A tutti voi che passate da qui: BENVENUTI
Se avete desiderio di capire che cosa insegna la Bibbia che il Magistero della Santa Chiesa, con il Sommo Pontefice ci insegna, questo Gruppo fa per voi. Non siamo "esperti" del settore, ma siamo Laici impegnati nella Chiesa che qui si sono incontrati da diverse parti d'Italia per essere testimoni anche nella rete della Verità che tentiamo di vivere nel quotidiano, come lo stesso amato Giovanni Paolo II suggeriva.
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CONSIGLI EDITORIALI PER LA SANTA MESSA

Ultimo Aggiornamento: 08/01/2012 00:18
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  qui potrete scaricare gratuitamente più di un libro sulla Messa molto ben curati e di facile lettura non perdete questa opportunità....

TUTTO SULLA SANTA MESSA



VALORE DELLA SANTA MESSA

I. Se il Figlio di Dio è venuto nel mondo, tale avvenimento costi­tuisce l'avvenimento più importante nella storia dell'universo e l'av­venimento centrale dei tempi e degli spazi.

NELLA S. MESSA GESÙ CRISTO, UOMO-DIO, È NOSTRO INTERCESSORE, NOSTRO SACERDOTE E NOSTRA VITTIMA: ESSENDO DIO E UOMO INSIEME, LE SUE PREGHIERE, I SUOI MERITI, LE SUE OFFERTE SONO DI UN VALORE INFINITO.
Se il figlio di Dio fatto uomo ha patito ed è morto, questo avveni­mento è di tale importanza che al mondo non sta altro che ricordar­lo, celebrarlo e ritualizzarlo ogni giorno.
Tutta la storia del mondo deve gravitare, incentrarsi e giustificarsi in tale avvenimento.
 
2.
La Chiesa per ordine stesso di Gesù, rievoca, celebra, rinnova misteriosamente tale sacrificio di Gesù ad ogni istante in ogni gior­no nelle 465.000 messe che ogni giorno vengono celebrate nei cin­que continenti.
 
3.
Per tal motivo la cosa più gradita a Dio è la compassione con Gesù Crocifisso e la contemplazione della sua passione. Dice giusta­mente Sant'Alfonso: « Vale più una lacrima sparsa sul Crocifisso che lunghe penitenze e lunghi pellegrinaggi ».
Niente poi c'è al mondo di più prezioso di un'anima crocifissa con Cristo.
 
4.
Nella santa Messa la Chiesa unisce intimamente il suo sacrifi­cio al sacrificio di Gesù, così da risultare un unico sacrificio: il sacri­ficio di tutto il Corpo Mistico, del Capo, Gesù, e delle membra.
LA S. MESSA, DEVOTAMENTE PARTECIPATA, PERORA IL PERDONO DEI NOSTRI PECCATI, DIMINUISCE IL PURGATORIO, PROCURA ALLE ANIME PURGANTI IL MIGLIOR SUFFRAGIO.
Nella S. Messa Gesù offre al Padre insieme alle sue virtù, alle sue preghiere, ai suoi dolori, al suo sangue e alla sua morte, le virtù, le preghiere, i dolori e la morte della Madonna, dei martiri, dei santi e di tutti i buoni cristiani con i quali completa la sua passione, ai qua­li partecipa mediante i suoi meriti infiniti la sua dignità divina.
 
5.
L'unica offerta degna di Dio è il sacrificio del suo Figlio. L'unica maniera di rendersi graditi a Dio è di offrirsi in un solo sa­crificio col sacrificio di Gesù.
L'unica espiazione, riparazione, propiziazione per i peccati nostri e del mondo intero è il sacrificio di Gesù.

L'unica fonte di grazie per noi e per il mondo, l'unica speranza per il mondo e per noi è il sacrificio di Gesù.

L'unico supplemento alle nostre omissioni, alle nostre indigenze, ai nostri vuoti, è il sacrificio di Gesù.
L'unica cosa che può rendere preziose le nostre preghiere, le no­stre opere buone, le nostre fatiche, i nostri sacrifici è il sacrificio del­la Messa.
 
6.
Una Messa dà una gloria infinita al Padre, al Figlio, allo Spirito Santo, una grande gioia a tutti i santi del cielo, un grande sollievo al­le anime del Purgatorio, una pioggia di grazie a tutti gli uomini del­la terra, dei grandissimi meriti e delle grandissime grazie a te, che l'ascolti e vi partecipi. Tutto ciò che ha valore ha valore, dalla Messa, cioè dal sacrificio di Gesù.
LA S. MESSA E’ LA RINNOVAZIONE DEL SACRIFICIO DELLA CROCE; TRATTIENE LA GIUSTIZIA DIVINA; REGGE LA CHIESA; SALVA IL MONDO.
 
7.
É la S. Messa che tiene in vita il mondo, che placa la giustizia di Dio per i peccati dell'umanità. Senza la Messa il mondo verrebbe di­strutto ogni giorno per i suoi peccati.
La Beata Anna Maria Taigi vide in visione che le fiamme distrug­gitrici della giustizia di Dio, le quali stavano per avventarsi sulla ter­ra e distruggerla, se ne allontanavano per il sacrificio di Gesù offer­to dalla Chiesa quotidianamente.
 
8.
Perché la Messa sia per te un sacrificio che ti renda accetto a Dio occorre che divenga il tuo sacrificio; e affinché divenga il tuo sa­crificio occorre che tu lo offra unito a Gesù, cioè in stato di grazia e che tu ti offra insieme a Gesù, prendendo parte attiva alla Messa.
 
9.
Occorre innanzi tutto che ti renda degno di Dio, purificandoti di tutti i tuoi peccati con un atto di contrizione perfetta ogni volta che entri in chiesa per partecipare al Sacrificio della Messa.
La Chiesa mette il fonte di acqua benedetta all'entrata per rimet­terci con essa i peccati veniali, e per farci ricordare di far l'atto di contrizione che ci lava e ci rimette anche tutti gli altri peccati.
 
10.
La Messa sarà tanto più sorgente di grazie e di meriti per la tua santificazione quanto più ne fai di essa il tuo sacrificio.
Perché la Messa sia il tuo sacrificio occorre che tu offra per le ma­ni del sacerdote, insieme al pane e al vino, le tue preghiere, le tue fa­tiche, i tuoi sacrifici, tutte le tue opere buone.
 
11.
Alla consacrazione, durante la Messa, si compie un mistero: il Verbo come coll'incarnazione unì alla sua persona la natura uma­na per farne un sacrificio degno di Dio e offrirlo al Padre nella Cro­ce, così nella Messa unisce a sé la tua persona con tutte le tue cose buone e tutti gli uomini membri del suo Corpo Mistico con le loro opere buone e i loro sacrifici, li trasforma in suoi e li offre al Padre in un unico sacrificio.
Alla consacrazione nella S. Messa si compie il mistero solenne e meraviglioso del rinnovamento mistico dell'immolazione di Gesù in croce e dell'immolazione del Corpo Mistico.
Questo mistero è simboleggiato dall'unione delle poche gocce di acqua col vino nel calice, che nella consacrazione diventano insieme al vino Corpo e Sangue di Gesù.
 
12.
Alla comunione si compie questo mistero: Gesù si unisce in­timamente con quanti lo ricevono così da diventare con loro una co­sa sola; così comunica loro la sua vita e i suoi meriti e li unisce inti­mamente al Padre e allo Spirito Santo.
 
13.
Gesù nella comunione compie tutto questo in te nel grado in cui ti unisci a lui spiritualmente con l'amore, nel grado, cioè, in cui lo ami, lo scegli come primo amore e primo ideale della tua vita e che vuoi vivere per lui.
 
14.
Non c'è cosa più importante, più preziosa, più utile a te e al mondo intero, che tu possa fare nel giorno, che andare in chiesa e offrire a Dio il sacrificio della Messa.

Qualunque somma potessi andare a ritirare ogni mattino e met­terla in un libretto, sarebbe un nonnulla rispetto ai meriti e ai tesori che acquisti e ti conservi per l'eternità ogni giorno che vai a Messa. Devi stimare la Messa come l'atto più importante della tua giornata.

 
15.
Quando ti senti vuoto, quando ti senti oppresso, quando hai di bisogno di importanti grazie e ti accorgi che non hai alcun titolo per ottenerle; quando ti senti vuoto, quando ti senti preoccupato per l'avvenire di te, dei tuoi e del mondo intero, offri al Padre Gesù nel sacrificio della Messa. Egli basta a tutto.
 
16.
Tutta la tua vita deve diventare la tua Messa e una prepara­zione alla Messa.
Come nei giorni avanti viene preparata l'ostia e il vino che deb­bono venire consacrati, così nel tempo che intercorre tra una tua Messa e l'altra devi preparare la materia del tuo sacrificio: mortifica­zioni, elemosine, atti di carità, di pazienza, di ubbidienza, preghiere, lavoro fatto per Dio, sofferenze offerte a Dio, ecc. Questi saranno i tuoi doni che devi portare in Chiesa ogni volta che vieni a parteci­pare alla Messa, e che devi offrire ogni volta a Dio con l'ostia santa. In tal maniera ancora tutta la tua vita diventa la tua Messa.
 
17.
La Messa è il centro e lo scopo della creazione. Come di tanti chicchi di grano macinati e ripuliti dalla crusca si fa un pane che nel­la Messa si trasforma in Cristo; così di tanti cristiani contriti dai lo­ro peccati e purificati dalle loro scorie si fa nella Messa un solo Cor­po, una sola Ostia che viene immolata con Gesù.
 
18.
Completa ogni volta la tua Messa con la comunione. Chi va a Messa e non fa la comunione rassomiglia a uno che va a pranzo, vede la tavola imbandita, non mangia, e se ne torna digiuno.
D'altro lato chi può fare la comunione una volta l'anno è segno che la può fare ogni giorno, perché deve avere le disposizioni che lo rendono idoneo a fare la comunione ogni giorno: pentimento dei peccati, distacco dal peccato, volontà di non farne più, volontà di amare Dio sopra ogni cosa.
 
19.
Ogni cristiano deve mettere nella Messa il proprio cuore nel­l'ostia, deve unirlo intimamente al Cuore di Gesù e al cuore di tutti i fratelli con un amore ardente cosi che venga consumato con gli altri in uno nella comunione.
 
20.
Il cristiano che non intende purificare il proprio cuore, e non intende unirlo a quello di Cristo, resta al di fuori non solo della Mes­sa, ma anche del Corpo Mistico. Nella Messa il cristiano deve opera­re ogni volta la sua conversione, la sua purificazione, la sua adesio­ne a Cristo, la sua donazione totale a lui.
 
21.
Il cristiano che non unisce il suo cuore a quello di tutti i fra­telli, come un chicco di grano agli altri per fare un solo pane del sa­crificio e un solo cuore, resta estraneo al sacrificio della Messa e al Corpo Mistico.
Per compiere tale unione deve purificarsi col dolore e deve in atto sentire un amore sincero e fraterno verso tutti gli uomini.
 
22.
Le prime comunità cristiane erano viventi e conquistatrici perché erano unite nella preghiera, nella Messa e nella Comunione eucaristica, nell'amore fraterno e nella comunione dei beni materiali.
 
23.
Uscendo dalla Messa devi sentirti il fratello di tutti, devi esse­re desideroso di salutare tutti, di fare amicizia con tutti, di aiutare tutti con le tue prestazioni e con tutte le economie personali che ti è possibile realizzare; devi sentirti Gesù che continua la sua missione e che esce per cercare gli uomini, per beneficarli, per salvarli. Solo così vivi la tua Messa e il tuo cristianesimo.



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QUI Che cosa è la Santa Messa?..... non perdete questa opportunità....
http://www.preghiereagesuemaria.it/libri/la%20santa%20messa%20di%20padre%20giulio%20scozzaro.htm



(Benedetto XVI celebra il Divino Sacrificio Coram Deo(=rivolti verso Dio) alla Cappella Sistina, Battesimo del Signore gennaio 2008)



 

Il Sacrificio della Messa, che la Chiesa offre di continuo a Dio in tutto il mondo, placa la Giustizia, ne arresta i castighi e ottiene all'uomo Grazia e perdono. Si comprende allora perché Dio non ci castiga come faceva anticamente nel Vecchio Testamento, benché nei tempi attuali i peccati sono aumentati di molto in numero e gra­vità. In ogni parte del mondo c'è sempre una Messa che viene celebrata in cui Gesù Cristo, rioffrendosi al Padre, grida: "Padre, mise­ricordia!". E il Padre sente l'amato Figlio e l'ascolta.


San Timoteo di Gerusalemme afferma che la terra è debitrice della propria conservazione alla Santa Messa, senza di questo Sacrificio i peccati dell'uomo l'avrebbero già distrutta.


"In ogni Messa - dice San Tommaso d'Aquino - si trova tutto il frutto che Gesù Cristo ha meritato sulla Croce: tutto il frutto della Passione e Morte del Signore è il frutto di ogni Messa".


S. Alfonso Maria de' Liguori dice: "Tutta la gloria che gli Angeli e i Santi hanno dato e daranno a Dio con le loro virtù, opere buone, penitenze ecc. non potrà mai eguagliare la gloria che glie­ne dà una sola Messa perché tutta la gloria di tutte le creature del Cielo, del Purgatorio e della terra è limitata, mentre la gloria data a Dio da una sola Messa è illimitata, infinita e Dio stesso non può fare che vi sia un'azione più santa e più grande della celebrazione della Messa".
 
Perciò la Santa Messa è l'azione che maggiormente glorifica Dio e più efficacemente placa la Giustizia divina verso i peccatori, che apporta maggior abbondanza di bene su questa terra, che più abbatte le forze dell'inferno e apporta maggior suffragio alle Anime del Purgatorio, per cui il Concilio di Trento afferma: "Bisogna confessare che l'uomo non può fare opera più santa e divina del tremendo Sacrificio della Messa".


Prodigio ineffabile, mistero sublime che si compie sull'altare men­tre si celebra la Santa Messa. E' Gesù Cristo che, Vittima di valore infinito, s'immola per noi e si offre all'Eterno Padre per soddisfare ai nostri peccati e per impetrarci i tesori della sua infinita Misericordia. Con la Messa Dio riceve l'adorazione perfetta, il ringraziamento pieno, la soddisfazione completa, la preghiera onnipotente.


Diceva Gesù alla grande mistica Santa Gertrude: "Sii sicura che a chi ascolta devotamente la Santa Messa, manderò, negli ultimi istanti della sua vita, per confortarlo e proteggerlo tanti dei miei Santi, quante saranno state le Messe da lui bene ascoltate ".


Una Messa, ascoltata bene durante la vita presente, è per noi molto più proficua e salutare di molte Messe ascoltate o fatte celebrare da altri per noi dopo la nostra morte. Come non compiangere quei fedeli, più pagani che cristiani, i quali non si curano affatto o ben poco di partecipare alla Messa festiva che perdono per ogni più futile motivo. Santa Maria Goretti per andare a Messa la domenica, alle volte percorreva a piedi, tra andata e ritorno, 22 chilometri.


Nella nostra vita di ogni giorno dovremmo preferire la Santa Messa ad ogni altra opera buona perché, dice San Bernardo, si merita di più ascoltando devotamente una Santa Messa che col dis­tribuire ai poveri tutte le proprie sostanze e col girare pellegrinan­do per tutta la terra. E non può essere diversamente perché nessuna cosa al mondo può avere il valore infinito di una Messa. Il martirio non è nulla, diceva il Santo Curato d'Ars, in confronto della Messa, perché il martirio è il sacrificio dell'uomo a Dio, mentre la Messa è il Sacrificio di Dio per l'uomo! La Santa Messa è quindi la devo­zione delle devozioni alla quale dovremmo partecipare, possibil­mente, tutti i giorni.


Un giorno fu domandato a P. Pio da Pietralcina: "Padre, spie­gateci la Messa".


- Figli miei, come posso spiegarvela? La Messa è infinita come Gesù... Chiedete ad un Angelo che cosa sia la Messa ed egli vi risponderà con verità: Capisco che cosa e perché si fa, ma non comprendo quanto valore abbia. Un Angelo, mille Angeli, tutto il Cielo sanno questo e così pensano.

- Padre, come dobbiamo ascoltare la Messa?

- Come vi assistettero la Santissima Vergine e le pie donne. Come assistette San Giovanni al Sacrificio Eucaristico e a quello cruento della Croce.

- Padre, che benefici riceviamo assistendo alla Santa Messa? - Non si possono enumerare. Li vedrete in Paradiso.

- Altra risposta: nell'assistere alla Messa rinnova la tua Fede e medita quale Vittima s'immola per te alla Divina Giustizia per pla­carla e renderla propizia. Non allontanarti dall'altare senza versare lacrime di dolore e di amore per Gesù Crocifisso, per la tua eterna

salute. La Vergine Addolorata ti terrà compagnia e ti sarà di dolce ispirazione.


Se ci fossimo trovati sul monte Calvario, mentre Gesù agoniz­zava sulla Croce per nostro amore, per la nostra salvezza, con quali sentimenti avremmo assistito a quella scena d'immenso dolore e d'infinito amore?


Ebbene con gli stessi sentimenti dovremmo assistere alla Santa Messa, perché sull'altare è lo stesso Gesù, che compie, in un modo misterioso ma vero, lo stesso Sacrificio della Croce per nostro amore e per la nostra salvezza eterna.


Assistendo, quindi, devotamente alla Santa Messa ed offrendo a Dio, insieme col Sacerdote, il Santo Sacrificio, noi onoriamo Dio in modo degno di Lui, soddisfacciamo alla Divina Giustizia per i nostri peccati, ringraziamo Dio in modo conveniente, aiutiamo le Anime del Purgatorio, otteniamo la conversione dei peccatori, apriamo il tesoro delle Grazie Divine per noi e per il mondo intero.


Perciò, quanto è consigliabile e proficuo partecipare alla Santa Messa non solo nei giorni festivi, ma ogni qualvolta lo possiamo anche nei giorni feriali. Diceva il grande missionario San Leonardo da Porto Maurizio: "Oh, se capissimo quale tesoro è la Santa Messa! Le Chiese sarebbero sempre zeppe. Benedetto chi ascolta la Santa Messa ogni giorno!"


Aveva capito questo il grande scrittore Alessandro Manzoni. Un suo amico si recò a fargli visita nel pomeriggio di un giornata invernale con vento freddo e pioggia. Trovò l'illustre amico di umore cattivo.

- Che cosa è capitato? - gli chiese l'amico stupito.

- C'è che stamane i miei familiari non hanno voluto che io andassi in Chiesa col pretesto del tempo cattivo!

- Ma scusi, mi pare che abbiano fatto benissimo! C'era da pren­dersi un malanno sicuro alla sua età...

- Ed io vi dico invece - ribattè Alessandro Manzoni con forza ­che hanno fatto malissimo e glielo provo. Supponga che io avessi vinto a una lotteria un premio ricchissimo; supponga che scadesse proprio oggi il tempo per riscuoterlo e che per la riscossione aves­si dovuto presentarmi personalmente, crede lei che per paura del cattivo tempo mi avrebbero fatto perdere il premio obbligandomi a stare in casa? L'amico non seppe rispondere.



[Modificato da Caterina63 06/10/2009 21:42]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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UN GRAZIE AL BLOG AMICO MESSAINLATINO

"Questa è la Messa". Encomiabile lavoro editoriale delle Francescane dell'Immacolata


Henri Daniel-Rops,

Questa è la Messa
Riflessioni e meditazioni sulla Messa di san Pio V
 
Con introduzione dell’Arcivescovo Fulton J. Sheen

Traduzione a cura delle
Suore Francescane dell’Immacolata.



Nota del traduttore

Il Motu Proprio Summorum Pontificum di Sua Santità Benedetto XVI, entrato in vigore il 14 luglio 2007, ha restituito, a partire da quella data, piena cittadinanza alla Messa tradizionale, dopo 40 anni di vero e proprio “embargo ecclesiastico”. Ma la strada per la ripresa della Messa secondo il Rito romano antico si presenta tutt’altro che facile. La coltre d’oblio lasciata cadere su questo inestimabile tesoro della Fede cattolica ostacola sensibilmente la ripresa del Rito antico, più volte auspicata dal Santo Padre.

Per contribuire alla rinascita della Santa Messa tradizionale, nel primo anniversario del documento papale abbiamo ristampato il volumetto su La Santa Messa di dom Prosper Guéranger, abate di Solesmes. In occasione del secondo anniversario proponiamo ai fedeli un testo altrettanto aureo, dal titolo Questa è la Messa, di Henri Daniel-Rops (1901-1965), accademico di Francia, e celebre storico e letterato francese. Il testo è stato da noi liberamente tradotto, e in alcuni punti rimaneggiato, dall’edizione in lingua inglese, che apparve negli Stati Uniti, nel 1958, con un’ampia prefazione dell’arcivescovo Fulton J. Sheen (1895-1979), allora vescovo ausiliare di New York. L’opera ci sembra tanto più significativa in quanto l’autore, Daniel-Rops – il cui nome è stato recentemente ricordato anche da Benedetto XVI nel suo Gesù di Nazaret – non può esser ascritto al movimento tradizionalista o “ultramontano” francese. Scrittore cattolico di largo successo, di posizioni politiche e religiose “moderate”, Daniel-Rops dà voce a quello che, fino alla riforma liturgica del 1969, era l’“unum sentire” della Chiesa cattolica. Espressione di questo stesso “idem sentire” è la prefazione di mons. Fulton Sheen, di cui nel 2002 è stata aperta la causa di beatificazione. Queste pagine, attraverso la spiegazione delle singole parti della Messa, accompagnate da toccanti elevazioni dell’anima, aiutano a penetrare – per quanto possibile a umano intelletto – il grande mistero che ogni giorno si compie sui nostri altari, «dove il sacrificio della Croce è perpetuamente rappresentato» (Concilio di Trento).

Benedetto XVI, ancora cardinal Ratzinger, rilevò con estrema acutezza mista a preoccupazione quanto l’idea del Sacrificio stesse divenendo estranea alla moderna liturgia omologandola al Credo luterano. Per Martin Lutero, infatti, parlare di Sacrificio era “il più grande e più spaventoso abominio” nonché una “maledetta empietà”. «[Ma certo] – affermò il Cardinale – una parte non trascurabile di liturgisti sembra praticamente giunta al risultato di dare sostanzialmente ragione a Lutero contro [il concilio di] Trento nella disputa del XVI secolo. [...] Il nuovo illuminismo oltrepassa però di gran lunga Lutero [...]. Ritorniamo al nostro quesito fondamentale: è giusto qualificare l’Eucarestia come Divin Sacrificio o è questa una maledetta empietà? [...] La Scrittura e la Tradizione formano un tutto inseparabile, ed è questo che Lutero [...] non ha potuto vedere».

La Messa è, dunque, il Sacrificio del Calvario attualizzato sui nostri altari. La celebrazione eucaristica secondo il Vetus Ordo Missæ con evidenza solare manifesta l’idea del Sacrificio in ogni sua parola, in ogni gesto, in ogni cerimonia che vi si compie. «L’augusto Sacrificio dell’altare – si legge nell’enciclica Mediator Dei del Sommo Pontefice Pio XII di venerata memoria – non è, dunque, una pura e semplice commemorazione della passione e morte di Gesù Cristo, ma è un vero e proprio sacrificio, nel quale, immolandosi incruentamente, il Sommo Sacerdote fa ciò che fece una volta sulla Croce offrendo al Padre tutto se stesso, vittima graditissima». «Una e identica è la vittima; Egli medesimo, che adesso offre per il ministero dei sacerdoti, si offrì allora sulla Croce; è diverso soltanto il modo di fare l’offerta». Questo – e non altro – è la Messa.


Per richieste:
Suore Francescane dell’Immacolata
Monastero delle Murate
06012 Città di Castello (PG)
Tel. 075/8555779
e.mail:
francescanecittacastello@interfree.it


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Dominus est: un libro riapre la questione sulla sacra Comunione.

La Libreria Editrice Vaticana pubblica un libro di Mons. Athanasius Schneider, vescovo ausiliare di Karaganda, sulla sacra Comunione, con la prefazione di Mons. Malcolm Ranjith.


Athanasius Schneider


DOMINUS EST

Riflessioni di un Vescovo dell'Asia Centrale sulla sacra Comunione

Libreria Editrice Vaticana 2008

Euro 8,00



“Dominus Est - Riflessioni di un Vescovo dell'Asia Centrale sulla sacra Comunione”, scritto da Mons. Athanasius Schneider, Vescovo Ausiliare di Karaganda (Kazakhstan), è stato stampato di recente dalla Libreria Editrice Vaticana, con prefazione del Segretario della Congregazione del Culto Divino e della Disciplina dei Sacramenti, Mons. Malcolm Ranjith.

Ecco la presentazione che si può leggere sulla contra-copertina di questo importante lavoro: La sacra Comunione non è soltanto un momento conviviale del nutrimento spirituale, ma anche l'incontro personale più vicino possibile in questa vita del fedele con il Signore e Dio. L'atteggiamento interiore più vero in questo incontro è quello della recettività, dell'umiltà, dell'infanzia spirituale. Un Tale atteggiamento esige da parte nostra gesti tipici di adorazione e di riverenza. Ne abbiamo testimonianze eloquenti nella bimillenaria tradizione della Chiesa, caratterizzata dal detto “con amore e timore” (primo millennio) e “quanto puoi, tanto osa” (secondo millennio).

L'autore riporta anche l'esempio di tre “donne eucaristiche” di sua conoscenza del tempo della clandestinità sovietica. Tali testimonianze possono incoraggiare ed istruire i cattolici del terzo millennio su come trattare il Signore nell'augusto momento della sacra Comunione.

* * *

PREFAZIONE


di S.Ecc.Rev.ma Mons. Malcom Ranjith
Segretario della Congregazione del Culto Divino
e della Disciplina dei Sacramenti



Nel Libro dell'Apocalisse, San Giovanni rac­conta come avendo visto e udito ciò che gli fu rivelato, si prostrava in adorazione ai piedi del­l'angelo di Dio (cf. Ap 22, 8). Prostrarsi o mettersi in ginocchio davanti, alla maestà della presenza di Dio, in umile adorazione, era un'abitudine di riverenza che Israele attuava sempre davanti alla presenza del Signore.

Dice il primo libro dei Re: « quando Salomone ebbe finito di rivolgere al Si­gnore questa preghiera e questa supplica, si alzò davanti all'altare del Signore, dove era inginoc­chiato con le palme tese verso il cielo, si mise in piedi e benedisse tutta l'assemblea d'Israele » (1 Re 8, 54-55). La posizione della supplica del Re è chiara: Lui era in ginocchio davanti all'altare. La stessa tradizione è visibile anche nel Nuo­vo Testamento dove vediamo Pietro mettersi in ginocchio davanti a Gesù (cf Lc 5, 8); Giairo per chiedergli di guarire sua figlia (Lc 8, 41), il Sama­ritano tornato a ringraziarlo e Maria, sorella di Lazzaro per chiedere il favore della vita per il suo fratello (Gv 11, 32). Lo stesso atteggiamento di prostrazione davanti allo stupore della presenza e rivelazione divina si nota in genere nel Libro dell'Apocalisse (Ap 5, 8, 14 e 19, 4).

Intimamente legato a questa tradizione, era la convinzione che il Tempio Santo di Gerusalem­me era la dimora di Dio e perciò nel tempio bi­sognava disporsi in atteggiamenti corporali espressivi di un profondo senso di umiltà e rive­renza alla presenza del Signore. Anche nella Chiesa, la convinzione profonda che nelle specie Eucaristiche il Signore è vera­mente e realmente presente e la crescente prassi di conservare la santa comunione nei tabernaco­li, contribuì alla prassi di inginocchiarsi in atteg­giamento di umile adorazione del Signore nel­l'Eucaristia. Difatti, riguardo alla presenza reale di Cristo nelle specie Eucaristiche il Concilio di Trento pro­clamò: « in almo sanctae Eucharistiae sacramento post panis et vini consecrationem Dominum nostrum Iesum Christum verum Deum atque hominem vere, realiter ac substantialiter sub specie illarum rerum sensibilium contineri » (DS 1651).

Inoltre, San Tommaso d'Aquino aveva già definito l'Eucaristia latens Deitas (S. Tommaso d'Aquino, Inni). E, la fede nella presenza reale di Cristo nelle specie eucaristiche apparteneva già d'allora all'essenza della fede della Chiesa Catto­lica ed era parte intrinseca dell'identità cattolica. Era chiaro che non si poteva edificare la Chiesa se tale fede veniva minimamente intaccata. Perciò, l'Eucaristia, Pane transustanziato in Corpo di Cristo e vino in Sangue di Cristo, Dio in mezzo a noi, doveva essere accolta con stupo­re, massima riverenza e in atteggiamento di umi­le adorazione. Papa Benedetto XVI ricordando le parole di Sant'Agostino «nemo autem illam car­nem manducat, nisi prius adoraverit; peccemus non adorando » (Enarrationes in Psalmos 89, 9; CCL XXXIX, 1385) sottolinea che « ricevere l'Eucaristia significa porsi in atteggiamento di adorazione verso, colui che riceviamo [...] soltanto nell'ado­razione può maturare un'accoglienza profonda e vera » (Sacramentum Caritatis 66).

Seguendo questa tradizione è chiaro che as­sumere gesti e atteggiamenti del corpo e dello spirito che facilitano il silenzio, il raccoglimento, l'umile accettazione della nostra povertà davanti all'infinita grandezza e santità di Colui che ci vie­ne incontro nelle specie eucaristiche diventava coerente e indispensabile. Il miglior modo per esprimere il nostro senso di riverenza verso il Signore Eucaristico era quello di seguire l'esem­pio di Pietro che, come racconta il Vangelo, si gettò in ginocchio davanti al Signore e disse «Si­gnore, allontanati da me che sono un peccatore » (Lc 5, 8). Ora, si nota come in alcune chiese, tale prassi viene sempre meno e i responsabili non solo im­pongono i fedeli a ricevere la Santissima Eucaristia in piedi, ma hanno persino eliminati tutti gli ingi­nocchiatoi costringendo i loro fedeli a stare seduti, o in piedi, anche durante l'elevazione delle specie Eucaristiche presentate per l'adorazione.

E strano che tali provvedimenti siano stati presi nelle dio­cesi, dai responsabili della liturgia, o nelle chiese, dai parroci, senza una pur minima consultazione dei fedeli, anche se oggi più che mai, si parla in molti ambienti, di democrazia nella Chiesa. Allo stesso tempo, parlando della comunione sulla mano bisogna riconoscere che fu una prassi introdotta abusivamente e in fretta in alcuni am­bienti della Chiesa subito dopo il Concilio, cam­biando la secolare prassi precedente e divenendo ora la prassi regolare per tutta la Chiesa. Si giu­stificava tale cambiamento dicendo che rifletteva meglio il Vangelo o la prassi antica della Chiesa.

E’ vero che se si riceve sulla lingua, si può ricevere anche sulla mano, essendo questo orga­no del corpo d'uguale dignità. Alcuni, per giusti­ficare tale prassi, si riferiscono alle parole di Gesù: « prendi e mangia » (Mc 14, 22; Mt 26, 26). Quali siano le ragioni a sostegno di questa prassi, non possiamo non ignorare ciò che succede a livello mondiale dove tale pratica viene attuata. Questo gesto contribuisce ad un graduale e crescente indebolimento dell'atteggiamento di riverenza ver­so le sacre specie Eucaristiche.

La prassi prece­dente invece salvaguardava meglio quel senso di riverenza. Sono subentrati invece, una allarmante mancanza di raccoglimento e uno spirito di ge­nerale disattenzione. Si vedono ora dei comuni­candi che spesso tornano ai loro posti come se nulla di straordinario fosse accaduto. Maggior­mente distratti sono i bambini e gli adolescenti. In molti casi non si nota quel senso di serietà e silenzio interiore che devono segnalare la presen­za di Dio nell'anima.

Ci sono poi abusi di chi porta via le sacre specie per tenerle come souvenir, di chi le vende, o peggio ancora, di chi le porta via per profanare in riti satanici. Tali situazioni sono state rilevate. Persino nelle grandi concelebrazioni, anche a Ro­ma, varie volte sono state trovate delle specie sacre buttate a terra. Questa situazione non ci porta solo a riflette­re sulla grave perdita di fede, ma anche sugli ol­traggi e offese al Signore che si degna di venirci incontro volendo renderci simili a lui, affinché rispecchi in noi la santità di Dio.

Il Papa parla della necessità non solo di ca­pire il vero e profondo significato dell'Eucaristia, ma anche di celebrarla con dignità e riverenza. Dice che bisogna essere consci dell'importanza « dei gesti e della postura, come inginocchiarsi durante i momenti salienti della preghiera Euca­ristica» (Sacramentum Caritatis, 65). Inoltre par­lando della ricezione della Santa Comunione in­vita tutti a: « fare il possibile perché il gesto nella sua semplicità corrisponda al suo valore di incon­tro personale con il Signore Gesù Cristo nel Sacramento » (Sacramentum Caritatis, 50).

In questa ottica è da apprezzare il Libretto scritto da S.E. Mons. Athanasius Schneider, Vescovo Ausiliare di Karaganda in Kazakhstan dal titolo molto significativo Dominus Est. Esso vuole dare un contributo alla discussione attuale sul­l'Eucaristia, presenza reale e sostanziale di Cristo nelle specie consacrate del Pane e del Vino. È significativo che Mons. Schneider inizi la sua Pre­sentazione con una nota personale ricordando la profonda fede eucaristica della sua mamma e di altre due donne, fede conservata fra tante soffe­renze e sacrifici che la piccola comunità dei cat­tolici di quel Paese ha sofferto negli anni della persecuzione sovietica.

Partendo da questa sua esperienza, che suscitò in lui una grande fede, stupore e devozione per il Signore presente nel­l'Eucaristia, egli ci presenta un excursus storico-teologico che chiarisce come la prassi di ricevere la Santa Comunione in bocca e in ginocchio sia stata accolta e praticata nella Chiesa per un lungo periodo di tempo. Ora io credo che sia arrivato il momento di valutare bene la suddetta prassi, e di rivedere e se, necessario, abbandonare quella attuale che difatti non fu indicata né nella stessa Sacrosanctum Con­cilium, né dai Padri Conciliari ma fu accettata do­po una introduzione abusiva in alcuni Paesi.

Ora, più che mai, è necessario aiutare i fedeli a rinnovare una viva fede nella presenza reale di Cristo nelle specie Eucaristiche allo scopo di rafforzare la vita stessa della Chiesa e di difenderla in mezzo alle pericolose distorsioni della fede che tale si­tuazione continua a causare. Le ragioni per tale mossa devono essere non tanto quelle accademiche ma quelle pastorali – spirituali come anche liturgiche – in breve, ciò che edifica meglio la fede. Mons. Schneider in questo senso mostra lodevole coraggio, perché ha saputo cogliere il vero significato delle parole di San Paolo: « ma tutto si faccia per l'edificazio­ne» (1 Cor 14, 26).

Fonte: Luci sull'Est - Editrice Vaticana

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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08/10/2009 00:16
 
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Libro di don Mauro Gagliardi sulla Liturgia


Scritto in base ad una solida competenza scientifica, ma con stile accessibile anche al grande pubblico, questo libro ha il pregio di proporre una visione della liturgia che, senza omettere numerosi dati biblici, patristici e storici, viene operata principalmente in prospettiva teologica. L’esperienza odierna insegna che sacerdoti, religiosi, seminaristi e laici sono alla ricerca ansiosa di una solida comprensione teologica della liturgia, quale l’autore offre in queste pagine, che rappresenti il fondamento su cui sviluppare una prassi celebrativa più consona ai sacri misteri, nonché un antidoto al tanto mal praticato «adattamento pastorale» della liturgia, che si è ampiamente diffuso negli ultimi decenni. Tutto ciò viene qui sviluppato secondo quella «ermeneutica della continuità» che Papa Benedetto XVI sta additando ai teologi quale loro compito urgente in questa nostra epoca. Nella sua Prefazione al volume, l’Arcivescovo Mauro Piacenza, Segretario della Congregazione per il Clero, attesta che «la lettura di questo libro gioverà certamente a tutti coloro che desiderano comprendere la grandezza del mistero liturgico ecclesiale».


L'Autore

Mauro Gagliardi, nato nel 1975, nel 1999 è stato ordinato Presbitero dell’Arcidiocesi di Salerno, nella quale svolge il ministero di Viceparroco ed Assistente diocesano della FUCI. Dottore in Teologia (Gregoriana, Roma 2002) ed in Filosofia (L’Orientale, Napoli 2008), dal 2007 è Ordinario della Facoltà di Teologia dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma e dal 2008 Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice. Ha pubblicato diversi volumi, articoli e contributi a miscellanee, sia in Italia che all’estero.


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Una seconda finalità del Motu Proprio: La "riforma della riforma"

Vi propongo una interessantissima e attualissima analisi di Paix Liturgique:

La crescente diffusione dell’opera di Monsignor Nicola Bux intitolata “La Riforma di Benedetto XVI” [1] ci offre l’occasione di uscire dall’ambito ristretto della messa in opera del Motu Proprio Summorum Pontificum per fare il punto sulla “riforma della riforma” intrapresa dal Sovrano Pontefice nel campo liturgico e sulla relazione che dovrebbe stabilirsi progressivamente fra le due forme della liturgia romana.

Lo scopo primario del Motu Proprio Summorum Pontificum è noto: fare in modo che la messa tradizionale possa essere celebrata in tutte le parrocchie nelle quali se ne faccia domanda. Il MP non si potrà considerare veramente applicato fin quando, nella cattedrale di Milano o di Bari, in quella di Cagliari o di Trieste, non si potrà assistere alla messa domenicale delle 10 celebrata nella forma ordinaria e a quella delle 11 nella forma straordinaria (o viceversa). Per dirla in breve: in materia di applicazione del MP oggi non siamo che agli inizi.

A –
Il progetto della “riforma della riforma”

Un secondo intento all’origine del MP non è immediatamente esplicito ma non per questo è meno evidente sia in ragione di quanto scritto in passato dall’allora Cardinale Ratzinger in materia, sia per via dell’augurio formulato nel testo del 2007: quello di un “arricchimento reciproco” delle due forme che ormai coesistono ufficialmente.

Relativamente all'arricchimento, possiamo tutti capire che la forma più evidentemente “ricca” è quella che beneficia di una tradizione ininterrotta di dieci secoli (e di ben diciassette secoli per quanto riguarda la sua parte essenziale, il Canone), e il cui valore dottrinale e rituale è per lo meno paragonabile a quello delle altre grandi liturgie cattoliche. Così scrive Nicola Bux nella sua opera: “Gli studi comparativi dimostrano che la liturgia romana era molto più vicina a quella orientale nella forma preconciliare che in quella attuale. [...] Purtroppo, il messale di Paolo VI non contiene tutto quello di Pio V." Sarebbe quindi assurdo voler negare che la forma che deve essere arricchita/trasformata in primo luogo è proprio quella fabbricata frettolosamente quarant’anni fa.

Si è presa dunque l’abitudine di chiamare “riforma della riforma” questo progetto di arricchimento/trasformazione della riforma di Paolo VI allo scopo di renderla più tradizionale nei suoi contenuti e nella sua forma. Bisognerà però attendere ancora per vederne gli effetti perché, un po’ come il MP, va considerato che la “riforma della riforma” si trova solo al debutto.

Pensando ai futuri sviluppi di questo processo sono opportune due osservazioni preliminari :

  1. La “riforma della riforma”, come indicato dall’espressione stessa, non riguarda che la riforma di Paolo VI. Non suggerisce infatti in alcun modo che parallelemente si dia l'avvio a una trasformazione della forma tradizionale del rito. Le due forme infatti non sono assolutamente comparabili né dal punto di vista della loro relazione con la tradizione né dal punto di vista della loro struttura rituale. Una modifica del rito tradizionale oggi causerebbe un indebolimento del patrimonio liturgico della Chiesa, cosa che del resto Ratzinger, da Cardinale, aveva a suo tempo prudentemente e chiaramente escluso.[2]
  2. La “riforma della riforma” non ha lo scopo di introdurre, attraverso leggi e decreti, un terzo messale posto a metà strada fra il messale tridentino e quello nuovo - che d'altronde è piuttosto una raccolta di linee guida da interpretare con una certa libertà che un “messale” in senso tradizionale. Il Cardinale Ratzinger ieri, Papa Benedetto XVI oggi, è del tutto contrario all’idea di mettere in opera una serie di riforme autoritarie pari a quella – ma in senso inverso – che è stata la messa in pratica della riforma di Paolo VI. Si tratta piuttosto di intraprendere un progressivo riavvicinamento del messale di Paolo VI al messale tradizionale, cosa che peraltro è facilitata proprio dall'elasticità della liturgia nuova: il suo carattere a-normativo la rende paradossalmente accogliente proprio per un ritorno della norma tradizionale. Ci si può d’altro canto chiedere se, alla fine di questo processo, essa conserverà un’altra ragion d’essere che quella di essere propedeutica alla liturgia tradizionale.

B – Il libro di Nicola Bux

L’importanza della pubblicazione di questo libro è collegata anche alla dimensione intellettuale del suo autore. Monsignor Nicola Bux, professore di liturgia e di teologia dei sacramenti presso l’Istituto superiore di Teologia San Nicola di Bari, è consulente della Congregazione per la Dottrina della fede e della Congregazione per le Cause dei Santi e inoltre dell’Ufficio delle celebrazioni liturgiche del Sovrano Pontefice, è consigliere della rivista Communio, nonché autore di numerosi libri (fra i quali "Il Signore dei Misteri. Eucaristia e relativismo", Cantagalli, 2005) e di molteplici articoli (“A sessant’anni dall’Enciclica Mediator Dei di Pio XII, dibattere serenamente sulla liturgia”, L’Osservatore Romano, 18 novembre 2007). E’ inoltre uno dei più influenti sostenitori della riforma della riforma di Paolo VI.

L’opera di Nicola Bux si inserisce nel nuovo movimento liturgico che coinvolge altri noti sostenitori dell’azione del Papa, tra i quali: Padre Alcuin Reid (The Organic Development of the Liturgy, Saint Michael’s Abbey Press, Londra, 2004), Padre Michael Lang (Rivolti al Signore - L'orientamento nella preghiera liturgica, Cantagalli, 2008), Monsignor Nicola Giampietro (Il Card. Ferdinando Antonelli e gli sviluppi della riforma liturgica dal 1948 al 1970, Studia Anselmiana, Roma, 1998), Monsignor Athanasius Schneider (Dominus Est - Riflessioni di un Vescovo dell'Asia Centrale sulla sacra Comunione, Libreria Editrice Vaticana, 2008), Padre Aidan Nichols (Looking at the Liturgy: A Critical View of Its Contemporary Form, Ignatius Press, 1996) e ancora Don Mauro Gagliardi (Liturgia, Fonte di Vita, Fede&Cultura, 2009). Vanno ricordate ancora le iniziative promosse da Padre Manelli e i Francescani dell’Immacolata, né, beninteso, l’azione quotidiana di importanti prelati come Monsignor Ranjith, Monsignor Burke, il Cardinale Cañizares, ecc.

Il libro di Monsignor Bux ha inoltre beneficiato di tre prestigiose prefazioni: quella di Vittorio Messori per l’edizione italiana, quella di Monsignor Marc Aillet, Vescovo di Bayonne, per l’edizione francese, e quella del Prefetto della Congregazione per il Culto Divino, il Cardinale Cañizares, per l’edizione spagnola.

Secondo Nicola Bux, la crisi che ha colpito la liturgia romana è dovuta al fatto che essa non è più incentrata su Dio e sulla Sua adorazione, ma sugli uomini e la comunità. “All'inizio sta l'adorazione. E quindi Dio. [...] La Chiesa si lascia guidare dalla preghiera, dalla missione di glorificare Dio” aveva scritto in proposito Joseph Ratzinger (L'Osservatore Romano, 4 marzo 2000).

La crisi della liturgia comincia nel momento in cui cessa di essere un’adorazione o si riduce alla celebrazione di una comunità particolare nella quale preti e vescovi, invece di essere dei ministri, dunque dei servitori, divengono dei leader. E’ perché, indica Mons. Bux, oggi “la gente chiede sempre più rispetto per lo spazio personale del silenzio, della partecipazione intima della fede ai sacrosanti misteri e alla preghiera pubblica e solenne della Chiesa".

Bisogna dunque aiutare un clero confuso nella pratica e nella propria coscienza cultuale a comprendere che la liturgia "è sacra e divina, discende dall’alto come la Gerusalemme celeste". Mons. Bux invita perciò a "ritrovare il coraggio del sacro". Un senso del sacro che rinvia al mistero. A questo proposito sarebbe opportuno fermarsi un attimo su una sua osservazione relativa alla lingua liturgica: "Malgrado la messa in lingua parlata, il numero dei fedeli nelle chiese è molto diminuito: forse anche perché, dicono alcuni, ciò che hanno compreso non è affatto piaciuto"...

E’ il caso che la Chiesa educhi nuovamente il sacerdote al compimento dei Santi Misteri “in persona Christi” come suo ministro e non come animatore di un’assemblea ormai del tutto ripiegata su se stessa.

C –
Il progetto della “riforma della riforma”: procedere con l'esempio più che con le norme.

Nonostante il peso delle dichiarazioni di Monsignor Bux in particolare e degli "uomini del Papa” in generale, in linea con il pensiero del Santo Padre, in realtà nessuno immagina leggi o decreti per operare una trasformazione radicale autoritaria come invece venne fatto all'epoca Bugnini. Anche se liturgicamente parlando, la Chiesa è oggi molto malata, si preferisce agire con la medicina dolce dell'esempio: l'esempio dato dal Sommo Pontefice in primis, e poi dei vescovi che saranno disposti a fare come lui.

In questo senso si può osservare che Benedetto XVI favorisce un insieme di azioni correttive che ad un occhio disattento possono non sembrare che dei dettagli. La liturgia non è però che una serie di dettagli: celebrazioni pontificali molto degne, bellezza degli ornamenti della sacrestia di San Pietro riutilizzati dal Cerimoniere Pontificio Monsignor Guido Marini, disposizione del crocefisso centrale e di grandi candelieri sull'altare che attenuano il faccia a faccia teatrale tra il celebrante e i fedeli e, soprattutto, distribuzione della Comunione in ginocchio e sulla lingua.

A questo punto sta ai vescovi fare altrettanto nelle loro celebrazioni pubbliche. Sappiamo già che il Cardinale Carlo Caffarra, Arcivescovo di Bologna, uno dei teologi più importanti fra i Vescovi italiani, ha emesso il 27 aprile 2009 delle disposizioni con le quali "considerata anche la frequenza in cui sono stati segnalati casi di comportamenti irriverenti nell’atto di ricevere l’Eucaristia" si è deciso che “da oggi nella Chiesa Metropolitana di S. Pietro, nella Basilica di S. Petronio e nel Santuario della B.V. di San Luca in Bologna i fedeli ricevano il Pane consacrato solamente dalle mani del ministro direttamente sulla lingua."

Da parte loro il Vescovo Schneider e Don Mauro Gagliardi [3] ci ricordano con un certo vigore che la modalità "normale" è quella di ricevere la comunione in bocca, e che la comunione nella mano è una modalità “tollerata” seppure da tempo sia la più diffusa. Questo incoraggiamento è molto importante per la rinascita della fede nella presenza reale di Cristo nell'Ostia consacrata. Lo stesso Monsignor Bux insiste sul fatto che il rispetto del divino e del sacro si esprime attraverso segni di venerazione.

Ma ci sono altre proposte immaginate dai sostenitori della "riforma della riforma", e fra queste:

  1. Stimolare la riduzione del numero dei concelebranti e anche delle concelebrazioni stesse perchè quando esse diventano troppo frequenti la funzione mediatrice fra Dio e gli uomini di ogni singolo sacerdote viene offuscata.

  2. Fare in modo di ridurre gradualmente la proliferazione delle parti opzionali della Messa (in particolare si fa riferimento alle preghiere eucaristiche, alcune delle quali risultano per lo meno problematiche da un punto di vista dottrinale).

  3. Reintrodurre elementi della forma straordinaria che promuovono il senso del sacro e l'adorazione perchè, spiega Mons. Bux: "L'ars celebrandi consiste nel servire con amore e timore il Signore: per ciò si esprime con baci alla mensa e ai libri liturgici, inchini e genuflessioni, segni di croce e incensazioni di persone e oggetti, gesti di offerta e di supplica, ostensioni dell'evangelario e della santa eucaristia."

  4. E molte altre cose ancora: ricordare che il bacio della pace è un'azione sacra e non un segno di civiltà borghese, reintrodurre l'uso massiccio della lingua liturgica latina, ecc.

Infine, e soprattutto, come non soffermarsi sull'incoraggiamento dato dagli "uomini del Papa" ai sacerdoti di celebrare verso il Signore, almeno durante l'Offertorio e la Preghiera Eucaristica. Già, nel 2003, l'allora Cardinale Ratzinger aveva scritto la prefazione dell'edizione originale inglese del libro di Padre Lang intitolato proprio: "Rivolti al Signore". Da sua parte, Monsignor Bux spiega bene che la novità più "vistosa della riforma liturgica è stata il cambiamento della posizione del sacerdote verso il popolo". Alla luce di queste parole ci si può aspettare legittimamente che la “riforma della riforma” sarà veramente in marcia quando il Papa e i vescovi celebreranno comunemente rivolti verso il Signore.

D – Il punto più rilevante della “riforma della riforma”

Nel suo libro, Nicola Bux afferma che la chiave della liturgia nuova, come prodotto delle officine Bugnini - l'autore della riforma liturgica - sta nel suo adattamento al mondo. E' qui che, in sintonia con i sostenitori della “riforma della riforma”, la sua riflessione si fa più radicale: l'essenza della liturgia cattolica è di essere "una critica permanente al mondo, a quel mondo che penetra nella Chiesa spingendola ad appartenergli”.
Considerando che " la riforma non può essere intesa nel senso di una ricostruzione secondo i gusti del tempo", occorre "distinguere la riforma dalle deformazioni".

E' per questo che Monsignor Bux cita e commenta il “Breve esame critico”, pubblicato alla fine del Concilio dai Cardinali Ottaviani e Bacci nel quale questi ultimi: "ritenevano [...] che fosse scomparsa la finalità ultima della messa, essere sacrificio di lode alla Santissima Trinità. Così pure la finalità ordinaria, d'essere il sacrificio propiziatorio”. Si dovrebbe infatti essere ciechi per non notare che il nuovo rito della Messa si è ridotto di fatto ad una immanentizzazione del messaggio cristiano: la dottrina del sacrificio propiziatorio, l'adorazione della presenza reale di Cristo, la specificità del sacerdozio gerarchico e, in generale, la sacralità della celebrazione eucaristica vengono espressi in un modo molto meno evidente rispetto al rito tradizionale. Proprio per questo hanno ripreso vigore i tentativi di inserire nuovamente nelle preghiere del messale di Paolo VI quelle che esprimono al meglio il significato sacrificale, vale a dire quelle dell'Offertorio.[4] [Offertorio che, nel cammino nc Carmen Hernandz insegna essere un retaggio pagano]

Se quindi c'è un punto sul quale possiamo aspettarci un qualche provvedimento in sostegno della “riforma della riforma”, è sicuramente questo: la possibilità di introdurre nella celebrazione ordinaria le preghiere d'offertorio della tradizione romana.

Nel complesso, se questo disegno prendesse davvero corpo, ci si troverebbe alla fine in una situazione inversa rispetto a quella verificatasi tra il 1965 e il 1969: a quell'epoca di cambiamenti bruschi, in cui tutto mutava nella direzione progressista, potrebbe rispondere un periodo di evoluzione dolce in cui tutto cambierebbe in un senso generale di “risacralizzazione”. [senza quel 'clima', la liturgia introdotta arbitrariamente da un laico, che ha avuto la sua legittimazione -guarda caso- da una "nota laudatoria" di Bugnini del 1974, non avrebbe mai potuto aver posto nella Chiesa]

Tale attuazione della “riforma della riforma” per una volta sarebbe davvero “riformista” nel senso tradizionale del termine. Procederebbe per "contaminazione", per usare un termine familiare agli storici della religione quando vogliono parlare dell'influenza di una liturgia su un'altra: in questo caso, si tratterebbe della contaminazione della liturgia tradizionale su quella nuova.

In effetti, si potrebbe addirittura sostenere che la forma straordinaria è forse l'unica possibilità a lungo termine di salvare la forma ordinaria facendo in modo che essa divenga sempre meno ordinaria. La forma moderna potrebbe quindi diventare una sorta di base di partenza per arrivare alla liturgia straordinaria. Si può aggiungere in fine che essa non si troverebbe in concorrenza con la forma straordinaria, ma al contrario potrebbe diventare un mezzo molto favorevole per la sua diffusione e affermazione come forma ufficiale di riferimento.

[1]. "La riforma di Benedetto XVI. La liturgia tra innovazione e tradizione", Piemme, 12 €. Uscito nel 2008, il libro di Mons. Nicola Bux è già stato tradotto in spagnolo e in francese.

[2]. Nel 2001, durante le giornate liturgiche di Fontgombault, il Cardinale Ratzinger aveva detto che non c'era alcuna intenzione di modificare il messale tridentino, senza alcun dubbio per molto tempo ancora, soprattutto perché la sua presenza e il suo uso attuale potrebbero servire come stimolo per un'evoluzione del messale nuovo. Questa è ormai chiaramente la linea seguita dalla Congregazione per il Culto Divino e dalla Commissione "Ecclesia Dei" che considerano per esempio che l'introduzione del nuovo l@ezionario è impossibile nel rito tradizionale. L'unico sviluppo possibile del rito tradizionale, secondo i liturgisti romani, sarebbe l'introduzione di alcuni nuovi prefazi.

[3]. Intervista concessa a zenit.org il 21 dicembre 2009.

[4]. Si veda, ad esempio, il manifesto che è stato il libro di Padre Paul Tirot, osb: Histoire des prières d'offertoire dans la liturgie romaine du VIIe au XVIe siècle, CLV, 1985.


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Un nuovo testo edito dalle Francescane dell'Immacolata. Con presentazione di mons. Gherardini





Per richieste:
Suore Francescane dell’Immacolata
Monastero delle Murate
06012 Città di Castello (PG)
Tel. 075/8555779 begin_of_the_skype_highlighting              075/8555779      end_of_the_skype_highlighting
e.mail:
francescanecittacastello@interfree.it



Poche pagine, scritte molti anni fa in un contesto non dissimile dal nostro, che se mai l’ha portato alle conseguenze estreme; ma scritte anche per un tale contesto come un accorato convinto e convincente appello ai valori perduti e come seminagione della fondata speranza di ripristinar il rapporto con Dio – interrotto dalla ribelle superbia dell’uomo – attraverso il ritorno a quel Calvario, sul quale la cultura moderna s’era illusa che fosse stato definitivamente crocefisso l’Uomo-Dio. L’accesso al Calvario? Il Crocefisso stesso, unitamente alla Madre sua Addolorata, attraverso il Sacrificio della Messa.

Poche, ma preziose. Bisognerebbe farle entrar e risuonare nelle profondità della coscienza contemporanea, queste pagine, per scuoterla dalla rinnovata albagia del “non serviam” (Ger 2,20) e farle comprendere che non sarà l’assurda pretesa d’ergersi al di sopra dei confini naturali nel pazzesco atteggiamento d’autoctisi e di sgambetto a Dio Creatore e Redentore a restituirle unità armonia e dignità.

Poche preziose e facilmente sintetizzabili, queste pagine partono dalla Messa come Sacrificio sostanzialmente identico a quello del Calvario, anche se in forma incruenta, ed analizzano la sostanziale identità nella causa: a) efficiente, b) materiale, c) formale e d) finale, ossia in ciò che oggettivamente ed intenzionalmente Calvario e Messa hanno in comune:

a) Gesù Cristo come unico Sacerdote;

b) l’unico Sacerdote ch’è insieme un’unica vittima di valore infinito;

c) attraverso un’unica azione sacrificale ad immolazione dell’unica vittima;

d) a maggior gloria di Dio e per la salvezza del genere umano.

Di particolare rilievo è la parte che l’opuscolo giustamente riconosce a Maria in ognuna delle suddette cause, e che costituisce il fondamento teologico della corredenzione mariana.

Il lettore ha già visto dalla copertina a chi queste pagine appartengano. Da parte mia, ho il piacere di presentarle non solo per il loro intrinseco e quindi permanente valore, ma anche per un tributo di gratitudine verso un lontano Maestro e poi Collega: il grande P. Gabriele M. Roschini. Un grande, che l’andazzo postconciliare ha tentato inutilmente di metter tra i ferri vecchi. Qualcuno, ancor oggi, proprio questo vorrebbe, ma non son rari i teologi che osano sfidare l’andazzo, citando il nome di quel Grande.

Nato il 19 dicembre del 1900, a diciott’anni fece il noviziato presso i Padri Serviti e divenne uno di loro. Ordinato sacerdote a ventiquattro, iniziò poco dopo il suo “cursus” di responsabilità interne ed esterne all’Ordine. Fu presto maestro dei novizi, definitore provinciale, direttore spirituale d’un Seminario nel Viterbese, dottore in filosofia e teologia.

Nel 1933 iniziò l’attività d’insegnante a Roma, dove fu pure consultore del Sant’Uffizio e della S. Congregazione dei Riti, nonché procuratore generale e, successivamente, vicario generale dell’Ordine. Nel 1939 fondò Marianum, una gloriosa rivista tuttora sulla breccia della ricerca mariologica, e nel 1950 coronò il suo sogno di vedere lo studio generale dell’Ordine eretto a Pon-tificia Facoltà Teologica. Membro di varie Società mariane in Europa e nel mondo, fu un innamorato di Maria ed un mariologo di caratura mondiale. A lui si deve, in buona parte, quanto di Maria entrò nel Vaticano II.

Non fu, tuttavia, “homo unius libri”: i suoi interessi spaziarono in quasi tutto l’ambito della ricerca teologica, s’affacciò sulla mistica con competenza, con chiarezza più unica che rara, con fine senso del soprannaturale accostò un po’ tutt’i problemi da autentico mariologo, mai trascurando di richiamare l’attenzione alla parte che, in essi, era di spettanza mariana. La conferma sta nelle sue 920 pubblicazioni e, se pur piccola, in quella che oggi, grazie ad una scelta illuminata, ritorna d’attualità. Morì, fra dolori atroci come egli stesso li chiamò, definendoli “un solo atto d’amore nel dolore”, il 12 settembre 1977.

Il succinto profilo dell’indimenticato P. Roschini è anche un invito al lettore delle pagine che seguono: le accosti con la certezza che attraverso di esse parla un Maestro e con la gioia di rinnovarne la scoperta nel passaggio da pagina a pagina.

Dal Vaticano, 6 giugno 2010

Brunero Gherardini


Le Suore Francescane dell'Immacolata segnalano inoltre che sono ancora disponibili presso di noi gli altri due libri pubblicati: La Santa Messa, di dom Prosper Gueranger, e Questa è la Messa di H. Daniel Rops. Potete richiederli all'indirizzo indicato in epigrafe. 

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Vittorio Messori insegna ai preti come si predica

di Andrea Tornielli

«A quanti capiscono poco o nulla di quello che si dice durante la Messa, ma sono devoti, più attenti di un teologo...».
È quanto afferma il teologo don Nicola Bux in
Come andare a Messa e non perdere la fede (Piemme, pagg. 196, euro 12, nelle librerie dal 2 novembre).

Titolo volutamente provocatorio per un libro serio che, presentando le origini e la storia della messa cattolica – nella sua versione ordinaria del rito romano scaturita dalla riforma conciliare, e nella sua forma antica, ripristinata da Benedetto XVI – la paragona alla liturgia orientale e ne approfondisce il significato.
Un libro che s’inserisce nella scia dei contributi che intendono favorire quella «riforma della riforma» liturgica (espressione oggi politicamente scorretta, nonostante sia stata coniata da un certo cardinale Joseph Ratzinger) auspicata da quanti vogliono recuperare, pur senza sguardi nostalgici al passato, una maggiore sacralità del rito, e mettere fine ai non rari abusi.

Nel volume di don Bux è pubblicato un significativo contributo di Vittorio Messori, autore di best seller sui fondamenti della fede cristiana. Messori si sofferma sul «problema dell’omelia», uno dei punti dolenti della messa, offrendo «qualche sommesso consiglio» da «fruitore domenicale».

Dopo una pagina ironica e gustosissima, nella quale lo scrittore nota, citando André Frossard, come «dopo il Concilio, per farsi più comprensibile all’uomo comune» la Chiesa sia «passata dal latino al greco» - e gli esempi non mancano, dato che si sprecano parole come carisma, presbitero, kerygma, kénosis, sinassi, agape, dossologia, teandrico, escatologico, pneumatologico (qui ha a che fare con il soffio dello Spirito Santo, non con problemi polmonari), parenetico, mistagogico, ecumenico, esegetico, soteriologico – Messori consiglia al prete di predicare secondo queste tre regole auree del giornalismo:
1) semplificare,
2) personalizzare,
3) drammatizzare.

Consiglia di concentrarsi su un solo argomento e di riuscire sempre a parlare rivolgendosi al meno colto dei fedeli. «Soprattutto un cristiano – scrive – dovrebbe essere ben conscio di una verità: non esiste nessuna realtà o nessun concetto (per quanto “alti”) che non possano essere espressi con parole comprensibili alla maggioranza». Al tempo stesso, il buon predicatore, secondo Messori, dovrebbe saper far passare certe idee «più che attraverso un ragionamento astratto, attraverso le vicende di persone concrete con nome, cognome, età... Alla gente non importano i proclami, ma le esperienze; non le teorie, ma le storie. Di qualunque cosa vogliate parlare, evidenziatene il risvolto umano». Ma lo scrittore, a sorpresa, invita a non dimenticare che i giornali più letti e le trasmissioni tv più viste sono quelle sportive, dove il dibattito è più acceso e dove si individua sempre un antagonista.

Una predica appassionerà di più, spiega scagliandosi contro la «disastrosa melassa buonista», se ritroverà degli antagonisti, dei «nemici»: «Non delle persone, certo – precisa Messori –. Ma perché non delle idee? Perché non il diavolo? Perché non noi stessi e il peccato che è in noi?».





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Lo spirito e il rito: due aspetti inscindibili dell’unico atto liturgico

(da E. Finotti “La centralità della liturgia nella storia della salvezza”, Edizioni Fede e Cultura 2009, pag. 88-91)

Introducendo questo studio si è ben definito il significato del termine ‘liturgia’ a cui in tutta la trattazione si è inteso far riferimento. E in particolare si é affermato che per ‘liturgia’ si doveva intendere quell’ adorazione lieta e quell’ obbediente sottomissione che la creatura deve al Creatore, atteggiamento così profondo da essere previo ad ogni specificazione rituale storica propria delle varie espressioni religiose.
 
Tuttavia questo sguardo che coglie la natura religiosa profonda dell’essere umano in quanto tale, non deve avvallare una impostazione spiritualistica del problema, divaricando dalla ritualità concreta che si esprime nelle forme storiche e che è connaturale ad ogni manifestazione dello spirito religioso dei popoli e delle culture. Tale prospettiva potrebbe sostenere e giustificare uno spiritualismo irreale, senza l’ancoraggio al rito che lo traduce e lo esprime in forma corporea. Per questa via si arriverebbe a giustificare una vita religiosa senza pratica rituale.

Così il cristiano non praticante - ossia senza preghiera formale e assunzione fisica dei sacramenti - potrebbe ritenersi addirittura migliore del cristiano praticante, in quanto più ‘maturo’, più ‘libero’ e in fin dei conti più ‘autentico’. Sarebbe riproporre oggi l’errore della gnosi, con il suo dogma dello spiritualismo puro dei ‘mistici’ o degli ‘intellettuali’, relegando la pratica liturgico-sacramentale a fedeli ‘zotici’ e ai ‘non iniziati’. Una certa insistenza su un cristianesimo non rituale e l’allontanamento da una pastorale, che ha cura del rito e si qualifica nella liturgia, rivela una impostazione mentale di questo tipo.

Anche un certo genere di linguaggio, alquanto diffuso, che fa ricorso a termini, quali ‘rubricismo’ ‘formalismo’ ‘trionfalismo’ e si oppongono ad altri quali ‘spontaneità’, ‘familiarità’, ‘amicizia’, ecc.; linguaggio che si traduce in scelte concrete, quali ‘l’allergia alla solennità’ contrapposta al ‘cameratismo’; il fascino della soggettività e il sospetto sull’oggettività; la ricerca  di vocaboli  correnti e il silenzio su termini teologici tradizionali nella catechesi e nell’omelia; creano disagio in ordine alla ‘forma’ liturgica e aprono il varco ad una religiosità vaporosa, svuotata di fatto del suo contenuto misterico.
 
La fede così diventa la semplice manifestazione del sentimento religioso, che si esprime nel ventaglio fluttuante delle opinioni momentanee.

Occorre allora dichiarare con fermezza l’indissolubilità del rapporto spirito e rito. Non si dà alcuna esperienza vera di religione senza la sua veste rituale: non vi é adorazione senza prostrazione, né lode senza acclamazione, né contemplazione senza riverenza, né obbedienza senza osservanza, ecc. In altri termini non vi è liturgia, senza rito.

Il fatto lo si comprende bene alla luce della stessa struttura naturale dell’essere umano, che è spirito incarnato. L’anima e il corpo, sono distinguibili solo sul piano logico del pensiero, ma sono inestricabili nell’esistenza concreta della persona umana, che è in se stessa spirito nella carne, in tal modo che l’anima è la forma permanente del corpo. Nell’istante in cui l’uomo è generato è pure ‘animato’, non sussistendo nella realtà altro che l’uomo nella sua identità al contempo spirituale e corporea.

Così la Liturgia, come atto interiore e spirituale, esiste solo in forme rituali specifiche e definite, offerte dalla tradizione religiosa, anche se esposte continuamente ad uno sviluppo organico e coerente che tuttavia contiene sempre in sé l’interiore moto spirituale proprio dell’anima spirituale. Per questo non è possibile disgiungere nel culto dell’Antico Testamento lo ‘spirito’ dalla sua concreta legislazione e pratica rituale, pure comandata da Dio; né separare nel Nuovo Testamento il culto interiore suscitato dallo Spirito Santo dalla forma sacramentale che il Signore stesso ha stabilito e la Chiesa custodisce con tradizione ininterrotta. Quindi ‘forma’ e ‘materia’, ‘grazia’ e ‘sacramento’, spirito e corpo, pensiero e parola,  adorazione e azione, sono realtà intrinsecamente connesse, interdipendenti, non dissociabili, mai estranee.

Affermare il contrario sarebbe intellettualismo irreale, che non ha alcuna corrispondenza nella realtà fattuale. Anzi le categorie stesse del pensiero sono geneticamente costruite su immagini assunte dall’esperienza visibile e dalle forme corporee degli esseri che ci circondano, tanto è intrinseca la dimensione ‘carnale’ del nostro essere uomini.

Si comprende in tal modo che la costituzione liturgica nell’uomo  non si riduce al moto invisibile e interiore dell’adorazione e dello stupore suscitati dal senso del divino, ma si esterna necessariamente in atteggiamenti corporei che tale interiore elevazione produce e interpreta. Da ciò è chiaro che la Liturgia deve essere necessariamente celebrata. Essa deve avere un posto fisico dentro il tempo e lo spazio del creato. Essa deve essere visibile nelle nostre città e deve prender carne in ogni aspetto della vita individuale e sociale degli uomini. Solo così sarà Liturgia, secondo l’etimologia stessa del termine greco: opera pubblica, nota, visibile, operativa e trasformante. La scelta del cristiano non praticante, senza Chiesa e sacramenti, e la prospettiva dell’uomo, che si ritiene riscattato dalla forma sacra delle manifestazioni religiose, non ha alcun fondamento nella struttura naturale dell’uomo e della società.

Si intende che un discorso parallelo deve essere fatto anche sulla necessità dello ‘spirito’ nel rito, per non arrivare al deprecato formalismo farisaico, tentazione mai sopita. E’ evidente che delegare alla materialità del rito un’adorazione assente dall’anima è assurdo quanto pretendere di adorare senza il supporto del rito, quale mezzo necessario, nell’economia sacramentale, per ricevere prima e per esprimere poi la compiutezza umana della Liturgia.

(da E. Finotti “La centralità della liturgia nella storia della salvezza”, Edizioni Fede e Cultura 2009, pag. 88-91)


                                

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(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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22/12/2010 16:10
 
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È in libreria: «Vivere la santa Messa», il nuovo libro mons. Javier Echevarría. Il testo integrale della presentazione

Riceviamo e con grande piacere e gratitudine pubblichiamo la presentazione di «Vivere la santa Messa» di mons. Javier Echevarría. Il testo e' un'ottima ricapitolazione del Magistero del Papa sulla Messa

Vivere la santa Messa

La Presentazione di mons. Javier Echevarría

Prelato dell'Opus Dei

Cinque anni fa, il papa Giovanni Paolo II dispose la celebrazione di un «Anno dell’eucaristia» nella Chiesa universale.
La sua finalità, oltre a quella di onorare il Santissimo Sacramento, era di preparare lo svolgimento della Sessione Ordinaria del Sinodo dei Vescovi che si sarebbe riunito a Roma nel mese di ottobre 2005 per approfondire il Mistero eucaristico.
L’indizione dell’anno eucaristico avveniva poco dopo la pubblicazione dell’Ecclesia de Eucharistia (17 aprile 2003), l’ultima lettera enciclica di quel grande Pontefice e Servo di Dio.

Per aiutare la celebrazione dell’Anno dell’Eucaristia, Giovanni Paolo II pubblicò anche la lettera apostolica Mane nobiscum Domine (7 ottobre 2004), nella quale, oltre a ricordare che «bisogna che la santa Messa sia posta al centro della vita cristiana, e che in ogni comunità si faccia di tutto per celebrarla decorosamente, secondo le norme stabilite» (1), aggiungeva: «I Pastori si impegnino in quella catechesi “mistagogica”, tanto cara ai Padri della Chiesa, che aiuta a scoprire le valenze dei gesti e delle parole della Liturgia, aiutando i fedeli a passare dai segni al mistero e a coinvolgere in esso l’intera loro esistenza» (2).

Toccò al suo Successore presiedere e concludere il Sinodo, come pure l’Anno dell’Eucaristia, che tanti frutti ha portato nella vita della Chiesa. Sin dai primi momenti della sua elezione al soglio pontificio, Benedetto XVI ha manifestato un particolare impegno nel conferire alla celebrazione eucaristica, in tutte le sue forme, il più grande splendore possibile.
Già nel giorno successivo alla sua elezione, nel primo messaggio diretto alla Chiesa, dichiarava: «In maniera quanto mai significativa, il mio Pontificato inizia mentre la Chiesa sta vivendo lo speciale Anno dell’Eucaristia. Come non cogliere in questa provvidenziale coincidenza un elemento che deve caratterizzare il ministero al quale sono stato chiamato?

L’Eucaristia, cuore della vita cristiana e sorgente della missione evangelizzatrice della Chiesa, non può non costituire il centro permanente e la fonte del servizio petrino che mi è stato affidato.
«L’Eucaristia rende costantemente presente il Cristo risorto, che a noi continua a donarsi, chiamandoci a partecipare alla mensa del suo Corpo e del suo Sangue. Dalla piena comunione con Lui scaturisce ogni altro elemento della vita della Chiesa, in primo luogo la comunione tra tutti i fedeli, l’impegno di annuncio e di testimonianza del Vangelo, l’ardore della carità verso tutti, specialmente verso i poveri e i piccoli.
«In questo anno, pertanto, dovrà essere celebrata con particolare rilievo la Solennità del Corpus Domini.
«L’Eucaristia sarà poi al centro, in agosto, della Giornata Mondiale della Gioventù a Colonia e, in ottobre, dell’Assemblea Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, che si svolgerà sul tema: “L’Eucaristia, fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa”. A tutti chiedo di intensificare nei prossimi mesi l’amore e la devozione a Gesù Eucaristia e di esprimere in modo coraggioso e chiaro la fede nella presenza reale del Signore, soprattutto mediante la solennità e la correttezza delle celebrazioni.

«Lo chiedo in modo speciale ai sacerdoti, ai quali penso in questo momento con grande affetto. Il Sacerdozio ministeriale è nato nel Cenacolo, insieme con l’Eucaristia, come tante volte ha sottolineato il mio venerato Predecessore Giovanni Paolo II. “L’esistenza sacerdotale deve avere a speciale titolo una forma eucaristica”, ha scritto nella sua ultima Lettera per il Giovedì Santo (n. 1).
A tale scopo contribuisce innanzitutto la devota celebrazione quotidiana della santa Messa, centro della vita e della missione di ogni sacerdote» (3).

Benedetto XVI ha manifestato innumerevoli volte il suo desiderio che, dentro e fuori della Messa, i sacerdoti riscoprano la dimensione latreutica, di adorazione a Dio e all’Umanità santissima di Cristo, profondamente inscritta nel Mistero eucaristico.

Nell’esortazione apostolica Sacramentum caritatis, che riassume le conclusioni del Sinodo dei Vescovi, il Romano Pontefice ricorda che, per una fruttuosa partecipazione alla santa Messa, «è necessario impegnarsi a corrispondere personalmente al mistero che viene celebrato, mediante l’offerta a Dio della propria vita, in unità con il sacrificio di Cristo per la salvezza del mondo intero. Per questo motivo, il Sinodo dei Vescovi ha raccomandato di curare nei fedeli l’intima concordanza delle disposizioni interiori con i gesti e le parole. Se questa mancasse, le nostre celebrazioni, per quanto animate, rischierebbero la deriva del ritualismo» (4).
Riferendosi alla spiegazione del significato e della ricchezza dei riti liturgici del santo Sacrificio, lo stesso documento indica tre princìpi dei quali occorre sempre tenere conto:

a) Interpretare i riti alla luce degli eventi salvifici, in conformità con la tradizione viva della Chiesa.
«In effetti, la celebrazione dell’Eucaristia, nella sua infinita ricchezza, contiene continui riferimenti alla storia della salvezza. In Cristo crocifisso e risorto ci è dato di celebrare davvero il centro ricapitolatore di tutta la realtà (cfr Ef 1, 10). Fin dall’inizio la comunità cristiana ha letto gli avvenimenti della vita di Gesù, ed in particolare del mistero pasquale, in relazione a tutto il percorso veterotestamentario»5.

b) Introdurre i fedeli al senso dei segni contenuti nei riti. «Questo compito è particolarmente urgente in un’epoca fortemente tecnicizzata come l’attuale, in cui c’è il rischio di perdere la capacità percettiva in relazione ai segni e ai simboli.
«Più che informare, la catechesi mistagogica dovrà risvegliare ed educare la sensibilità dei fedeli per il linguaggio dei segni e dei gesti che, uniti alla parola, costituiscono il rito» (6).

c) Mostrare il significato dei riti in relazione alla vita cristiana. «In tal senso, l’esito maturo della mistagogia è la consapevolezza che la propria esistenza viene progressivamente trasformata dai santi Misteri celebrati. Scopo di tutta l’educazione cristiana, del resto, è di formare il fedele, come “uomo nuovo”, ad una fede adulta, che lo renda capace di testimoniare nel proprio ambiente la speranza cristiana da cui è animato» (7).

Sulla scia delle raccomandazioni del Magistero, nelle lettere pastorali che ho inviato ai fedeli dell’Opus Dei durante l’Anno dell’Eucaristia sono andato proponendo un itinerario spirituale che, seguendo da vicino lo svolgimento dei riti liturgici, offrisse ai sacerdoti e ai laici spunti di meditazione riguardo alla santa Messa. Desideravo promuovere lo spirito liturgico, che porta a curare il rapporto con Cristo non solo durante la Messa, ma lungo tutta la giornata, e a comunicarlo ad altre persone.
Sono stato mosso, in definitiva, dal desiderio di aiutare a concretizzare – per me stesso e per molte altre persone – la grande aspirazione di san Josemaría Escrivá de Balaguer, il quale scriveva: «Dobbiamo, anzitutto, amare la santa Messa, che deve essere il centro della nostra giornata. Se si vive bene la Messa, come è possibile poi, per tutto il resto del giorno, non avere il pensiero in Dio, non aver la voglia di restare alla sua presenza per lavorare come Egli lavorava e amare come Egli amava?» (8).
In questo modo, riusciremo a «servirlo non soltanto sull’altare, ma nel mondo intero, che è come un altare per noi. Tutte le opere degli uomini si compiono come su un altare e ciascuno di voi, in questa unità del suo atteggiamento contemplativo lungo tutta la giornata, dice in qualche modo la sua Messa, che dura ventiquattro ore, in attesa della Messa seguente, che durerà altre ventiquattro ore; e così fino alla fine della nostra vita» (9).
Rendo grazie a Dio perché, con l’aiuto degli insegnamenti del fondatore dell’Opus Dei, questo anelito è calato in profondità in migliaia e migliaia di persone, uomini e donne di tutti i continenti e di tutte le condizioni sociali.
La proclamazione dell’Anno sacerdotale da parte di Benedetto XVI mi ha indotto a rivedere e a dare nuova forma a quella catechesi riguardante la Messa.
Queste considerazioni sono rivolte a laici e a sacerdoti, poiché tutti – ciascuno secondo la propria situazione specifica nella Chiesa, in funzione dei sacramenti ricevuti – concorrono all’offerta del Sacrificio eucaristico.
«La bellezza e l’armonia dell’azione liturgica trovano una significativa espressione nell’ordine con cui ciascuno è chiamato a partecipare attivamente. Ciò comporta il riconoscimento dei diversi ruoli gerarchici implicati nella celebrazione stessa» (10).
Pubblico queste pagine con il desiderio di assecondare le raccomandazioni del Romano Pontefice, mentre supplico la Trinità, per intercessione della Beata Vergine Maria, che esse producano effetti salutari nei lettori.
Prego in particolare affinché noi sacerdoti abbiamo sempre presente che «per la relazione tra ars celebrandi e actuosa participatio si deve innanzitutto affermare che “la migliore catechesi sull’Eucaristia è la stessa Eucaristia ben celebrata”» (11).

+ Javier Echevarría

Prelato dell’Opus Dei

Note

1 Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Mane nobiscum Domine (7 ottobre 2004), n. 17.

2 Ibidem.

3 Benedetto XVI, Missa pro ecclesia (primo messaggio di Sua Santità Benedetto XVI al termine della concelebrazione eucaristica con i Cardinali elettori nella Cappella Sistina, mercoledì 20 aprile 2005), n. 4.

4 Benedetto XVI, Esortazione apostolica Sacramentum caritatis (22 febbraio 2007), n. 64.

5 Ibidem.

6 Ibidem.

7 Ibidem.

8 San Josemaría Escrivá, È Gesù che passa, Edizioni Ares, Milano 20099, n. 154, p. 305.

9 San Josemaría Escrivá, appunti di una sua meditazione, 19 marzo 1968 (AGP, P09, p. 98).

10 Benedetto XVI, Esortazione apostolica Sacramentum caritatis (22 febbraio 2007), n. 53.
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digiuni di qualsiasi conoscenza liturgica i più si sono soffermati solo sulla reintroduzione del latino, riducendo la differenza tra il vecchio e il nuovo rito alla sola lingua.

La liturgia tradizionale
di Francesco Agnoli


(...) il 7 luglio 2007 è stato reso pubblico il motu proprio "Summorum pontificum cura" con cui Benedetto XVI ha liberalizzato la cosiddetta "Messa in latino", o "messa tridentina" o "messa di san Pio V".

I mass media nazionali e mondiali hanno dato grande risalto all'evento, senza però comprendere veramente il cuore e il senso di questa iniziativa del pontefice. Digiuni di qualsiasi conoscenza liturgica i più si sono soffermati solo sulla reintroduzione del latino, riducendo la differenza tra il vecchio e il nuovo rito alla sola lingua. Così si sono sprecate le dichiarazioni sulla Chiesa che non sa stare al passo coi tempi, che rimane sempre indietro, che non sa parlare alla gente di oggi, che va a rispolverare vecchie abitudini e linguaggi ormai incomprensibili. In realtà questo provvedimento con cui la messa latina torna ad avere piena cittadinanza nel mondo cattolico, ha un'importanza straordinaria, che va ben al di là di un semplice discorso linguistico. E che si può comprendere solo attraverso un breve esame storico e liturgico, che illustri le vere differenze tra i due riti e lo spirito che li anima.



Come prima brevissima considerazione si può solo dire che la messa latina attrae ancora molti fedeli per il suo potente senso del sacro: sacra e fascinosa, per la sua antichità e universalità, la lingua; sacri e spirituali, ben più delle canzonette con la chitarra o con i tamburi, i canti gregoriani, le polifonie e un immenso patrimonio di brani poetici accumulatisi nei secoli; solenni e maestosi i vecchi altari medievali, incorniciati dal ciborio, o gli altari barocchi, slanciati verso il cielo; densi di significato alcuni momenti della liturgia, contrassegnati dal silenzio, dal senso del mistero, da un profondo spirito di adorazione espresso anche fisicamente nella consuetudine di inginocchiarsi in più occasioni e soprattutto nel momento più importante, quello dell'incontro eucaristico con Gesù… Di tutto questo si è tornati a parlare subito dopo l'elezione di Benedetto XVI: si è tornati a discutere su quale sia il modo più giusto, o più bello, o più opportuno, di pregare, di rivolgersi a Dio. In molti infatti hanno rispolverato alcuni scritti passati, del Cardinal Ratzinger, e vi hanno trovato una quantità abbondante di riflessioni, di ricordi, di annotazioni a margine di abusi liturgici, di canto gregoriano e di fascinose tradizioni dimenticate.



L'autobiografia stessa di Benedetto XVI, "La mia vita", accenna alle liturgie naziste, con quegli alberi innalzati nelle piazze, come durante la Rivoluzione Francese, o come ai tempi dell'Irminsur, l'albero sacro ai Sassoni pagani; ma soprattutto ricorda la liturgia cattolica, che scandiva il tempo e il ritmo della sua vita di fanciullo: "un misterioso intreccio di testi e di azioni", "cresciuto nel corso dei secoli dalla Fede della Chiesa", che "portava in sé il peso di tutta la storia ed era, insieme, molto di più che un prodotto della storia umana". Eppure quella liturgia, continuava il Cardinal Ratzinger, era stata dimenticata, accantonata, con troppa fretta, e troppa superficialità, creando in lui, e in molti altri Padri conciliari, un certo disagio, la paura di dover assistere, addirittura, alla "autodistruzione della liturgia", e la tristezza di vedere "certa liturgia post-conciliare, fattasi opaca o noiosa per il suo gusto del banale e del mediocre, tale da dare i brividi…"

Ebbene, a queste ed altre riflessioni del Cardinal Ratzinger, hanno fatto seguito il Sinodo dei vescovi del 2006, in cui Benedetto XVI ha preso la parola, all'improvviso, per ribadire con forza il carattere anche sacrificale della Santa Messa, l'esortazione sinodale a ridare impulso alle adorazioni eucaristiche, e una serie di articoli di personalità laiche, impegnate a dibattere, come osservatori, o come fedeli, sulla cosiddetta lex orandi: hanno parlato di liturgia, confrontando quella tridentina e quella attuale, tra gli altri, Geminello Alvi, Alberto Melloni e Paolo Isotta, sul "Corriere della sera", e Antonio Socci, alcune volte, sul "Giornale" e su "Libero". Proprio quest'ultimo ha ricordato come la nuova liturgia in volgare, il cosiddetto "Novus Ordo Missae", introdotto ufficialmente nel 1970, avesse sollevato le perplessità, oltre che di molti fedeli, e di importantissimi ecclesiastici come i cardinali Ottaviani e Bacci, anche di numerosi intellettuali e scrittori dell'epoca: Cristina Campo, Ettore Paratore, Massimo Pallottino, De Chirico, Salvatore Quasimodo, Eugenio Montale, Giorgio Bassani, Guido Piovene, Gianfranco Contini, Agatha Christie, Graham Greene, Augusto del Noce, Maritain e Mauriac, Tito Casini, Giovannino Guareschi…

Tutti costoro si schierarono a difesa della liturgia tradizionale convinti di dover salvaguardare un patrimonio religioso e culturale, di canti, di preghiere e di gesti, antichi e solenni, in cui vedevano incarnati, al massimo grado, senso estetico, spirito di devozione e contemplazione del Mistero. E del resto quanti personaggi famosi, atei o miscredenti intemerati, si sono convertiti, nei secoli, proprio di fronte alla bellezza della liturgia, e dei templi per essa costruiti? Non si era appassionato alla Fede, soprattutto grazie alla bellezza della liturgia latina, un esteta decadente come Joris Karl Huysmans? "Solo la Chiesa - aveva scritto in "Controcorrente" - ha raccolto l'arte, la forma perduta dei secoli; ha fissato, perfino nella vile riproduzione moderna, il disegno dei lavori di oreficeria, ha conservato il fascino dei calici slanciati come petunie, dei cibori dai fianchi puri; ha mantenuto perfino nell'alluminio, nei finti smalti, nei vetri colorati, la grazia delle creazioni di una volta?". E non era stato Paul Claudel a lasciarsi affascinare, e convertire, con la stessa travolgente immediatezza di Andrè Frossard, dal canto del Magnificat dei bambini di Notre Dame e di Saint Nicolas du Chardonnet: "in un istante il mio cuore fu toccato e io credetti… Improvvisamente ebbi il sentimento lacerante dell'innocenza, dell'eterna infanzia di Dio: una rivelazione ineffabile!…Le lacrime e i singulti erano spuntati, mentre l'emozione era accresciuta ancor più dalla tenera melodia dell'Adeste Fideles".

Non serve essere esperti liturgisti, per chiedersi, semplicemente: dov'è finito, dopo la riforma liturgica, il senso artistico della Chiesa? Dove la bellezza della sua arte? Dove la possibilità di commuoversi e di piangere, liberamente, come un bambino che si sente felice ed amato, per un canto sacro? E dove sono spariti i turiboli, gli incensi, i paramenti fioriti e colorati, gli altari barocchi, i tabernacoli, i cibori e i baldacchini, gli organi immensi, che creavano nei cattolici del passato, come avviene ancora nel mondo ortodosso, l'idea di poter assaporare, nella liturgia, l'atmosfera del Paradiso? La realtà è che la riforma liturgica del Novus Ordo Missae del 1970 rappresenta per alcuni aspetti una rottura con la tradizione liturgica della Chiesa, un avvicinamento alle posizioni protestanti, ed anche una trascrizione non fedele persino delle prescrizioni conciliari: è lo stesso Monsignor Annibale Bugnini, già allontanato da Giovanni XIII dalla Commissione conciliare della liturgia ("mi si accusa di iconoclastia"), poi richiamato da Paolo VI, a definire la sua opera "una vera creazione", "un'immagine completamente diversa da quel che essa era in passato" (conferenza stampa del 4/1/'67).

Questo Benedetto XVI lo sa bene anche per un fatto: è un tedesco, e conosce, quindi, quanto la nuova liturgia sia nata per influenza protestante e quanto sia importante invece ritrovare il senso di un rito, quello cattolico, che esprime una fede ben diversa da quella riformata. Per capire questo occorre tornare brevemente a Lutero.

Messa cattolica e messa protestante

Di fronte alla crisi che nel quattro-cinquecento attanaglia la Chiesa cattolica, i suoi vescovi “vagabondi” e parte del suo clero, la riforma proposta dal monaco agostiniano Lutero viene a toccare il concetto stesso di sacerdozio, di gerarchia. L’attacco al papa, non nella singola persona, ma nell’istituzione in quanto tale, all’“idolo”, si accompagna alla proclamazione del sacerdozio universale e quindi alla negazione del Sacramento dell’Ordine.

A proposito di questo, a livello pratico, non si tralascia di far leva sull’anticlericalismo, particolarmente presente in un’epoca in cui il popolo cristiano poteva assistere alla confusione fra potere spirituale e potere temporale, alla bramosia di mondanità rappresentata, al sommo livello, da varie figure di principi vescovi, ma anche da sacerdoti intenti ad accumulare incarichi e prebende, più che alla cura animarum. È evidente che una nuova concezione del sacerdozio, unita alla dottrina della “sola fides”, porti con sé, consequenzialmente, la riforma di ciò che è compito precipuo del sacerdote, cioè l’amministrazione dei sacramenti e la celebrazione della Messa. “Io dichiaro - scrive Lutero nell’Omelia della I di Avvento - che tutti i postriboli, gli omicidi, i furti, gli assassinii e gli adulteri sono meno malvagi di quell’abominazione che è la messa papista” .

E nel “Contra Henricum”: Quando la messa sarà distrutta, penso che avremo distrutto anche il papato... Infatti il papato poggia sulla messa come su una roccia. Tutto questo crollerà necessariamente quando crollerà la loro abominevole e sacrilega messa” . Comprendere la riforma liturgica proposta da Lutero significa allora cogliere le radici profonde, teologiche, della sua polemica. Poco serve il solito impelagarsi in una trattazione storica che si riduca ad una elencazione cronachistica, settoriale - che non coglie l’essenza - delle preghiere della messa cattolica mantenute e di quelle tolte, dei cambiamenti accennati e non realizzati, delle tappe successive e talora contraddittorie di un lento e progressivo delinearsi del rito... Fin da subito infatti Lutero ha presente il cardine, lo spirito della sua azione, ma chiaramente i “dettagli”, gli aspetti “secondari” tardano ad allinearsi, a chiarirsi nella sua mente, ad essere conformati in modo consequenziale. Talora è il conflitto coi discepoli, talora la volontà di non turbare le “coscienze deboli” che determinano ripensamenti, passi indietro, la non applicazione di principi teorici già espressi, o riforme realizzate tacitamente ma non esplicitate, non dichiarate .

Talora infine è la grande libertà nelle cerimonie, che Lutero ammette in linea di principio, a rendere poco proficua una analisi solo anatomica e diacronica della messa protestante. Per tutti questi motivi occorre identificare originari fili conduttori, immediatamente presenti al riformatore, ma che saranno dipanati nel tempo, un nucleo, lo spirito stesso, e non i dettagli, della riforma liturgica, che consiste principalmente nei tre aspetti della condanna della nozione di sacrificio, dell’altare versus populum e dell’uso del volgare.

CONDANNA DELLA NOZIONE DI SACRIFICIO

Ciò contro cui il monaco riformatore viene precipuamente a scontrarsi è la tradizionale nozione cattolica di messa, intesa sì come memoriale e banchetto, ma, prima e soprattutto, come rinnovazione incruenta del sacrificio della croce, come rievocazione - riattuazione mistica dell’offerta che Cristo fece di sé al Padre, per la salvezza degli uomini. Sacrificio che, come nel mondo ebraico, greco, romano... aveva anche una funzione di ringraziamento, sottomissione e di impetrazione alla divinità, dando luogo solo in un secondo momento alla consumazione e alla compartecipazione. “Vi è un rapporto sorprendente - scrive J.Hani - fra l’altare di Mosè e il nostro (cattolico, nda.) altare. Mosè costruisce un altare ai piedi del Sinai, offre il sacrificio e fa due metà con il sangue: una è data al Signore (più esattamente: è versata sull’altare che Lo rappresenta) e l’altra la asperge sul popolo...”.

Per Lutero, invece, “la messa non è un sacrificio, o l’azione del sacrificatore... Chiamiamola benedizione, eucarestia, mensa del Signore o memoriale del Signore. Le si dia qualunque altro nome, purché non la si macchi col nome di sacrificio” . Il sacrificio quotidiano, rinnovato più volte ogni giorno nella Messa, toglierebbe infatti valore all’unico sacrificio di Cristo, avvenuto in un preciso momento storico e sufficiente da solo a cancellare i peccati del mondo, definitivamente. Questa concezione porta, soprattutto ne “L’abominio della messa silenziosa. Il cosiddetto canone”, del 1525, a modificare la parte essenziale del rito, eliminando i vari accenni al sacrificio presenti: soprattutto il “Te igitur”, nel quale si dice “haec dona, haec munera, haec sancta sacrificia illibata” ed il riferimento ad Abele. “Ora va rimosso anche il secondo scandalo, che è molto più esteso e appariscente, cioè la convinzione, diffusa un po’ dappertutto, che la Messa sia un sacrificio offerto a Dio. Anche le parole del Canone sembrano orientate in questo senso, dove dice «questi doni, queste offerte, questi santi sacrifici», e poi «questa offerta».

E ancora, si chiede in modo chiarissimo che il sacrificio sia gradito come quello di Abele, eccetera. Perciò Cristo è chiamato vittima dell’altare” . Nell’insegnamento cattolico, che Lutero trova riassunto in Pietro Lombardo, infatti, il sacrificio dell’agnello fatto da Abele, la morte di Cristo, “agnus Dei” sulla croce, e Cristo come vittima, “hostia”, nella Messa, sono collegati, in quanto il primo non è che la prefigurazione veterotestamentaria dei secondi. Da un punto di vista esteriore, tangibile, occorrerà allora abolire la lettura silenziosa del canone, in quanto essa esclude i fedeli, anch’essi sacerdoti, dalla partecipazione, e soprattutto mette in evidenza l’idea della messa come “azione del sacrificatore”. Implica infatti che il prete, e solo lui, sia concepito come “altro Cristo”, e quindi ad un tempo il sacerdote e la vittima: per questo legge silenziosamente il canone, separando nettamente, col cambiamento di tono di voce e di atteggiamento, la parte della narrazione (“Il quale nella vigilia della passione prese...”), da quella della consacrazione (“Questo è infatti il mio corpo”), e cioè il memoriale, cui tutti devono far riferimento, dalla azione attuale, reale ri-attuazione mistica del sacrificio. Con Lutero così il canone silenzioso perde di significato, divenendo tutta la cerimonia esclusivamente banchetto e memoriale, e come tale atto comunitario legato all’ascolto e alla rievocazione di un avvenimento storico e non più evento precipuamente soprannaturale, il sacrificio, intrinsecamente efficace (non necessitando della presenza dei fedeli), cui assistere, comunque, da silenziosi e adoranti spettatori, come ai piedi del Golgota.

“Atto comunitario”, si è detto, opposto ad un rito che può essere “privato”, ma che non vuole esserlo in senso assoluto: è il significato del termine “comunità” a mutare, ad assumere connotazioni diverse. Nel concetto protestante esso implica una presenza fisica, concreta, l’incontrarsi reale, attuale, che permette la con-celebrazione e l’ascolto. “L’idea basilare del Protestantesimo - così sintetizza Laura Ferrari - è la convinzione che Dio si manifesta nella comunità, in ciascuno dei suoi membri, convocati attorno alla Santa Mensa per celebrare la Cena e ascoltare la Parola...” .

Il rito cattolico, invece, sacrificale e solo secondariamente conviviale, comporta la supposizione dell’esistenza, sempre, della comunione fra Chiesa militante, purgante, negata dai protestanti, e trionfante, che si realizza, anche in assenza del popolo, per i meriti di Colui “che è il capo del corpo, che è la Chiesa”, attraverso la ricaduta benefica che ha la celebrazione, come la morte del Venerdì santo, sull’universo intero. La messa cattolica, scrive John Bossy, era intessuta di “preghiere di intercessione in vernacolo per le autorità... i frutti della terra, per gli amici” e “non faceva altro che unire i vivi coi morti nell’atto del sacrificio”: E papa Gregorio Magno (Dial. IV 58.2), scriveva: “nell’ora del Sacrificio, alla voce del sacerdote i Cieli si aprono... a questo Mistero partecipano anche i cori angelici... l’Alto e il basso si congiungono, il Cielo e la terra si uniscono, il visibile e l’Invisibile divengono una sola cosa”.


CELEBRAZIONE VERSUS POPULUM; tavola al posto dell'altare.

Un’altra riforma “esteriore”, che è però conseguenza di premesse teologiche, è l’abolizione dell’altare “ad Deum”, inteso come ara sacrificale su cui un pontefice, nel senso etimologico, realizzi la consacrazione; così Lutero condanna l’usanza di porre le reliquie dei martiri, immagine del sacrificio degli uomini che si unisce a quello di Cristo, all’interno dell’altare, in quanto esso va ora inteso non più come luogo di immolazione, del “martirio” rinnovato di Gesù, ma come semplice tavola su cui si realizza la “Cena del Signore”. “...nella vera messa - scrive nel 1526 - fra puri cristiani, l’altare non dovrebbe rimanere così e il sacerdote dovrebbe sempre rivolgersi verso il popolo, come ha fatto senza dubbio Cristo nell’Ultima Cena.

Ma attendiamo che il tempo sia maturato per ciò” . Quasi chiosando il suo pensiero (che non fu però realizzato in tutti i gruppi protestanti) il riformatore anglicano Thomas Cranmer, 25 anni dopo, spiegherà che “la forma di tavola è prescritta per portare la gente semplice dalla idea superstiziosa della Messa papista al buon uso della Cena del Signore. Infatti, per offrire un sacrificio occorre un altare; al contrario, per servire da mangiare agli uomini occorre una tavola” . Ciò a maggior ragione nell’ottica luterana per cui “il sacerdozio non è niente altro che servizio” di predicazione della S. Scrittura e quindi un servizio rivolto al popolo (versus populum): la centralità dell’azione sacrificale del sacerdote, altro Cristo che si rivolge a Dio Padre, propria del rito cattolico, viene sostituita con la centralità della Parola, la “sola scriptura”. “Tutta la terra - sostiene polemicamente nel trattato intitolato “Sulla prigionia babilonese della Chiesa” - è piena di sacerdoti, di vescovi, di cardinali, di ecclesiastici, ma nessuno di loro ha il compito di predicare, a meno che non riceva una nuova chiamata speciale” . Questo stesso concetto, la preminenza della Parola e dell’ascolto scritturale, porta ad esclamare, nel medesimo scritto: “Perché deve essere lecito celebrare la Messa in greco, latino o ebraico e non anche in tedesco o in qualsiasi altra lingua?”

L'INTRODUZIONE DEL VOLGARE

L’introduzione del volgare al posto del latino è invero un’altra capitale innovazione, che risulterà funzionale anche alla formazione delle Chiese nazionali e ad accelerare la separazione del mondo protestante da Roma, della Germania dal suo passato latino, nella religione, nelle lettere e nella cultura in genere. Come l’evangelizzatore S. Bonifacio del Wessex, “Grammaticus Germanicus” e il vescovo Rabano Mauro, autore dell’inno liturgico “Veni Creator Spiritus” e soprannominato “praeceptor Germaniae”, avevano portato ai tedeschi, tramite il latino, la Fede cattolica e la cultura romana antica, “conquistando quella terra alla romanità”, è ancora in buona parte attraverso la lingua adottata nella liturgia e nei testi sacri che Lutero e Melantone, giustamente ribattezzati anch’essi “precettori della Germania”, attuano una rottura con il passato e danno vita ad una diversa stagione non solo religiosa, ma anche culturale e politica .

In ultima analisi l’adozione del volgare appare funzionale, in genere, a tutta la concezione della messa luterana, che potremmo definire orizzontale, contrapposta a quella verticale - dall’uomo a Dio, attraverso il sacerdote mediatore - del culto sacrificale cattolico, esteriorizzata, quest’ultima, negli altari notevolmente rialzati di molte chiese romaniche, nello slancio di quelle gotiche, con le loro vetrate vertiginose e i trittici dorati, nell’uso dell’incenso, nell’abbondanza delle luci, nella lussuosa ricchezza dei paramenti che distinguono notevolmente i ministri di Dio dai fedeli... L’“orizzontalità” del culto luterano, invece, nasce da precise convinzioni teologiche: la messa come cena; il sacerdozio universale comunitario, che si manifesta soprattutto nell’abolizione della messa privata : il rito non ha più valore intrinseco - come nel caso in cui, come sul Golgota, il vero attore sia Cristo, tramite il sacerdote, e non i fedeli - ma necessita, per la sua stessa validità, della presenza umana, ne è protagonista l’uomo di fede. Come a dire che la morte di Gesù non sarebbe servita a nulla, se non vi avesse assistito qualcuno.

È quindi il carattere soprannaturale e divino della cerimonia, completamente predominante nella concezione cattolica, che viene, per così dire, ridotto, a favore della dimensione umana, ancor più con riformatori come Zwingli e Carlostadio che ne assolutizzano il carattere memorialistico, negando ogni reale presenza divina nella particola. Questa orizzontalità, forse non completamente slegata dal pensiero antropocentrico degli umanisti, porta con sé, un po’ come l’architettura classicheggiante di un Brunelleschi, la ricerca di semplicità esteriore, che diviene freddezza, nell’addobbo dell’altare, nelle luci e nelle immagini. Una grande consequenzialità, ancora una volta, guida Lutero nell’istituire un legame fra Cena e semplicità, concezione sacrificale e solennità.

Scrive infatti: “Così quanto più la Messa è vicina e somigliante a quella prima messa che Cristo compì nella cena, tanto più è cristiana. Orbene, la messa di Cristo fu semplicissima, senza nessuna pomposità di paramenti, di gesti, di canti, di cerimonie: se fosse da offrire come un sacrificio, parrebbe che Cristo non l’avesse istituita in forma completa” . I tedeschi della Controriforma, ben più delle altre popolazioni cattoliche, risponderanno con la ricchezza e la pomposità dello stile barocco, con gli immensi altari centrali “ad Deum” e l’adozione, più che in passato e più che altrove, di altari laterali con sfondo dorato, del colore, cioè, che meglio di ogni altro poteva trasmettere l’idea della Divinità realmente presente; altri elementi architettonici, come il baldacchino e le balaustre, verranno usati abbondantemente per enfatizzare la centralità e la sacralità dell’altare, non tavola, ma Golgota. Una qualche opposizione ci fu, comunque, anche fra gli stessi seguaci della riforma.

Nel trattato “Sulla prigionia babilonese della Chiesa”, del 1520, infatti, Lutero propone di “eliminare... le vesti, gli ornamenti, i canti, le preghiere, la musica, le luci e tutto quell’apparato abbagliante”; sei anni dopo invece, nel volumetto citato, “Messa Tedesca...” scrive: “Conserviamo dunque i paramenti della Messa, l’altare, le luci finché si perdono da sé...”. Evidentemente il popolo rimaneva in parte legato alle tradizioni, ai suoi aspetti più visibili, e si ritenne più efficace e indolore una applicazione graduale delle innovazioni. Che comunque non furono sempre percepite, se è vero che ancora oggi, viaggiando nella Germania protestante, si incontrano chiese estremamente semplici e spoglie ed altre dove, per quanto possa sembrare incongruente con lo spirito protestante, rimangono ancora numerose immagini e statue di santi e Madonne. Il confronto fra i due passi sopra citati dimostra anche che il progetto di eliminare i “canti” e “la musica”, presente nel testo del 1520, era già stato abbandonato almeno a partire dal 1526. In un primo tempo infatti il monaco riformatore ritiene che “canti” e “musica” nuocciano alla semplicità e alla sobrietà del rito, come inutili orpelli, finché, scrive Ernesto Buonaiuti, non “sente istintivamente di dover fare qualcos’altro per ravvivare il culto e renderlo atto a riscaldare il cuore della massa credente. Ed ecco che egli scopre improvvisamente in sé delle inattese qualità poetiche e si dà a scrivere, dal 1523, canti sacri..." . La sua primitiva convinzione, che sopravvive solo nella personale avversione per l’organo, è però accolta da alcuni collaboratori e successori, come Zwingli, Calvino, Zwick: si va dalla riduzione delle parti cantate e della musica, al canto esclusivo di melopee salmodiche più o meno elaborate, dalla condanna della polifonia alla soppressione e distruzione degli organi .

La riforma liturgica non è dunque qualcosa di isolato e limitato, ma diventa, è bene ribadirlo, anche linguistica, culturale, musicale e soprattutto architettonica.

LA RIVOLUZIONE ARTISTICA

Non che Lutero abbia contrapposto “una sua nuova concezione architettonica a quella già esistente, ma automaticamente con la sua predicazione vennero posti in particolare rilievo determinati spazi architettonici (pulpito, altare), mentre altri diventavano inutili (cappelle laterali) o venivano utilizzati non più in ordine alla finalità per cui erano stati originariamente previsti, ad esempio il coro come luogo privilegiato riservato al clero” . Le differenze liturgiche si cristallizzano in differenze fisiche, materiali.

L’edificio cattolico è concepito come Domus Dei: tutto deve parlare di Lui, la grandiosità, la luminosità, la stessa posizione dell’edificio, spesso rivolto ad Oriente verso il “Sol Iustitiae” della parusia, e la sua pianta a croce; è Cristo stesso ad abitarla, nel Tabernacolo, rendendola Casa di Dio proprio per una presenza stabile e continua. In essa si rinnova, tramite il sacerdozio gerarchico, il sacrificio della Croce: “l’abside, con la cattedra episcopale e i seggi per il clero, è l’affermazione architettonica della gerarchicità della Chiesa; la centralità dell’altare sotto l’arco trionfale e sotto la solennità del ciborio è la dottrina plasticamente resa del primato del culto e perciò del sacrificio augusto su tutti gli altri interessi della comunità” .

La chiesa protestante è invece essenzialmente la casa dell’uomo-credente, del popolo, dell’assemblea egualitaria che si riunisce per la Cena del Signore. Scompare il tabernacolo, segno della Presenza divina; scompaiono spesso reliquie, santi e Madonne, abitatori della simbolica città di Dio, la Gerusalemme Celeste; non servono più, a rigore, la pianta a croce, la posizione ad Oriente, l’abside, il coro, il ciborio... Paradigmatiche a questo proposito la chiesa del Paradiso, il tempio di Rouen (1601), di Amsterdam (1630) e i settecenteschi templi di Wadenswill, Horgen e Kloten: sono infatti le prime costruzioni veramente aderenti allo spirito liturgico dei riformatori, che per lo più si erano dovuti servire di edifici cattolici preesistenti, limitandosi a singole modifiche e alla reinterpretazione degli spazi, come, ad es., l’esclusione dell’abside. “Un’ordinanza della chiesa di Hesse del 1526 esorta «tutti i fedeli a partecipare alla preghiera e alla lettura... e alla Cena del Signore. Questi atti non saranno più compiuti nel coro, ma in mezzo alla chiesa...»” .

Anche l’altare perde il vecchio significato e la vecchia forma: diviene mensa, solitamente semplice tavola, non più sopraelevata, distaccata da scalinate e balaustre, bensì posizionata in modo da creare un rapporto più diretto, partecipativo, comunitario, fra celebrante e popolo (a questo fine si abbandona anche la divisione in navate, che potrebbe impedire una visuale completa). Evidentemente a questi mutamenti materiali viene dietro l’attenuazione, la scomparsa o il mutamento dei valori simbolici da essi espressi; valori che tentano di esprimere l’ineffabile grandezza del Mistero e del sacro della creazione e del rito. L’edificio propriamente protestante, senza abside, senza tabernacolo, a pianta rettangolare circolare o ellittica, deve ricordare una casa umana, il salone dell’Ultima Cena e non assume quindi più il triplice significato di immagine dell’universo, dell’uomo, tempio vivente della divinità, e di Dio stesso, come sostenevano ad es. S. Massimo Confessore e Onorio d’Autun. Costui, nel suo “Specchio del mondo” - richiamandosi anche alla frase evangelica “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo riedificherò” (Gv. 2,19) - sostiene che, come la Chiesa-comunità dei fedeli è il Corpo mistico di Cristo, così la chiesa-edificio ne rappresenta la fisicità: il coro è la testa, il transetto le braccia, la navata il busto e l’altare, centro di irradiazione e di convergenza di tutte le linee architettoniche, rappresenta il cuore.

Ancor più, esso è anche immagine di tutto il Corpo di Cristo, definito nella Bibbia “pietra di scandalo”, “la pietra che i costruttori hanno scartato”, “pietra” da cui sgorgarono il cibo e la bevanda “spirituale” per gli ebrei nel deserto (I Cor, 10,4). Per questo viene riverito, baciato, incensato. È il centro del mondo, come stanno a significare la semisfera perpendicolare del ciborio e quella del catino absidale, simboli dell’immensità della volta celeste sopra la terra: non così può essere per l’altare-tavola luterano, e soprattutto zwingliano, la cui centralità non è autonoma, ma dipende dall’essere il supporto dell’assemblea, vero centro e cuore del rito . Sono i riformatori stessi, come Carlostadio e Zwingli, a comprendere il profondo legame fra credenze ed esteriorizzazione, didascalismo visivo, e quindi a promuovere la distruzione di cori, altari, chiese intere, e la costruzione di nuove, di cui le più antiche e tipiche sono “Fleur-de-lys”, “Paradis” e “Terraux”, a Lione .

In questo quadro si inseriscono anche le tendenze iconoclaste variamente diffusesi nel mondo protestante, dalle posizioni moderate di Erasmo, alla forte avversione per le immagini di Zwingli, Calvino e Carlostadio. Quest’ultimo, proprio a Wüttenberg, la città delle 95 tesi, “inaugurò la “messa evangelica” abbattendo e bruciando le immagini” e dando così inizio ad un movimento iconoclasta “serpeggiante in tutta l’Europa del nord” . Benché l’atteggiamento di Lutero fosse alquanto più prudente, “quasi ovunque il primo sintomo visibile dell’incipiente grande trasformazione del cristianesimo fu il ripudio dei santi, espresso in forma di sistematica distruzione delle loro immagini su tela, su tavola o scolpite in pietra, intraprese per iniziativa della pubblica autorità, o di una folla inferocita reduce dai sermoni del cristianesimo riformatore” .

Ripudio dei santi, è bene ricordarlo, che nasce dal terribile pessimismo antropologico luterano, secondo il quale l'uomo non è capace di compiere alcunché di buono, ma è solo e soltanto un peccatore, senza libertà, conteso tra Satana e Dio.

LA COSIDDETTA MESSA DI S. PIO V (o messa latina)

La questione liturgica fu posta all’attenzione dei padri conciliari riuniti a Trento in diverse occasioni e sotto varie angolature. Ma l’aspetto essenziale del “carattere sacrificale della messa” fu definito solo nella XXII sessione, il 17 settembre 1562. In sostanza non si faceva che riproporre la dottrina che Lutero aveva rifiutato, secondo cui nel “divino sacrificio, che si compie nella messa, è contenuto e immolato in modo incruento lo stesso Cristo che si offrì una volta in modo cruento sull’altare della croce”, trattandosi “di una sola e identica vittima” che “lo stesso Gesù offre ora per ministero dei sacerdoti, egli che un giorno offrì se stesso sulla croce: diverso è solo il modo di offrirsi”. Si ribadiva la liceità del canone a bassa voce, della messa privata, offerta per i vivi e per i morti, e la non convenienza (“non expedire”) dell’uso esclusivo del volgare.

Quasi ripercorrendo fedelmente le critiche luterane, al capitolo V si passa agli aspetti esteriori, si afferma l’importanza di “luci, incensi, vesti... per rendere più evidente la maestà di un sacrificio così grande”, inducendo attraverso “segni visibili... alla contemplazione delle sublimi realtà nascoste in questo sacrificio”. Al capitolo VIII pur escludendo l’uso del volgare nel rito, si chiede però ai pastori di “spiegare e far spiegare durante la celebrazione delle messe qualche cosa di quello che ivi si legge”, condannando implicitamente, ma chiaramente, la consuetudine dei sacerdoti, di tralasciare l’esegesi biblica; altrove si proscrivono la frivolezza di alcune “musiche in cui, o con l’organo, o col canto, si mescola qualcosa di lascivo e di impuro”, e “quelle richieste di elemosina che sembrano piuttosto esazioni insistenti e indecorose”.

Soprattutto, in conformità con lo spirito generale del Concilio, anche in questa sessione si danno indicazioni in generale sul comportamento del clero, sottolineando l’importanza per il popolo dell’ “esempio di coloro che si sono dedicati al divino maestro” . Non può sfuggire infatti che il protestantesimo aveva aderito in buona parte per la trascuratezza e l’indegnità degli stessi sacerdoti e che “l’anticlericalismo e l’odio verso i preti divenne un movente molto forte dei movimenti evangelici e della guerra contadina del 1525” . Il compito specifico dell’attuazione pratica delle prescrizioni conciliari finì così per essere delegato al papa Pio V. Al suo nome è infatti legato il messale rimasto “in uso sostanzialmente fino al nostro secolo” . In realtà il messale detto di S. Pio V non fu che la ripresa, con rare correzioni, del messale in uso nella Curia romana”: “non si trattava di un nuovo rito, ma del ripristino di antiche tradizioni” .

Il Messale Romano fu promulgato nel 1570, con lo stesso spirito e le stesse preghiere che Lutero aveva considerato inaccettabili. L’unica, grande novità era contenuta nella Bolla “Quo Primum Tempore” dello stesso anno, nella quale si concedeva “l’indulto perpetuo di poter seguire in qualunque chiesa, senza scrupolo veruno di coscienza o pericolo di incorrere in alcuna pena” il nuovo messale. La novità consisteva nell’estendere il rito romano a tutte le diocesi e agli ordini religiosi che non possedessero un proprio messale da oltre duecento anni: “poiché nella Chiesa di Dio uno solo è il modo di salmodiare, così sommamente conviene che uno solo sia il rito di celebrare la Messa”. Come nel campo giuridico il Concilio aveva provveduto a ristabilire e precisare i rapporti gerarchici, restituendo ai vescovi prerogative e potere sugli inferiori, così sul piano del rito Pio V diede vita ad una unità liturgica, espressione di uno spirito antitetico rispetto a quello protestante. L’esistenza, infatti, di una Chiesa docente, di una fede dogmatica, uguale per tutti, in cui la lex credendi determina la lex orandi, tende di per sé , più o meno, a unificare il rito, laddove la credenza nel libero esame e il soggettivismo protestante comportavano, già a detta di Lutero, una sostanziale libertà, che diviene subito confusione e anarchia, nella realizzazione delle cerimonie.

Il Messale Romano imposto all’orbe cattolico da Pio V consacrava dunque la Liturgia di Roma, “rimasta pressoché immutata attraverso i secoli nella sua sobria e piuttosto austera forma”, e alla cui configurazione avevano contribuito in particolar modo papa Damaso (366 - 384) e S. Gregorio Magno (590 - 604). Sarebbe rimasta pressoché invariata fino a Pio XII, con l’introduzione della nuova Liturgia della Settimana Santa . Come già Lutero, anche per i protagonisti della Controriforma esiste un rapporto profondo fra arte e liturgia: solo che questi ultimi, diversamente da Lutero, ma soprattutto dall’iconoclastico Calvino, si rivolsero all’arte per farne l’alleata e il mezzo espressivo più evidente di convinzioni teologiche. “L’immagine sacra poteva contemporaneamente arrivare alla mente attraverso i suoi contenuti catechistici, al sentimento mediante la bellezza della forma, alla devozione per il suo inserimento nel contesto liturgico” (biblia pauperum). È soprattutto nella rappresentazione dell’Ultima Cena, dell’Istituzione dell’Eucarestia, fonte ed origine della Messa, che possiamo scorgere i frutti di questa alleanza, la volontà di ribadire attraverso il linguaggio delle immagini la teologia sacrificale affermata dal Concilio di Trento. A partire dalla Controriforma infatti la rappresentazione dell’Ultima Cena si sforza di acquisire una maggiore sacralità e a risaltare con più evidenza la sua connessione, spirituale, col sacrificio della croce.

Grande appare così la distanza fra la celeberrima, ma anteriore, opera di Leonardo da Vinci o del Veronese, e l’Istituzione dell’eucarestia commissionata a Federico Barocci e posizionata, non a caso, dietro l’altare. In essa infatti “l’artista sostituisce all’evento storico descritto nei vangeli - la cena intorno al tavolo - la raffigurazione di un rito: gli apostoli inginocchiati e Cristo che, con gesto sacerdotale, solleva l’ostia dalla patena e sembra pronunciare le parole consacratorie. L’intenzione è chiaramente quella di suggerire una continuità tra questa prima comunione eucaristica e la S. messa celebrata nella stessa cappella Aldobrandini” . Una tale interpretazione era già stata, è vero, del Beato Angelico, ma a quest’epoca il significato si fa nuovo, assume quasi una sfumatura polemica nei confronti della concezione protestante della messa come semplice cena. Un altra rappresentazione esemplare, ancor più evidente nel suo significato è la “Messa Miracolosa di S. Gregorio Magno” di Cesare Aretusi e Gabriele Fiorini: sull’altare vi è il messale aperto su un disegno della crocifissione e dietro, in posizione frontale rispetto agli astanti, è rappresentato Gesù che tiene in mano la Croce. Si crea così un collegamento spontaneo e ineludibile fra Eucarestia e Crocifissione, legame negato da Lutero, e tra Eucarestia e presenza reale del Corpo e sangue di Cristo, estraneo alla visione esclusivamente memorialistica e simbolica di Zwingli e Calvino.

Stesso significato assumono l’immagine usuale del Cristo raffigurato in piedi sull’altare, il cui sangue sgorgante dalle piaghe confluisce nel calice, e la nuova consuetudine di posizionare direttamente sull’altare la scultura del corpo di Cristo, deposto dalla croce e affiancato di solito da un grande calice eucaristico. Quasi che la messa dovesse essere celebrata sull’orlo del sepolcro aperto, davanti al cadavere. Ne è un esempio notevole il “Cristo morto” di Baccio Bandinelli, collocato sull’altare di S. Croce, a Firenze, nove mesi dopo la pubblicazione del Decreto tridentino sull’Eucarestia. Alla polemica conciliare contro l’iconoclastia protestante seguono l’interessamento di diversi pastori alla questione artistica in genere. Nel 1594 viene pubblicato il “Trattato sulle sante Immagini” del Molano; nello stesso anno l’arcivescovo di Bologna, Gabriele Paleotti, compone un “Discorso intorno alle Immagini sacre e profane” cui segue, nel 1624, il “De Pictura sacra” di Federico Borromeo. L’opera forse più importante, e di più ampi orizzonti, rimane però le “Istructiones Fabricae et Suppellectilis Ecclesiasticae” di Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, del 1572.

A costui, infatti, si deve la diffusione di una norma che sarà gravida di conseguenze e sul piano della fede e su quello puramente artistico e architettonico: quella di conservare obbligatoriamente l’eucarestia in un tabernacolo posto sull’altar maggiore. “L’uso di conservare una parte dell’eucarestia dopo la messa è antico quanto il cristianesimo”, ma il luogo apposito “poteva essere nella sacrestia o nella chiesa stessa; oppure, indifferentemente, la riserva era posata sull’altare, oppure sospesa (colombe) o infine, conservata nelle cosiddette torri eucaristiche, o anche in nicchie o edicole murali” . Il riformismo protestante più estremo, che attribuisce all’ostia un valore puramente simbolico, non può che criticare radicalmente la riserva eucaristica. D’altra parte Lutero, che credeva nella presenza reale, negava però il perdurare di questa al di fuori della comunione e della messa.

L’adorazione del SS. Sacramento in chiesa e nelle processioni, svincolata dal rito e affermatasi sempre di più dopo l’istituzione della festa del Corpus Domini, nel 1264, gli appariva assurda ed idolatrica. Si capisce allora come da parte cattolica imporre la conservazione, peraltro non nuova, dell’ostia nel tabernacolo dell’altare centrale, equivalesse a sottolineare la fede in una Presenza Reale costante, capace di favorire anche l’adorazione extra-liturgica. “Fu subito chiaro - scrive Carlo degli Esposti - che posto in quel punto centrale e visibilissimo della chiesa e con la possibilità di aumentare a piacimento le dimensioni, il tabernacolo rappresentava certamente la presenza reale di Gesù Cristo nel luogo sacro” .

Diveniva anche, da un punto di vista artistico e consequenzialmente al suo ruolo, il luogo privilegiato per esplicare l’estro e la capacità creativa; specie nei casi in cui si presentasse sotto forma di edificio miniaturizzato, di splendida “Domus Dei” con colonne, cupole, fregi e decorazioni. Altrimenti, l’altra tipologia del tabernacolo prevedeva “un luogo della riposizione più basso e meno ornato”, paragonato al Sepolcro, e “sormontato da un luogo dell’esposizione, quasi sempre un aereo padiglione, sorretto da colonne, chiamato anche a dare evidenza all’intero complesso” . Da qui, dunque, alla controversia sulla presenza reale e sulla liceità dell’adorazione, nasce la caratteristica essenziale dell’architettura e dell’arte sacra di età barocca; a questa centralità corrisponde, sul piano della religiosità popolare, un incremento della devozione Eucaristica al di fuori della Messa, nelle processioni del Corpus Domini, nell’adorazione delle cosiddette “Quarantore”, il tempo trascorso da Gesù nella tomba, nella pia pratica dei sette Sepolcri, la sera del Giovedì santo. Queste devozioni assumono un ruolo fondamentale nella vita del popolo, dopo la Controriforma.

Lo coinvolgono nella lunga preparazione degli addobbi; nella disposizione dei damaschi sulle colonne, di veli e drappi colorati a mo’ di padiglione nelle volte della navata centrale; di composizioni floreali che in questi particolari momenti dell’anno cambiano il volto stesso dell’altare e della chiesa. Anche la città, in occasione delle processioni eucaristiche, specie del Corpus Domini, si rinnova, si veste a festa. Tappeti fioriti, luminarie, drappi svolazzanti dalle finestre delle case salutano il corteo, aperto da un grande carro con raffigurazioni allegoriche, dalle confraternite con i propri gonfaloni, dagli ordini religiosi, da trombettieri e tamburini; dal baldacchino solenne sotto il quale viene portato il SS. Sacramento, seguito dal popolo e dalle autorità politiche in una dimensione sociale di armonia e compenetrazione fra vita religiosa e vita civile.

DOPO LA RIFORMA DEL 1970 (Novus ordo missae)

Il Messale di san Pio V, con il suo corollario di devozioni e di manifestazioni artistiche e popolari, rimarrà pressoché invariato fino a Pio XII, con l’introduzione della nuova Liturgia della Settimana Santa, e, come si ricordava, alle riforme realizzate dalla Commissione di Annibale Bugnini. Di fronte a quest'ultime, come si è detto, vi fu lo sconcerto di parecchi cattolici, ma l'approvazione, al contrario, di molte comunità protestanti, che vedevano rimosse, senza veri motivi teologici, alcune sostanziali differenze tra il loro culto e quello cattolico, consacrate dal Concilio di Trento.

Il Novus Ordo Missae, infatti, come dichiarato anche da Jean Guitton, si avvicina in diversi punti alla cena protestante, in quanto pone l'accento più sul carattere memorialistico del rito, che su quello sacrificale; abolisce di conseguenza la celebrazione ad Deum, sostituita con quella versus populum, e la comunione in ginocchio; elimina l'uso del latino, il canone a bassa voce, la messa anche in assenza dei fedeli, il canto gregoriano, “luci, incensi, vesti... per rendere più evidente la maestà di un sacrificio così grande”… Infine, privilegiando la liturgia della Parola rispetto all'Eucarestia, il tabernacolo viene accantonato, e nel contempo muta completamente l'aspetto fisico ed artistico dell'edificio chiesastico. Proprio come le prime chiese veramente protestanti, disadorne, tristi e spoglie, quelle di Rouen, Wadenswill, Horgen e Kloten, anche le chiese cattoliche costruite dopo la riforma del 1970, e improntate ad essa, diverranno più simili ad un "teatro totale" che ad un tempio, ad una casa di uomini che alla Domus Dei.

E' inevitabile, in quest'ottica, che l'altare perda la sua centralità, legata all'idea della Messa come sacrificio: non è più di pietra, "la pietra che i costruttori hanno scartato", e non è più il "centro del mondo", delimitato dalle balaustre, sormontato dalla cupola, simbolo del cielo, e dal baldacchino. E' il "centro di gravità", insomma, che perde importanza, e con esso, spesso, ciò che vi gira intorno: il senso del sacro, del mistero e del bello. Alla luce di quanto si è detto, dunque, si comprende la necessità di ridare cittadinanza da un rito, quello latino, o di San Pio V, capace di esprimere con forza e fascino, le verità di fede cattoliche, secondo un patrimonio di secoli di storia. A questo patrimonio liturgico appartiene anche il canto gregoriano, ingiustamente abbandonato da troppi anni.

Eppure il canto è una preghiera fondamentale, tanto che i grandi santi ne hanno spesso composto qualcuno: si pensi al "Jesu, dulcis memoria" di san Bernardo, o al "Pange Lingua" di Tommaso, o a canti popolari di immensa dolcezza, come "Tu scendi dalle stelle" e "Quanno nascette ninno", del moralista Alfonso de Liguori. Sant'Agostino, nelle sue "Confessioni", scrive: "Quante lacrime sparsi sentendomi abbracciare il cuore dalla soave melodia degli inni e dei cantici risonanti nella tua casa!". E aggiunge: "Chi canta prega due volte". Col canto, infatti, lo spirito si acquieta e si eleva, chiede e ringrazia, contempla ed esulta, con la totalità della persona, quasi trascinando con sé il corpo, costretto a seguire, ad ergersi in elegante postura e a protendersi, in una tensione analoga a quella dell'anima. L'esperienza religiosa è infatti esperienza d'amore, che nasce interiormente, per poi sfociare all'esterno: "dentro non po' celare, tanto grande è il dolzore", poetava Iacopone da Todi, descrivendo l'amore mistico per Dio. Ma per assorbire l'animo, per raccoglierlo, ed innalzarlo al cielo, proprio come una vertiginosa vetrata gotica o un altare barocco, il canto deve essere sacro: gioioso e giubilante, senza scompostezza, poetico e nobile, senza artificio, dolce e soave, senza affettazione né sentimentalismo.

Per generare vera gioia, che si imprima nell'animo, e non solo emozioni passeggere, deve armonizzarsi con la natura dell'uomo, parlare non solo ai sensi, ma a tutte le facoltà, secondo la loro gerarchia. Deve saper esprimere la forza e la soavità della fede, ma anche la sua semplicità e chiarezza; la storicità degli avvenimenti divini, ed il loro carattere misterioso; la coralità dell'esperienza comunitaria, ma anche l'individualità dell'anima personale. Troppe volte, invece, nelle cerimonie odierne, si cantano facili motivetti - forse con l'illusione di attirare i giovani-, in cui prevalgono il ritmo, la sdolcinatezza delle parole, quando non, addirittura, l'utopia e l'orizzontalità mondana. Sono, spesso, canzoni che si potrebbero cantare in un prato, con la chitarra e gli amici, o sotto il balcone di una ragazza, per una serenata: non preghiere, ma composizioni di cantautori di musica leggera. Parlano di "pace", di un "mondo nuovo", di "onde del mare", di pane, non più "angelicus", e di "strade del mondo". Non vi è più il cielo, né il senso religioso, ma un vago umanesimo, insipido, degno di futuri Templi dell'Uomo. Non canti che affidino il quotidiano all'eterno, il divenire all'Essere, la miseria, degna di misericordia, dell'uomo, alla grandezza e bontà di Dio, ma espressioni di un cristianesimo decadente e perbenista, fatto di boy-scuots e "buone azioni".

Sino al punto di cantare il Padre nostro, preghiera insegnata da Gesù stesso, sull'aria di “Sound of silence”, o di rispolverare, per un congresso eucaristico, la canzone di John Lennon, "Imagine", in cui si augura un mondo senza cielo nè religione. Di essa, forse, piacevano la musichetta, l'idea di pace, senza fondamento né sostanza, e l'atmosfera sognante: come se per contrastare l'illuminismo, il cinismo, il materialismo e la miscredenza odierni, occorresse rifugiarsi in una retorica romantica dei "buoni sentimenti", in un languido infiacchimento dei sensi e della mente, che in realtà nulla ha che vedere con la dolce fortezza delle virtù evangeliche. L'esito? Un popolo che non canta più, e che nello stesso tempo, protestantizzato, ha spesso perso l'idea stessa di cosa sia l'Eucarestia, l'incontro carnale, fisico e spirituale, con Cristo, convinto che la Messa si riduca all'ascolto della Parola e ad un fare memoria di un fatto antico e ormai passato per sempre…



(tratto da La liturgia tradizionale. Le ragioni del motu proprio, Fede & Cultura, I parte)

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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07/01/2011 11:25
 
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Riccardo Pane
Liturgia creativa      

Considerazioni irrituali su alcune presunte applicazioni della riforma liturgica

pp. 120 - formato mm 115x190 -  € 12,00 

Se siete persuasi che la riforma liturgica del Concilio Vaticano II sia sinonimo di improvvisazione, di paramenti in poliestere, di calici di latta, di canzonette da varietà e assenza del sacro; o se siete convinti che la riforma abbia liquidato latino e gregoriano e rivoltato l’assetto architettonico delle nostre chiese, allora questo libretto riserva non poche sorprese.

Gli amanti della liturgia creativa troveranno questo testo irritante, irriverente, a tratti impertinente.

I fautori della discontinuità e di un’improbabile tenzone fra il partito di Pio V e quello di Paolo VI si accorgeranno, con sconcerto, di militare tutti dalla stessa parte: basta leggere i documenti conciliari, basta osservare le norme liturgiche, basta essere fedeli ai principi della riforma, per scoprire che non c’è stata alcuna rivoluzione. Insomma, liturgia e fantasia non fanno rima sempre...
 

Per saperne di più: http://www.esd-domenicani.it/sito/spot.asp?IDscheda=746 

Alleghiamo il Sommario, dalla cui lettura si ricava lo stile umoristico e tutt’altro che ieratico:

1 Liturgia creativa, ovvero della difficile via della fedeltà;

2 Della liturgia orizzontale, ovvero: cosa succede quando si dimentica che la liturgia è rivolta al Padre;

3 Di Marta che pretendeva di prendersi la parte migliore: ovvero cosa succede se si fraintende l’attiva partecipazione dei fedeli;

4 Della liturgia della parola: ovvero la parola di Dio ridotta ad antipasto;

5 Dell’omelia: ovvero il siparietto del prete;

6 Delle didascalie, ovvero: come la pubblicità può rovinarti il film proprio sul più bello;

7 Delle preghiere dei fedeli, ovvero: come insegnare al buon Dio a fare il suo mestiere;

8 Latine loqui, sed extra ecclesiam, Si parli pure in latino, ma non in chiesa;

9 I segni liturgici, ovvero: quando liturgia fa rima con fantasia;

10 Arte sacra e senso del sacro, ovvero: quando il pauperismo diventa virtù evangelica;

11 Della musica sacra, ovvero: quando San...Remo prende il posto di Santa Cecilia;

12 Stasera mangiamo al cinese, ovvero: il fascino dell’esotico.



Per eventuali ordini, ulteriori informazioni sui Titoli e per tutte le Novità in Catalogo, La preghiamo di accedere al nostro sito www.esd-domenicani.it
o di inviare una e-mail all’indirizzo
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Cordiali saluti.
 

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[Modificato da Caterina63 07/01/2011 11:27]
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13/01/2011 12:49
 
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La Santa Liturgia di dom Gèrard Calvet


[È con vero piacere che annunciamo l’uscita, fissata al 31 gennaio 2011, della prima traduzione in lingua italiana di un libro di dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), fondatore e primo abate dell’abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux. Il volume in questione ha per titolo La santa liturgia (90 pp., euro 10), ed è la versione italiana del testo originariamente edito in Francia, nel 1982, dalle Éditions Sainte Madeleine: La sainte liturgie. Il libro è stato amorevolmente tradotto dalle monache benedettine del Monastero San Benedetto di Bergamo ed è pubblicato dalle edizioni Nova Millennium Romae – di cui ci siamo già occupati presentando la pubblicazione degli Atti delle “Giornate Liturgiche di Fontgombault”, La Questione Liturgica –, presso le quali è possibile sin d’ora prenotare copie del testo, attraverso il contatto e-mail milleromae@virgilio.it. Anticipiamo di seguito il capitolo introduttivo del libro, che ci auguriamo riscuota un’ampia diffusione nel nostro Paese] Romualdica


«Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi,il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo» (Lc 1,44). Tre miracoli fioriscono continuamente nel giardino della Sposa di Cristo: la sapienza dei suoi dottori, l’eroismo dei suoi santi e dei suoi martiri, lo splendore della sua liturgia. Et hi tres unum sint! Questi tre elementi sono «una cosa sola» perché la liturgia è per sé stessa un canto unico di sapienza e di amore: essa riassume i due ordini dell’intelligenza e della carità e li sublima in preghiera.


Non sorprende quindi che quando l’azione liturgica, soprannaturale o sacramentale, colpisce la vista e l’udito, vi percepiamo il segreto del nostro destino e che un «sacro trasalire» s’impadronisca di tutto il nostro essere, come fu per Giovanni il Battista alla voce di Maria. La voce della Sposa, come ravviva il cuore dello Sposo e santifica l’anima dei suoi figli, così ricopre la sua doppia funzione di culto verso Dio e di santificazione delle anime. Senza dubbio, questo trasalire d’amore non può essere per noi quello che fu per Giovanni Battista, ovvero il segno della trasformazione immediata e totale che fece di lui il più grande tra i figli di donna; tuttavia, toccati dal messaggio liturgico, è un annuncio di salvezza e un sapore di vita eterna che ci trasforma poco a poco. Se ci capita di ascoltare questi accenti di un altro mondo risuonare in una lingua sacra, all’interno di uno di questi templi di pietra che gli antichi elevarono con tanta dignità, in profondo accordo con lo spirito di preghiera, penetreremo in un mondo misterioso dove i gesti e i movimenti compongono un’armonia divina, simile a una debole eco dei cantici della città celeste, i soli che siano capaci di distrarci un po’ dalle cose della terra.


«Sono colpita dalla grandezza delle cerimonie della Chiesa», diceva santa Teresa d’Avila. Se però c’interroghiamo sui segreti della liturgia, sulla sua essenza e la sua relazione con due ordini di grandezza così diversi — la grandezza cosmica nel nostro universo creato e la grandezza soprannaturale del Regno dei cieli — ci accorgiamo che essa ha purtroppo meno rilievo e spazio delle nostre faccende umane.
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20/03/2011 19:55
 
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L'ultima Messa di Padre Pio

Da come un prete celebra la Santa Messa si misura il valore e l’altezza del suo sacerdozio. Non si può discutere su questo fatto; non ci possono essere polemiche al riguardo, neppure dei «ma», essendo la Messa il cuore stesso del sacerdozio. È incontrovertibile che quando Cristo istituì il sacerdozio istituì anche l’Eucaristia: era il Giovedì Santo di ventun secoli fa e da allora queste due realtà si alimentano reciprocamente, in perfetta simbiosi. Tanto più il sacerdote vive e sente il Santo Sacrificio, tanto più santificherà se stesso e i fedeli che ad esso assistono.

San Filippo Neri (1515-1595) aveva un concetto così alto del sacerdote che si sentiva profondamente indegno di diventarlo; fu soltanto l’insistenza del suo padre spirituale che lo convinse al gran passo, quando aveva già 36 anni e, da allora, assistere alle Sante Messe da lui officiate era qualcosa di paradisiaco per alcuni e di sconvolgente per altri…
La Santa Messa era l'avvenimento più atteso dal santo fiorentino trapiantato nella città dei Santi Pietro e Paolo, il momento più desiderato, ma anche il più doloroso perché si trovava faccia a faccia con il suo Signore: mentre celebrava tremava, scolorava in viso, gemeva. Le sue Sante Messe erano senza tempo: molte volte restava rapito in estasi e si sollevava da terra, allora gli astanti dovevano richiamarlo alla realtà di questo mondo. La gioia estrema si alternava con le lacrime più intense.

Un giorno aveva un fervore così acuto che, senza accorgersene, impresse con i suoi denti il segno sull'orlo del calice, contenente già il Sangue di Cristo, tanto era il fuoco che gli ardeva dentro. Nelle sue mani l’ostia si faceva Carne visibile e i testimoni de visu, cioè chi gli serviva il Santo Sacrificio, deponendo per il processo di beatificazione e di canonizzazione, hanno giurato di aver visto Quel Sangue e Quella Carne.
Chi visita le camere private di Filippo Neri a Santa Maria in Vallicella di Roma può ancora osservare la finestrella della porta della sua piccola cappella dalla quale le persone “spiavano” le estasi eucaristiche dell’amico di san Carlo Borromeo.

«Mi piacerebbe piangere una qualche volta partecipando alla messa di un santo sacerdote! Nei primi tempi del suo ministero, i fedeli erano assai sorpresi, per non dire sconcertati, del suo "strano" modo di celebrare; poi avvicinandolo, comprendevano subito qual sacerdote e confessore egli fosse. La sua messa era la più frequentata e al suo confessionale era una viavai di penitenti, sin da quando la chiesa apriva le porte. Chi si fosse recato una volta da padre Filippo, ci ritornava sempre. Certo padre Filippo non era il confessore dalle mezze misure, anzi conosceva i peccati all'odore che sentiva provenire dal cuore dei penitenti» (Padre Giorgio Finotti, San Filippo Neri. La grandezza di un autentico pastore di anime, «L’Osservatore Romano», maggio 2001). Questa citazione è speculare ad un altro santo sacerdote che viveva la Santa Messa con la forza di san Filippo Neri e con lo stesso ardore confessava le moltitudini di persone che al suo confessionale si inginocchiavano, ovvero san Pio da Pietrelcina, al quale, il 15 agosto 1905, nel santuario di Santa Maria del Monte a Campobasso, la Madonna apparve per mostrargli che la sua missione sarebbe stata quella di essere totalmente Alter Christus.

La Messa di Padre Pio

Venne ordinato il 10 agosto 1910; il 14 agosto ricevette le stigmate invisibili; fra il 5-7 agosto 1918 fu protagonista della trasverberazione, la ferita al cuore che continuerà a sanguinare; mentre il 20 settembre dello stesso anno riceverà le stigmate, visibili, alle mani, ai piedi e al costato.
Ogni volta che Padre Pio, dalla sua prima Messa, quella del 14 agosto 1910, fino all’ultima, celebrata il 22 settembre 1968, salirà ogni volta il Calvario e parteciperà, personalmente, alla Passione di Nostro Signore. Aveva scritto sull’immaginetta della sua ordinazione:
«O Gesù, mio sospiro e mia vita, mentre oggi ti elevo in un mistero d’amore, ti chiedo che per Te io sia per il mondo Via, Verità, Vita. E per Te sacerdote santo, Vittima perfetta». Di questa vittima perfetta, che non smise mai di esserlo fino all’ultimo respiro, e in particolare di come padre Pio celebrava la Santa Messa, quella del Vetus ordo, perché mai volle celebrare quella riformata dal Concilio Vaticano II, tratta il bellissimo e toccante libro di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, dal titolo L’ultima Messa di Padre Pio. L’anima segreta del santo delle stigmate (Piemme, € 15,00), uno studio denso di informazioni nuove sul santo di San Giovanni Rotondo, perseguitato dalla Chiesa e poi dalla Chiesa canonizzato, dove il misticismo del primo sacerdote stigmatizzato della storia si incontra con documenti inediti di eccezionale valore spirituale e storico.
Tali documenti sono rinvenuti in un ricchissimo archivio che il figlio spirituale di padre Pio, Giuseppe Pagnossin ha donato alla Fraternità Sacerdotale di San Pio X e che ora si trova nel priorato di Albano Laziale. Pagnossin decise di rivolgersi alla FSSPX perché «andò in cerca di qualcuno che fosse legato alla Messa e alla dottrina cattolica di sempre come vi era legato il santo di Pietrelcina e lo trovò in monsignor Marcel Lefebvre […]. Non lo spaventarono le accuse riversate addosso al vescovo francese per la sua opposizione alle innovazioni in corso nella Chiesa a partire dagli anni Sessanta. E neppure gli strascichi canonici della vicenda […]. Anzi, trovò un approdo sicuro nella tradizione, dove, a garanzia della fedeltà alla dottrina e alla Messa di sempre, vigeva una profonda devozione per san Pio X, il papa in onore del quale il giovane Francescco Forgione da Pietrelcina prese il nome al momento di farsi religioso» (pp. 13-14).

Dal libro di Gnocchi e Palmaro emerge tutto l’ardore mistico che il frate di San Giovanni Rotondo viveva nel momento della celebrazione del Santo Sacrificio: quando il santo saliva all’altare era veramente visibile tutto il pathos che da quella liturgia sarebbe scaturito e a mano a mano che il rito procedeva ai fedeli si palesava tutto il tremendo mistero che si verificava grazie alle parole, ai gesti, alla ritualità di Padre Pio.
Fra i documenti, pubblicati per la prima volta in questo libro, si trovano conferme straordinarie e consolanti di quanto padre Pio ha detto e fatto a proposito della Santa Messa, come, per esempio, questa dedica che egli scrisse sul frontespizio del messale di una sua figlia spirituale, Angelina Buratti di Venezia e datata 1958:
«Nell’assistere alla Santa Messa rinnova la tua fede e medita quale vittima s’immola per te alla divina giustizia per placarla e renderla propizia. Non allontanarti dall’altare senza versare lagrime di dolore e di amore per Gesù Crocifisso per la tua eterna salute. La Vergine Addolorata ti terrà compagnia e ti sarà dolce ispirazione» (pp. 16-17).
Madre Eleonora Francesca Foresti, fondatrice delle Francescane adoratrici, della quale è in corso il processo di beatificazione, aveva conosciuto padre Pio e nel Diario  che ella ha lasciato registra quanto Gesù le disse a proposito dell’eccezionalità del Santo del Gargano:
«L’anima di padre Pio è fortezza inespugnabile, è cella vinaria in cui mi inebrio a mio piacere. È cielo tersissimo in cui gli angeli riflettono il loro volto stupendosi. È favo di miele! È il mio rifugio nelle ingratitudini degli uomini. È specchio della mia anima in cui mi rifletto, come un purissimo raggio di sole, attraverso il più puro cristallo! La mia voce in lui è come l’eco riprodotta tra due monti! Il suo linguaggio è dolce e tagliente! […] misterioso come il mio: conforta e abbatte. Ha il mio stesso imperio, perché, IO, Gesù, vivo in lui. Il suo spirito è diffusivo come un fluido. Il suo gesto, la sua parola, il suo sguardo operano più di un profondo eloquio di un grande oratore. Io do valore a tutto ciò che emana da lui.  È il capolavoro della mia misericordia. A lui ho conferito tutti i doni del mio Spirito, come a nessun’altra creatura. È il mio perfetto imitatore, la mia ostia, il mio altare, il mio sacrificio, la  mia gloria!» (pp. 20-21).
Padre Pio dichiarava che il mondo può stare anche senza il sole, ma non senza la Santa Messa e ai sacerdoti insegnava a dividere la giornata in due parti, la prima in preparazione al divino sacrificio e la seconda in ringraziamento. Durante la Messa padre Pio soffriva molto, perché, diceva, è proprio lì che avviene una nuova e ammirabile distruzione e creazione. Nella sua Messa, dove il tempo spariva (poteva durare anche oltre due ore), egli diventava un tutt’uno con Cristo e arrivò ad affermare: «La mia missione finirà quando sulla terra non si celebrerà più la Messa». Chissà che cosa voleva realmente dire. La missione redentiva delle anime che prosegue ancora oggi sulla terra, anche dopo la sua morte, fino alla fine dei tempi? Oppure il santo si riferiva alla sua morte che precedette di un anno la nuova Messa  studiata, a tavolino, da monsignor Annibale Bugnini, buttando alle spalle il risultato di secoli e secoli di liturgia cattolica?

La Fede e la Rivoluzione

Fin da giovane egli sapeva a quale tipologia di vocazione religiosa Dio lo aveva chiamato: «Gesù mi ha associato al grande negozio della redenzione umana. Il Padre celeste mi ha fatto ascendere sulla croce del Figlio suo e sono certo che di là non scenderò mai più. Scendo dall’altare per salire sulla croce; scendo dalla croce per distendermi sull’altare» (p. 31) e tutto questo per “comprare” le anime a Dio.
La figlia spirituale Cleonice Morcaldi riuscì a strappare a padre Pio molte risposte a quesiti di carattere spirituale delicati ed intimi e nel riprodurle i due autori del libro hanno utilizzato una tecnica chiarificatrice sia per coloro che vivono nel mondo e non sono del mondo e sia per coloro che, invece, pur dicendosi cristiani lavorano per tutt’altra patria. Infatti le domande della Morcaldi e le risposte di padre Pio sono intercalate efficacemente da asserzioni e commenti di modernisti e ultramodernisti. Qualche esempio:
«D. Padre che cosa è la vostra Messa?
R. Un completamento sacro con la passione di Gesù.
D. Che cosa debbo leggere nella vostra Messa?
R. Tutto il calvario.
D. Padre, ditemi tutto quello che soffrite nella Santa Messa.
R. Tutto quello che ha sofferto Gesù nella sua passione, inadeguatamente, lo soffro anche io, per quanto a umana creatura è possibile. E ciò contro ogni mio demerito e per sola sua bontà.
D. Padre, come possiamo conoscere la vostra passione?
R. Conoscendo la passione di Gesù; in quella di Gesù troverete anche la mia…» (p. 48).
Ed  ecco che, come controcanto, troviamo la terribile considerazione del monaco trappista padre Ernesto Cardel (Ministro della Cultura nel Governo sandinista del Nicaragua):
«Fu con l’avvento della teologia della liberazione, nei primi anni Settanta, che ci venne rivelata la verità evangelica secondo la quale tutti quelli che lottano per i poveri, credenti o atei, sarebbero stati uniti oltre la morte; e il regno di Dio, o regno dei Cieli, e la società comunista perfetta sono la stessa cosa […] scoprii come il gesuita francese padre de Lubac avesse trasformato la frase di sant’Agostino “Ama e fai quello che vuoi” in “Ama e credi in quello che vuoi”…» (p. 49).

Riprende “l’interrogatorio”:
D. «Come restò Gesù dopo la flagellazione?
R. Il Profeta lo dice: “Diventò una sola piaga; diventò un lebbroso”.
D. E allora anche voi siete tutto una piaga dalla testa ai piedi?
R. E non è questa la nostra gloria? E se non ci sarà spazio per fare altre piaghe nel mio corpo, faremo piaga su piaga.
D. Dio mio, questo è troppo! Siete, padre mio, un vero carnefice di voi stesso!
R. Non ti spaventare ma gioisci! Non desidero la sofferenza in se stessa, no; ma per i frutti che mi dà. Dà gloria a Dio e salva i fratelli, che altro posso desiderare?» (pp. 50-51).

Dopo affermazioni di tale afflato mistico e di donazione totale per il prezzo da pagare nel donare al Paradiso anime per amore di Dio e del prossimo, ci raggiungono, come uno schiaffo sul volto, le traumatiche parole di Camillo Torres, il prete terrorista colombiano:
«[…] la Rivoluzione è non solo lecita, ma obbligatoria per i cristiani che vedono in essa l’unico modo efficace e completo per realizzare l’amore per tutti.  […] Io ho lasciato i privilegi e i doveri del clero, ma non ho smesso di essere sacerdote. Credo di essermi dato alla Rivoluzione per amore del prossimo. Ho smesso di dire la messa per realizzare quell’amore al prossimo, nel terreno temporale, economico e sociale. Quando il mio prossimo non avrà nulla contro di me, quando sarà realizzata la Rivoluzione, tornerò a offrire messa...» (p. 51).

Il frate cappuccino fu un mistero per tutti e per tutta la sua esistenza. Patì atroci sofferenze non solo a causa delle stigmate e delle piaghe, ma anche delle continue lotte che di notte doveva sostenere contro Satana; tutto quel dolore veniva offerto per completare i patimenti di Cristo, come afferma San Paolo: «Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24). Alla luce di ciò non dovrebbe essere difficile comprendere le asserzioni di padre Pio, arcane per chi non ha Fede oppure per chi è in essa debole e vacillante: «[…] perché soffro? Non lacrimucce, ma torrenti di lacrime vorrei versare! […] Un Dio vittima dei nostri peccati! Noi poi siamo i suoi macellai» (p. 56). Quando padre Pio si esprimeva in questi termini e viveva la Santa Messa in Cristo e per Cristo, la rivista milanese «Il Confronto», nel 1968, pubblicava articoli di questo tenore:

«E voi, i pochi che nell’alta gerarchia avete la nostra fiducia: voi, gli Alfrink e i Suenes e i Döpfner e i Pellegrino e gli Helder Camara, il tempo della prudenza è finito. Contate i vostri seguaci e, qualunque sia il loro numero, uscite dalla Chiesa che non vi merita più, se è vero che non ci avete ingannato. Il cattolicesimo nuovo è già nato» (p. 62).
Il misticismo

I mistici, i grandi protagonisti del fuoco di Dio, hanno sempre caratterizzato la storia della cristianità. I fenomeni che si manifestano nell’universo del misticismo come le stigmate, la levitazione, le guarigioni, le profezie, le visioni, le apparizioni, le bilocazioni, l’estasi… provocano, a partire dal Novecento, due tipi di reazioni: o sono analizzati, esaminati, “vivisezionati” o sono negati a priori come realtà paranoiche ed oscure che rientrano in una dimensione da allontanare il più distante possibile perché capaci di suggestionare le persone e di condurle ad una religiosità fatta di superstizione e di magia.
I mistici. Anime che fanno discutere, che diventano oggetto di studio, di ricerca, di indagine, di polemica, di perplessità e di sospetto. Processi e persecuzioni. L’irrazionale è di per se stesso causa di sospetto perché non rientra nella “normalità”. Il mistico, malato di protagonismo per molti, è per regola un “fuori legge”. Questo “fuori legge”, in grado di mandare all’aria le regole della natura, è in realtà un innamorato che perde la testa per il suo Signore e quando si perde la testa può succedere di tutto. Sono dei carismatici e Chàrisma significa «dono gratuito»: è lo Spirito Santo  che colma di grazia la creatura che si pone al servizio totale di Dio, in lui tutto si abbandona. Essenza e destino in queste creature, che amano a dismisura, così trasparenti da smaterializzarsi e passare attraverso porte e muri, coincidono.

Il titolo del libro di Gnocchi e Palmaro, che tutti i sacerdoti dovrebbero avere la fortuna di poter leggere, adombra anche una scoperta sorprendente, nel testo svelata, a riguardo delle stigmate correlate all’ultima messa che padre Pio celebrò prima di morire, scoperta che però non vogliamo anticipare, per non togliere al lettore il piacere di scoprirla da sé.

Rimane il fatto che in Padre Pio, nostro contemporaneo, avvezzo a vivere dentro e fuori dalla dimensione terrena e da quella celeste, in una continua altalena, sperimentando fenomeni umanamente e razionalmente non riscontrabili e non imitabili, come la bilocazione, si verificò l’effusione dello Spirito Santo, la stessa che aveva dilatato, secoli prima, il cuore di san Filippo Neri, come constatò l’autopsia su di lui effettuata: lo aveva dilatato così tanto da staccare alcune costole dallo sterno per dargli spazio e lo aveva infiammato di un tale amore da costringere san Filippo ad affermare: «Cor meum et caro mea exultaverunt in Deum vivum».

Cristina Siccardi





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21/05/2011 18:50
 
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[SM=g1740733] Liturgia creativa di Riccardo Pane, un libro da leggere e da regalare
Liturgia creativa - Considerazioni irrituali su alcune presunte applicazioni della riforma liturgica (ESD, Bologna 2011)


Costa poco (12€), è sintetico, è scritto in maniera divertente e che fa pensare. Un ottimo mix questo libriccino di Don Riccardo Pane di Bologna, cerimoniere arcivescovile e docente alla Facoltà teologica cittadina. Tocca tutti i temi più delicati della riforma liturgica, della sua attuazione incompleta e a volte fuorviata, e insieme espone tutto con ironia, non sacrificando belle e utilissime citazioni dei testi della Sacrosanctum Concilium, che mostra assai diversi da come "li si racconta", sia da "destra" che da "sinistra"... diciamo.
L'analisi di Don Pane è lineare e acuta, condivisibile al 100%, la sua diagnosi dei mali che affliggono la liturgia è quanto mai penetrante, ma senza pesantezze o saccenterie, condita con tanto buon senso e desiderio di ritrovare il sacro perduto e la preghiera liturgica vitale e seria. Un libro comunque alla portata di ogni catechista parrocchiale o di giovane, pur non addentro alla teologia sacramentaria, ma di buona volontà.
Quello che invece non posso condividere è il suo pessimismo per il futuro. Traspare da più pagine, e l'autore stesso se ne accusa.
Caro Don Riccardo, alla tua età (1972) non puoi permetterti se non di essere ottimista. Il Papa sta lavorando alla sua veneranda età e sa guardare al futuro della Chiesa con occhio di bambino. Forse sogna, ma noi non possiamo essere da meno. Applica le cure che suggerisci, anche se l'ammalato brontola un po': tu sei il dottore, e come medico devi sempre sperare e lavorare per la guarigione del paziente. Dopotutto la Sposa di Cristo, e tu lo sai perchè sei patrologo, ne ha viste di peggio. Ed è ancora viva e arzilla, nonostante quello che tu chiami il "Sacrosanto Scompiglio"!
Libro consigliatissimo e di sicuro successo. Da comprare e diffondere.

QUI per il sommario e l'intera premessa del libro, che potete scaricare anche qui:

www.esd-domenicani.it/esd_files/Schede/Pagine_20101213_17719_pane__liturgia_creativ...



Ecco un assaggio della presentazione del libro, avvenuta a Bologna la scorsa settimana:




[SM=g1740733]

Testo preso da: Cantuale Antonianum www.cantualeantonianum.com/#ixzz1N0TZOoAd
www.cantualeantonianum.com


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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08/01/2012 00:18
 
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Cultura Cattolica: L’Altare cattolico di Michael Davies

Pubblico la prefazione del prof. Roberto de Mattei al bel volumetto di Michael Davies, L’Altare cattolico e il Concilio Vaticano II, edito dalle Suore Francescane della Immacolata di Città di Castello.
Monastero delle Murate - 06012 Città di Castello (PG) - Tel. 075/8555779
(e-mail: francescanecittadicastello@interfree.it).


Michael Trehorne Davies nacque a Yeovil, nel Somerset, il 13 marzo 1936 e morì a Chislehurst in Kernt, il 25 settembre 2004. Fu presidente della Federazione Internazionale Una Voce dal 1995 al 2003 e soprattutto autore di numerose opere in difesa della Tradizione cattolica, nelle quali il rigore delle argomentazioni e l’accuratezza delle informazioni si accompagnava ad una eccellente preparazione teologica.

L’allora cardinale Ratzinger, che lo conobbe personalmente, lo definì «un uomo di profonda fede», «sempre fedele alla Chiesa». Il cardinale Ratzinger, oggi Benedetto XVI, condivideva con Michael Davies l’ammirazione per gli studi di mons. Klaus Gamber, che aveva dimostrato come l’orientamento dell’altare, e la celebrazione del Santo Sacrificio verso il popolo, introdotti dalla liturgia postconciliare, avessero segnato un capovolgimento rispetto alla prassi immemorabile della Chiesa, implicando anche un cambiamento nella comprensione del Santo Sacrificio della Messa.

E’ dall’esame della Sacra liturgia nei primi secoli che Davies prende le mosse in questo saggio, in cui una parte importante è dedicata a stabilire un paragone tra il culto cattolico e il culto protestante. Davies, che si convertì dall’anglicanesimo al cattolicesimo anche per l’attrazione che su di lui esercitava la liturgia romana, ha trattato più ampiamente questo tema in uno de suoi libri più interessanti, La riforma liturgica anglicana, che ha avuto sei edizioni inglesi, e una in francese.

Egli vi dimostra, sulla base di inoppugnabili documenti storici, che il protestantesimo in Inghilterra entrò e si diffuse più che con la predicazione e l’insegnamento, grazie a una riforma liturgica che fece scivolare in pochi anni clero e popolo nell’eresia.

Quando, nel 1509, il re Enrico VIII salì al trono, l’Inghilterra, chiamata tradizionalmente “la dote di Maria”, conosceva un’epoca di rinnovamento religioso, malgrado la presenza di sporadici abusi. Ma cinquant’anni dopo, nel 1559, sotto il regno di sua figlia Elisabetta, lo scisma di Enrico VIII era compiuto e il cattolicesimo era definitivamente distrutto. Una nuova forma di cristianesimo, l’anglicanesimo, l’aveva rimpiazzato, prima di diffondersi in tutto il mondo anglosassone.

Questo cambiamento imprevisto e in massa di tutto un popolo non ebbe come causa principale la predicazione di un Riformatore, quale Lutero in Germania o Calvino in Svizzera. Esso fu opera primaria dell’arcivescovo di Canterbury, Thomas Cranmer, il quale già segretamente protestante, concepì uno spregiudicato piano di modifica radicale della fede del popolo inglese attraverso il mutamento della liturgia.

Egli era infatti convinto che la pratica liturgica quotidiana avrebbe trasformato le idee e le mentalità meglio di qualsivoglia libro o discorso. La storia della riforma inglese è quella di un disegno che, pur a momenti alterni, finì per prevalere grazie al carattere profondamente equivoco del Book of Prayers cranmeriano, suscettibile per la sua ambiguità, di opposte “ermeneutiche”.

Michael Davies era fiero delle sue origini gallesi e conclude significativamente queste pagine con un riferimento a san Riccardo Gwyn, insegnante del Galles, padre di sei bambini, giustiziato nel 1584 per essersi rifiutato di partecipare alla liturgia protestante. Di questo spirito profondamente cattolico della sua patria egli raccolse l’eredità e la volle ritrasmettere alle generazioni future.

Il fatto che oggi la Tradizione cattolica conosca una rinascita si deve a cattolici come Michael Davies, che con i loro libri, articoli e conferenze, hanno contribuito a rianimare e istruire migliaia di fedeli in un’epoca di confusione e di sbandamento come quella che attraversiamo.

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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