A tutti voi che passate da qui: BENVENUTI
Se avete desiderio di capire che cosa insegna la Bibbia che il Magistero della Santa Chiesa, con il Sommo Pontefice ci insegna, questo Gruppo fa per voi. Non siamo "esperti" del settore, ma siamo Laici impegnati nella Chiesa che qui si sono incontrati da diverse parti d'Italia per essere testimoni anche nella rete della Verità che tentiamo di vivere nel quotidiano, come lo stesso amato Giovanni Paolo II suggeriva.
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FEDE E OBBEDIENZA e perchè no, anche PRUDENZA:obbedire per Fede e Amore-Carità

Ultimo Aggiornamento: 25/08/2012 19:26
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FEDE....ma che cosa vuol dire questa parola?

La parola FEDE implica una varietà di significati che spesso dimentichiamo....oppure releghiamo esclusivamente alla nostra emotività (fideismo o sentimentalismo).....proviamo allora a fare un tracciato.. [SM=g27988] ..



La fede così come ci viene presentata da s. Giovanni e da s. Paolo interessa TUTTO IL NOSTRO ESSERE , e ha per oggetto una persona : GESU’ nostro Signore e nostro Dio.

FEDE = ACCETTARE GESU’


CONTENUTO DELLA FEDE = Tutta la Persona: Romani 10,9

" Se tu confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo ".

Bocca e cuore, dunque, nel linguaggio semitico significano tutta la persona... [SM=g27988] ..

OGGETTO DELLA FEDE = Nel nome di Gesù sarai salvo

-- E’ credere che il Padre mi salva per mezzo di Gesù -
-- E’ credere che Gesù è il mio Signore e il mio DIO -
-- E' credere che quanto lui ha detto e fatto è la Verità -
-- E' credere che lui è Dio anche quando non sono profondamente capace di comprendere -
-- E' FIDARSI di Gesù che dice: sono venuto PER SALVARTI: VUOI ESSERE SALVATO? -

Questo porta a rinunciare alle nostre sole forze e ai nostri progetti (per quanto buoni essi siano).... per affidarci e confidare in Gesù. L’atto di fede esige umiltà, cioè il riconoscimento della nostra incapacità..... e di conseguenza ci spingiamo CON UN ATTO DI UMILE VOLONTA' NELLE BRACCIA DI GESU' CRISTO.....che dice IO SONO LA VIA, LA VERITA' E LA VITA: CHI VIENE A ME ANCHE SE MORRA' AVRA' LA VITA ETERNA.. [SM=g27988] ...
L’ORGOGLIO E L’AUTOSUFFICIENZA sono incompatibili con la fede...
Esempio del cieco Bartimeo Marco 10,46-52.....

Tutti siamo incamminati in una strada, può essere la strada di Gesù, la strada dei discepoli tentennanti e timorosi...
E’ una strada in cui si fanno degli incontri, come quello del giovane ricco: sembrava una strada comune, alla fine il giovane decide di cambiarla....
Bartimeo invece, da fuori strada ( si trovava ai margini della strada ) è venuto alla Strada..la Via che è Gesù...
DA NON VEDENTE POI CI VEDE- DA NIENTE ORA POSSIEDE MOLTO, può donare la sua vita. [SM=g27988]


FEDE COME FEDELTA’ = Rut capitolo 1
una Moabita che fa il suo giuramento al Signore rimanendo fedele alla sua decisione.
Altro esempio è la fede come fedeltà provata di san Giovanni Battista che si lascia decapitare perchè ora ha trovato ed incontrato il vero Dio...quindi può esporsi fino a dare se stesso...

FEDE E’ SCOPERTA = la visione di Giacobbe della scala che unisce il cielo e la terra.
Quando Giacobbe si sveglia dal sogno dice : " IL Signore è qui e io non lo sapevo "
Quanti avvenimenti della nostra vita ci riportano a questa esclamazione....
Fede è dire : " IL SIGNORE ERA CON ME ED IO NON LO SAPEVO "....


FEDE E’ RIVOLUZIONE = può portare profondi cambiamenti.

Giacobbe ha rivoluzionato la sua vita
GIACOBBE = SGAMBETTATORE ; ha cercato di fare da solo e ha raccolto solo timore e odio.... alla fine guadagnerà anche il fratello.
san Paolo..... anch’egli ha rivoluzionato la sua vita ; da persecutore è diventato un perseguitato pagando con la propria vita questo atto di Fede e Fedeltà.... [SM=g27988]
Orgoglioso per il fatto di essere fariseo, romano, giudeo..sulla via di Damasco considererà tutto questo come spazzatura.

FEDE E’ DONO = molti testi della Sacra Scrittura mostrano l’origine divina della fede :
Giovanni 1,12-13 " A quanti lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio, a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere d’uomo ma da Dio sono stati generati ".
Giovanni 6,44 " Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato".
La fede è un regalo e il pensiero di Dio è AVERE FIGLI....quindi è un pensiero di Dio DONARE QUESTA FEDE A CHIUNQUE GLIELO CHIEDERA'......
Indubbiamente ci sono casi in cui il Signore sembra NON udire la nostra richiesta, ecco allora che qui veniamo messi alla prova....come ci rammenta il libro di Giobbe....egli fu beneficiato da Dio fin dal primo istante, ma ad un certo punto il Signore lo mette alla prova.. [SM=g27995] ..

CHE COSA NON E' LA FEDE...

La fede non è sentimentalismo....ce lo rammenta Gesù quando dice: "NON chi dice - Signore Signore - entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio" Volontà del Signore è spesse volte quell'entrare in conflitto con la nostra coscienza....è quel combattere la giusta battaglia attraverso la quale veniamo saggiati, purificati e resi forti....
Chi nella prova abbandona la lotta, non vive una vera fede....

La fede non deve diventare fideismo....Il fideismo è l'atteggiamento per cui si ritiene che solo la fede (la credenza religiosa) possa permettere all'uomo di raggiungere la verità suprema...... La fede si configura per il fideista come strumento indipendente e superiore alla ragione in rapporto alla ricerca della verità assoluta (che la fede identifica in Dio e nel suo volere)....e questo è sbagliato perchè la fede trasmessaci da Cristo significa usare la ragione per comprendere il progetto di Dio in ognuno di noi.... Gesù infatti dice: "Non vi chiamo più servi ma AMICI perchè il servo non sa cosa fa il padrone, mentre io vi ho trasmesso TUTTO QUELLO CHE IL PADRE MI HA DETTO"..dunque la fede NON nella SOLA SCRIPTURA, ma in quel ASCOLTARE LA CHIESA poichè Gesù dirà: Chi ascolta VOI, ascolta ME!"... [SM=g27988]
La fede in Cristo Gesù è un rapporto che si sviluppa da un incontro personale con il Risorto e si trasmette NELLA COMUNITA' (La Chiesa) attraverso una testimonianza CONDIVISA.....e di crescita sia personale quanto comunitaria nella quale, ecco qui, SI APPLICA ATTRAVERSO L'OBBEDIENZA ALL'OSSERVANZA DELLE NORME IMPARTITE DALLA CHIESA.. [SM=g27988] ....

La fede non è fare da soli......la storia di Simon mago è palese....il dono dello Spirito Santo avviene per mezzo degli Apostoli e dunque per mezzo DELLA CHIESA.....chi riceve il dono da questa MADRE non può per logica usare tale dono contro di essa..Lo Spirito Santo, infatti, non agisce DISSOCIATO dal Padre e dal Figlio, attraverso i quali invece E' ADORATO E GLORIFICATO E HA PARLATO PER MEZZO DEI PROFETI (=Credo Apostolico), bensì Egli: TERZA PERSONA DELLA TRINITA' agisce con un unica VOLONTA' poichè abbiamo UN SOLO DIO, ergo un unica volontà che si attiva dalla Chiesa VERSO IL MONDO...e non viceversa, ossia lo Spirito NON agisce FUORI DELLA CHIESA CONTRO DI ESSA... [SM=g27987]

Difendere la Fede, per noi cattolici....significa difendere innanzi tutto LA TESTIMONIANZA DEL RISORTO PER MEZZO DELLA CHIESA.....
NON dobbiamo difendere la Chiesa, ma il messaggio che Essa ci tramanda perchè non venga offuscato con le nuove dottrine create dalle mode dei tempi....
Segno tangibile di questa FEDE vera sarà la nostra TESTIMONIANZA e non le discussioni atte a riportare gli errori compiuti da uomini di Chiesa.....Fede dunque che LE PORTE DEGLI INFERI NON PREVARRANNO di conseguenza a noi L'OBBEDIENZA PER AMORE a questa Fede trasmessaci dalla Chiesa nella figura di Pietro e dei suoi Successori...questa Fede è il primo vero atto di CARITA'=AMORE....


Buona meditazione
[Modificato da Caterina63 04/02/2011 14:50]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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La virtù della santa...OBBEDIENZA
Capitolo XII
Bonum obedientiae


Dalla Regola di san Benedetto [SM=g27988]

(Il bene dell'obbedienza)

Fondamento della vita spirituale, nella scuola di S. Benedetto e di S. Tommaso, è l'umiltà, in quanto è virtù necessaria e preparatoria alla carità perfetta: "Mox ad caritatem Dei perveniet illam quae perfecta [est] (Giungerà subito a quella carità che è divenuta perfetta) " (RSB = Regola S. Benedetto 7, 67). Ma il N. S. Padre dimostra come l'espressione pratica dell'umiltà per il monaco sia l'obbedienza: quando l'anima è colma di riverenza verso Dio si sottomette a lui e a chi lo rappresenta, per adempiere in tutto la sua volontà: "Humilitas proprie respicit reverentiam qua homo Deo subjicitur... propter quam etiam aliis humiliando se subjicit (L'umiltà consiste principalmente nella subordinazione dell'uomo a Dio e, di conseguenza, quando si è umili ci si sottomette anche agli altri) " (S. Tommaso, Somma Teologica, Libro II, quest.161). Ecco appunto l'obbedienza, virtù che è frutto e corona dell'umiltà, detta da S. Caterina da Siena, la nutrice che l'alimenta; perché obbedisce solo chi è umile e non si potrebbe esser umili senza obbedire L'umiltà ha per compagna inseparabile l'obbedienza; questa da lei procede, e morrebbe senza la nutrice che le dà vita; non può durare in un'anima senza l'umiltà (S. Caterina da Siena, Dialogo, t. 2).

L'obbedienza., così intesa, finisce di sgombrare gli ostacoli all'unione divina: la povertà ha tolto via il pericolo dei beni esteriori; la conversione dei costumi ha reciso le tendenze della concupiscenza e tutto ciò che sarebbe imperfetto; l'umiltà, con lavoro più profondo, frena la sregolata stima di se; ma rimane ancora da immolare la volontà propria cittadella dell'io: ceduta. anche questa per mezzo dell'obbedienza, si è dato tutto; l'anima non possiede più nulla come suo, e Dio può fare in lei ciò che vuole: non ci sono più ostacoli.

Per l'obbedienza perfetta, l'uomo vive nella verità del suo essere e della sua condizione ; per questo è virtù fondamentale e tanto cara a Dio; il quale, come pienezza dell'Essere, non ha bisogno di nulla e ha creato l'uomo liberamente per amore; da questo fatto primordiale derivano le nostre relazioni con lui e la nostra dipendenza essenziale come creature, perché in lui abbiamo vita, movimento, essere: "In ipso vivimus et movemur et sumus (In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo) " (At 17, 28); per cui se non riconoscessimo la nostra condizione con l'assoluta sottomissione a Dio, mancheremmo alla legge eterna. Dalle viscere stesse del creato esce questo grido: " Venite, adoremus: Venite, adoriamo il Signore, perché è il nostro Dio e creatore: Est Dominus Deus noster". Come creature ragionevoli dobbiamo manifestarci dipendenti coll'adorare e sottometterci, ossia obbedendo; e noi vediamo Dio esigere quest'omaggio da tutte le generazioni umane: i Santi dell'Antico Testamento sono luminari d'obbedienza; ripetono come Abramo, padre dei credenti: "Adsum!" (Gen 22, 1; 11) Eccomi! Gesù Cristo viene in terra per farci figli di Dio; e da quel momento l'obbedienza prende un altro aspetto; è una risposta d'amore; ma non cessa per questo di essere fondamentalmente un atto d'umiltà e di riverenza religiosa.

L'obbedienza non solo è grata a Dio, ma è salutare all'anima; perché Dio ne diventa assoluto padrone, vi fa ciò che vuole, e infinitamente buono com'è, le concede molti doni e grazie; è accennata ultima nella formula dei voti, ma come grado supremo. Studiamo ora da quale sorgente deriva, quale ne sia la natura, che qualità deve avere e da quali deviazioni bisogna preservarla.


L'obbedienza è necessaria a noi monaci, perchè riassume tutti gli altri mezzi di andare a Dio; siamo venuti in monastero e vi dimoriamo per questo solo fine: cercar Dio e tendere a lui con tutta la forza del nostro essere, e per questo dobbiamo seguire le orme di Gesù, che solo riconduce l'umanità al Padre: "Ego sum via; nemo venit ad Patrem nisi per me (Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me" (Gv 14, 6). Quest'opera gigantesca egli la compie con l'obbedienza; e noi dobbiamo seguirlo sullo stesso cammino.

Contempliamo per alcuni istanti Gesù, perfetto modello di santità: "Tu solus sanctus, Jesu Christe" (Gloria della Messa) e vedremo come la prima disposizione dell'anima sua santa., - alla quale si riannodano tutte le altre, - è l'obbedienza amorosa al Padre: ce lo insegna chiaramente S. Paolo rivelandoci il divino segreto che nessun altro apostolo ha svelato, il primo palpito del Cuore di Cristo. Il Verbo s'incarna per glorificare il Padre e salvare l'umanità, apportandole la grazia; ma la disposizione caratteristica della sua anima nell'intraprendere la grande opera è l'obbedienza: "Entrando nel mondo per riscattarlo egli disse: Eccomi, Signore per fare la tua volontà. - Ingrediens mundum dicit: Ecce venio; in capite libri scriptum est de me ut faciam, Deus, voluntatem tuam" (Eb 10, 5-7). L'anima di Gesù contempla le divine perfezioni, la sovranità infinita di Dio, la maestà del suo Essere; e in atto di profonda riverenza, di adorazione e di sommissione, si abbandona tutta al compimento della volontà divina: il primo atto del Verbo incarnato è l'obbedienza piena e perfetta con cui accetta il tremendo carico di dolori e di umiliazioni, che subirà durante la Passione; e in questo atto egli riassume e impegna per sempre tutta la sua vita.

Si slancia egli quindi come gigante nella via a lui aperta dal Padre: "Exultavit ut gigas ad currendam viam (esulta come prode che percorre la via) " (Sal 19 (18), 6); in essa, tutto è indicato dall'obbedienza, tutto deriva dalla prima donazione non mai ritrattata: dirà egli stesso che non è venuto per fare la sua volontà, bensì quella del Padre (Gv 6, 38); e l'obbedienza è così compenetrata alla sua natura che egli la chiama suo cibo: "Meus cibus est ut faciam voluntatem ejus qui misit me (Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato" (Gv 4, 34). Per trent'anni obbedisce a due creature, Maria e Giuseppe: "Et erat subditus illis (e stava loro sottomesso) " (Lc 2, 51); quantunque possegga la trascendenza divina, e sia il supremo legislatore non soggetto alla legge, il Cristo dice che: "Jota unum aut unus apex non praeteribit a lege donec omnia fiant (non passerà neppure uno iota o un segno dalla legge, senza che tutto sia compiuto) " (Mt 5, 18); e ne vuol compiere anche i minimi precetti. Anzi tutto, egli vuol sempre e in ogni cosa ciò che piace al Padre: "Quae placita sunt ei facio semper (io faccio sempre le cose che gli sono gradite) " (Gv 8, 29); e accetta la Passione perché è volontà del Padre suo: "Sicut mandatum dedit mihi Pater sic facio (faccio quello che il Padre mi ha comandato) " (Gv 14, 31).

Allora si dimostra più specialmente la sua obbedienza. Durante la terribile agonia di tre ore, la parte sensibile del suo essere è atterrita alla vista del calice d'amarezza: "Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! - Pater, si vis, transfer calicem istum a me"; pure la sua volontà superiore rimane sempre sottomessa al divino comando: "Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà. - Verumtamen non mea voluntas, sed tua fiat" (Lc 22, 42). L'arrestano come un malfattore, ed egli potrebbe liberarsi, perché a una sua parola i nemici cadono a terra; potrebbe pregare il Padre che gli mandi legioni di angeli; ma vuole che si compia la volontà divina manifestata dalle Scritture: "Sed ut adimpleantur Scripturae (Si adempiano dunque le Scritture!) " (Mc 14, 49); per questo si dà in balìa dei suoi mortali nemici. Obbedisce a Pilato, benché pagano, perché rappresenta l'autorità suprema; obbedisce ai carnefici; e sul punto di spirare, per compiere una profezia, si lamenta di aver sete: "Postea, sciens Jesus quia omnia, consummata sunt, ut consummaretur Scriptura, dixit: Sitio (Dopo questo, Gesù, sapendo che ogni cosa era stata ormai compiuta, disse per adempiere la Scrittura: Ho sete". Muore quando tutto è compiuto; in ,atto d'obbedienza perfetta: "Dixit: consummatum est; et inclinato capite, tradidit spiritum (Gesù disse: Tutto è compiuto!. E, chinato il capo, spirò" (Gv 19, 11; 28; 30). Il consummatum est forma l'espressione più vera e più adeguata di tutta la sua vita di obbedienza; e corrisponde all'Ecce venio dell'Incarnazione: -sono due gridi di obbedienza, e l'esistenza terrestre di Cristo è come racchiusa tra loro.

L'Apostolo ci insegna che, come per la disobbedienza di Adamo siamo diventati peccatori e nemici di Dio, così per l'obbedienza di Cristo siamo giustificati e salvati. Una grave disobbedienza e un'eroica obbedienza sono causa di perdita e di riscatto per la famiglia umana; lo dice chiaramente S. Paolo, l'araldo di Cristo: "Sicut per inobedientiam unius hominis peccatores constituti sunt multi, ita et per unius obeditionem, justi constituentur multi (Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l'obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti) " (Rm 5, 19).

Quest'obbedienza di Cristo fu il mezzo da Dio preordinato, e accettato da Gesù, per salvare il mondo e rendergli la celeste eredità. espiando la disobbedienza di Adamo, nostro primo padre; e noi andiamo a Dio unendoci all'obbedienza di Gesù, nostro capo; tutte le conseguenze del peccato di Adamo ci caddero addosso perché eravamo con lui solidali; partecipando all'obbedienza di Cristo, avremo parte alle benedizioni della sua santa anima; l'economia del disegno divino circa la nostra santificazione si riassume nell'obbedienza. Quando il Padre mandò il suo Figlio in terra, disse ai Giudei: "Ecco il mio figlio prediletto, ascoltatelo. - Ipsum audite" (Mt 18, 5); come se dicesse: Fate quello che vi dirà; obbeditelo; non vi chiedo altro per considerarvi come miei amici. Per questo diede al Fig1io ogni potere: "Omnia dedit in manu ejus (gli ha dato in mano ogni cosa) " (Gv 3, 35), e vuole che tutto gli sia sottomesso: "Omnia subjecisti sub pedibus ejus (tutto hai posto sotto i suoi piedi) " (Sal 8, 8). Il Padre dà gloria al Figlio, facendolo capo supremo nel regno della grazia: "Ego autem constitutus sum rex ab eo super Sion montem sanctum ejus (Io l'ho costituito mio sovrano sul Sion mio santo monte) " (Sal 2, 6); e noi pure dobbiamo sottometterci pienamente a Gesù, per conformarci alla volontà del Padre.

Egli ha lasciato la terra ed è tornato in cielo; ma come attestato della sua regalità ha costituito la Chiesa e le ha trasmesso i suoi poteri: "Data est mihi omnis potestas in coelo et in terra; euntes ergo, docete omnes gentes servare omnia quaecumque mandavi vobis (Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato) " (Mt 28, 18-20): in virtù della potenza che il Padre mi ha dato, e che io delego a voi, insegnate a tutte le nazioni l'obbedienza ai miei comandamenti; perché chi ascolta voi ascolta me; chi vi disprezza, disprezza me stesso.. La Chiesta ha l'autorità di Cristo; parla e comanda in suo nome; e l'essenza del cattolicesimo sta nella sottomissione dell'intelletto all'insegnamento di Cristo, trasmesso dalla Chiesa, nella sottomissione della volontà all'autorità di Cristo, da lei esercitata.

Qui sta la differenza tra protestanti e cattolici, più che nel numero di verità ammesse dagli uni e dagli altri: ci sono protestanti che accettano materialmente quasi tutto il credo cattolico, eppure restano protestanti fino nel midollo delle ossa, perchè la differenza tra noi e loro è più profonda e radicale, e dipende dalla sottomissione dell'intelletto e della volontà all'autorità della Chiesa, che insegna e governa in nome di Cristo. Il cattolico accetta il dogma e ne fa regola alla sua vita perché nella Chiesa, - e nel capo di lei il Romano Pontefice, - vede Cristo che insegna e governa; il protestante ammette questa o quella verità perchè la scopre, o s'immagina scoprirla, col suo lume intellettuale; e in nome del libero esame, non si lascia guidare da altri; esaminando la Bibbia, sceglie come la ragione gli suggerisce; ognuno di essi, con la propria facoltà di scelta, è Papa di se stesso. Mentre il protestante ammette, il cattolico crede; considera Cristo nella Chiesa, e quando essa parla. le si sottomette docile, come al Cristo medesimo.

Ricordate la scena del Vangelo descritta da S. Giovanni al cap. 6° : Gesù parla alle turbe, da lui nutrite miracolosamente la vigilia, e annuncia loro il pane eucaristico: "Ego sum panis. vivus. - Io sono il pane di vita, disceso dal cielo; chi ne mangia vivrà eternamente". Ma gli uditori si dividono in due gruppi: alcuni vogliono ragionare; sono i protestanti: "Quomodo (Come può dunque)"? e allora Gesù non spiega meglio le sue parole, no; afferma anzi con maggior insistenza: "Amen, amen dico vobis. - In verità, in verità vi dico: chi non mangia la mia carne e non beve il mio sangue non avrà la vita eterna". Ed essi, trovano le parole incomprensibili: Durus est hic sermo, et quis potest eum audire (Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?)"? e se ne vanno: "Jam non cum illo ambulabant (non andavano più con lui)". Ma c'è un altro gruppo, formato dagli Apostoli; essi non ne capivano nulla pure; ma ebbero fede nella parola di Cristo, rimasero con lui e lo seguirono sempre: "Domine, ad quem ibimus? verba vitae aeternae habes (Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna)" (Gv 6, 41-69).

Chi crede così, si salva: bisogna ascoltare Cristo, e la Chiesa; accettarne la dottrina, sottomettersi alle sue decisioni; chi la disprezza, disprezza Cristo. I protestanti non fanno parte del suo gregge; (eccetto quelli in buona fede, che appartengono all'anima della Chiesa) sono pecorelle che si guidano da se stesse a loro capriccio; senza ascoltare la voce del padrone; il Cristo non le riconosce per sue: "Non estis ex ovibus meis(non siete mie pecore)" (Gv 10, 26).

L'obbedienza dell'intelletto e della volontà è dunque via di salute per il cristiano: "Qui vos audit me audit (Chi ascolta voi ascolta me)" (Lc 10, 16); "qui sequitur me non ambulat in tenebris; sed habebit lumen vitae (chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita)" (Gv 8, 12). Per esser figli del Padre celeste bisogna ascoltare Gesù, e sulla terra obbediamo a Cristo nella Chiesa; è l'economia soprannaturale stabilita da Dio stesso, e fuori dell'obbedienza ispirata dalla fede non c'è via di scampo: lo insegnava a S. Caterina l'Eterno Padre, quando le diceva che nessuno può entrare nella vita eterna se non è obbediente; senza di essa, si resta fuori, perché l'obbedienza è la chiave con cui s'apre quella porta, che la disobbedienza d'Adamo aveva chiusa (S. Caterina da Siena - Dialogo: Dell'obbedienza, cap. 1).


www.ora-et-labora.net/obbedienza.html


__________________
"Se sarete ciò che dovrete essere, metterete fuoco in Italia e nel mondo intero" (S.Caterina da Siena)
[Modificato da Caterina63 04/02/2011 14:51]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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03/12/2008 12:13
 
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L'autentico e santo...Timor di Dio!
Il dono del timore di Dio. Umili davanti a Dio.


Non dimentichiamo che il Timor di Dio è uno dei SETTE DONI DELLO SPIRITO SANTO citati da san Paolo... [SM=g27988]

Timore non è paura, ma rispetto, umiltà, riconoscimento grato della nostra condizione di creature. Nasce nel cuore di chi dice a Dio: dipendo da te e sono anche contento di dipendere da te, non voglio dipendere da me e neppure dipendere dagli altri, farli diventare degli idoli. Il mirabile esempio di Maria.

Il rapporto con Dio è la condizione fondamentale per rapportarci con tutto il resto: se fosse difettoso, tutto rimane difettoso. Viviamo in una società nella quale il rapporto con Dio oscilla tra due estremi, ateismo disperato e amore appassionato. Cito due esempi.

Un esponente del rapporto negato, fallito – e quindi disperato – con Dio fu Hemingway, il grande romanziere americano che, sebbene fosse di matrice religiosa, scivolò in un ateismo senza speranza. Quando si accorse che era ammalato non resistette. Si uccise col suo stesso fucile da caccia che gli aveva dato delle emozioni magnifiche. In uno dei suoi romanzi fa dire a un personaggio quello che lui stesso pensa, che è una parodia blasfema del Padre nostro: O nada – “nada” in spagnolo è “nulla” – nostro che sei nel nada, sia nada il tuo nome, nada il tuo regno”. Siamo di fronte ad un enorme grido al nulla. Nulla di nulla di nulla dice il personaggio, e poi ancora c’è nulla di nulla e nulla di nulla. Non è una frase, è una vita. L’esito suicida conferma appunto che Hemingway visse aggrappato all’esperienza immediata, la più sensibile e la più inebriante possibile, ma, fatta di questa concezione di vita un punto fisso, dopo non rimane altro che l’abisso. Non tutti saranno così espliciti nel dichiarare il proprio rapporto negativo con Dio, ma sicuramente un filo di ateismo disperato c’è anche nella nostra società in cui stiamo vivendo.

A questo estremo negativo si contrappone l’estremo positivo. Un altro grande uomo, Giovanni della Croce, ha parlato del nulla ma per il Tutto. In Giovanni della Croce c’è un magnifico itinerario che passa dalla pochezza, dal nulla della creatura, e si perde nella grandezza di Dio. “Fuoco soave” lui chiama Dio. “Piaga deliziosa” dell’amore di Dio che ti tocca il cuore e poi non puoi più dimenticarla. “Luce radiosa, fai vivere d’amore”. Sono espressioni appassionate che si trovano frequentissimamente in questo grande campione del cristianesimo.

Quindi da un lato l’ateismo disperato, dall’altro l’amore appassionato e poi tutta una gamma di sfumature in cui ci troviamo in qualche maniera anche noi.

Oggi il rapporto con Dio è molto vario: rifiuto, indifferenza, ricerca, amicizia, fedeltà, testimonianza. Ti costruisci nel tuo rapporto con Dio precisamente nella misura che vuoi: questo è molto bello perché esalta la responsabilità, è bello poter dire che sono in rapporto con Dio perché lo voglio essere, dato che nessuno mi obbli­ga. Questo Dio, a cui non ci si può sottrarre, ci chiama, e la nostra grande saggezza è costruire con lui un rapporto indistruttibile, infrangibile: qualunque cosa capiti, nulla mi separerà da te, mio Dio. In ogni caso l’uomo “aspira a fare il dio”, con o senza di lui (Blondel). Non c’è dubbio che la storia recente del nostro mondo ha visto uomini che volevano fare il dio, tenere in mano tutto e tutti, giocare sulla vita e sulla morte. Ecco perché Timor di Dio e Pietà sono effetti dello Spirito estremamente forti.


Timore di dio non vuol dire paura

Per noi timore vuol dire paura, invece no. Dal punto di vista biblico e teologico timore vuole soltanto dire “rispetto”, che è un sentimento positivo. Quando le società diventano più superficiali perdono il senso dei valori, la prima cosa che capita è che si incomincia a mancare di rispetto a tutto e a tutti. Invece davanti a Dio l’uomo in primo luogo ha un senso di profondissimo rispetto: tu sei Dio e tutto quello che è lo tieni in piedi tu e non io, allora mi viene questo senso di rispetto profondo che non mi impaurisce per nulla.

Un senso di dipendenza profonda: ecco cosa diventa il rispetto profondissimo, poiché sono ragionevole, dipendo da Dio e lo so. Il mio rispetto diventa dinamico, vivo, personale: dipendo da te e sono anche contento di dipendere da te, non voglio dipendere da me e neppure dipendere dagli altri, farli diventare degli idoli. Non è che tu ti abbassi al senso servile perché sei una creatura.

Oggi abbiamo abbastanza perduto il sentimento della creaturalità. L’uomo, che è simile a Dio, ha una doppia faccia: per un lato è creatura e per l’altro lato è creatore. I due termini evidentemente non si equivalgono perché Dio ha fatto essere ciò che non era, noi invece non facciamo essere ciò che non è, trasformiamo ciò che è in ciò che può anche essere, pensiamo alla scienza, all’arte. Ma oggi l’uomo si sente soprattutto creatore, non gli piace ricordarsi che è creatura, diciamo che ne ha rimosso addirittura l’idea.

Il linguaggio dei Salmi è molto istruttivo in proposito, continuamente ti ricordano che sei creatura, ti fanno contemplare il Creatore, ti fanno sentire la tua pochezza, ti fanno dire dal profondo: grido a Te. Ti fanno dire insomma continuamente che sei di Dio e da Dio e quindi dipendi da lui.

Senza il dono del timore di Dio facilmente si cade nella sicurezza, nell’arroganza oppure nella tristezza, ti trovi perso, un piccolo atomo nell’universo. Invece dipendere da Dio dà anche un senso di fiducia grande e si capisce bene il sentimento fondamentale di Gesù stesso di realizzare, fino alla croce, il suo “Faccio sempre le cose che sono gradite al Padre” (Gv 8,29). Gesù non ha altro senso che dipendere facendo solo quello che al Padre piace. L’ha detto lui: “Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera” (Gv 4,34). E questo è anche il nostro pane: poco per volta, se siamo saggi e cristiani, capiamo come è giusto vivere facendo la volontà di questo Padre. Qualunque cosa faccia mi sono ispirato a quello che piaceva a te: non è una utopia, è possibile, siamo figli di Dio anche noi, lo stesso Spirito di Cristo è anche in noi e dobbiamo anzi avere fiducia, senza alcun pessimismo.


Gli effetti del timore di Dio

Il Timore di Dio in concreto ci conserva umili dinanzi alla grandezza di Dio e alla sua volontà (Gv 5,30). La prima umiltà non nasce dal pensiero dei nostri peccati, ma dal confronto con la grandezza di Dio. Maria non conosce peccato, eppure è la più umile delle creature, “ha fatto in me cose grandi colui che era onnipotente”. Se la tua preghiera ti fa stare un momento adorante davanti alla grandezza di Dio, tu ti alzi più umile.

Il Timore di Dio ci evita la superficialità e la disinvoltura morale. Umili davanti alla grandezza di Dio e alla sua volontà. Perché siamo così disobbedienti? Perché ci lamentiamo dei comandamenti di Dio? Perché facciamo tutto quello che ci pare e piace? È perché abbiamo perso il senso della sua grandezza. Perdendo il senso della grandezza è chiaro che tutto scompare. Dì quel che vuoi, io faccio quel che voglio: ormai è l’unico comandamento di gran parte dei nostri contemporanei.

Nel salmo 49,16-21 Dio rimprovera il peccatore: tu vai con gli adulteri, tu rubi, tu mentisci; e poi c’è una domanda molto penetrante: te la ridi di me, ma credi che io sia come te, che io ti approvi? Ti sbagli, io non sono come te e allora rientra in te stesso, diventa saggio e impara di nuovo a non essere tanto disinvolto con la mia legge, obbedisci come ha fatto mio Figlio. Ecco, il timore di Dio è questo.

Il Timore di Dio ci impedisce di farci una religione a nostra misura (Mt 23,23-24). Di fronte alla disinvoltura morale il timor di Dio impedisce di farsi una religiosità comoda, a propria misura. Ricordiamo i rimproveri di Gesù ai farisei i quali erano osservantissimi di un tipo di religiosità che però, anche se impegnava nelle piccole cose, non disturbava molto. Si erano fatti una religiosità che li rassicurava: nessuno è religioso come me perché faccio questo, faccio quello, faccio quell’altro, ma erano tutte cosette. Una religione comoda che in realtà non penetra nel profondo della tua coscienza e non ti santifica.

Il Timore di Dio ci impedisce tutto questo perché ci rende limpidi, onesti con Dio. Con questo dono bellissimo il rapporto con Dio è garantito, è ben fondato, e da qui si parte per accogliere l’altro effetto speciale dello Spirito, il dono della pietà.



(L'angolo del Teologo Borèl) numero Agosto del 2007 - Autore: mons. Giuseppe Pollano

cliccando qui:
www.donboscoland.it/articoli/...lta=16&ID=4433

troverete anche la versione scaricabile.....
__________________
"Se sarete ciò che dovrete essere, metterete fuoco in Italia e nel mondo intero" (S.Caterina da Siena)
[Modificato da Caterina63 04/02/2011 14:51]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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.....l'apostasia in fondo che cosa è se non il seguire e l'insegnare un "vangelo diverso dal nostro"=CHIESA, dice san Paolo, per la qual accusa dice: SIA MALE-DETTO colui che fa questo?

....predicare un "vangelo diverso" come spiega san Paolo, diverso da quello predicato dalla Chiesa, significa NASCONDERE ED OFFUSCARE LA VERITA'.......e Gesù dice: IO SONO LA VERITA'.....ergo l'apostata (che non è un ateo, MA UN CREDENTE....) inzierà, dice san Paolo, proprio dall'intenro della Chiesa  ATTRAVERSO LA DISOBBEDIENZA AL MAGISTERO, dice infatti san Paolo:
2Timoteo
3,1 Devi anche sapere che negli ultimi tempi verranno momenti difficili. 2 Gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanitosi, orgogliosi, bestemmiatori, ribelli ai genitori, ingrati, senza religione, 3 senza amore, sleali, maldicenti, intemperanti, intrattabili, nemici del bene, 4 traditori, sfrontati, accecati dall'orgoglio, attaccati ai piaceri più che a Dio, 5 con la parvenza della pietà, mentre ne hanno rinnegata la forza interiore. Guardati bene da costoro! 6 Al loro numero appartengono certi tali che entrano nelle case e accalappiano donnicciole cariche di peccati, mosse da passioni di ogni genere, 7 che stanno sempre lì ad imparare, senza riuscire mai a giungere alla conoscenza della verità.
,1 Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: 2 annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina. 3 Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, 4 rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole. 5 Tu però vigila attentamente, sappi sopportare le sofferenze, compi la tua opera di annunziatore del vangelo, adempi il tuo ministero.
6 Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. 7 Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede.
2Tessalonicesi:
7 Il mistero dell'iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene. 8 Solo allora sarà rivelato l'empio e il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà all'apparire della sua venuta, l'iniquo, 9 la cui venuta avverrà nella potenza di satana, con ogni specie di portenti, di segni e prodigi menzogneri, 10 e con ogni sorta di empio inganno per quelli che vanno in rovina perché non hanno accolto l'amore della verità per essere salvi.

15 Perciò, fratelli, state saldi e mantenete le tradizioni che avete apprese così dalla nostra parola come dalla nostra lettera. 16 E lo stesso Signore nostro Gesù Cristo e Dio Padre nostro, che ci ha amati e ci ha dato, per sua grazia, una consolazione eterna e una buona speranza, 17 conforti i vostri cuori e li confermi in ogni opera e parola di bene.

3,1 Per il resto, fratelli, pregate per noi, perché la parola del Signore si diffonda e sia glorificata come lo è anche tra voi 2 e veniamo liberati dagli uomini perversi e malvagi. Non di tutti infatti è la fede. 3 Ma il Signore è fedele; egli vi confermerà e vi custodirà dal maligno.
4 E riguardo a voi, abbiamo questa fiducia nel Signore, che quanto vi ordiniamo già lo facciate e continuiate a farlo. 5 Il Signore diriga i vostri cuori nell'amore di Dio e nella pazienza di Cristo.
6 Vi ordiniamo pertanto, fratelli, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, di tenervi lontani da ogni fratello che si comporta in maniera indisciplinata e non secondo la tradizione che ha ricevuto da noi. 

  Voi, fratelli, non lasciatevi scoraggiare nel fare il bene. 14 Se qualcuno non obbedisce a quanto diciamo per lettera, prendete nota di lui e interrompete i rapporti, perché si vergogni; 15 non trattatelo però come un nemico, ma ammonitelo come un fratello.
16 Il Signore della pace vi dia egli stesso la pace sempre e in ogni modo. Il Signore sia con tutti voi.
17 Questo saluto è di mia mano, di Paolo; ciò serve come segno di autenticazione per ogni lettera; io scrivo così. 18 La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con tutti voi.


************
le indicazioni le abbiamo tutte.......sta a noi decidere da che parte stare....seguire il vero Vangelo, la Verità, significa ascoltare san Paolo e OBBEDIRE PER AMORE non certo per forza......il concetto di obbligo, se leggete attentamente, sta proprio in quel sano discernimento, per non perdere la verità e non farsi ingannare.......
e significa naturalmente mettere in pratica la teoria......

Fraternamente CaterinaLD

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Amici....spesse volte leggo che per ottenere qualcosa da Gesù, compresa la salvezza...si pone l'accento su.....OBBEDIRE e si trascura il verbo AMARE...[SM=g7831] ..
OBBEDIRE O AMARE?[SM=g1740717]
Dicamo innanzi tutto che io posso arrivare ad obbedire, ma NON necessariamente AMARE......i militari ad esempio, magari vedono di cattiva luce il proprio comandante ma SONO COSTRETTI AD OBBEDIRE.......se non si obbediscono agli ORDINI....si può incorrere a denuncie, a repressioni ed anche ad una carcerazione......
Mentre se IO AMO....l'obbedienza verso ciò che amo diventa il famoso GIOGO LEGGERO....come Gesù chiama la croce nel Vangelo...[SM=g7831] ....
Diverse predicazioni evangeliche, mi spiace dirlo, inducono a pensare che l'obbedienza SIA FONDAMENTALE, mentre per un cattolico fondamentale NON è l'obbedienza fine a se stessa, MA AMARE L'OBBEDIENZA; obbedire AMANDO LA LEGGE DI DIO ...la differenza è enorme eh![SM=g7560]

...a questo proposito s.Agostino diceva: "Ama e fa ciò che vuoi!"....ma bisogna fare attenzione a comprendere di quale AMORE parliamo...
Se io AMO  Cristo...non posso essere felice nel disobbedire i suoi comandi .....ovviamente posso peccare perchè sono debole, perchè non conosco laVerità, sbagliare e CADERE......ma se l'amore è vero e il cuore è pulito, rialzarsi sarà il famoso "giogo leggero"....[SM=g7831] ...
Se io AMO innanzi tutto la Chiesa, quale Corpo di Cristo, difficilmente mi porrò nella disobbedienza....amandola il mio unico desiderio sarà quello di RENDERLE ULTERIORE AMORE, il chè si attiva appunto nell'obbedienza...
Vediamo una famiglia: si amano i genitori o si obbedisce loro meccanicamente?
Un bambino generalmente obbedisce perchè ama il genitore, si FIDA DI LUI, si fida della Madre anche se qualche volta egli fa i capricci[SM=g7560] , altre volte obbedisce perchè altrimenti non riceverà ciò che vuole...
Si, in alcuni casi accade, il bambino è per natura egoista, ossia istintivamente pensa a sè stesso è il senso della sopravvivenza quando ancora non si è sviluppato il LIBERO ARBITRIO, LA RAGIONE...[SM=g7609] ...ma per l'adulto il discorso cambia dal momento che subentra LA CONOSCENZA appunto DEL LIBERO ARBITRIO.....e l'uso della ragione.
Rubo degli stralci di una predica di padre Piero Gheddo...[SM=g1740717] ..
"E VOI, CHI DITE CHE IO SIA?"
«Chi è per te Gesù Cristo?». Domanda facile e semplice e nello stesso tempo difficile e complessa. Ho avuto da Dio il dono di un'autentica formazione cristiana fin dalla nascita, essendo nato in una famiglia di profonda fede e vita evangelica. La nonna Anna che mi ha educato (ho perso la mamma a cinque anni e il papà nella II Guerra mondiale) diceva sempre: «Tu stai col Signore e il Signore starà con te». Per me e i miei due fratelli, questo è diventato lo slogan della vita.
....quando (i miei genitori) si sono sposati nel 1928 hanno pregato perché almeno uno dei loro figli o figlie consacrasse la sua vita a Gesù Cristo e alla Chiesa. Il Signore ha scelto me, e di questo sono ancora grato a papà e mamma, perché la mia vita è stata piena di gioia, pur nelle prove, tentazioni, sofferenze, e intenso lavoro, che sono il retaggio comune degli uomini.
***********
In queste parole si scorge il senso della FEDE  innanzi tutto verso L'AMORE.....che porta ad una conseguenza: obbedire...obbedire a ciò che questo AMORE suscita poi dentro ognuno di noi...[SM=g1740717] ...
CHI AMA NON PUO' DISOBBEDIRE ALLA VOCE DEL CRISTO.........CHI OBBEDISCE PUO' INVECE NON AMARE......
Cristo Gesù vuole essere AMATO OPPURE OBBEDITO?
dice padre Gheddo:
 

«Chi è per te Gesù Cristo?». È tutto il mio amore, tutta la mia gioia, l'unico fine a cui cerco di orientare le mie azioni, i miei affetti e pensieri. Non sempre ci riesco, ma a lui ho consacrato la mia piccola vita e in questi anni che Dio mi concede di vivere vorrei diventare sempre più simile al modello divino che il Signore Gesù mi presenta nei Vangeli.

.........

Noi sappiamo che Vangelo vuol dire "BUONA NOVELLA".....da dove nasce questa BUONA NOVELLA?

«Vi annunzio una bella notizia che darà gioia a tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato il vostro Salvatore, il Cristo, il Signore» (Luca 2, 10-11).

........


come abbiamo letto non si parla di OBBEDIENZA, MA DI LIETA NOTIZIA, DI UNA GRANDE GIOIA.......E' NATO GESU'....il nostro Salvatore, è nato l'AMORE, il Verbo- Amore ed espressione del Padre, SI E' FATTO CARNE......

Da qui parte L'INVITO A CREDERE PER ESSERE FELICI...e non ad obbedire per essere salvati, quello VIENE DOPO.....l'essere salvati diventa una CONSEGUENZA di questo nuovo rapporto fra noi e Dio mediante il Verbo incarnato......


dice ancora padre Gheddo nella sua esperienza:


Ma la domanda «Chi è per te Gesù Cristo?» non può essere rinchiusa nello spazio ristretto della mia persona. Mi porta a guardare fuori, ai miei fratelli e sorelle del mondo intero. L'amore a Cristo mi porta ad impegnarmi per farlo conoscere e amare da tutti: non posso conoscerlo e amarlo tenendolo per me. Sono diventato missionario del PIME (Pontificio istituto missioni estere) perché ho pensato che la "missio ad gentes" è la forma più avanzata, l'estrema frontiera della fede e della Chiesa, a cui tutti i battezzati sono chiamati e debbono convertirsi.

.......


alla base della vera ed autentica conversione deve esserci L'AMORE..[SM=g1740717] ...se NON amo, l'obbedienza diventa CASTRANTE......la conversione diventa OBBLIGO....


Cosa smuove il cuore del Buon Ladrone sulla Croce?

LA COM-PASSIONE VERSO QUELL'UOMO CHE EGLI RICONOSCE INNOCENTE E GIUSTO......il Buon ladrone non fa una esegesi dottrinale del Cristo, ma dice semplicemente che riconosce in lui UNA COM-PASSIONE PER L'INGIUSTIZIA CHE STA SUBENDO.....il Buon Ladrone SI RISPECCHIA IN GESU' E SI ACCORGE DI QUANTO EGLI SIA BUONO.....E COMPRENDE ALLORA DI COME SIA GIUSTA LA SUA CONDANNA NEI CONFRONTI DI CHI GLI STA DAVANTI perchè Gesù era invece GIUSTO, Buono, INNOCENTE...[SM=g1740720]

...i Vangeli non ci dicono che il Buon Ladrone sia diventato "un cristiano" o che abbia "obbedito".....ci sottolineano invece un aspetto poco approfondito dalle nostre coscienze: L'AMORE E LA COM-PASSIONE VERSO IL CRISTO....[SM=g1740717] ...in questo caso è bastato al Buon Ladrone manifestare la sua com-passione per sentirsi dire.....di essere SALVATO "Oggi sarai con me in Paradiso"...[SM=g7831] ..Gesù non dice neppure "ti rimetto i tuoi peccati" a questo punto il perdono è implicito, è avvenuto, Cristo emana una sentenza che RISPONDE SEMPLICEMENTE  a quella manifestazione d'amore sincero......."Oggi stesso tu sarai con me......in Paradiso"......


Magari avessimo e dimostrassimo la com-passione del Buon Ladrone !!!! Egli si riconosce peccatore, e al tempo stesso riconosce in Cristo l'Uomo buono e giusto......COLUI CHE NON MERITAVA DI MORIRE TRA MALFATTORI....amici...questo è un compendio del Vangelo ed è una catechesi meravigliosa dove la parola OBBEDIENZA, intesa comunemente in modo spesso errato o finalizzato a dei tornaconti, SPARISCE per fare posto ALLA COM-PASSIONE ED ALL'AMORE......[SM=g1740717] è l'Amore che SALVA, quello autentico, quello che ti porta AD ABBRACCIARE LA CROCE come fece il Buon Ladrone che riconoscendo il Vero Innocente, accettò PER COM-PASSIONE la sua sorte riconoscendosi in difetto....

Questa è la base della vera OBBEDIENZA, essa passa per la COM-PASSIONE: obbedisco non per un tornaconto; credo non per un tornaconto, ma per com-passione per CONDIVIDERE CON CRISTO QUELLA CROCE che LUI da Innocente portò per ME, per alleggerire la MIA....[SM=g1740717]

[SM=g1740722] Maria ci ha insegnato come si Obbedisce....[SM=g7182] [SM=g1740750]

Fraternamente CaterinaLD

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L'Angelus del Papa: non basta credere in Dio, occorre amare i fratelli seguendo Gesù sulla via della croce

Non è un vero credente chi dice di avere fede ma non ama in modo concreto i fratelli e non segue Gesù sulla via della croce: è questo in sintesi quanto ha detto il Papa oggi all’Angelus a Castel Gandolfo. Benedetto XVI ha ribadito che il Signore non è venuto a insegnarci una filosofia ma la via che conduce alla vita. Ce ne parla Sergio Centofanti.


Il Papa, commentando le letture della 24.ma Domenica del Tempo Ordinario, esorta i fedeli a rispondere a due questioni cruciali: “Chi è per te Gesù di Nazaret?”. E poi: “La tua fede si traduce in opere oppure no?”. Alla prima domanda Pietro da una risposta netta e immediata: “Tu sei il Cristo”, cioè il Messia, il consacrato di Dio mandato a salvare il suo popolo. “Pietro e gli altri apostoli, dunque – afferma il Papa - a differenza della maggior parte della gente, credono che Gesù non sia solo un grande maestro, o un profeta, ma molto di più. Hanno fede: credono che in Lui è presente e opera Dio”:
 
“Subito dopo questa professione di fede, però, quando Gesù per la prima volta annuncia apertamente che dovrà patire ed essere ucciso, lo stesso Pietro si oppone alla prospettiva di sofferenza e di morte. Gesù allora deve rimproverarlo con forza, per fargli capire che non basta credere che Lui è Dio, ma spinti dalla carità bisogna seguirlo sulla sua stessa strada, quella della croce (cfr Mc 8,31-33). Gesù non è venuto a insegnarci una filosofia, ma a mostrarci una via, anzi, la via che conduce alla vita”.
 
“Questa via – ha aggiunto - è l’amore, che è l’espressione della vera fede”:
 
“Se uno ama il prossimo con cuore puro e generoso, vuol dire che conosce veramente Dio. Se invece uno dice di avere fede, ma non ama i fratelli, non è un vero credente. Dio non abita in lui. Lo afferma chiaramente san Giacomo nella seconda lettura della Messa di questa Domenica: ‘Se non è seguita dalle opere, [la fede] in se stessa è morta’”(Gc 2,17).
 
A questo proposito, il Papa cita uno scritto di San Giovanni Crisostomo, uno dei grandi Padri della Chiesa, che il calendario liturgico invita a ricordare oggi:
 
“Proprio commentando il passo citato della Lettera di Giacomo egli scrive: ‘Uno può anche avere una retta fede nel Padre e nel Figlio, così come nello Spirito Santo, ma se non ha una retta vita, la sua fede non gli servirà per la salvezza. Quando dunque leggi nel Vangelo: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio» (Gv 17,3), non pensare che questo verso basti a salvarci: sono necessari una vita e un comportamento purissimi’” (cit. in J.A. Cramer, Catenae graecorum Patrum in N.T., vol. VIII: In Epist. Cath. et Apoc., Oxford 1844).
 
Infine, il Papa ricorda che domani la Chiesa celebra la festa dell’Esaltazione della Santa Croce e il giorno seguente la Madonna Addolorata:
 
“La Vergine Maria, che credette alla Parola del Signore, non perse la sua fede in Dio quando vide il suo Figlio respinto, oltraggiato e messo in croce. Rimase piuttosto accanto a Gesù, soffrendo e pregando, fino alla fine. E vide l’alba radiosa della sua Risurrezione. Impariamo da Lei a testimoniare la nostra fede con una vita di umile servizio, pronti a pagare di persona per rimanere fedeli al Vangelo della carità e della verità, certi che nulla va perso di quanto facciamo”.

 

                           Pope Benedict XVI arrives in the Paul VI hall to lead his weekly general audience on September 9, 2009 at the Vatican.



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23/02/2011 18:38
 
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Intervento del segretario della Conferenza episcopale italiana Mariano Crociata

La testimonianza
via di accesso alla verità


MODENA, 23. Perché la verità deve avere un prezzo? E qual è il rapporto fra la testimonianza e la verità? Attorno a queste due domande - che "denotano entrambe l'indisponibilità e l'inaccessibilità immediata della verità" - si è articolato l'intervento tenuto ieri sera a Carpi (Modena) dal vescovo Mariano Crociata, segretario generale della Conferenza episcopale italiana (Cei), a conclusione del ciclo di incontri "I martedì di Sant'Ignazio" organizzati dalla diocesi sul tema
 
"La verità: una, nessuna o centomila?".

Per monsignor Crociata, in diversi ambiti dell'umano (storico, giudiziario, scientifico), è sempre necessaria una qualche mediazione per accedere alla verità; e in più di un caso entra in gioco la testimonianza, e cioè "la parola con cui qualcuno riferisce di conoscere, per aver visto e saputo qualcosa, per cognizione acquisita e documentata che può offrire".
In questi casi si può dire che la verità abbia un prezzo; prezzo e testimonianza la cui richiesta si fa ancor più esigente quando è in gioco "l'orientamento ultimo della coscienza, le domande e le scelte decisive della vita". La verità assume in questo senso - spiega il segretario generale della Cei - "l'aspetto di ciò che conferisce valore definitivo alla persona e alla sua vita, perché si propone con il carattere del fondamento".

Nella relazione, intitolata Il prezzo della verità e la testimonianza, Crociata invita a non perdere di vista il fondamento antropologico della testimonianza e il suo rapporto costitutivo con la verità. Un rapporto che risalta nella comprensione e nell'esperienza cristiana della realtà. Per questo - afferma il vescovo - "la riscoperta del senso cristiano della verità e della testimonianza ha il valore non solo di riportare all'attenzione una dimensione costitutiva della fede e dell'esistenza credente, ma anche di contribuire alla ricomposizione di una cultura segnata dalla dissociazione e minacciata di dissoluzione".

Ciò vale specialmente in un tempo "in cui tutto ciò che ha a che fare con l'ambito dei valori, delle credenze, della scelta ideale, religiosa e morale tende a essere rigorosamente relegato nel ridotto della coscienza intesa come spazio meramente privato, e in cui lo spazio pubblico viene concepito come ambito di regolamentazione esteriore funzionale a una convivenza ordinata priva di riferimenti ulteriori condivisi". Un tempo dove "la verità viene di fatto espunta dal confronto pubblico e l'identità personale rimossa".

Comprendiamo perché - sottolinea monsignor Crociata - "Benedetto XVI insista sulla necessità, per il bene stesso delle persone e della società intera, di ridare cittadinanza alla presenza di Dio e alla stessa verità dell'uomo".

La presenza testimoniante dei cristiani deve però misurarsi, innanzitutto, con "il carattere giudiziale" della parola e della presenza di Gesù; la sua rivelazione pone delle condizioni, esercita "un giudizio secondo verità e giustizia sull'esistenza e sulla storia dell'uomo".

Di fatto questo carattere ha prodotto in ogni epoca moti di persecuzione, fino a produrre il sacrificio supremo, il martirio, ovvero "il coronamento della vita cristiana nella sua fondamentale e radicale esigenza di fedeltà al Signore".

La situazione culturale odierna - afferma il segretario generale della Cei - "conosce vaste regioni in cui il martirio viene perpetrato in forme e misure perfino superiori a tante epoche del passato", ma "presenta nel nostro Occidente una modalità di rimozione che sposta da Cristo alla Chiesa il termine del rifiuto e del contrasto, sottraendosi al giudizio della verità". La responsabilità dei credenti sta allora "nella capacità di ripresentare al vivo la verità di Cristo e la sfida che egli lancia attraverso la nostra testimonianza resa a quanti sono chiamati a incontrarlo".



(©L'Osservatore Romano - 24 febbraio 2011)
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14/03/2011 23:59
 
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[SM=g1740733]
Le virtù: La prudenza
Tratto dal programma di RAIUNO "A sua immagine"
www.rai.tv
www.raivaticano.rai.it
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www.asuaimmagine.rai.it




it.gloria.tv/?media=137543



[SM=g1740733]


GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 25 ottobre 1978



Quando mercoledì 27 settembre il Santo Padre Giovanni Paolo I ha parlato ai partecipanti all’udienza generale, nessuno poteva immaginare che fosse per l’ultima volta. La sua morte – dopo 33 giorni di pontificato – ha sorpreso e ha riempito tutto il mondo di profondo lutto. Egli che suscitò nella Chiesa così grande gioia e inspirò nei cuori degli uomini tanta speranza ha, in così breve tempo, consumato e portato alla fine la sua missione. Nella sua morte si è verificata la parola tanto ripetuta del Vangelo: “...state pronti, perché nell’ora che non immaginate, il Figlio dell’uomo verrà” (Mt 24,44). Giovanni Paolo I vegliava sempre. La chiamata del Signore non l’ha sorpreso. Egli l’ha seguita con la stessa trepida gioia, con la quale il 26 agosto aveva accettato l’elezione al soglio di San Pietro.

Oggi si presenta a voi, per la prima volta, Giovanni Paolo II. A distanza di quattro settimane da quella udienza generale, desidera salutarvi e parlare con voi. Desidera dar seguito ai temi già iniziati da Giovanni Paolo I. Ricordiamo che ha parlato delle tre virtù teologali: fede, speranza e carità. Ha finito con la carità. Essa – che ha costituito il suo ultimo insegnamento – è qui sulla terra la virtù più grande come insegna San Paolo (1Cor 13,13); è quella che attraversa la soglia della vita e della morte. Poiché quando termina il tempo della fede e della speranza, continua l’Amore. Giovanni Paolo I è già passato per il tempo della fede, della speranza e della carità, che si è espressa così magnificamente su questa terra e la cui pienezza si rivela solo nell’eternità.

Oggi dobbiamo parlare di un’altra virtù, poiché dagli appunti del defunto Pontefice ho appreso che era sua intenzione parlare non solo delle tre virtù teologali: fede, speranza e carità, ma anche delle quattro virtù cosiddette cardinali. Giovanni Paolo I voleva parlare delle “sette lampade” della vita cristiana, così le chiamava il Papa Giovanni XXIII.

Ebbene, oggi io voglio continuare questo schema, che il Papa scomparso si era preparato, e parlare brevemente della virtù della prudenza.

Di questa virtù non poco hanno già parlato gli antichi. Dobbiamo loro, per questo, profonda riconoscenza e gratitudine. In una certa dimensione ci hanno insegnato che il valore dell’uomo deve essere misurato con il metro del bene morale, che egli realizza nella sua vita. Proprio questo assicura al primo posto la virtù della prudenza. L’uomo prudente, che si adopera per tutto ciò che è veramente buono, si sforza di misurare ogni cosa, ogni situazione e tutto il suo operare secondo il metro del bene morale. Prudente non è dunque colui che – come spesso si intende – sa arrangiarsi nella vita e sa trarne il maggior profitto; ma colui che sa costruire tutta la sua vita secondo la voce della retta coscienza e secondo le esigenze della giusta morale.

Così la prudenza costituisce la chiave per la realizzazione del fondamentale compito che ognuno di noi ha ricevuto da Dio. Questo compito è la perfezione dell’uomo stesso. Dio ha dato ad ognuno di noi la sua umanità. È necessario che noi rispondiamo a questo compito programmandolo conseguentemente.

Ma il cristiano ha il diritto ed il dovere di guardare la virtù della prudenza anche in un’altra visuale. Essa è come immagine e somiglianza della Provvidenza di Dio stesso nelle dimensioni dell’uomo concreto. Perché l’uomo – lo sappiamo dal libro della Genesi – è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio. E Dio realizza il suo piano nella storia del creato e soprattutto nella storia dell’umanità. Lo scopo di questo disegno è – come insegna San Tommaso – l’ultimo bene dell’universo. Lo stesso disegno nella storia dell’umanità diventa semplicemente il disegno della salvezza, il disegno che abbraccia noi tutti. Nel punto centrale della sua realizzazione si trova Gesù Cristo, nel quale si è espresso l’eterno amore e la sollecitudine di Dio stesso, Padre, per la salvezza dell’uomo. Questa è nello stesso tempo la piena espressione della divina Provvidenza.

Ebbene, l’uomo che è l’immagine di Dio, deve essere – come di nuovo insegna San Tommaso – in qualche modo la provvidenza. Ma nella misura della sua vita. Egli può partecipare a questo grande cammino di tutte le creature verso lo scopo che è il bene del creato. Deve – esprimendoci ancora di più nel linguaggio della fede – partecipare al divino disegno della salvezza. Deve camminare verso la salvezza, e aiutare gli altri affinché si salvino. Aiutando gli altri, salva se stesso.

Prego affinché, in questa luce, chi mi ascolta pensi adesso alla propria vita. Sono prudente? Vivo conseguentemente e responsabilmente? Il programma che realizzo serve al vero bene? Serve alla salvezza che vogliono per noi Cristo e la Chiesa? Se oggi mi ascolta uno studente o una studentessa, un figlio o una figlia, guardi in questa luce i propri compiti di scuola, le letture, gli interessi, i passatempi, l’ambiente degli amici e delle amiche. Se mi ascolta un padre o una madre di famiglia, pensi un po’ ai suoi impegni coniugali e di genitore. Se mi ascolta un ministro o un uomo di Stato, guardi il raggio dei suoi doveri e delle sue responsabilità. Cerca egli il vero bene della società, della nazione, dell’umanità? O solo particolari e parziali interessi? Se mi ascolta un giornalista, un pubblicista, un uomo che esercita influenza sull’opinione pubblica, rifletta sul valore e sul fine di questa sua influenza.

Anche io che parlo a voi, io il Papa, che cosa devo fare per agire prudentemente? Mi vengono alla mente le lettere di Albino Luciani, allora Patriarca di Venezia, a San Bernardo. Nella sua risposta al Cardinal Luciani, l’Abate di Chiaravalle – Dottore della Chiesa – ricorda con forte accento che chi governa deve essere “prudente”. Che cosa deve fare allora il nuovo Papa affinché operi prudentemente? Certamente deve fare molto in questo senso. Deve sempre imparare e sempre meditare su tali problemi. Ma oltre questo, che cosa può egli fare? Deve pregare e adoperarsi per avere quel dono dello Spirito Santo che si chiama dono del consiglio. E quanti desiderano che il nuovo Papa faccia il Pastore prudente della Chiesa, implorino per lui il dono del consiglio. E per se stessi, chiedano pure questo dono per la particolare intercessione della Madre del Buon Consiglio. Poiché si deve desiderare tanto che tutti gli uomini si comportino prudentemente e che con vera prudenza agiscano quelli che detengono il potere. Affinché la Chiesa – prudentemente, fortificandosi con i doni dello Spirito Santo e, in particolare, col dono del consiglio – partecipi efficacemente a questo grande cammino verso il bene di tutti, e affinché mostri a tutti la strada dell’eterna salvezza.




[Modificato da Caterina63 15/03/2011 00:03]
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Predica di Padre Konrad sulle Virtù e la santificazione personale 20.3.2011

In nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti.
C'è gente che sembra vivere senza chiedersi "perchè" e tra loro anche molte persone buone, ma non pensano mai al significato della loro vita, oppure se la vita abbia un significato, c'è altra gente che cerca il significato della vita, e ci siamo anche noi che sappiamo il perchè.
Il Signore dice "beati i vostri occhi perchè vedono, e i vostri orecchi perchè sentono, in verità vi dico molti profeti e giusti hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, e non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, e non l' udirono".
Sappiamo noi il significato della vita, ossia, come San Paolo dice nell'Epistola di oggi, in due parole: vostra santificazione - sanctificatio vestra.
 
Cos'è la nostra santificazione?
La santificazione, la santità è la perfezione della carità, così il Signore ci comanda: siate voi, dunque, perfetti, come è perfetto il Padre vostro Celeste, e così il Signore ci comanda di amare Dio con tutto il cuore, e tutta l'anima, e tutta la forza, e tutta la mente, la perfezione della carità, di fatti, perchè l'unico scopo della nostra vita è questo: di raggiungere il Cielo, ma non solo raggiungere il Cielo, ma raggiungere quel grado di gloria in Cielo che Dio ci prevede da tutta l'Eternità. Chi non si santifica quaggiù, secondo la parola di un santo Sacerdote, deve essere messo dunque nel manicomio!
E' l'unico scopo della nostra vita, e la nostra vita dura poco tempo, paragonando con l'Eternità, niente in tempo, ma in significato tutto, perchè stabilirà, determinerà la nostra eternità, ogni nostra azione, ogni nostro pensiero ha il suo peso per la nostra eternità.

Qualcuno dirà forse: "è impossibile per me divenire un santo, come posso io essere come San Francesco?" per esempio, la risposta a questa domanda è molto semplice: se Dio ci comanda qualche cosa, deve essere possibile! Ma come? Qualcuno ha chiesto una volta a san Tommaso d'Aquino come divenire santo, e ha risposto: "se vuoi!", tutto dipende dalla nostra volontà, dunque, se la santificazione nostra supera le nostre forze naturali, possiamo sapere che Dio ci darà la grazia per raggiungerla, e quanto a San Francesco, lui ha ricevuto una capacità molto grande per la santità che ha realizzato, diciamo, pienamente. Noi abbiamo ricevuto meno capacità, ma questa capacità dobbiamo anche noi realizzarla, ossia, pienamente e questa, si può dire, è la santità: realizzare pienamente la capacità nostra per la santità.

Come santificarci?
Non vivendo come molti altri una vita agiata e mediocre, essendo simpatici, al solito, buoni, facendo il minimo o un pò di più di ciò che la Chiesa mi chiede questo è come, dopo aver trovato la via stretta, camminare adagio, con cadute qua e là, senza preoccuparcene, verso la Città Celeste; siamo sulla strada, ma bisogna avanzare a grandi passi verso il Paradiso. Siamo  qua in un deserto, in una terra d'esilio, facciamo uno sforzo per arrivare al Paradiso quanto prima, si tratta della nostra santificazione, della perfezione, di amare Dio con tutto il cuore.

Come facciamo, dunque, sul livello pratico?
Prima dobbiamo combattere il peccato, se pecco mortalmente bisogna afferrare i mezzi per convertirmi, la Confessione che anche mi rinforza contro la tentazione, la preghiera seria evitando le occasioni del peccato e la pratica delle virtù opposte, l'ascesi, e poi bisogna combattere anche il peccato veniale con gli stessi mezzi.
La vita di santificazione, la vita cattolica, comprende però non solo il combattere il peccato, ma anche la pratica delle virtù.

Parliamo brevemente di sette virtù principali, le virtù teologali:
- la Fede: bisogna crescere nella fede, nella fiducia in Dio, vedendo tutta la nostra vita nella luce della fede, accettando tutto che avviene come permesso da Dio, o come la volontà di Dio, con pazienza;
- la Speranza: bisogna fissare gli occhi solo sulla Città Celeste, alla fine della nostra strada;
- e la Carità: pregando e facendo bene, pregando a Dio e facendo tutto per Dio, essendo buoni, a tutti coloro che Dio mette sulla strada della nostra vita.

Le virtù cardinali:
- la giustizia: con i soldi che con tutti gli affari con altrui devo corrispondere ad ognuno il suo debito;
- moderazione: il temperamento delle emozioni, ne ho parlato in passato, quando ho detto che dopo il peccato originale siamo non più in controllo completo delle nostre emozioni, delle nostre passioni, dunque dobbiamo controllarle con uno sforzo continuo;
- la fortezza: per esempio parlando senza rispetto umano, quando occorre;
- e la prudenza: essendo cauti e chiedendo consiglio agli altri.

La pratica delle virtù è necessaria dunque e anche la mortificazione almeno nelle piccole cose, per esempio, non mangiando o bevendo tutto ciò che vogliamo, e ciò che non mangio o non bevo, risparmiamo per un altro giorno, e dopo la mortificazione degli occhi non guardando ogni persona che passa per strada o ogni oggetto nei negozi, devo combattere la concupiscenza della carne e degli occhi e poi la mortificazione dell'immaginazione e, come si può dire, la mortificazione anche del mio tempo libero, non passando troppo tempo con il chiacchierare al telefono, o al computer, giornali, libri leggeri, televisione, eccetera.
Meglio sarebbe  trovare i  tempi di silenzio, preghiera, il tempo per la lettura sacra o spirituale.
Finalmente la Preghiera, ogni mattina e ogni sera nella compagnia della Santissima Vergine Maria, offrendo la giornata a Dio, chiedendo il Suo aiuto e ringraziandoLo per tutto, per le gioie, ma anche per le pene. Proviamo a pregare almeno una parte del Santo Rosario, o forse la Via Crucis il venerdì, soprattutto in questo Tempo di Quaresima, vivendo nella presenza di Dio, indirizzando il nostro cuore, via dai pensieri ed affanni inutili, verso Dio, e anche una meditazione di almeno dieci minuti, la domenica per esempio, il giorno del Signore sul brano del Vangelo, soprattutto la Passione del Signore, ma meglio se possiamo farlo ogni giorno.

Ecco qualche mezzo principale della santificazione: combattendo il peccato, esercitando le virtù, mortificandoci e pregando, affinchè alla fine dei nostri giorni, Dio Padre possa dire di noi ciò che ha detto sul Figlio Divino alla Trasfigurazione, come abbiamo sentito oggi nel Vangelo: "Ecco  il mio Figlio diletto",
finchè possiamo risplendere anche noi nella luce con cui brillava allora Nostro Signore Gesù Cristo + che è la manifestazione della Divinità increata alla quale siamo chiamati ad unirci in Cielo, alla gloria dell'Altissimo.
Amen!

In nomine Patris, et Filii, et Spiritus Sancti.


Fraternamente CaterinaLD

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04/09/2011 18:38
 
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Il Papa: c’è una corresponsabilità nel cammino della vita cristiana: ciascuno, consapevole dei propri limiti e difetti, è chiamato ad accogliere la correzione fraterna e ad aiutare gli altri con questo particolare servizio

VISITA PASTORALE DEL SANTO PADRE AD ANCONA (11 SETTEMBRE 2011)

ANGELUS: AUDIO INTEGRALE RADIO VATICANA

Vedi anche:

Il Papa: Esercitiamoci nella correzione fraterna e nella preghiera comune (AsiaNews)

Benedetto XVI all’Angelus: i cristiani pratichino fra loro la correzione fraterna. Il saluto del Papa al Congresso eucaristico nazionale (R.V.)

Le parole del Santo Padre alla recita dell'Angelus nel commento di Salvatore Izzo

LE PAROLE DEL PAPA ALLA RECITA DELL’ANGELUS, 04.09.2011

Alle ore 12 di oggi il Santo Padre Benedetto XVI recita l’Angelus insieme ai fedeli e ai pellegrini presenti nel Cortile interno del Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo.
Queste le parole del Papa nell’introdurre la preghiera mariana:


PRIMA DELL’ANGELUS

Cari fratelli e sorelle!

Le Letture bibliche della Messa di questa domenica convergono sul tema della carità fraterna nella comunità dei credenti, che ha la sua sorgente nella comunione della Trinità. L’apostolo Paolo afferma che tutta la Legge di Dio trova la sua pienezza nell’amore, così che, nei nostri rapporti con gli altri, i dieci comandamenti e ogni altro precetto si riassumono in questo: "Amerai il tuo prossimo come te stesso" (cfr Rm 13,8-10). Il testo del Vangelo, tratto dal capitolo 18° di Matteo, dedicato alla vita della comunità cristiana, ci dice che l’amore fraterno comporta anche un senso di responsabilità reciproca, per cui, se il mio fratello commette una colpa contro di me, io devo usare carità verso di lui e, prima di tutto, parlargli personalmente, facendogli presente che ciò che ha detto o fatto non è buono. Questo modo di agire si chiama correzione fraterna: essa non è una reazione all’offesa subita, ma è mossa dall’amore per il fratello. Commenta Sant’Agostino: "Colui che ti ha offeso, offendendoti, ha inferto a se stesso una grave ferita, e tu non ti curi della ferita di un tuo fratello? ... Tu devi dimenticare l’offesa che hai ricevuto, non la ferita di un tuo fratello" (Discorsi 82, 7).

E se il fratello non mi ascolta? Gesù nel Vangelo odierno indica una gradualità: prima tornare a parlargli con altre due o tre persone, per aiutarlo meglio a rendersi conto di quello che ha fatto; se, malgrado questo, egli respinge ancora l’osservazione, bisogna dirlo alla comunità; e se non ascolta neppure la comunità, occorre fargli percepire il distacco che lui stesso ha provocato, separandosi dalla comunione della Chiesa. Tutto questo indica che c’è una corresponsabilità nel cammino della vita cristiana: ciascuno, consapevole dei propri limiti e difetti, è chiamato ad accogliere la correzione fraterna e ad aiutare gli altri con questo particolare servizio.

Un altro frutto della carità nella comunità è la preghiera concorde. Dice Gesù: "Se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro" (Mt 18,19-20). La preghiera personale è certamente importante, anzi, indispensabile, ma il Signore assicura la sua presenza alla comunità che – pur se molto piccola – è unita e unanime, perché essa riflette la realtà stessa di Dio Uno e Trino, perfetta comunione d’amore. Dice Origene che "dobbiamo esercitarci in questa sinfonia" (Commento al Vangelo di Matteo 14, 1), cioè in questa concordia all’interno della comunità cristiana. Dobbiamo esercitarci sia nella correzione fraterna, che richiede molta umiltà e semplicità di cuore, sia nella preghiera, perché salga a Dio da una comunità veramente unita in Cristo. Domandiamo tutto questo per intercessione di Maria Santissima, Madre della Chiesa, e di San Gregorio Magno, Papa e Dottore, che ieri abbiamo ricordato nella liturgia.

DOPO L’ANGELUS

Oggi, ad Ancona, si apre il XXV Congresso Eucaristico Nazionale, con la Santa Messa presieduta dal mio Legato il Cardinale Giovanni Battista Re. Domenica prossima, a Dio piacendo, avrò la gioia di recarmi ad Ancora per la giornata culminante del Congresso. Fin da ora rivolgo il mio saluto cordiale e la mia benedizione a quanti parteciperanno a questo evento di grazia, che nel santissimo Sacramento dell’Eucaristia adora e loda Cristo, sorgente di vita e di speranza per ogni uomo e per il mondo intero.



Rivolgo infine un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana, in particolare al folto gruppo delle ACLI – Associazioni Cristiane dei Lavoratori Italiani –, al termine dell’Incontro di studio sul tema del lavoro, a 30 anni dall’Enciclica Laborem exercens del Beato Giovanni Paolo II. Ho apprezzato, cari amici, la vostra attenzione a questo Documento, che rimane come una delle pietre miliari della dottrina sociale della Chiesa. Saluto il gruppo dei nuovi Seminaristi del Pontificio Collegio Internazionale Maria Mater Ecclesiae, l’Associazione Collegium Liberianum, che opera nella Basilica di Santa Maria Maggiore al servizio delle celebrazioni liturgiche, come pure i fedeli provenienti da Abbazia, in Diocesi di Bergamo. A tutti auguro una buona domenica.




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30/07/2012 21:38
 
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Intervista al cardinale Ratzinger 1997 :
De Carli: Eminenza, cosa intendiamo quando si parla di relativismo e sincretismo?
Ratzinger: La risposta è un pò complessa perchè c'è il sincretismo religioso, fra fedi diverse non cristiane, tra culture diverse ma religiose, e c'è anche il sincretismo che interno alla fede cristiana produce problemi e divisioni, visioni distorte che ricadono soprattutto sul senso della disciplina ecclesiale. Se crede, come immagino lei si attende, le rispondo per il sincretismo nella Chiesa (e sorride).
Questa forma di sincretismo nella Chiesa avviene quando qualcuno, o più persone, si ritaglia sulle sue esigenze individuali e, potremmo dire, sui suoi gusti, una fede privata, personale, fatta su misura che attinge senza dubbio elementi corretti e dottrinali, ma che rinchiudendoli in un mix personalizzato diventa una fede soggetta a mutamento, specialmente a cominciare da ciò che è vincolante, che diventa non più vincolante, da ciò che si deve per obbedienza, e che non diventa più necessario obbedire, eccetera..
L’esperienza religiosa del cattolico diventa così individuale, privata, non c’è più la necessità del sensum Ecclesiae nel senso stretto del termine, non è più necessario per loro ascoltare l'insegnamento dei Vescovi, per esempio, e ciò che dice il Papa diventano solo dei superficiali consigli non più vincolati dalla virtù dell'obbedienza.
Il relativismo associato a questa forma di sincretismo si sviluppa poi come una conseguenza. Spesso neppure i fedeli coinvolti se ne rendono conto. Questo relativismo si ha perchè alla fine l'individuo o il gruppo non cerca più la verità, non gli interessa, egli è oramai intrappolato nel proprio io, nella fede soggettiva, nella sua fede privata, di conseguenza può arrivare a credere sì, ma in modo relativo, ossia a seconda delle sue emozioni, secondo i suoi gusti, secondo la sua verità.
La fede della Chiesa è un fatto oggettivo, non soggettivo! Quando il fedele emerge da una fede soggettiva è indispensabile correggerlo prima che sia troppo tardi, condurlo per mano verso la conoscenza delle disposizioni della Chiesa, dei Documenti dei Vescovi, far comprendere che anche il Papa, anche i Vescovi rispondo ad una fede oggettiva e non soggettiva.

De Carli: Può descrivere uno dei danni, fra i più gravi, che ne deriva?
Ratzinger: i danni sono molti e di diversa natura proprio perchè parliamo di atteggiamenti soggettivi. Possiamo dire che il danno più vistoso è una Babele interna alla Chiesa, ognuno pensa quello che vuole, non c'è più disciplina, i Vescovi vengono criticati, l'obbedienza viene annullata in nome della libertà, eccetera...
Non stupisce che poi dal soggettivismo della fede del fai da te molti cattolici finiscono poi nel sincretismo di stampo New-Age o di altri che abbandonano persino la Chiesa per accedere ad altre religioni.
Anche nella fede popolare della Chiesa c'è il rischio di una grave forma di sincretismo che finisce per relativizzare una fede che da oggettiva e guidata sapientemente dalla Chiesa, diventa soggettiva e guidata da pochi che fanno la voce grossa e vogliono guidare il gregge senza aver ricevuto dal Papa le redini per farlo.
Anche i sacerdoti che si comportano con autorità disobbedendo agli ordini dei Vescovi, conducono poi il gregge allo sbaraglio. Per non parlare di quei laici che si vogliono fare sacerdoti e vescovi e guidare piccoli gruppi contro la guida stessa della Chiesa. In questo senso è la Babele, non c'è più disciplina, e si rischia di lasciare le pecore allo sbando. Ma da tutto questo che cosa ne può derivare se non contese e divisioni come ci ammonisce l'apostolo Paolo?

De Carli: Eminenza, lei dice che non ci sono delle ricette, ma come arginare almeno questi problemi oggi?
Ratzinger: Certo, non abbiamo ricette perchè siamo uomini ed anche fragili, ma abbiamo il prototipo, abbiamo l'esempio da seguire. Gesù si fece obbediente fino alla morte di Croce. E' tutto qui! L'obbedienza è la via maestra per portare rimedio alle nostre fragilità. Con l'obbedienza una fede soggettiva diventa oggettiva e fidandosi della Chiesa ottiene ottimi risultati per se stesso e per gli altri. Gesù che è Dio si fece obbediente, e i Santi ci hanno insegnato che l'obbedienza alla Chiesa ricompensa di tutte le sofferenze subite, è allora fondamentale che si aiutino i fedeli oggi a riscoprire questa grande virtù. I fedeli con l'obbedienza non vengono annullati nelle loro libertà, solo che invece di operare in modo soggettivo, impareranno a lavorare, vivere e pregare in modo oggettivo, insieme ai propri Sacerdoti e Vescovi, in comunione con il Papa. Non c'è altra via di uscita, non c'è altro sistema, c'è solo di applicare la propria volontà donandola alla missione della Chiesa ad imitazione di Cristo: facciamoci obbedienti fino alla morte di croce.

[SM=g1740733]

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25/08/2012 19:26
 
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È la prudenza la vera ragion pratica


Per Aristotele la prudenza era la più grande virtù del politico, la capacità di vedere le cose buone per sé e per gli altri uomini. Per san Tommaso essa guidava le altre virtù verso il giusto mezzo. Kant invece la relegò fuori dalla sfera morale


di Giovanni Franchi novembre 2000


La cultura moderna ci ha abituati oramai a numerosi paradossi: uno dei più stridenti è certamente quello “etico”: pur essendo diventato fin dall’epoca del Rinascimento e della rivoluzione scientifica il fulcro dell’universo, l’uomo ha disimparato a conoscere se stesso e le modalità con cui egli si relaziona al mondo e ai suoi simili. Di fronte alle crescenti sfide della “globalizzazione” (culturali, economiche, tecnologiche ecc.) e ai rischi che un tale processo porta con sé (politici, ambientali, biologici ecc.), egli è letteralmente incapace di agire.
Questa condizione è l’esito ultimo di una concezione filosofica e, in senso più generale, culturale, che ha pensato di raggiungere il bene per l’uomo e la collettività attraverso lo strumento delle scienze naturali: secondo una tale dottrina, infatti, lo “sviluppo” ed il “progresso” sono raggiungibili solo attraverso la conoscenza empirica del rapporto causa-effetto tra oggetti, l’estrapolazione da esso di alcune regolarità, la formulazione di leggi e l’uso di queste per progetti di trasformazione economico-sociale nei quali la sfera dell’agire individuale va perduta o, tutt’al più, diventa marginale. In tal modo si è giunti nel nostro secolo al macabro fenomeno dei regimi “totalitari” nei quali alcuni uomini, in nome di una presunta verità scientifica, hanno potuto pianificare lo sterminio sistematico di altri uomini, giudicandolo necessario al raggiungimento di un bene futuro.


Negli ultimi cinquant’anni, la civiltà del capitalismo mondiale, si è, però, tutt’altro che affrancata da tali pericoli: in modo sempre più convinto domina in essa l’idea che il bene, la salvezza, giunga dal sapere rigoroso. Le nuove scoperte scientifiche e tecnologiche vanno subito ad alimentare le potenzialità di un sistema economico nel quale l’uomo il più delle volte è destinato a giocare il ruolo di semplice tramite di sollecitazioni merceologiche che lo impegnano meccanicamente e solo nelle sfere meno coscienti ed elevate del suo essere. Le grandi conquiste della scienza non garantiscono da sole la piena dignità dell’uomo perché non tengono conto della dimensione più propria del suo agire, cioè di quella morale, che implica la capacità di deliberare bene, di farlo cioè in prima persona, responsabilmente. Questo è l’ambito della prudenza.

Allegoria di tre delle quattro virtù cardinali: la fortezza, la prudenza e la temperanza (manca la giustizia), 
Raffaello, Stanza della Segnatura, Vaticano

Allegoria di tre delle quattro virtù cardinali: la fortezza, la prudenza e la temperanza (manca la giustizia), Raffaello, Stanza della Segnatura, Vaticano

Le origini: la phrónesis in Aristotele
L’esigenza di una autonoma trattazione del tema della buona deliberazione, ossia della prudenza, è avvertita fin dall’epoca della filosofia classica dei Greci. In polemica col suo maestro Platone (427-347 a.C.), Aristotele (384-322 a.C.) è stato il primo tra i pensatori d’Occidente a distinguere esplicitamente la scienza dalla morale1. Nell’Etica Nicomachea lo Stagirita afferma che il fine dell’uomo è la felicità; egli sostiene che esistono due diverse fonti di felicità: quella data dalla contemplazione e quella che, invece, è propria della vita in comune con gli altri uomini. Il raggiungimento di una felicità consiste nella realizzazione dello specifico presupposto ontologico insito nell’anima umana: in questo “portare a compimento” consiste il buon agire, ossia la virtù.

Esistono dunque due distinti tipi di virtù: quelle “dianoetiche”, che riguardano le verità incontrovertibili della ragione (gli “universali”), e quelle “etiche” che, invece, hanno a che fare con la realtà umana, con ciò che è buono o giusto per essa, e, quindi, non possono giungere al rigore delle prime. Tra le virtù dianoetiche Aristotele colloca l’intelletto che consiste nell’intuizione dei principi primi e indimostrabili della ragione, la scienza che riguarda il procedimento logico della ragione e la sapienza, l’unione armonica delle prime due; tra le virtù etiche, invece, troviamo la giustizia, il coraggio, la liberalità, ecc. Aristotele ritiene che per acquisire le virtù etiche non sia necessario essere sapienti: l’importante è venire educati, nel tempo, al buon agire, cioè alla ricerca del “giusto mezzo” tra l’eccesso ed il difetto. In questo contesto è evidente come la convivenza, la comunicazione e la tradizione si rivelino necessarie alla formazione dell’uomo virtuoso. Ma qual è il rapporto tra le virtù dianoetiche e quelle etiche?

Lo Stagirita dà implicitamente una risposta ad un tale quesito per mezzo del concetto di
phrónesis2: questa è, infatti, la virtù che media tra il piano della teoria e quello della pratica e riveste, quindi, un ruolo centrale nella sua antropologia e nella sua dottrina morale. Secondo il padre della scuola peripatetica la frónhsiw è una virtù dianoetica, cioè teoretica, ma dotata di una natura particolarissima: pur legata agli “universali”, essa è rivolta parimenti alla realtà contingente, ai “particolari”, che possono esserci oppure no, e sui quali solamente è possibile deliberare. La prudenza è quindi una virtù intellettuale che ha a che fare con una deliberazione: «prudente» afferma infatti Aristotele è «l’esser capace di deliberare bene sulle cose che sono buone e vantaggiose»3.

Ma cosa significa deliberare? Nell’
Etica Nicomachea è riportato un sillogismo “pratico” che può aiutarci: alla legge universale che costituisce la premessa maggiore: «Le carni leggere sono salutari per l’uomo», deve seguire la premessa minore: «Le carni d’uccello sono leggere», per poter poi trarre la conclusione: «Le carni d’uccello sono salutari per l’uomo». Ora, Aristotele nota che chi conosce la legge universale (la natura salutare delle carni leggere) ma è privo della conoscenza del particolare (l’identificazione delle carni d’uccello come carni leggere) non giungerà ad alcuna conclusione in merito a ciò che concretamente è salutare; chi, al contrario, ignora la legge universale e conosce solo quella particolare (la natura leggera e quindi salutare della carne d’uccello) è comunque avvantaggiato4.

Un ulteriore punto dell’analisi aristotelica, molto importante ancora per noi oggi, è il confronto tra la frónhsiw da un lato e la politica e la produzione tecnica dall’altro. Per lo Stagirita, la politica e la frónhsiw, pur diverse nell’essenza sono rivolte entrambe all’ambito delle cose umane: per questo egli rifiuta l’ideale platonico del filosofo-re – che presuppone l’identificazione di sapienza e politica – e tesse invece le lodi di un personaggio storico, Pericle, e di tutti quei frónimoi che sono «capaci di vedere le cose che sono buone per loro e quelle che lo sono per gli uomini… tali sono gli uomini che governano le case e le città»5. Infine, viene messa in evidenza la differenza tra la frónhsiw e la produzione tecnico-artistica. Mentre l’agire che caratterizza la prima tende solo a se stesso (la virtù non sta, infatti, in un fine al di là dei mezzi ma proprio nel modo in cui si raggiunge un tale fine), il “fare” tecnico, invece, è finalizzato alla creazione di un oggetto indipendente, destinato a separarsi da chi lo crea.

La prudentia dall’antichità alla filosofia di Tommaso d’Aquino [SM=g1740733]
È con Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.) che il concetto di frónhsiw viene tradotto per la prima volta in latino con prudentia6. Nel trattato Sui doveri la prudenza è distinta dalla sapienza, ma assieme a questa è inserita, con la giustizia, la fortezza e la temperanza, tra le quattro virtù principali, fonti di ogni dovere, secondo un modello presente già in Platone7. Nella tarda antichità, i padri della Chiesa daranno a queste quattro virtù il nome di “cardinali” (sant’Ambrogio), a cui affiancheranno altre tre virtù, dette “teologali” (fede, speranza, carità), che rappresentano un dono della grazia divina. Un nuovo interesse per la virtù della prudenza coincide con la ripresa dello studio di Aristotele in Occidente, nel XIII secolo: se ne occupano sant’Alberto Magno (1205ca.-1280), che però non conosce il VI libro dell’Etica Nicomachea8, e soprattutto san Tommaso d’Aquino (1225ca.-1274), che dedica all’argomento un trattato nell’ambito della Summa theologiae, e alcune importanti considerazioni nel suo commento all’Etica Nicomachea9.

Con Tommaso possiamo affermare che la definizione “classica” di prudenza trova la sua piena sistemazione.
Per comprendere il ruolo centrale che nell’etica di Tommaso gioca la prudenza bisogna prendere in considerazione la concezione che egli ha della scelta e, quindi, della libertà umana. Per l’Aquinate, come già per Aristotele, l’uomo possiede due facoltà spirituali che è in grado di orientare al bene: l’intelletto (per il bene teorico) e la volontà (per il bene pratico): la terza, rappresentata dai sensi, resta, invece, fuori dall’ambito dell’“etica”. La scelta, sostiene Tommaso, è propria della volontà che – come si è già visto – in sé è già orientata al bene. Ma per scegliere rettamente, la volontà ha bisogno dell’intelletto che la deve “illuminare”, giudicando ciò che va fatto e ciò che, invece, va evitato: una tale “illuminazione morale” Tommaso la chiama
sinderesi10. La scelta è così un tutt’uno di intelletto e volontà. Quest’unione passa attraverso il “giudizio pratico”, cioè attraverso quell’attività della ragione che è in grado di mediare tra la norma generale e la conoscenza del caso particolare e che è, appunto, la prudenza11. Definita, quindi, come la «retta ragione dell’agire» (recta ratio agibilium), la prudenza è considerata anche l’«auriga delle virtù» perché, pur non avendo un fine suo proprio, le spetta il compito fondamentale di indirizzare tutte le altre virtù verso il «giusto mezzo»12.


Il tramonto della prudenza e la filosofia moderna

La dottrina morale di Tommaso d’Aquino stabiliva, come si è visto, un saldo legame tra l’opera dell’intelletto e quella della volontà: questo mirabile equilibrio viene meno nel XIV secolo con il “nominalismo”. È soprattutto Guglielmo di Ockham (1280-1349 ca.) a contestare l’idea che la volontà sia già di per sé orientata al bene, e che quindi le scelte che l’uomo compie liberamente siano radicate in una verità di ragione che le precede.
I “nominalisti” negano, in pratica, l’idea di una “libertà di qualità” (intesa come arbitrio di fare o meno un bene conoscibile per mezzo dell’intelletto) e affermano, invece, una “libertà di indifferenza” (come semplice possibilità di scegliere tra contrari)
13.

La grande frattura tra intelletto e volontà, tra teoria e prassi, che caratterizza la Scolastica tardo-medievale, ha conseguenze importantissime che giungono fino alla nostra epoca e ha condizionato la sorte di una virtù come la prudenza, il cui compito è proprio quello di mediare tra le due differenti sfere. Dalla “frattura” nominalista, infatti, nasce, da un lato, la riduzione “moderna” della prudenza a semplice “accortezza” o “astuzia” individuale finalizzata alla sopravvivenza in un mondo ostile, come, ad esempio, nel gesuita spagnolo Baltasar Gracián (1601-1658) («
Gareggi la circospezione del prudente con l’attenzione dell’osservatore…»14); dall’altro, la sua esautorazione dal ruolo di guida per le scienze politiche e del diritto: se Aristotele aveva messo in stretta relazione frónhsiw e politica, e Tommaso d’Aquino aveva parlato specificamente di una “prudenza politica” il cui fine è il bene della società15, il moderno pensiero politico, liberatosi dai condizionamenti dei principi morali, trova il suo fondamento nella volontaristica “libertà di indifferenza” dei singoli individui empirici e può così dare vita al giusnaturalismo “contrattualista”16. A partire da Thomas Hobbes (1588-1679) prende inoltre sempre più piede un indirizzo di pensiero che cerca di studiare la politica attraverso un metodo rigoroso, improntato ai principi matematici e delle scienze naturali. Assistiamo, così, al passaggio dalla classica prudentia civilis o prudentia politica alla illuministica scienza camerale, nella quale diventa centrale l’operare tecnico dei governi per il benessere economico e sociale delle nazioni17.

Un vero e proprio “colpo di grazia” alla virtù della prudenza lo infligge Immanuel Kant (1724-1804) nella sua Fondazione della metafisica dei costumi. Per il filosofo prussiano il principio supremo della morale è la piena autonomia della volontà individuale. Questa si esprime in un «imperativo categorico» «a priori»: «Agisci solo secondo quella massima mediante la quale tu puoi insieme volere che diventi una legge universale»18. La prudenza (Klugheit), che da Kant è definita «l’abilità nella scelta dei mezzi per il proprio benessere massimo»19, ha una natura “eteronoma”, “a posteriori” (dipende, cioè, da un fine esterno alla volontà), ed è, di conseguenza, relegata fuori della vera e propria sfera morale, in prossimità della semplice abilità tecnico-pratica20.

La “riabilitazione della filosofia pratica” e le vie per un recupero della prudenza
Il trionfo dei principi illuministici e positivistici nelle scienze morali e politiche coincide con il pieno oblio della prudenza e, più in generale, dello studio delle virtù. Solo sul finire del XIX secolo c’è un parziale ritorno alla filosofia antica e medievale: in ambito cattolico papa Leone XIII fa del pensiero di Tommaso d’Aquino la dottrina filosofica e teologica ufficiale della Chiesa (enciclica Aeterni Patris, 1879). L’impostazione ancora fortemente razionalista e dogmatica del neotomismo impedisce però uno specifico interesse per l’etica e per la “ragione pratica”: si dovrà aspettare, infatti, il 1936 perché il filosofo tedesco Josef Pieper (1904-1997) dedichi un breve ma importante saggio proprio alla prudenza, nell’ambito di una tetralogia di scritti sulle virtù cardinali21.
Contemporaneamente, in ambito “laico” si assiste, agli inizi del XX secolo, soprattutto in Germania, ad un rinnovato interesse per il pensiero antico, tanto da far parlare addirittura di un “neoumanesimo tedesco” (U. von Wilamowitz-Moellendorff, W. Jaeger, P. Natorp ecc.)
22. In questo contesto Max Scheler (1874-1928) e Nicolai Hartmann (1882-1950) elaborano una dottrina morale fondata sull’intuizione di “valori” oggettivi23, mentre Othmar Spann (1878-1950) parla esplicitamente delle virtù come dell’orientamento umano alla perfezione24.

È però col secondo dopoguerra che si sviluppa in modo più approfondito e coerente un interesse per l’etica antica e, quindi, anche per il problema delle virtù. Grazie alle opere di autori quali Leo Strauss (1899-1973), Eric Voegelin (1901-1985) e Hannah Arendt (1906-1975) è potuto sorgere in Germania, nell’ambito del pensiero politico, un movimento che ha preso il nome di «riabilitazione della filosofia pratica» (K.-H. Ilting, H. G. Gadamer, J. Ritter, M. Riedel ecc.) che fa riferimento alla frónhsiw di Aristotele in opposizione allo scientismo marxista e neopositivista25.

In Francia, Pierre Aubenque ha dedicato un saggio alla prudenza in Aristotele
26; in Inghilterra Gertrude Anscombe e Georg H. von Wright, entrambi allievi di Ludwig Wittgenstein, in opposizione al modello “nomologico-deduttivo” dei neopositivisti hanno dato vita ad una logica fondata sul sillogismo pratico, mentre negli Stati Uniti, Alasdair MacIntyre, con Dopo la virtù (1981)27, è diventato uno dei protagonisti della svolta della filosofia anglosassone verso una ripresa di tematiche umanistiche e metafisiche. Infine, anche in Italia, dopo la lunga stagione del neoidealismo, si è assistito ad una rinascita d’interesse per la filosofia antica, soprattutto con Giovanni Reale dell’Università Cattolica di Milano, che si è occupato con la sua scuola principalmente di Platone, e con Enrico Berti, già allievo di Marino Gentile e professore a Padova, attualmente uno dei più importanti studiosi del pensiero di Aristotele.

In che modo, ci possiamo chiedere a questo punto, è possibile quel pieno recupero del ruolo della prudenza nel metodo delle scienze filosofiche e sociali che ancora non c’è stato? Certamente esso deve passare attraverso una riconsiderazione dell’importanza delle virtù nell’ambito di un’antropologia fondata filosoficamente. In secondo luogo, poi, anche attraverso una riscoperta della loro centralità in ogni agire politico e sociale che non rinunci né a un fondamento razionale, né a una distinzione dal semplice “fare” della tecnica: in questa direzione si sono mossi, negli ultimi anni, alcuni autori28. Inoltre, è importante riconoscere la correttezza logica del ragionamento prudente, cioè del sillogismo pratico, correttezza che ha trovato oramai ampi riconoscimenti come, ad esempio, nello stesso Berti29. D’altronde, lo sbocco specificamente pratico di un tale ragionamento, necessario alla vita civile e politica degli individui, sembra, infine, che non possa essere realizzato in pieno da chi, pur in parte all’origine della stessa “riabilitazione” della filosofia pratica, come Hans Georg Gadamer, della frónhsiw ha accentuato in particolare il momento dell’“interpretazione”, cioè dell’interrogarsi storico e sempre “aperto” sull’oggetto (ermeneutica), a discapito di un’inderogabile risposta razionale in grado di qualificare l’agire e rendere responsabili dei suoi effetti30.


Note:
1 Nella Politeia Platone identifica la prudenza con la sapienza: cfr. Platone, Politeia, IV, 427 d- 429 a.
2 L’origine del termine frónhsiw ci porterebbe lontano: basti tenere presente che, ancora nei poemi omerici, il sostantivo plurale frÄnew indica una parte del corpo, il diaframma, nel quale l’uomo è colpito da “impressioni vivaci”. Progressivamente, le frÄnew acquistano un connotato etico, avvicinandosi all’idea di una percezione immediata di ciò che è assennato fare. Cfr. B. Snell, Il cammino del pensiero e della verità. Studi sul linguaggio greco delle origini, a cura di G. Calboli, Ferrara 1991, p. 63 e segg.; cfr. anche Id., La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Torino 1963, p. 226 e segg. e M. Detienne-J.-P. Vernant, Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, Bari 1999. Nel pantheon greco è Athena a incarnare la phrónesis. Così Walter F. Otto: «La vera Athena non è né un essere impulsivo né un essere contemplativo. È parimenti distante da entrambe queste nature… il suo chiaro spirito non è ragione pura. Rappresenta il mondo dell’azione, ma non dell’azione impensata e primitiva, sebbene della ponderatezza ecc.» (W. F. Otto, Gli dèi della Grecia. L’immagine del divino riflessa dallo spirito greco, Milano 1968, pp. 76-77). Sulla frónhsiw in Aristotele, cfr. P. Aubenque, La prudence chez Aristote, Paris 1963. In generale, sull’etica nella filosofia antica, cfr. O. Gigon, Problemi fondamentali della filosofia antica, Napoli 1983.
3 Aristotele, Etica Nicomachea, VI, 1140 a, 25.
4 Ivi, VI, 8, 15-20. Per Aristotele, dunque, la frónhsiw «dirige l’agire; di conseguenza deve possedere ambedue le conoscenze, o di preferenza quella concernente i particolari». I “particolari” che la frónhsiw percepisce non sono dei dati meramente sensibili (essa resta pur sempre una forma di ragione) ma simili a quelli che vengono definiti i “sensibili comuni”: come la percezione di questo specifico triangolo rispetto all’idea in sé di triangolo. Cfr. il commento di M. Zanatta all’Etica Nicomachea, Milano 1996, vol. II, p. 919. Su sillogismo pratico cfr. anche Aristotele, op. cit., VII,1147 a., ed il commento di Zanatta ed.cit., pp. 947-948.
5 Aristotele, op. cit., VI, 1140 b, 5-10. In generale, sul pensiero politico di Aristotele cfr. L. Strauss- J. Cropsey, Storia della filosofia politica, Genova 1993, vol. I, p. 219 e segg.; E. Voegelin, Ordine e Storia - La filosofia politica di Aristotele, a cura di G. F. Lami, Roma 1999.
6 Prudentia è una forma contratta di previdentia, cioè la capacità di vedere in anticipo. Cfr. P. Pellegrin, Prudence, in Dictionnaire d’éthique et de philosophie morale, Paris 1996, p. 1201 e segg.
7 Cicerone, Dei doveri, Libro I, V, VI, XLIII.
8 Cfr. Alberto Magno, Il bene, a cura di A. Trabocchia Canavero, Milano 1987, trattato IV, La prudenza, p. 473 e segg.
9 Sul pensiero di Tommaso d’Aquino cfr. B. Mondin, Il sistema filosofico di Tommaso d’Aquino, Milano 1992; S. Vanni Rovighi, Introduzione a Tommaso d’Aquino, Bari 1996; A. Campodonico, Integritas - metafisica ed etica in san Tommaso, Fiesole 1996; C. Fabro, Introduzione a san Tommaso. La metafisica tomista e il pensiero moderno, Milano 1997. Per una lettura della prudenza alla luce del pensiero di Tommaso cfr. l’oramai “classico” saggio di Josef Pieper (del 1936): J. Pieper, La prudenza, Brescia-Milano 1999.
10 Una differenza importante tra Aristotele e Tommaso sta proprio in ciò: che mentre per il padre della scuola peripatetica i fini dell’agire appartengono al mondo delle opinioni, in Tommaso essi sono necessariamente legati ad una conoscenza assoluta. Ciò si può rilevare dalla critica di Tommaso alla distinzione aristotelica tra un intelletto “possibile” che conosce le cose necessarie e uno che conosce quelle contingenti. Afferma invece l’Aquinate che l’intelletto è uno e che vero necessario e vero contingente «hanno tra loro un rapporto che è quello del perfetto all’imperfetto nel genere del vero». San Tommaso d’Aquino, Commento all’Etica Nicomachea di Aristotele, Bologna 1998, vol. 2, p. 16.
11 Su tutto ciò cfr. S. Pinckaers, Le fonti della morale cristiana. Metodo, contenuto, storia, Milano 1992, p. 444 e segg.
12 San Tommaso d’Aquino, La somma teologica, Bologna 1984, vol. XVI, La prudenza, questione 47, artt. 6-7, pp. 232-236.
13 Su ciò cfr. S. Pinckaers, op. cit., p. 444 e segg.
14 Cfr. G. Macchia, I moralisti classici, Milano 1989, p. 25 e p. 261 e segg. e direttamente B. Gracián, Oracolo manuale e arte di prudenza, Milano 1991.
15 San Tommaso d’Aquino, La somma teologica, cit., questione 47, artt.10-12.
16 Solo dopo la stagione della Rivoluzione francese, Joseph de Maistre può ironizzare sul concetto di libertà negli illuministi: il liberale John Locke, identifica erratamente la libertà con la semplice capacità di agire e con la «volontà non impedita»; anche il suo discepolo Condillac «scambia il risultato o il segno esterno della libertà, cioè l’azione fisica, con la libertà stessa, che è un fatto morale. “La libertà è la facoltà di fare”! E che significa? Forse che un uomo imprigionato e carico di catene non ha la capacità di rendersi colpevole di tutti i delitti, pur senza agire? Non ha che da volerlo». La volontà non può essere infatti forzata (non sarebbe più volontà) ma solo attratta o dal bene o dal male. J. de Maistre, Le serate di Pietroburgo, Milano 1986, pp. 315-319.
17 Cfr. V. Sellin, Politica, Venezia 1993, in part. pp. 57-95.
18 I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, Milano 1995, p. 151.
19 Ivi, p. 137.
20 Su tutto ciò cfr. P. Pellegrin, op. cit., pp. 1205-1206.
21 Vedi nota 8.
22 Così in E. Berti, Aristotele nel Novecento, Bari 1992, p. 15 e segg.
23 M. Scheler, Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik, Halle 1913-1916; N. Hartmann, Ethik, Berlin 1926.
24 O. Spann, Gesellschaftsphilosophie, München 1928.
25 Sulla “riabilitazione della filosofia pratica” cfr. L. Cortella, Aristotele e la razionalità della prassi. Una analisi del dibattito sulla filosofia pratica aristotelica in Germania, Roma 1987; G. Fornero, La riabilitazione della filosofia pratica in Germania e il dibattito fra “neoaristotelici” e “postkantiani”, in N. Abbagnano, Storia della filosofia, vol. IX, La filosofia contemporanea 3, Milano 1996, p. 195 e segg.; E. Berti, op. cit., p. 186 e segg.
26 Vedi nota 2.
27 A. MacIntyre, Dopo la virtù, Milano 1988.
28 Ad es., da un punto di vista tomista cfr. U. Galeazzi, L’etica filosofica in Tommaso d’Aquino, Roma 1990; Id., Introduzione a Tommaso d’Aquino, I vizi capitali, Milano 1996, p. 5 e segg.; G. Abbà, Lex et virtus. Studi sull’evoluzione della dottrina morale di san Tommaso d’Aquino, Roma 1983; Id., Felicità, vita buona e virtù. Saggio di filosofia morale, Roma 1995; Id., Quale impostazione per la filosofia morale ?, Roma 1996.
29 Cfr. E. Berti, La razionalità pratica tra scienza e filosofia, in Id., Le vie della ragione, Bologna 1987, p. 55 e segg.
30 Cfr. ad es. H.G. Gadamer, L’ermeneutica come filosofia pratica, in Id., La ragione nell’età della scienza, Genova 1999, p. 87 e segg., dove, equiparando filosofia pratica ed ermeneutica, afferma: «Un’interpretazione definitiva sarebbe in sé una contraddizione. L’interpretazione è sempre in cammino» (p. 104).



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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