. Eppure «vi sono sei cose che il Signore detesta, anzi sette che il suo spirito abomina; [e quest'ultima è rappresentata da] chi semina discordie tra i fratelli» (Prv 6, 16). «Maledetto il delatore... che manda in rovina quanti vivono in pace... Un colpo di sferza produce una piaga ma un colpo di lingua guasta più a fondo» (Sir 28, 15).

    Dei cortigiani [nel senso peggiorativo], ossia degli adulatori un salmo riferisce la mentalità: «Il peccatore vien lodato per i suoi progetti [infami], e l'iniquo è applaudito» (Sal 10, 3). «Bada, popolo mio, che chi ti chiama 'beato' ti sta illudendo» (Is 3, 12). Perciò il savio si augura di essere rimproverato, nei suoi errori, con misericordia; preferisce essere sgridato piuttosto che lasciarsi ungere il capo con l'olio profumato dei malvagi (cf. Sal 140, 5).

    La mormorazione, per concludere, così frequente nei sudditi. La Sapienza ci esorta: «Guardatevi dalle vane mormorazioni e trattenete la lingua dalla critica facile» (Sap I, 11), tanto più che [alle volte] «un superiore si lascia piegare dalla pazienza, e una parola moderata può vincere la durezza» (Prv 25, 15).

    «Non dir falsa testimonianza contro il tuo prossimo», in sintesi, proibisce ogni sorta di deformazione della verità. «Guardati dalle menzogne, perché l'avvezzarsi a questo errore non è affatto un bene» (Sir 7, 14). E ciò per quattro motivi.

 

    I. Il mentire ci rassomiglia al diavolo. Come un uomo lo si riconosce dal suo modo di parlare, dalla particolare cadenza, tipica di una regione o di un paese (cf. Mt 26, 73), vi sono uomini che potremmo chiamare diabolici, figli del demonio, per l'enormità o la sottigliezza dei loro raggiri. Il diavolo è menzognero, padre dell'inganno, egli che per primo osò alterare la verità: «No, voi non morrete; [anzi] diventereste come Dio, acquistando la conoscenza del bene e del male» (Gn 3, 4).

    Chi invece è veritiero si comporta da figlio di Dio, verità per essenza.

    2. Si guastano i rapporti sociali. Sarà impossibile una pacifica convivenza qualora venga a mancare la fiducia reciproca. L'apostolo Paolo perciò fa appello alla sincerità: «Ognuno parli col prossimo senza doppiezza, giacché siamo tutti membra [del corpo mistico di Cristo]» (Ef 4, 25).

 

    3. Ne va di mezzo oltre tutto la propria fama. Difatti non si concede facilmente credito a un uomo che racconta frottole come se niente fosse. Non gli credi neppure quando dice la verità. «Da ciò che è sporco si può ricavare qualcosa di pulito? E come ottenere, da un bugiardo, la verità?» (Sir 34, 4).

 

    4. L'anima ne subisce detrimento. Il bugiardo, ossia una bocca menzognera, «uccide l'anima» (Sap I, 11). Tu [Signore] detesti [e ti proponi di annientare] chi trama insidie ai danni del prossimo (cf. Sal 5, 7). Non di rado, quindi, la menzogna è peccato mortale.

    Si impone una valutazione morale dei diversi tipi di bugie: ve ne sono di assai gravi, ma anche di leggere.

    E colpa mortale sostenere l'errore circa le verità di fede. Devono guardarsene [in particolare] i teologi, specie se in vista, e i predicatori. E la più grave, tra le alterazioni della verità, denunciata fin dal tempo dell'apostolo Pietro, che scrive: «Come ci furono in mezzo al popolo [israelitico] dei falsi profeti, ci saranno pure in mezzo a voi [cristiani] dei falsi dottori, che introdurranno con astuzia delle sette rovinose» (2 Pt 2, 1).

    C'è chi sostiene il falso, per desiderio di apparire sapiente [sempre in materia di fede]. Se costoro arrivassero a burlarsi dei credenti e a mettere in ridicolo la loro osservanza (cf. Is 57, 4), potrebbero peccare anche mortalmente, assieme a chi danneggia in modo grave il prossimo, con le sue menzogne.

    Altri, invece, se non dicono il vero, lo fanno senza danneggiare gli altri: ad esempio, per un senso di male intesa umiltà, nel confessarsi. Li disapprova sant'Agostino: «Come bisogna ammettere quello che uno ha compiuto, così non bisogna inventare ciò che non si è fatto». Una bugia non fa mai piacere a Dio, che non ha bisogno delle nostre favole (cf. Gb 13, 7). Egli sa bene infatti che «c'è il perverso che si umilia a bella posta, mentre ha l'animo pieno di intenzioni malvage» (Sir 19, 23). E c'è anche il giusto che eccede nell'avvilire se stesso.

    Si dicono pure le bugie nel timore d'essere umiliati, come accade a chi inavvertitamente abbia affermato qualcosa di erroneo e, resosene conto, si vergogna di rettificare. Tu però «non arrossire nell'ammettere che hai sbagliato» (Sir 4, 30).

    Non manca chi ricorre al raggiro onde ottenere ciò che vuole, oppure per evitarsi un castigo. Si rifugiano nella menzogna, «si sono trincerati nella frode», secondo una espressione di Isaia (Is 28, 15). Efficace una sentenza dei Proverbi: «Chi cerca di costruire sopra la menzogna, si pasce di vento» (Prv 10, 4).

    Qualcuno giura il falso nel tentativo di rendersi utile verso qualche amico, per scamparlo da morte o da altra incresciosa situazione. Bisogna anche qui andar molto cauti: «Non aver riguardo di qualsiasi persona con tuo danno, [ma] neppure devi mentire a spese dell'anima tua» (Sir 4,26).

    C'è chi racconta bugie solo per gioco; però bisogna starci ugualmente attenti, ché l'abitudine non conduca pian piano a violazioni gravi del comandamento. Infatti «il fascino della frivolezza oscura il bene, e nell'impeto della passione resterà travolto l'animo semplice» (Sap 4, 12).

 

9. «Non desiderare la casa del tuo prossimo... né il suo servo né la sua serva, né il suo bue o il suo asino, né alcun'altra cosa che appartenga al tuo prossimo» (Esodo 20, 17)

 

    La differenza fondamentale tra legge divina e legge umana è questa: che mentre la seconda decide su parole e fatti esteriori, la prima giudica perfino i moti dell'animo. Il legislatore umano potrà valutare sempre e soltanto l'aspetto esterno d'una vicenda, invece Dio vede ogni cosa di fuori e di dentro. Non sbaglia Davide nel chiamarlo: «Dio del mio cuore» (Sal 72, 26). L'uomo si ferma alle apparenze, ma Dio scruta in fondo all'animo (cf. 1 Sam 16, 7).

    Vedremo adesso perciò un comandamento che riguarda i pensieri, gli affetti e i desideri del cuore umano. Agli occhi di Dio, acquista valore morale anche una semplice intenzione. Quindi egli ci proibisce non solo di sottrarre al prossimo la roba che gli appartiene, ma anche di considerarla nostra bramandola ardentemente. E i motivi [che ispirano un tale precetto] sono tanti.

 

    1. La concupiscenza è insaziabile. Una sorta di appetito senza fine. L'uomo saggio però deve prefiggersi un limite in tutto, essendo inoltre un'assurdità avviarsi per una strada che non ha termine. «Chi ama il danaro, mai di danaro è sazio» (Qo 5, 9), e avuta una casa se ne sognerà una seconda, ci si vorrà impadronire con ogni mezzo di un terreno da aggiungere agli altri possedimenti, divenendo da soli i proprietari di un mezzo paese (cf. Is 5, 8).

    L'unica spiegazione che dia un perché a tanta insaziabilità sta nel fatto che l'animo umano è stato adeguato a ricevere Dio. «Ci hai fatti per te, Signore - esclama sant'Agostino -, e il nostro cuore sarà irrequieto fin quando non si abbandonerà in te». Tutto ciò che non è Dio, non può essere sufficiente a colmare questo vuoto interiore. «Soltanto lui sazia di beni ogni tuo anelito» (Sal 102, 5).

 

    2. Questa brama continua, ci priva della quiete, di cui abbiamo tanto bisogno. Chi già possiede qualcosa, nutre in sé la cupidigia di acquistare dell'altro, e sta continuamente all'erta per custodire i suoi beni. «La sazietà del ricco non lo lascia dormire» (Qo 5, 11), poiché il suo cuore veglia accanto ad essi (cf. Mt 6, 21). Non per nulla, Cristo ha paragonato le ricchezze alle spine [delle preoccupazioni] di cui ha scritto l'evangelista (cf. Lc 8, 14), come osserva san Gregorio.

 

    3. La cupidigia svilisce le ricchezze, dal momento che l'avaro, nel timore di perderle non le utilizza: né per sé, né [tanto meno] a favore del prossimo. Tutto consiste nel tenerle sottochiave. A che altro infatti gli servono i tesori? (cf. Sir 14, 3).

 

    4. Rende difficile l'esercizio dell'equità e della giustizia (209). La raccomandazione che possiamo leggere nell'Esodo vale sempre e per chiunque: «Non accettare regali; poiché il regalo acceca anche coloro che hanno la vista chiara e perverte le parole dei giusti» (Es 23, 8). Infatti chi è condizionato dai doni che riceve, non resterà imparziale (cf. Sir 31, 5).

 

     5. Soffoca la carità verso i bisogni altrui. Sant'Agostino ha sottolineato il rapporto che esiste tra amore del prossimo e amor del denaro: più è forte quest'ultimo, più si attenua il precedente; e viceversa. «Non cambiate un amico per un po' di denaro, e un fratello [nemmeno] per l'oro di Ofir» (210). Altrettanto vale a proposito della carità verso Dio: come non si può servire nel medesimo tempo a due padroni, così neppure e al Signore e alle ricchezze (cf. Mt 6, 24).

 

    6. In conclusione [l'avidità] è fonte di svariati errori, radice di tutti i mali, fino a condurre al furto, all'omicidio e a crimini anche peggiori (cf. I Tm 6, 10). Scrive san Paolo: «Contentiamoci di poco; poiché quelli che vogliono arricchire, cadono nella tentazione [di agire senza scrupoli], nel laccio del diavolo, [ossia] in molti desideri inutili e nocivi, che travolgono gli uomini nella rovina e nella perdizione» (I Tm 8-9).

    Nota che la cupidigia si configura quale colpa grave se l'invidiare l'altrui benessere non ha attenuanti di sorta, che lo renderebbero meno grave.

 

10. «Non desiderare la donna del tuo prossimo» (Esodo 20, 17)

 

    Nella sua prima lettera, san Giovanni ha scritto che «tutto ciò che è nel mondo è concupiscenza della carne, licenziosità degli occhi e superbia di vita» (I Gv 2, 16). L'oggetto dei nostri desideri rientra sempre in questa sfera; e già due di tali fomiti [ossia l'insaziabilità degli sguardi e il desiderio smodato di primeggiare] risultano proibiti dal nono comandamento: «Non desiderare la casa [o altre proprietà] del tuo prossimo». Infatti una residenza [sontuosa o, almeno, vasta] viene considerata dagli uomini quale espressione di grandezza, cioè di quell'appetito di denaro e di gloria di cui parla il salmo 111 (cf. Sal 111, 3). Non si desidera una bella casa senza vagheggiare insieme una posizione privilegiata.

     Quindi, dopo il divieto di porre gli occhi sugli splendidi palazzi altrui e di invidiarne gli onori, segue quest'altro, che intende raffrenare i desideri carnali. «Non desiderare la donna del tuo prossimo».

     In seguito al peccato originale, nessuno, oltre al Cristo e alla Vergine Maria, sfugge ai richiami della concupiscenza. L'acconsentirvi non è mai una scelta morale indifferente: come minimo comporta qualche venialità e, se arriva a dominarci, allora la colpa è grave. «Non regni il peccato nel vostro corpo destinato alla morte, divenendo schiavi delle sue concupiscenze» (Rm 6, 12). L'apostolo Paolo non si fa illusioni, conosce bene e ammette la presenza della sensualità nelle proprie membra (211).

     Il peccato si impossessa dell'uomo quando la concupiscenza gli occupa il cuore, mediante il consenso. Allora diveniamo schiavi dei piaceri (cf. Rm 6, 12). In concreto, «chiunque avrà guardato una donna, per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei, nel suo cuore» (Mt 5, 28), poiché Dio, in una intenzione volontaria, vede il germe dell'azione.

     Poi traduce in parole i pensieri che ha coltivato nell'animo. La bocca infatti «parla per la sovrabbondanza del cuore» (212); di qui il richiamo di Paolo: «Dalle vostre labbra non esca alcun cattivo discorso...; qualunque amarezza e animosità, e arroganza, maldicenza e ogni sorta di malizia sia rimossa da voi» (Ef 4, 29).

    Non è senza responsabilità morale il comporre canzoni vane, perfino secondo antichi saggi pagani, tanto che si giunse a mettere al bando dalle città gli autori di poesie erotiche.

    Passa infine all'azione, asservendo le membra ai propositi della concupiscenza, ossia alla schiavitù della carne (cf. Rm 6, 19).

    Per non cadere in questo genere di peccato bisognerà impegnarsi seriamente, trattandosi di un'insidia latente; ed è sempre un'ardua impresa spuntarla su un nemico che ti si nasconde in casa.

    Vi sono tuttavia diversi sistemi per riuscirvi.

 

    I. Fuggire le occasioni che puoi avere attorno, le amicizie pericolose e tutto ciò che fortuitamente potrebbe facilitare la resa. Quindi «non fissare una vergine, per non restare affascinato dalla sua avvenenza... Non guardare a destra e a sinistra per le vie della città [sempre per la suddetta ragione], girellando per le piazze. Distogli i tuoi occhi da una donna formosa e non fissare una bellezza che non ti appartiene. Molti si sono traviati per una donna piacente: il desiderio divamperebbe, come un incendio» (Sir 9, 5-9). «E’ mai possibile - si legge nei Proverbi - mettersi il fuoco in grembo e non bruciarsi le vesti?... Tale è colui che vuol godere la donna del prossimo: chiunque la tocca non resterà senza danno» (Prv 6, 27-29). Perciò fu giusto l'ordine impartito a Lot, di allontanarsi dai dintorni della regione [maledetta] (213).

 

    2. Non dar adito ai pensieri che forniscono incentivo al risveglio della concupiscenza. Ci si riesce mortificando i sensi. In base alla propria esperienza, l'apostolo Paolo poteva scrivere: «Castigo il mio corpo. e lo tratto come uno schiavo» (I Cor 9, 27).

 

    3. Insistere nella preghiera, dal momento che «se non è il Signore a custodire la città, faticano inutilmente quelli che vogliono custodirla» (Sal 126, 1). «Ho capito che non potrei serbarmi casto, se Dio non mi dà grazia» (Sap 8, 21). E insomma quel genere di «demoni» che «non si può scacciare altro che con la preghiera e col digiuno» (Mt 17, 20). Se ti trovassi di fronte a due che si stanno affrontando e tu vuoi aiutare uno di loro, mentre dai una mano a quest'ultimo, devi negare al primo qualunque appoggio. Ora, tra la carne e lo spirito c'è una guerra incessante; perciò, se vuoi la vittoria dello spirito, bisogna che tu gli dia il soccorso necessario: e lo fai mediante la preghiera. Bisogna anche fiaccare la ribellione dei sensi: e a ciò provvede il digiuno, che frena [gli eccessi del] la carne.

 

    4. Farsi trovare sempre impegnato in qualche buona faccenda, poiché «l'ozio è il maestro d'ogni sorta di mali» (Sir 33, 29) e, come spiega Ezechiele, «questa fu la colpa di Sodoma: superbia, sovrabbondanza di cibo e lo star senza far nulla» (Ez 16, 49). San Girolamo raccomanda [in una lettera a Paolino] (214): «Fa' sempre qualcosa di buono, affinché il diavolo ti trovi già occupato». Tra tutte, la migliore occupazione consiste nello studio della Bibbia; e prosegue, il santo: «Ama lo studio della Scrittura; non troverai allora tanto incantevoli le depravazioni della carne».

     Possiamo ormai concludere. Abbiamo preso in esame il decalogo, di cui il Signore [rispondendo a un giovane che lo aveva interrogato] disse: «Se vuoi entrare nella vita [eterna], osserva i comandamenti» (Mt 19, 17).

    Alla radice dei singoli precetti troverai sempre l'amore verso Dio e quello verso il prossimo.

    All'uomo che vuole amare Dio si impongono tre doveri: non avere altre deità (perciò sta scritto: «Non adorerai gli dèi stranieri»). Al vero Dio va reso il dovuto onore, quindi «non nominare invano il suo nome». Trova in lui, di buon grado, il tuo ristoro: «Ricordati del giorno di riposo, per santificarlo».

    Per mostrare poi al prossimo un amore autentico, l'uomo deve esercitare la riconoscenza [specie nei confronti dei principali benefattori]: «Onora tuo padre e tua madre»; non danneggiarne la persona fisica: «Non uccidere»; né fare oltraggio alle persone che a lui sono care: «Non commettere adulterio»; o portargli via i beni di fortuna: «Non rubare». Non deve fargli del male con le parole - [soprattutto] «non dire falsa testimonianza» -, e neppure con desideri illeciti. Perciò «non desiderare né la roba né la donna del tuo prossimo».

 

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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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