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J.Ratzinger-Benedetto XVI: Com’è, dov’è, e che cosa vuole Dio?

Ultimo Aggiornamento: 09/10/2013 13:03
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22/12/2008 16:33
 
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[SM=g1740758] Com’è, dov’è, e che cosa vuole Dio?

A colloquio con Peter Seewald nel libro “Dio e il mondo”

-Pubblichiamo per intero il secondo capitolo del volume dal titolo “Dio e il mondo. Essere cristiani nel nuovo millennio” (Edizioni San Paolo, 2001), frutto del colloquio, tenutosi nell’abbazia benedettina di Montecassino, fra il cardinale Joseph Ratzinger, allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, e il giornalista e redattore tedesco Peter Seewald.

Veniamo all'essere originario, come lo chiama Lei, all'origine e al fine dell'esistenza, Dio. La professione di fede cristiana inizia con la parola “Credo”. Comunque i cristiani non credono genericamente in una forza, in una natura superiore.

Questa affermazione “Credo” è un atto consapevole del soggetto. Un atto in cui si intrecciano volontà e ragione, illuminazione e ispirazione. Qui si radica questa fiducia, ma anche questa tensione quest'uscire fuori da sé, questo proiettarsi verso Dio. E non si tratta di riferirsi a una qualsivoglia potenza superiore, ma a Dio che mi conosce e che mi parla. Che è davvero un soggetto per quanto tanto più alto con cui posso entrare rapporto e che si relazione con me.

Cosa intende quando dice che Dio è anche un “soggetto”?

Intendo dire che è una persona. Dio non è la formula matematica che compendia l'universo. Non è nello spirito del mondo. Non è l'imprecisata armonia della natura o un innominabile “infinito”, ma il creatore della natura, l'origine dell'armonia, il Dio vivente, il Signore.

Un attimo, Lei crede che Dio sia una persona, che possa ascoltare, vedere, avere dei sentimenti…?

Sì, Dio possiede i tratti essenziali di ciò che chiamiamo persona, cioè consapevolezza, discernimento e amore. E’ da questo punto di vista qualcuno in grado di parlare di ascoltare. Questi sono, credo, i tratti essenziali di Dio. La natura può anche essere degna di ammirazione. Un cielo stellato è grandioso. Ma rimane pur sempre un'ammirazione impersonale perché, in ultima analisi, mi fa sentire una piccola rotella di un meccanismo che mi sovrasta.

Il Dio vero è qualcosa di più. Non è semplicemente natura, ma è ciò che la precede e che la legge. È un essere in grado di pensare, parlare, amare e ascoltare. E Dio, ci dice la fede, è per sua essenza relazione. Intendiamo questo quando ci riferiamo alla sua natura trinitaria. Poiché è in sé relazione, è anche in grado di creare esseri che sono a loro volta relazione e che si possono richiamare a lui perché lui si è sentito toccare da loro.

“Chi entra nella logica di questo Credo”, ha detto una volta, “compie davvero una rinuncia alle leggi del mondo in cui vive”.

Intendevo dire che il mistero della Risurrezione di Cristo ci consente di superare la morte. Naturalmente come uomini che abitano questo mondo continueranno ad essere sottoposti alle leggi naturali. In natura vige la legge delle incessanti trasformazioni. Ma in Cristo vediamo che l'uomo ha qualcosa di definitivo. Non è soltanto un elemento inserito nel grande processo delle trasformazioni, ma è e rimane uno degli scopi della creazione. Da questo punto di vista si sottrae al vortice dell'eterno dischiudersi e perire per essere accolto nella costanza dell'amore creativo di Dio.

Perché si rappresenta Dio con un triangolo al cui centro sta un occhio che ci fissa in maniera penetrante?

Il triangolo è un tentativo di rappresentare il mistero dell'unità trinitaria. Si vuole esprimere il confluire della tripartizione trinitaria in un'unica realtà e la fusione della triplice relazione d'amore in un unità superiore. L'immagine dell'occhio, molto antica, è per eccellenza il simbolo del conoscere che attraversa l'intera storia della religione. Dice che Dio è il Dio che vede e che l'uomo è l’oggetto della sua attenzione, che acquisisce a sua volta, tramite Dio, la facoltà di vedere.

Naturalmente in quest’immagine è insito un pericolo. Nell’Illuminismo ha contribuito in maniera significativa alla presa di distanza da Dio. Perché da un Dio che mi osserva inesorabilmente ovunque io sia, che non mi concede mai uno spazio mio – la mia privacy si direbbe oggi – da un simile Dio ci si separa volentieri.

Considerare il vedere come una minaccia, come un pericoloso osservare che mi sottrae la libertà è un'interpretazione sbagliata che capovolge l'immagine autentica di Dio. Il simbolo dell'occhio è interpretato correttamente se vi si vede il riflesso di un atteggiamento di eterna premurosità, se mi comunica il fatto che non sono mai solo, che c'è sempre qualcuno che mi ama, che mi sostiene e mi sorregge.

Nella tradizione ebraica è presente l'idea che Dio, prima di creare il mondo, esisteva in latenza. Le sue caratteristiche non avevano ancora conosciuto un'attualizzazione. Conseguentemente Dio aveva bisogno del mondo per diventare quello che è. Perché, come potrebbe esserci un re senza popolo? Come Dio potrebbe amare, se non c'è nessuno da amare? La domanda è questa: cosa c'era prima dell'inizio? Chi ha creato Dio?

Quest'idea proviene da una delle tante tradizioni ebraiche. Concezioni simili sono poi emerse successivamente anche nella mistica cristiana, per esempio in Meister Eckart. In ogni caso non corrispondono all'immagine biblica originaria e paiono sottintendere impossibilità per Dio di essere se stesso se non creando.

No, il Dio cristiano, il Dio che si rivela a noi, è Dio. "Io sono colui che sono”, dice. A questo punto si è già implicitamente risposto anche alla domanda successiva e che presuppone una serie infinita di interrogativi autogenerantisi: Chi l’ha creato, e poi: Chi ha creato colui che l’ha creato e così via. E diventa superfluo anche un interrogativo come questo: lo spirito di Dio creatore rappresenta la pienezza dell'essere, posta al di là del divenire e del perire?

Penso che lo si possa formulare in questi termini: la realtà stessa è in se stessa creativa. Dio non ha bisogno del mondo. La fede cristiana e anche quella veterotestamentaria l'hanno sempre energicamente sottolineato. Al contrario degli dei, che hanno bisogno di uomini che li mantengano e li nutrano, Dio di per sé non ha bisogno di loro. È l'unico, l'eterno la pienezza dell'essere. La fede trinitaria ci dice che lui è colui che ama in sé, in questo eterno ciclo dell'amore che è insieme suprema unità e alterità e condivisione dell'esistenza.

D'altro canto l'idea che Dio è amore in implica effettivamente l'interrogativo su quale sia l'oggetto del suo amore. Questo però si dissolve nella fede nell’unità trinità di Dio, che fa dono di sé e si fa Figlio, si riunisce al Padre ed è Spirito Santo. In questo senso, dunque, la creazione è un atto completamente libero e anche la tradizione cristiana (e con essa parti importanti della tradizione ebraica) hanno sempre sottolineato che la creazione non è per Dio una necessità ma una libera scelta.

Ma perché Dio doveva farsi carico di questa avventura della creazione del mondo e dell'uomo?

Quest’interrogativo, sulle motivazioni di un atto, quello della creazione, di cui Dio poteva anche fare a meno, ha terribilmente tormentato Romano Guardini, che ha preso atto e dato espressione a tutto ciò che nella creazione gronda di dolore. Non abbiamo una risposta. Possiamo solo supporre che l'abbia voluto, nonostante tutto; che volesse una creatura altra da lui, che potesse riconoscerlo e ampliare così dire il raggio del suo amore.

Gli antichi hanno tentato di esprimerlo con un concerto filosofico: il bene ha in sé la pulsione a parteciparsi. E da questo punto di vista colui che è il bene per eccellenza tende a traboccare. Nemmeno a quest’interrogativo c'è una risposta definitiva. Ma l’essenziale è che la creazione non è un libero dono di sé e non per così dire un'esigenza di Dio, che sarebbe altrimenti solo un Dio dimezzato e potrebbe quindi offrire solo una speranza dimezzata.

Dio è uomo o donna?

Dio è Dio. Non è né uomo né donna, ma è al di là dei generi. È il totalmente Altro. Credo che sia importante ricordare che per la fede biblica è sempre stato chiaro che Dio non è né uomo né donna ma appunto Dio e che uomo e donna sono la sua immagine. Entrambi provengono da lui ed entrambi sono racchiusi potenzialmente lui.

Il problema è però che la Bibbia si rivolge a Dio come a un Padre e lo raffigura conseguentemente con un'immagine maschile.

Tanto per incominciare dobbiamo dire che, se è vero che effettivamente la Bibbia ricorre nell'invocazione delle preghiere all'immagine paterna, non a quella materna, è altrettanto vero che nelle metafore di Dio gli attribuisce anche caratteristiche femminili.

Quando ad esempio si parla della pietà di Dio, non si ricorre al termine astratto di “pietà”, ma a un termine gravido di corporeità, “rachamin”, il “grembo materno” di Dio, che simboleggia appunto la pietà. Grazie a questa parola viene visualizzata la maternità di Dio anche nel suo significato spirituale. Tutti i termini simbolici riferiti a Dio concorrono a ricomporre un mosaico grazie al quale la Bibbia mette in chiaro la provenienza da Dio di uomo e donna. Ha creato entrambi. Entrambi sono conseguentemente racchiusi in lui - e tuttavia lui è al di là di entrambi.

Rimane l’interrogativo perché tutto ciò non abbia trovato espressione anche nell'invocazione delle preghiere.

Sì. Perché ci si è limitati così rigidamente al Padre? E poi c'è la successiva domanda, ancora più tagliente: perché Dio è venuto a noi come “Figlio”? Perché Dio facendosi uomo si è incarnato in una persona di sesso maschile? E perché questo Figlio di Dio ci ha insegnato a sua volta a rivolgerci insieme a lui a Dio chiamandolo Padre, trasformando questa denominazione di Padre in qualcosa di più di un'immagine che nel corso della storia della fede può anche essere superata, cioè nella parola che il Figlio stesso ci ha insegnato?

Lei conosce la risposta?

Vorrei anzitutto ricordare che la parola "Padre” rimane ovviamente una metafora. Continua ad essere vero che Dio non è né uomo né donna ma appunto Dio. Si tratta comunque di un'immagine che Cristo ci ha davvero, inequivocabilmente, consegnato perché noi vi ricorressimo nella preghiera, un'immagine tramite cui ci vuole comunicare qualcosa della visione di Dio.

Ma perché? Ci troviamo attualmente nel pieno di una nuova fase di riflessione su questa questione, ma credo che, in ultima analisi, non siamo in grado di trovare una risposta. Ciò che possiamo dire sono forse due cose. Innanzitutto, le religioni diffuse nell'area circostante a Israele conoscevano coppia di divinità, una dignità maschile e una divinità femminile. Il monachesimo, al contrario, ha escluso le coppia di divinità e ha invece assurto a sposa del Signore l'umanità eletta, o meglio il popolo d'Israele.

In questa storia d’elezione si adempie il mistero dell'amore che Dio nutre per il suo popolo, simile a quello di un uomo per la sua sposa. Da questo punto di vista l'immagine femminile viene un certo qual modo proiettata su Israele e sulla Chiesa e infine personalizzata in maniera particolare in Maria. In secondo luogo, laddove si è fatto ricorso a metafore materne del divino queste hanno trasformato la concezione della creazione fino a che, all'idea di creazione, si è sostituita quella di emanazione, di parto, e poi ne sono scaturiti modelli quasi necessariamente panteistici. Al contrario, il Dio rappresentato nell’immagine paterna che tramite la Parola e proprio da qui deriva la specifica differenza tra creazione e creatura.

Anche se Dio non è né uomo né donna, siamo in grado di dire com’è? L’Antico Testamento ci riferisce di esplosioni di collera e di successive punizioni. "Perché io, il Signore tuo Dio,”ci dice qui, “sono un Dio geloso: in coloro che mi sono nemici, perseguo la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione”. Dio è ancora oggi collerico come allora o è cambiato?

Per prima cosa vorrei completare la citazione. Vi si dice infatti: “le mie punizioni colpiranno fino alla terza o alla quarta generazione, ma la mia misericordia si estenderà oltre le mille generazioni”. La parola profetica riflette dunque una simmetria tra la collera e la misericordia. La misericordia è moltiplicata per mille, se raffrontata con l’ira e da questo punto di vista questo passo significa che, per quanto abbia meritato la punizione e mi sia posto al di fuori del suo amore, ho la certezza che la misericordia di Dio è mille volte più grande.

Ma questo Dio ebraico-cristiano mostra anche un volto irato.

La collera di Dio è espressione del fatto che ho vissuto contraddicendo quell’amore che costituisce l'essenza di Dio. Chi si allontana da Dio, che si allontana dal bene, sperimenta la sua collera. Chi si pone al di fuori dell'amore, sprofonda nel negativo. Non è quindi un colpo inferto da un dittatore assetato di potere, ma è soltanto l'espressione della logica intrinseca a un'azione.

Se io mi pongo al di fuori di ciò che è conforme alla mia idea di creazione, al di fuori dell'amore che mi sorregge, allora precipito nel vuoto, nelle tenebre. Allora non mi trovo più, per così dire, nella sfera dell'amore, ma in una sfera che può essere definita come quella della collera.

Le punizioni di Dio non sono il frutto di norme poliziesche da lui stesso imposte sadicamente. “Punizione di Dio” è la condizione che si sperimenta quando si smarrisce la retta via e si subiscono le conseguenze dell'essersi incamminati su una strada sbagliata, lontano da quell'esistenza che Dio aveva pensato per noi.

Ma non siamo anche tenuti a nutrire un senso di dipendenza, e addirittura di minorità se si dice: “Dio è colui che vi infonde la volontà e la sua realizzazione”. Che razza di Dio è uno che deve sempre dimostrarci che senza di lui non siamo niente? E viceversa, non è anche responsabile nei nostri confronti? Perché, chi di noi è responsabile della propria presenza su questa terra? Anzi ci sono abbastanza persone che non ne sono affatto entusiaste.

È importante che la Chiesa ci trasmetta un'immagine di Dio grandiosa ma scevra da falsi tratti terrorizzanti e minacciosi. Tratti che invece hanno gravato negativamente e tuttora forse gravano sporadicamente in una parte della catechesi. Dobbiamo invece rappresentare Dio nella sua grandezza, ma sempre a partire da Cristo, un Dio che ci concede un margine di libertà molto ampio.

Talvolta vorremmo addirittura che ci parlasse più chiaramente. Altre volte ci chiediamo invece: perché ci lascia tutto questo spazio di manovra? Perché concede al male tutta questa libertà e questo potere? Perché non interviene?

Continuiamo a soffermarci su Dio con la domanda su dove e come possiamo trovarlo. Possiamo ricorre a un breve racconto. Una volta una madre portò suo figlio dal rabbino. Questi allora chiese al ragazzo: “Ti do un fiorino se mi sai dire dove sta Dio”. Il ragazzo non ebbe bisogno di riflettere a lungo e rispose: “E io te ne do due si mi sai dire dove non sta”. Nel Libro della Sapienza si dice che Dio “ si lascia trovare da quanti non lo tentano, si mostra a coloro che non ricusano di credere in lui”. Ma dov'è Dio esattamente?

Iniziamo dal Libro della Sapienza. Lì c’è un passo che mi pare molto attuale: “Dio si lascia trovare da quanti non lo tentano” significa che non si lascia trovare da coloro che vogliono metterlo alla prova. Questa verità era già conosciuta nel mondo ellenistico e si è conservata ancora oggi molto pregnante. Se vogliamo mettere Dio alla prova - ci se o non ci sei? – o mettiamo in atto tentativi che dovrebbero nelle nostre intenzioni spingerlo a reagire, se ne facciamo un oggetto di sperimentazione, allora assumiamo un atteggiamento che ci impedisce di trovarlo. Dio non si sottopone ad alcun esperimento. Non è qualcosa che si lasci manipolare dall'uomo.

Un mio amico mi ha detto: Io non avverto alcuna presenza, nemmeno quando vado in chiesa la domenica. Vedo solo che non esiste nulla.

Dio non è qualcosa che si possa costringere a urlare in determinati momenti la propria presenza. Troviamo Dio se rinunciamo a sottoporlo ai criteri di falsificabilità dell’esperimento moderno e di dimostrazione dell'esistenza e se guardiamo a lui come Dio. E guardare a lui come a Dio significa instaurare con lui tutto un altro rapporto.

Le cose materiali posso indagarle da un punto di vista operativo e sottoporle a coercizione perché mi sono sottoposte. Ma già un altro essere umano non sono in grado di capirlo se lo tratto in quel modo. Al contrario, sono in grado di cogliere qualcosa della sua personalità solo se inizio a immedesimarmi empaticamente con la sua anima.

Lo stesso avviene con Dio. Posso cercare Dio solo se dismetto i panni del dominatore. Devo invece sviluppare un atteggiamento di disponibilità, di apertura, di ricerca. Devo essere pronto ad attendere con umiltà e a consentirgli di mostrarsi come vuole e non come io vorrei.

Ma dov'è Dio esattamente?

Non è in un luogo preciso, come mostra così bene la sua storiella rabbinica. Detto in positivo: non esiste alcun luogo in cui lui non sia presente perché è dappertutto. Detto in negativo: In nessun modo può essere là dove vi è il peccato. Quando la negazione eleva il non essere a potenza, allora lì lui non è presente.

Dio è dappertutto, e perciò ci sono diversi gradi di approssimazione a Dio perché, quanto più alto è lo stadio dell'essere, tanto più si è vicini a lui. Dove però si dischiudono ragioni e amore, lì si raggiunge una nuova forma di vicinanza a lui, una nuova modalità della sua presenza. Dio è dunque là dove sono presenti fede e speranza e carità, perché, a differenza del peccato, queste disegnano lo spazio che ci consente di penetrare le dimensioni di Dio.
Da questo punto di vista Dio è in tutti quei luoghi in cui accade qualcosa di buono, presente nella sua specificità e, certo, al di là della mera onnipresenza. Possiamo incontrarlo e cogliere una modalità più profonda della sua presenza laddove ci approssimiamo a quelle dimensioni che meglio corrispondono alla sua essenza più intima quelle appunto della verità è dell'amore, del bene in generale.

Questa presenza più profonda… significa forse che Dio non è da qualche parte nell’universo ma è qui mezzo a noi? Presente in ogni singolo uomo.

Sì, lo dice già San Paolo sull'Aeropago rivolgendosi agli Ateniesi. Cita in quell'occasione un poeta greco: In Dio ci muoviamo, di piano e siamo. Che ci fu muoviamo ed esistiamo nell'aura del Dio creatore, è già vero da un punto di vista meramente biologico. Ed è tanto più vero quanto più ci addentriamo nella specifica modalità dell'essere di Dio. Possiamo esprimerlo in questi termini: laddove un uomo fa del bene a un altro uomo, là Dio è particolarmente vicino. Laddove, nella preghiera, qualcuno apre il proprio cuore a Dio, lo avvertirà come particolarmente vicino.

Dio non è una grandezza individuabile secondo categorie fisico-spaziali. La sua vicinanza non è misurabile con i parametri della distanza spaziale, in chilometri o anni luce. La prossimità di Dio è invece una vicinanza fondata sulle categorie dell'essere. Laddove è presente ciò che più riflette e attualizza la sua essenza, laddove sono presenti la verità e il bene, là lo sfioriamo particolarmente, lui che è l’Onnipresente.

Questo però significa anche che non è automaticamente presente, che non è sempre presente.

Da questo punto di vista è sempre presente, come se senza di lui non mi fosse possibile congiungermi al fluire dell'essere, se vogliamo dirlo in questi termini. In questo senso c’è un livello elementare di presenza di Dio che pervade ogni cosa. Ma la dimensione più profonda della prossimità di Dio, quella di cui è stato fatto dono all'uomo, quella può assottigliarsi o addirittura dissolversi o viceversa irrobustirsi.

Un uomo totalmente compenetrato da Dio è interiormente più vicino a Dio di uno che si è allontanato da lui. Pensiamo all'annuncio a Maria. Dio vuole che Maria divenga il suo tempio, il suo tempio vivente, ma questo non significa solo ospitarlo fisicamente. Ma a lei è davvero possibile divenire la dimora di Dio solo in quanto si è interiormente aperta a lui; solo perché si è conformata a lui con tutto il suo essere.

Ma potrebbe anche essere che Dio si ritragga, almeno temporaneamente. Einstein, ad esempio, venerava Dio come architetto dell'universo, ma era anche convinto, in ultima analisi, che Dio non si interessasse più della sua creazione e del destino dell'uomo.

Questa idea di Dio come architetto muove da una concezione di Dio molto limitata. In questa concezione Dio è soltanto l'ipotesi marginale di cui si ha bisogno per poter spiegare la nascita dell'universo. Progetta, per così dire, la totalità del cosmo, che poi si muove di forza propria. Poiché Dio si rapporto al mondo semplicemente come la causa fisica ultima, poi naturalmente, altrettanto semplicemente, esce di scena dopo la creazione. Ora la natura dispone di una propria autonomia, ma Dio non ha più margini d’azione, il suo rapporto con il cuore degli uomini, con quest'altra dimensione dell'essere, semplicemente non è previsto da questa concezione della creazione.
Allora non è più il Dio “vivente” ma un'ipotesi che, in ultima analisi, si tenta di rendere superflua.

Ma anche i teologi parlano di un’ “ assenza di Dio”.

Questa è un'altra faccenda. Già nelle Sacre Scritture ci imbattiamo nel nascondersi di Dio. Dio si nasconde al popolo che non gli obbedisce. Tace. Non manda profeti. E questa notte buia è presente anche nella vita dei santi, che vengono per così dire espulsi in questa sorta di assenza, di silenzio di Dio, come ad esempio Teresa di Lisieux, e devono condividere con i non credenti la sofferenza delle tenebre.

Ma questo comunque non significa che Dio non esiste. E nemmeno che non disponga più della sua forza propria o che non ci ami più. Sono situazioni della storia o dell'esistenza umana in cui l'incapacità dell'uomo di percepire la presenza di Dio opera a sua volta, per usare un'espressione di Martin Buber, un’ “eclissi di Dio”. Di fronte a questa incapacità o non volontà dell'uomo di percepire Dio di richiamarsi a lui, Dio pare essersi ritratto.

Clemente alessandrino, uno dei grandi Padri della Chiesa, disse una volta: “L'uomo è stato creato da Dio, perché desiderato da Dio per se stesso”. Bene, se dunque Dio è amore disinteressato, perché mai dovrebbe insistere nel pretendere da noi venerazione e adorazione?

Il Santo Padre ha ripreso nelle sue encicliche in diversi modi proprio quest'espressione “creato per se stesso”. L’ha mutuata da Immanuel Kant e l’ha sviluppata in maniera originale. Kant aveva detto che l'uomo è l'unico essere che è fine a se stesso, non uno strumento per altri fini. Il Papa dice ora: In effetti l'uomo è in sé un fine ultimo, non è a sua volta utilizzabile per conseguire altri fini.

Questa affermazione rappresenta il presupposto in base a cui garantire protezione al singolo. Perché in questo Dio creatore è riposto il fondamento che esclude il diritto di chicchessia di servirsi di un altro uomo, per quanto povero o debole questi possa essere, per conseguire Dio solo sa quali nobili scopi.

Oggi questa si è dimostrata una leva molto importante per garantire la difesa della dignità umana negli esperimenti sull'uomo o sugli embrioni. Il diritto umano per eccellenza è proprio questo, quello di non essere considerato un mezzo, ma di vedere tutelata la propria inviolabile dignità. Questo però non autorizza l'uomo a rinchiudersi in se stesso, a rideclinare la propria singola individualità a scopo finale della propria esistenza. Una componente importante della personalità umana è la relazionalità.

Che cosa significa?

Innanzitutto il lui è innata la tendenza ad amare, a relazionarsi con gli altri. Non è un essere autarchico, conchiuso in se stesso, un’isola dell’essere, ma, per sua stessa essenza, relazione. Senza questa relazione, nella mancanza di relazioni si autodistruggerebbe. E proprio in questa sua struttura fondamentale riflettere la natura di Dio. Perché è un Dio che a sua volta è per sua essenza relazione, come c’insegna il dogma trinitario. La relazionalità dell'uomo è quindi innanzitutto di natura interpersonale, ma è predisposta anche come proiezione verso l'infinito, verso la verità, verso l'amore stesso.

Deve necessariamente dispiegarsi in questa direzione?

Sì, ma questo non l'avvilisce. Questa relazione non rende l'uomo un fine, ma gli conferisce grandezza perché sta in rapporto diretto con Dio ed è direttamente voluto da Dio. Non si può perciò considerare il culto di Dio alla stregua di una faccenda esteriore come se Dio volesse essere lodato se avesse bisogno di sentirsi lusingato. Sarebbe ovviamente infantile e in sostanza irritante e ridicolo.

Ma allora cosa vuole?

Interpretare correttamente il senso dell’adorazione significa vivere correttamente il proprio essere come essere relazionale, vivere correttamente l'idea interiore del mio essere. E allora la mia vita si orienta a porsi in sintonia con la volontà di Dio, ad armonizzarsi con la verità e con l'amore. Non si tratta di fare qualcosa che faccia contento Dio. Adorarlo significa accettare la fugacità della nostra esistenza. Accettare di non avere per scopo qualcosa di finito che mi vincoli e di eccedere qualsiasi altro fine. Eccederlo proprio nell’unità interiore con colui che mi ha voluto come suo partner e che proprio su questo ha affondato la libertà che mi ha donato.

Ed è questo che Dio vuole veramente da noi?

Sì.






[Modificato da Caterina63 09/10/2013 13:03]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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21/04/2009 12:11
 
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Anselmo d'Aosta e l'«unum argumentum»

Storia di un malinteso



di Alessandro Ghisalberti

Negli ultimi decenni una cospicua serie di monografie e di saggi pubblicati a livello internazionale ha testimoniato l'interesse degli studiosi per una rilettura attenta e fedele all'ispirazione euristica e metodologica del Proslógion di Anselmo d'Aosta, in particolare dell'unico argomento (unum argumentum) sviluppato nei capitoli 2-4 dell'opera.

Anselmo nel Proemio all'opera lo presenta come l'argomento unico, che per essere provato non necessita di altro che di sé solo. Ritenendo condivisibile la tesi degli interpreti più recenti - tra cui spiccano Michael Corbin, Jean-Luc Marion, Pavel Evdokimov, Coloman Etienne Viola - i quali individuano una notevole divergenza tra l'argomento sviluppato da Anselmo nel Proslógion e la rielaborazione compiuta nella successiva storia della filosofia, che l'ha costretto nella denominazione di "argomento ontologico", intendiamo qui proporre una lettura puntuale dei tre capitoli menzionati dell'opera anselmiana, rimarcandone successivamente la distanza dalla rielaborazione fatta dai sostenitori dell'argomento ontologico.

Nel Proslógion Anselmo si dichiara insoddisfatto delle argomentazioni dialettiche su Dio, la creazione e la Trinità, elaborate in una precedente opera intitolata Monólogion, perché troppo ampie e frammentate; nel frattempo la ricerca di un argomento dalla forza probativa più concentrata ha avuto successo e, nel suo nucleo dialettico essenziale, esso coincide con una precisa nozione di Dio come "ciò di cui non si può pensare il maggiore". Anselmo ricava la formula dalla tradizione - in particolare da Agostino e da Boezio - ma la ritiene anche una valida sintesi dei connotati del Dio della rivelazione biblica, e perciò la introduce con il verbo "crediamo", che vale sia per dire di un dettato della fede, sia per esplicitare una denominazione coestesa con la struttura del pensiero, riscontrabile in ogni tradizione culturale o religiosa che attribuisca un significato alla parola "Dio".

Di fronte a questa nominazione di Dio, Anselmo passa a valutare la posizione dell'insipiente - desunta da un passaggio del Salmo 13 - il quale afferma che Dio non esiste, e si domanda che cosa può significare l'affermazione "Dio non esiste". Perché l'affermazione raggiunga un livello di comprensione da parte dell'intelletto, l'insipiente deve riferirsi al termine Dio intendendolo come ciò di cui non si può pensare il maggiore; pertanto il senso del suo dire si traduce nell'affermazione che Dio esiste solo nell'intelletto:  infatti, se di esso negasse l'esistenza anche nell'intelletto, l'insipiente non potrebbe attribuire più alcun significato alla parola Dio, né alla sua negazione.

In questa direzione circoscritta, la negazione dell'esistenza di Dio - riportata, in positivo, all'affermazione che Dio esiste solo nell'intelletto e non nella realtà - implica una contraddizione:  è contraddittorio dire che ciò di cui non si può pensare il maggiore sia ciò che esiste solo nell'intelletto, poiché io posso pensarlo esistente anche nella realtà, e così facendo penso qualcosa di "maggiore".
 
Non resta perciò che respingere la posizione dell'insipiente perché inficiata da manifesta contraddizione. Anselmo si appella all'evidenza:  non siamo di fronte ad una dimostrazione vera e propria, articolata in premessa maggiore e minore; l'esistenza nella realtà (in re) non significa esistenza empirica, ma esistenza in generale o esistenza reale, e la forza probativa della conclusione è demandata al principio di non-contraddizione, ossia è immediatamente evidente l'aporeticità della tesi dell'insipiente, il quale, confinando ciò di cui non si può pensare il maggiore nel solo intelletto, finisce con affermare che non è ciò di cui non si può pensare il maggiore. La contraddizione è tolta solo affermando che ciò di cui non si può pensare il maggiore deve essere pensato esistente e nel pensiero e nella realtà.
 
Nel successivo capitolo terzo Anselmo presenta una seconda argomentazione, volta a rafforzare la conclusione precedente, facendo vedere che, in ultima istanza, si deve concludere che Dio esiste in modo così vero che non può nemmeno essere pensato non esistente, sia per cogenza della ragione dialettica, sia secondando l'istanza teologica, connessa con la "logica della rivelazione":  dire che Dio non esiste significa dire - senza poterlo pensare - che ciò di cui non si può pensare il maggiore è ciò di cui si può pensare il maggiore, ossia equivale a dire:  Dio non è Dio; Dio è un idolo; Dio è pari a una qualsiasi cosa creata, di cui si può pensare il maggiore.

L'ultimo interrogativo del capitolo terzo, apparentemente retorico, è assai importante:  se è così evidente alla mente razionale che Dio esiste più di ogni altra cosa, perché l'insipiente dice che Dio non esiste? In realtà lo dice, precisa Anselmo, ma non può pensarlo, e quindi l'insipiente è realmente uno stolto, che non sa quello che dice, e che vorrebbe negare la struttura originaria della mente, ossia la sua capacità di pensare il massimo del pensabile, un massimo che non può essere trasceso né da altro essere, né dal pensiero.

Anselmo si assesta in una posizione teoretica che proclama l'evidenza della coincidenza di "ciò di cui non si può pensare il maggiore" con l'essere che non può non essere pensato esistente, e ciò vale solo per la formula dell'unico argomento; è altresì evidente che esso è più grande di tutto quanto si possa pensare, ossia che deve essere pensato come impensabile.

L'unico argomento di Anselmo, denominato a partire dal secolo XVIII "argomento ontologico", ha avuto diverse valutazioni e riprese nella storia della filosofia:  l'hanno criticato Gaunilone, Tommaso d'Aquino, Kant; l'hanno considerato valido, con rielaborazioni, Duns Scoto, Leibniz, Wolff, Hegel.

La presentazione dell'argomento ancor oggi prevalente nei manuali di storia della filosofia è così riassumibile:  Anselmo vorrebbe dare una vera e propria dimostrazione dell'esistenza di Dio, partendo dal concetto di Dio come essere supremo dalla perfezione insuperabile. Paradigmatica la formulazione dell'argomento che si riscontra nella Quinta Meditazione Metafisica di Cartesio, che intende Dio come l'essere perfettissimo:  all'essere che assomma in sé la totalità delle perfezioni pensabili non può mancare la perfezione dell'esistenza nella realtà. La lettura cartesiana riconduce cioè l'argomento all'idea che dall'essenza di Dio si ricavi la sua esistenza; questa lettura è stata quella sempre proposta dagli avversari dell'argomento di Anselmo, a cominciare da Gaunilone, che ha ritenuto insostenibile la prova, perché l'idea del perfettissimo può essere una proiezione vuota del pensiero, pari a quella di un'isola sperduta nell'oceano piena di ogni dovizia.

Ma siffatta lettura è stata considerata inautentica e illegittima dallo stesso Anselmo, nella risposta a Gaunilone:  "In primo luogo, spesso mi fai dire che l'ente maggiore di tutti è nell'intelletto e che, se è nell'intelletto, esiste anche nella realtà, altrimenti l'ente maggiore di tutti non sarebbe maggiore di tutti; ma una tale argomentazione, in tutto ciò che io ho detto, non si trova in alcun luogo" (Risposta di Anselmo a Gaunilone, 5).
 
In questo modo Anselmo evidenzia il cardine del suo argomento, che non ricorre all'idea di perfettissimo, ma all'idea di essere intrascendibile detto con formula negativa:  "Ciò di cui non si può pensare il maggiore".
La formulazione dell'unico argomento attesta cioè l'evidenza dell'esistenza di Dio, provando paradossalmente che essa non deve essere "dimostrata", dal momento che si "prova" con evidenza che chi la nega è "insipiente", ossia si assesta nell' impossibilità di pensare.



(©L'Osservatore Romano - 20-21 aprile 2009)
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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Questo che segue e il testo precedente non vanno isolati, ma tenuti in un unico filo conduttore....

Il teologo negli scritti di Eadmero e Giovanni di Salisbury

Le tante vite del Magnifico



di Stefano Maria Malaspina

Quello anselmiano è un nuovo modo di concepire la relazione tra logica e scienza sacra, capace di inaugurare un nuovo periodo, nell'adozione di un linguaggio originale:  "Per la prima volta dopo Agostino un pensatore cristiano di lingua latina costruisce un'opera, forgia degli strumenti, inventa una lingua" (Alain De libera).

Non siamo però di fronte ad una concezione razionalistica della ragione; "siamo semplicemente in una ragione riconosciuta, obiettiva, intesa all'evidenza umana che soddisfa" (Inos Biffi).

Vale per tutte le sue opere filosofiche e teologiche:  dal trattato di dialettica, il De Grammatico, al De veritate e al De libertate arbitrii; dal Monólogion e Proslógion, al Cur Deus homo.
 
Si potrebbe dire che non esiste nucleo teologico fondamentale che da Anselmo non sia stato affrontato:  così è per la creazione, la caduta, la redenzione, la predestinazione, la libertà, la rettitudine, il bene e il male, fino alla ben nota formulazione di una prova originale dell'esistenza di Dio.
Il Dottore Magnifico - è il giudizio ancora di Alain De Libera - passa così, con la disinvoltura propria di chi possiede genio teologico, dall'apologia difensiva ai vertici della speculazione.

Ma l'Anselmo pensatore che si avvale degli strumenti della ricerca filosofica con l'obiettivo di giungere coraggiosamente alle "ragioni necessarie", sul quale si è spesso focalizzata l'attenzione degli studiosi, non ha mai smesso di essere l'Anselmo conosciuto, incontrato e amato dai suoi monaci, che educava con similitudini e parabole e formava sui comportamenti umani.

Ed è stata anzitutto la sua personalità ad attrarre lo sguardo dei contemporanei, e non solo dei teologi:  "Se il pensiero sottile e audace di Anselmo destava interesse presso gli uomini di studio e di scuola, la sua bontà, i suoi gesti pieni di grazia, la sua parola accessibile e suadente, lo rendevano popolare e attraevano facilmente la gente che lo incontrava nei suoi numerosi e tribolati viaggi" (Inos Biffi).

Tanto che sarà lui stesso a scrivere, in una delle sue lettere:  "Siete stati in molti, se non quasi tutti, a venire al Bec per me".

Fra i testimoni della ricca personalità di Anselmo - splendida figura di monaco, di pensatore e di pastore d'anime, che appare tra le più luminose e originali nella tradizione della Chiesa e nella stessa storia del pensiero occidentale europeo - svolge un ruolo di primo piano Eadmero. Il monaco, testimone diretto di molte delle vicende del primate di Inghilterra, e suo compagno di esilio e di peripezie, ebbe il privilegio di vivere a lungo fianco a fianco dell'arcivescovo di Canterbury,  potendo così raccogliere racconti e confidenze sui tempi anteriori alla sua partenza da Aosta.

La sua Vita è un documento fondamentale per la biografia, e anche punto di riferimento per l'approfondimento dello sviluppo del suo pensiero. Singolari, tuttavia, sono le circostanze in cui questa biografia è stata composta e si è conservata, e ne rende ragione lo stesso autore:  Anselmo infatti aveva ordinato la distruzione degli appunti che Eadmero aveva annotato, e che solo con uno stratagemma riuscì a salvare, rimanendo però escluso da ulteriori confidenze nell'ultimo periodo della vita del primate inglese, che pur lo aveva definito "bastone della mia vecchiaia".

Grazie a lui sono disponibili numerosi tratti della storia e della personalità anselmiana che altrimenti non potrebbero essere conosciuti. Prendono dunque forma il legame con la famiglia di origine, la città di Aosta e le montagne che la circondano - tema ricorrente anche nei suoi sogni - la non semplice scelta della vita monastica, ostacolata dalla resistenza paterna, la ricerca di un maestro, trovato in Lanfranco di Pavia, e di un ambiente monastico, caduta su Le Bec, i trentatré anni lì trascorsi, dapprima come monaco e poi come priore e come abate, l'attenzione educativa nei confronti dei giovani monaci, la riluttanza e le vane resistenze nei confronti della nomina episcopale, l'opposizione verso le ingerenze dei regnanti, in nome della libertà della Chiesa, che costò difficili anni di esilio, conclusi con il rientro alla sede primaziale di Canterbury, e infine i miracoli avvenuti dopo la sua morte.

Questa testimonianza di prima mano è ora pubblicata in italiano, accompagnata da una seconda Vita di sant'Anselmo, breve e chiara:  è quella di Giovanni di Salisbury, uno dei più celebri scrittori del medioevo, un umanista ante litteram dallo stile accurato e dalla narrazione lineare e nitida, che si riferisce ampiamente alle testimonianze di Eadmero.
 
Il volume (Eadmero e Giovanni di Salisbury, Vite di Anselmo d'Aosta, Milano, Jaca Book, 2009, a cura di Inos Biffi, Aldo Granata, Stefano Maria Malaspina, Costante Marabelli con la collaborazione di Antonio Tombolini, pagine 560, euro 58) include inoltre una vita brevior, alcuni epitaffi, un epicedio e  altre  testimonianze  contemporanee.

Continua così, con l'illuminato patrocinio della Regione Autonoma Valle d'Aosta, la pubblicazione in lingua italiana, sempre accompagnata dal testo latino a fronte, dei testi della ricca costellazione anselmiana.
Così era stato per l'edizione dell'epistolario, fonte preziosa per una conoscenza intima della tenacia del santo nella ricerca dell'indipendenza della Chiesa, del rigore logico nella ricerca della verità, dell'affetto per i monaci a lui affidati nella tensione al loro ultimo bene.

Queste lettere - scriveva Richard William Southern, il grande specialista di sant'Anselmo, tra l'altro, autore dell'edizione critica della Vita Sancti Anselmi redatta da Eadmero - "contengono la documentazione migliore di cui disponiamo per comprendere parecchi aspetti del suo spirito e della sua personalità", in particolare quelle del suo periodo a Le Bec, dove fra i numerosi temi "ce n'è uno che eclissa tutti gli altri per il modo vivido in cui è espresso. È il tema dell'amicizia".

Ha inoltre contribuito alla conoscenza di Anselmo anche un'opera singolare, che ebbe larghissima diffusione del medioevo, ossia le Orazioni e Meditazioni, di cui Sofia Vanni Rovighi suggeriva la lettura "per avere un'idea della sua personalità, del suo temperamento affettivo, della profondità del suo senso religioso".

Sembra perciò quasi trovare compimento il desiderio espresso da Giovanni di Salisbury nel prologo alla sua Vita, che di Anselmo scriveva:  "Se uno desidera conoscere - e sarebbe indubbiamente utile per tutti - quanto grande egli sia stato, legga con attenzione i libri da lui scritti su vari temi e le sue lettere; faccia passare la storia scritta su di lui e sui recenti re degli inglesi, compresi i due libri sulla sua vita e la sua condotta stesi con stile accurato e con estrema oggettività dal venerabile monaco e presbitero Eadmero"; l'Historia Novorum in Anglia, di prossima edizione per la cura di Antonio Tombolini, metterà a disposizione un'ulteriore fonte per la conoscenza e lo studio del santo  di Aosta, Le Bec e Canterbury.



(©L'Osservatore Romano - 20-21 aprile 2009)


Due messaggi del Papa per il IX centenario della morte

Anselmo d'Aosta
maestro dell'intelligenza della fede



L'intelligenza della fede, la chiarezza della verità, la ragionevolezza del mistero di Dio. Nel pensiero di sant'Anselmo - il grande monaco, teologo e vescovo di cui ricorre il 21 aprile il nono centenario della morte - la ricerca dell'intelletto è orientata costantemente a "innalzare la mente alla contemplazione di Dio". Lo ricorda Benedetto XVI in due messaggi indirizzati all'abate primate dei benedettini confederati, Notker Wolf, e al cardinale Giacomo Biffi, arcivescovo emerito di Bologna e suo inviato speciale alle celebrazioni in corso in questi giorni ad Aosta.

Riproponendo quello che può definirsi il motto metodologico della ricerca teologica di Anselmo - "non cerco di capire per credere, ma credo per capire" - il Papa sottolinea il valore del suo "metodo originale nel ripensare il mistero cristiano", evidenziandone in particolare l'impegno per la "liberazione della Chiesa dai condizionamenti temporali e dalle servitù di calcoli non compatibili con la sua natura spirituale". Fu pastore d'anime - rileva Benedetto XVI - ma nel suo intimo rimase sempre monaco benedettino. Egli stesso si definiva fratello, peccatore per vita, monaco per abito e, per ordine e per concessione di Dio, chiamato a essere arcivescovo di Canterbury.

Anselmo fu tra i primi a comprendere  pienamente  il  significato  della lectio divina, uno dei cardini della vita benedettina. Guardando al suo insegnamento, il Papa ricorda come il collegio a lui dedicato - fondato da Papa Leone XIII - fu concepito proprio per coltivare i principi della dottrina anselmiana, in particolare quelli che riguardano la vita monastica e l'azione dell'intelletto. L'ateneo - nota il Pontefice - è frequentato anche da non cattolici e questo rivela la sua autentica dimensione internazionale.




(©L'Osservatore Romano - 22 aprile 2009)


CARD. BIFFI: I “TRE DONI” DI SANT’ANSELMO

La “percezione del mondo invisibile”, la consapevolezza che “la fede non solo non è separabile dalla ragione e non la mortifica, ma è addirittura l’esercizio estremo e più alto della nostra facoltà intellettiva” e la coscienza della “funzione primaria e insostituibile della Sede di Pietro”.

Sono questi, in sintesi, i “tre doni” di Sant’Anselmo “singolarmente opportuni per questa nostra epoca confusa e inquieta”, in cui spesso siamo “costretti ad ascoltare dai più diversi pulpiti la voce baldanzosa dei molti profeti del niente e i discorsi dei compiaciuti assertori di un destino umano senza plausibilità, senza significato, senza speranza”.

Ad illustrarli è stato il card. Giacomo Biffi, inviato speciale del Papa per le celebrazioni del IX centenario della morte di Sant’Anselmo. “Un instancabile ricercatore di Dio, anelante a un’esistenza ricca di senso e soprannaturalmente motivata”; “un monaco esemplare”; “un pastore coraggioso e saggio, innamorato della sua Chiesa”.

Questo il ritratto tracciato dal cardinale, nell’omelia della messa celebrata questo pomeriggio nella cattedrale di Aosta, in cui Biffi ha ripercorso le tappe della biografia del santo, esortando i teologi, gli “uomini di cultura” e l’”intero popolo dei credenti” a “tornare ad ascoltare con nuova diligenza il suo magistero”.
“Fin dalla sua prima età – ha detto il cardinale – Anselmo ebbe acutissima la percezione del mondo invisibile”, che è “il mondo che ci trascende, ma anche ci è vicino e dà senso e scopo alla nostra vicenda di creatore mortali”.

“E’ indispensabile che non vi sfuggano mai le vere dimensioni dell’esistente”, l’ammonimento di Sant’Anselmo: “Quando ci prede la depressione e lo scoraggiamento alla vista di ciò che avviene sotto il cielo, dentro e fuori la cristianità – le parole di Biffi – il rimedio più decisivo davanti a tale spettacolo deludente sta proprio nel ripensare all’effettiva estensione dell’universo, che comprende appunto quel mondo invisibile che è già vittorioso sul male ed è già nostro”.

Quanto al rapporto tra fede e ragione, Sant’Anselmo è “riconosciuto maestro” della “intelligenza della fede”, lezione importante “nella cultura odierna, condizionata e dominata da un soggettivismo assoluto”, e in cui “le domande più serie, quando non sono censurate sul nascere dalle varie ideologie dominanti, sono consentite solo come premessa e impulso alla proliferazione dei dubbi”.

Infine, da segnalare secondo il card. Biffi è la “fedeltà intemerata” dell’arcivescovo di Canterbury al Romano Pontefice, che “gli costò a più riprese il disagio e l’amarezza dell’esilio”.


[SM=g1740733]
[Modificato da Caterina63 21/04/2009 20:42]
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Solenne Eucaristia nell’ambito delle Celebrazioni del IX centenario della morte di S.Anselmo

Inviato Speciale di S.S. Benedetto XVI nella Cattedrale di Aosta


Mi è caro e doveroso manifestare la mia riconoscenza al Padre del cielo, elargitore di ogni “buon regalo e ogni dono perfetto (cf. Gc 1,17), per la gioia che mi è data di essere qui con voi e di presiedere questo rito che ricorda ed esalta un uomo di Dio straordinario e affascinante come sant’Anselmo, gloria inalienabile di questa Chiesa e di questa città, nel nono centenario del suo beato transito alla vita eterna.
E sono grato al nostro papa Benedetto, che mi ha riservato il privilegio di rappresentarlo, come suo inviato speciale, in questa bella circostanza, affidandomi insieme il compito di portare il suo saluto, affettuoso e benedicente, al carissimo vostro vescovo, Monsignor Giuseppe Anfossi, a tutte le autorità di ogni ordine e grado, a quanti oggi sono qui convenuti e con la loro presenza accrescono il calore e la solennità di questa celebrazione.

* * *

La splendente e fervida avventura umana di Anselmo, pur connotata sempre da un’assoluta coerenza interiore, si sviluppa in tre tempi, tra loro dissimili e lontani per diversità di compiti, di attenzioni, di responsabilità.
All’inizio ci sono gli anni vissuti in questa sua terra natale, gli anni dell’infanzia, dell’adolescenza e della prima giovinezza. In essi egli si rivela già un instancabile ricercatore di Dio, anelante a un’esistenza ricca di senso e soprannaturalmente motivata.
Il secondo periodo, che si protrae per trent’anni, si colloca nell’abbazia di Bec, in Normandia, dove è prima di tutto un monaco esemplare. Poi, come priore e come abate, ha modo di manifestare le sue doti di educatore e pedagogo originale, di sapiente maestro nella vita di preghiera, di formidabile ragionatore, oltre che di indagatore intelligente e geniale della verità rivelata.
Infine, negli ultimi sedici anni, divenuto arcivescovo di Canterbury e primate d’Inghilterra, si rivela pastore coraggioso e saggio, innamorato della sua Chiesa, che egli difende dalle prepotenze e dall’avidità dei re normanni Guglielmo il Rosso ed Enrico I, eredi in questo e degni figli di Guglielmo il Conquistatore.
L’intero suo pellegrinaggio terreno è stato fecondo di insegnamenti mirabili e di esempi preziosi.
E’ naturale perciò formulare oggi l’auspicio che questo centenario sia occasione per quanti aspirino a essere davvero “teologi”, per la multiforme schiera degli uomini di cultura, per l’intero popolo dei credenti, di tornare ad ascoltare con nuova diligenza il suo magistero e di esplorarne con cura i tesori di verità e di grazia che egli ci offre.
Noi però, nel breve spazio di un’omelia, dobbiamo limitarci a considerare solo tre ammonimenti, dei quali Anselmo ci può oggi gratificare, uno per ogni tratto del suo itinerario ecclesiale: quasi tre “doni”, singolarmente opportuni per questa nostra epoca confusa e inquieta.

* * *

Fin dalla sua prima età Anselmo ebbe acutissima la percezione del mondo invisibile, cioè di quella realtà che vive e palpita di là dalla scena appariscente e chiassosa delle cose e degli accadimenti di quaggiù: è il mondo dove regna la Trinità augustissima; è il mondo affollato da schiere di creature felici; è il mondo che ci trascende, ma anche ci è vicino e dà senso e scopo alla nostra vicenda di creature mortali.
Egli era - nota il suo biografo Eadmero - “un fanciullo cresciuto tra i monti” (“inter montes nutritus”), e si figurava che le alte cime innevate che circondavano la sua città fossero i fondamenti e i pilastri di sostegno della casa misteriosa dove il Signore dimorava con i suoi angeli e con tutti i santi. Una notte sognò addirittura di essere riuscito ad ascendere fin lassù e di essere arrivato al cospetto della maestà divina.
Questa è la prima lezione che vogliamo raccogliere. Quando nel Credo affermiamo che Dio è creatore di tutte le cose “visibili e invisibili”, richiamiamo non solo la verità di fede dell’origine di ogni essere da colui che è causa di tutto, ma anche esprimiamo una persuasione, per così dire, preliminare e complessiva: e cioè che la realtà totale è molto più vasta di quella che attingiamo con la semplice conoscenza naturale, sostanziata solo di esperienza sensibile, di ragionamento induttivo e deduttivo, di calcolo matematico.
Anselmo oggi dunque ci dice: è indispensabile che non vi sfuggano mai le vere dimensioni dell’esistente.
Per chi sa mantenere vivace e pungente nella sua consapevolezza l’idea del mondo invisibile, diventa naturale un abituale atteggiamento di ascolto: ascolto della divina Rivelazione su quanto sta di là dalla ridda di ombre, di figure, di casi fortuiti, di aberrazioni, nella quale siamo immersi; e, più ampiamente, ascolto di ciò che ci viene detto in vari modi dallo Spirito Santo, che è l’attore nascosto ma primario della nostra storia più vera.
Quando ci prende, come può capitare, la depressione e lo scoraggiamento alla vista di ciò che avviene sotto il cielo, dentro e fuori la cristianità, il rimedio più decisivo davanti a tale spettacolo deludente sta proprio nel ripensare all’effettiva estensione dell’universo, che comprende appunto il mondo invisibile; quel mondo invisibile che è già vittorioso sul male ed è già nostro; quel mondo invisibile che è colmo ed esuberante di una sovrumana energia da cui (anche quando non ce ne accorgiamo) viene senza soste investita la terra.

* * *

Un secondo non trascurabile insegnamento concerne il rapporto tra fede e ragione.
Ai nostri giorni non sono pochi - e non sono tra i meno sicuri di sé e i meno loquaci - quelli che giudicano fede e ragione due forme di cognizione tra loro incompatibili e del tutto alternative: chi ragiona (essi affermano) non ha bisogno di credere; e chi crede per ciò stesso esce dall’ambito della razionalità (così ritengono con irremovibile e dogmatica convinzione).
Anselmo rabbrividirebbe davanti a questo atteggiamento mentale. Per lui - e per ogni cristiano adeguatamente informato - la fede non solo non è separabile dalla ragione e non la mortifica, ma è addirittura l’esercizio estremo e più alto della nostra facoltà intellettiva.
D’altro canto nella cultura odierna, condizionata e dominata da un soggettivismo assoluto, si va affermando altresì una visione pessimistica della naturale conoscenza umana. L’uomo (così pensano in molti) non è in grado di approdare a nessuna verità, che non sia provvisoria e intrinsecamente relativa.
Quando si tratta delle questioni che contano - sulla nostra origine, sulla sorte ultima dell’uomo, su una qualche persuasiva ragione del nostro esistere - le certezze oggi vengono addirittura irrise e persino colpevolizzate. Le domande più serie, quando non sono censurate sul nascere dalle varie ideologie dominanti, sono consentite solo come premessa e impulso alla proliferazione dei dubbi. Ma così si estingue nell’uomo ogni necessaria fiducia: come possiamo rassegnarci ad aggrappare la nostra unica vita ai punti interrogativi che non hanno risposta?
Anselmo invece riconosce la dignità e l’efficacia della ragione. Per lui - e per tutti i discepoli di Gesù - la ragione va onorata già per se stessa come un grande dono di Dio. In più, essa entra come elemento costitutivo indispensabile nell’atto di fede, e resta come elemento costitutivo indispensabile di quella “intelligenza della fede” nella quale Anselmo è riconosciuto maestro.

* * *

C’è un terzo ammonimento che Anselmo rivolge alla vita ecclesiale dei nostri giorni: non perdete mai di vista, egli ci esorta, la funzione primaria e insostituibile della Sede di Pietro.
Durante la lunga e aspra lotta per salvare la “libertas Ecclesiae” dalle invadenze arbitrarie del potere politico, il Primate d’Inghilterra rimane solo. “Anche i miei vescovi suffraganei - egli scrive con qualche malinconia - non mi davano altri consigli che quelli conformi alla volontà del re” (Epistola 210). Allora cerca, e ottiene, l’appoggio, l’incoraggiamento, la difesa del vescovo di Roma, cui fiduciosamente ricorre.
Anselmo sa che a Pietro e ai suoi successori (e non ad altri) Gesù ha detto: “Conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,32); sa che a Pietro e ai suoi successori (e non ai vari opinionisti nella “sacra doctrina”, per quanto dotti e geniali) Gesù ha promesso: “Tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli” (Mt 16,19); sa che a Pietro e ai suoi successori (e non all’una o all’altra colleganza ecclesiastica o culturale) Gesù ha dato il compito di pascere l’intero suo gregge (cf Gv 21,17).
Egli lo sa, e anche noi non dobbiamo mai dimenticarlo: la Sede Apostolica è sempre il normale punto di riferimento e l’ultimo insindacabile giudizio per ogni problema che riguarda la verità rivelata, la disciplina ecclesiale, l’indirizzo pastorale da scegliere.
L’arcivescovo di Canterbury ricambiò poi l’aiuto ricevuto dal Romano Pontefice con una fedeltà intemerata, che tra l’altro gli costò a più riprese il disagio e l’amarezza dell’esilio.

* * *

Anselmo d’Aosta, come si vede, ha un posto prestigioso e benefico nella storia della Chiesa, nella storia della santità, nella storia del pensiero umano; e noi diciamo grazie al Signore che ce lo ha suscitato.
Oggi ancora è una figura e una personalità davvero attuale. Sicché ci viene spontaneo contare sulla sua intercessione presso Dio a favore di questi nostri tempi; di questi nostri tempi che così spesso sono costretti ad ascoltare dai più diversi pulpiti la voce baldanzosa dei molti profeti del niente e i discorsi dei compiaciuti assertori di un destino umano senza plausibilità, senza significato, senza speranza.

Dal sito dell'Arcidiocesi di Bologna


[SM=g1740733]
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05/08/2011 19:32
 
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[SM=g1740733] Amici, ricordando a tutti la serie di video che stiamo postando per dispiegare la Pietà Popolare e la Devozione, qui nel terzo video dedicato alle LITANIE ,
it.gloria.tv/?media=181749

vi offriamo una breve pausa per inserire nel contesto la bellissima Udienza del santo Padre Benedetto XVI, di Mercoledì scorso, dedicata all'invito urgente a LEGGERE LA BIBBIA.... e a leggere i Vangeli "di seguito"...
Questi suggerimenti del Papa sono davvero preziosi, oltre che urgenti, non sprechiamo questa occasione, impariamo a conoscere davvero la Bibbia ed offriamola al Prossimo perchè, come ci rammenta Gesù: non di solo pane vive l'uomo, ma di OGNI PAROLA CHE ESCE DALLA BOCCA DI DIO....

Grazie Santo Padre!!
Movimento Domenicano del Rosario
www.sulrosario.org
info@sulrosario.org


L’UDIENZA GENERALE, 03.08.2011

Alle ore 10.30 di oggi, nella Piazza della Libertà antistante il Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo, il Santo Padre Benedetto XVI ha incontrato i fedeli ed i pellegrini convenuti per l’Udienza Generale del mercoledì.
Nel discorso in lingua italiana, il Papa - nell’ambito del ciclo di catechesi sulla preghiera - ha invitato i fedeli a leggere, in questi mesi estivi, un libro della Bibbia. Quindi ha rivolto un saluto in varie lingue ai gruppi di pellegrini presenti.
L’Udienza si è conclusa con il canto del Pater Noster e la Benedizione Apostolica.




CATECHESI DEL SANTO PADRE IN LINGUA ITALIANA

Cari fratelli e sorelle!

Sono molto lieto di vedervi qui in piazza in Castel Gandolfo e di riprendere le udienze interrotte nel mese di luglio.
Io vorrei continuare con il tema che abbiamo iniziato, cioè una "scuola di preghiera", e anche oggi, in un modo un po’ diverso, senza allontanarmi dal tema, accennare ad alcuni aspetti di carattere spirituale e concreto, che mi sembrano utili non solo per chi vive - in una parte del mondo - il periodo delle ferie estive, come noi, ma anche per tutti coloro che sono impegnati nel lavoro quotidiano.

Quando abbiamo un momento di pausa nelle nostre attività, in modo speciale durante le vacanze, spesso prendiamo in mano un libro, che desideriamo leggere. E’ proprio questo il primo aspetto, su cui oggi vorrei soffermarmi. Ognuno di noi ha bisogno di tempi e spazi di raccoglimento, di meditazione, di calma… Grazie a Dio che è così! Infatti, questa esigenza ci dice che non siamo fatti solo per lavorare, ma anche per pensare, riflettere, oppure semplicemente per seguire con la mente e con il cuore un racconto, una storia in cui immedesimarci, in un certo senso "perderci" per poi ritrovarci arricchiti.

Naturalmente molti di questi libri di lettura, che prendiamo in mano nelle vacanze, sono per lo più di evasione, e questo è normale. Tuttavia, varie persone, particolarmente se possono avere spazi di pausa e di relax più prolungati, si dedicano a leggere qualcosa di più impegnativo. Vorrei allora fare una proposta: perché non scoprire alcuni libri della Bibbia, che normalmente non sono conosciuti? O di cui forse abbiamo ascoltato qualche brano durante la Liturgia, ma che non abbiamo mai letto per intero? In effetti, molti cristiani non leggono mai la Bibbia, e hanno di essa una conoscenza molto limitata e superficiale.

La Bibbia – come dice il nome – è una raccolta di libri, una piccola "biblioteca", nata nel corso di un millennio. Alcuni di questi "libretti" che la compongono rimangono quasi sconosciuti alla maggior parte delle persone, anche buoni cristiani.

Alcuni sono molto brevi, come il Libro di Tobia, un racconto che contiene un senso molto alto della famiglia e del matrimonio; o il Libro di Ester, in cui la Regina ebrea, con la fede e la preghiera, salva il suo popolo dallo sterminio; o, ancora più breve, il Libro di Rut, una straniera che conosce Dio e sperimenta la sua provvidenza. Questi piccoli libri si possono leggere per intero in un’ora.

Più impegnativi, e autentici capolavori, sono il Libro di Giobbe, che affronta il grande problema del dolore innocente; il Qoèlet, che colpisce per la sconcertante modernità con cui mette in discussione il senso della vita e del mondo; il Cantico dei Cantici, stupendo poema simbolico dell’amore umano. Come vedete, questi sono tutti libri dell’Antico Testamento.

E il Nuovo? Certo, il Nuovo Testamento è più conosciuto, e i generi letterari sono meno diversificati. Però, la bellezza di leggere un Vangelo tutto di seguito è da scoprire, come pure raccomando gli Atti degli Apostoli, o una delle Lettere.

In conclusione, cari amici, oggi vorrei suggerire di tenere a portata di mano, durante il periodo estivo o nei momenti di pausa, la santa Bibbia, per gustarla in modo nuovo, leggendo di seguito alcuni suoi Libri, quelli meno conosciuti e anche quelli più noti, come i Vangeli, ma in una lettura continuata.

Così facendo i momenti di distensione possono diventare, oltre che arricchimento culturale, anche nutrimento dello spirito, capace di alimentare la conoscenza di Dio e il dialogo con Lui, la preghiera. E questa sembra essere una bella occupazione per le ferie: prendere un libro della Bibbia, così avere un po' di distensione e, nello stesso tempo, entrare nel grande spazio della Parola di Dio e approfondire il nostro contatto con l'Eterno, proprio come scopo del tempo libero che il Signore ci dà.

www.gloria.tv/?media=182246




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[Modificato da Caterina63 05/08/2011 19:33]
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[SM=g1740758] B. Giovanni Paolo II, L'Anti-verbo o l'Anti-verità.


Secondo la testimonianza dell'inizio, che troviamo nella Scrittura e nella Tradizione, dopo la prima (ed anche più completa) descrizione nel Libro della Genesi il peccato nella sua forma originaria è inteso come «disobbedienza», il che significa semplicemente e direttamente trasgressione di un divieto posto da Dio. Ma alla luce di tutto il contesto è pure palese che le radici di questa disobbedienza vanno ricercate in profondità nell'intera situazione reale dell'uomo.
Chiamato all'esistenza, l'essere umano - uomo e donna - è una creatura. L'«immagine di Dio», consistente nella razionalità e nella libertà, dice la grandezza e la dignità del soggetto umano, che è persona. Ma questo soggetto personale è pur sempre una creatura: nella sua esistenza ed essenza dipende dal Creatore.

Secondo la Genesi, «l'albero della conoscenza del bene e del male» doveva esprimere e costantemente ricordare all'uomo il «limite» invalicabile per un essere creato. In questo senso va inteso il divieto da parte di Dio: il Creatore proibisce all'uomo e alla donna di mangiare i frutti dell'albero della conoscenza del bene e del male. Le parole dell'istigazione, cioè della tentazione, come è formulata nel testo sacro, inducono a trasgredire questo divieto - cioè a superare quel «limite»: «Quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio («come dèi») conoscendo il bene e il male».

La «disobbedienza» significa appunto il superamento di quel limite, che rimane invalicabile alla volontà e libertà dell'uomo, come essere creato. Dio creatore è, infatti, l'unica e definitiva fonte dell'ordine morale nel mondo, da lui creato. L'uomo non può da se stesso decidere ciò che è buono e ciò che è cattivo - non può «conoscere il bene e il male, come Dio». Sì, Dio nel mondo creato rimane la prima e suprema fonte per decidere del bene e del male, mediante l'intima verità dell'essere, la quale è il riflesso del Verbo, l'eterno Figlio, consostanziale al Padre. All'uomo creato ad immagine di Dio lo Spirito Santo dà in dono la coscienza, affinché in essa l'immagine possa rispecchiare fedelmente il suo modello, che è insieme la sapienza e la legge eterna, fonte dell'ordine morale nell'uomo e nel mondo.
La «disobbedienza», come dimensione originaria del peccato, significa rifiuto di questa fonte, per la pretesa dell'uomo di diventare fonte autonoma ed esclusiva nel decidere del bene e del male. Lo Spirito, che «scruta le profondità di Dio» e che, al tempo stesso, è per l'uomo la luce della coscienza e la fonte dell'ordine morale, conosce in tutta la sua pienezza questa dimensione del peccato, che si inscrive nel mistero dell'inizio umano. E non cessa di «convincerne il mondo» in rapporto alla Croce di Cristo sul Golgota.

 

 Secondo la testimonianza dell'inizio, Dio nella creazione ha rivelato se stesso come onnipotenza, che è amore. Nello stesso tempo ha rivelato all'uomo che, come «immagine e somiglianza» del suo Creatore, egli è chiamato a partecipare alla verità e all'amore. Questa partecipazione significa una vita di unione con Dio, che è la «vita eterna». Ma l'uomo, sotto l'influenza del «padre della menzogna», si è distaccato da questa partecipazione. In quale misura?
Certamente non nella misura del peccato di un puro spirito, nella misura del peccato di Satana. Lo spirito umano è incapace di raggiungere una tale misura. Nella stessa descrizione della Genesi è facile notare la differenza di grado tra «il soffio del male» da parte di colui che «è peccatore (ossia permane nel peccato) fin dal principio» e che già «è stato giudicato», ed il male della disobbedienza da parte dell'uomo. Questa disobbedienza, tuttavia, significa pur sempre il voltare le spalle a Dio e, in un certo senso, il chiudersi della libertà umana nei suoi riguardi. Significa anche una certa apertura di questa libertà - della conoscenza e della volontà umana - verso colui che è il «padre della menzogna». Questo atto di scelta consapevole non è solo «disobbedienza», ma porta con sé anche una certa adesione alla motivazione contenuta nella prima istigazione al peccato e incessantemente rinnovata durante tutta la storia dell'uomo sulla terra:

«Dio sa che, quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male».

Ci troviamo qui al centro stesso di ciò che si potrebbe chiamare l'«anti-Verbo», cioè l'«anti-verità». Viene, infatti, falsata la verità dell'uomo: chi è l'uomo e quali sono i limiti invalicabili del suo essere e della sua libertà. Questa «anti-verità» è possibile, perché nello stesso tempo viene falsata completamente la verità su chi è Dio. Il Dio creatore viene posto in stato di sospetto, anzi addirittura in stato di accusa, nella coscienza della creatura. Per la prima volta nella storia dell'uomo appare il perverso «genio del sospetto». Esso cerca di «falsare» il Bene stesso, il Bene assoluto, che proprio nell'opera della creazione si è manifestato come il bene che dona in modo ineffabile: come bonum diffusivum sui, come amore creativo. Chi può pienamente «convincere del peccato», ossia di questa motivazione della disobbedienza originaria dell'uomo, se non colui che solo è il dono e la fonte di ogni elargizione, se non lo Spirito, che «scruta le profondità di Dio» ed è l'amore del Padre e del Figlio?

 

Infatti, malgrado tutta la testimonianza della creazione e dell'economia salvifica ad essa inerente, lo spirito delle tenebre è capace di mostrare Dio come nemico della propria creatura e, prima di tutto, come nemico dell'uomo, come fonte di pericolo e di minaccia per l'uomo. In questo modo viene innestato da Satana nella psicologia dell'uomo il germe dell'opposizione nei riguardi di colui che

«sin dall'inizio» deve essere considerato come nemico dell'uomo - e non come Padre. L'uomo viene sfidato a diventare l'avversario di Dio! L'analisi del peccato nella sua originaria dimensione indica che, ad opera del «padre della menzogna»,

vi sarà lungo la storia dell'umanità una costante pressione al rifiuto di Dio da parte dell'uomo, fino all'odio: «Amore di sé fino al disprezzo di Dio», come si esprime sant'Agostino. L'uomo sarà incline a vedere in Dio prima di tutto una propria limitazione, e non la fonte della propria liberazione e la pienezza del bene. Ciò vediamo confermato nell'epoca moderna, nella quale le ideologie atee tendono a sradicare la religione in base al presupposto che essa determini una radicale «alienazione» dell'uomo come se l'uomo venisse espropriato della propria umanità, quando, accettando l'idea di Dio, attribuisce a lui ciò che appartiene all'uomo, ed esclusivamente all'uomo!

Di qui un processo di pensiero e di prassi storico-sociologica, in cui il rifiuto di Dio è pervenuto fino alla dichiarazione della sua «morte».
Un'assurdità, questa, concettuale e verbale! Ma l'ideologia della «morte di Dio» minaccia piuttosto l'uomo, come indica il Vaticano II, quando, sottoponendo ad analisi la questione dell'«autonomia delle cose temporali», scrive: «La creatura... senza il Creatore svanisce... Anzi, l'oblio di Dio priva di luce la creatura stessa». L'ideologia della «morte di Dio» nei suoi effetti dimostra facilmente di essere, sul piano teoretico e pratico, l'ideologia della «morte dell'uomo»".

 

 

B. Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Dominum et vivificantem, 36-38.

 



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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