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1506/2006 i 500 Anni del Cupolone

Ultimo Aggiornamento: 05/04/2011 23:24
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Wink Buon Compleanno ar....Cupolone
ANNIVERSARIO

Fra pochi mesi la Basilica di San Pietro compie 500 anni: era il 1506 quando Giulio II diede il via alla costruzione

5 secoli di Cupolone



L’edificio preesistente era gravemente danneggiato. Alla nuova opera collaborarono i più grandi artisti dell’epoca:
da Bramante a Raffaello, da Michelangelo a Maderno e Bernini

Di Marco Bussagli

Mancano ormai poco più di sei mesi a quel fatidico 17 aprile, quando la Basilica di San Pietro in Vaticano compirà esattamente cinquecento anni. Fu in quel giorno del 1506, infatti, che papa Giulio II della Rovere scese nelle fondamenta della basilica costantiniana e, con uno stuolo di cardinali, si diresse alla base di quello che sarebbe divenuto l'attuale Pilastro della Veronica dove depositò la prima pietra. Con questo gesto il pontefice voleva rinnovare i fasti di Roma sotto la Croce di Cristo che, con quel pontificato, a buon bisogno, poteva diventare anche una spada. Il primo di tutti gli apostoli, quello sul quale Gesù aveva promesso di edificare la propria Chiesa, così, avrebbe avuto l'edificio più grande e maestoso del mondo cristiano, al centro del quale, nelle intenzioni del pontefice doveva esserci nientemeno che la propria tomba, da Papa della Rovere commissionata a Michelangelo.

Insomma, quel che il pontefice aveva in mente era una sorta d'immenso mausoleo per San Pietro e per il suo più recente rappresentante. Intendiamoci bene, il San Pietro che aveva fatto costruire l'imperatore Costantino a cominciare dal 315 era un edificio altrettanto imponente. Si trattava, infatti, di un'immensa basilica a cinque navate, con un transetto a T, preceduta da un portico ugualmente grande, al centro del quale stava la celebre Pigna (quella stessa che oggi si trova nel cortile dei palazzi vaticani) dove i pellegrini posavano la mano al termine del loro viaggio.

Un'idea di come fosse quel San Pietro possiamo farcela grazie a diverse testimonianze, a cominciare dai disegni di Giacomo Grimaldi (Biblioteca Apostolica vaticana, cod. Bar. 2733) che riprodusse l'edificio prima delle demolizioni volute da papa Giulio. Infatti, nonostante le cure costanti e le migliorie via via realizzate, come la loggia benedizionale voluta da Bonifacio VIII (1294-1303), la più importante chiesa della cristianità rischiava di rovinare al suolo. Fu Niccolò V (1447-1455) a decidere per il rif acimento che iniziò in maniera sistematica solo dal 1506. Lo schema seguito fu, in un primo tempo, quello della croce gammata di Gerusalemme progettato da Donato Bramante. L'idea, come è stato dimostrato, era quella di assimilare San Pietro alla Gerusalemme celeste sicché la pianta a croce greca aveva, negli spazi di risulta, quattro cappelle, più piccole, ma della stessa forma della prima che costituivano la traduzione muraria dell'emblema della città sacra per eccellenza. Dopo la scomparsa di Bramante nel 1514, si costituì una commissione d'architetti, diretti da Raffaello, e composta da lui stesso, da Giuliano da San Gallo e da Fra' Giocondo da Verona.

Il nuovo progetto abbandonava la soluzione proposta da Bramante e abbracciava l'ipotesi di un pianta basilicale con pronao colonnato. A Raffaello, morto nel 1520, successero Antonio da San Gallo e Baldassarre Peruzzi che modificarono ulteriormente il progetto creando un edificio intermedio fra quelli proposti dagli altri due architetti. Si trattava, infatti, di una chiesa a croce greca che si allungava nel braccio occidentale grazie alla presenza di un'ulteriore cappella. Dell'opera è rimasto anche il suggestivo modello ligneo commissionato nel 1538 da Paolo III Farnese (1534-1549) e realizzato dal San Gallo che impiegò ben otto anni a fabbricarlo. Con la morte di San Gallo, Michelangelo è ufficialmente nominato architetto della Fabbrica di San Pietro. La nomina risale al 1° gennaio 1546 e la carica durerà fino alla scomparsa del grande artista.

Con Michelangelo si arriva ad una soluzione, in parte, definitiva. Il grande toscano, infatti, riprende l'ipotesi bramantesca, ma semplificandola, le conferisce grande maestosità. La pianta è quella a croce greca, ma ora la cupola centrale acquista quel ruolo che ancor oggi tutti possiamo ammirare, nonostante le modifiche successive. Alla morte del Buonarroti si susseguirono Vignola, Ligorio, Giacomo della Porta e Domenico Fontana che eresse al centro di quella che sarebbe divenuta la piazza, l'obelisco. Fu Paolo V (1605-1621) ad obiettare che l'edificio, così com'era concepito, non sarebbe stata in grado di accogliere tutti i pellegrini che vi accorrevano.

Il compito d'ampliarla fu dato a Carlo Maderno che aggiunse un innesto basilicale al corpo michelangiolesco. Il povero architetto ticinese subì per secoli le ingiurie di tutti per aver 'rovinato' il progetto del "divino", ma l'accusa è ingenerosa e l'opera di Maderno apre alla sensibilità barocca che poi Bernini trasfuse nella decorazione interna. Ultimo atto di questa lunghissima vicenda che intreccia fede e arte è il colonnato, voluto da Alessandro VII (1655-1667) per offrire temporaneo ricovero ai fedeli in attesa della benedizione. Bernini lo concepì - ricorda il fratello biografo - «come un abbraccio che doveva avere un triplice valore: per i cattolici per confermarli nella credenza; per gli eretici per riunirli nella Chiesa e per gli infedeli per illuminarli nella vera fede».

È l'abbraccio di Pietro che porta verso il Cristo.

www.avvenire.it

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Un cristiano a Roma

L’attore più caro agli italiani racconta la Roma della sua infanzia, il suo primo Giubileo, gli insegnamenti del catechismo, il suo rapporto con la fede e la confessione. E come, negli anni, i romani hanno guardato al “cupolone” di San Pietro. Intervista


di Roberto Rotondo




In queste pagine Alberto Sordi a Roma. Qui sopra, a piazza San Pietro. Nell’intervista l’attore ricorda quando vide la piazza per la prima volta, all’età di quattro anni



«Avevo quattro anni quando vidi per la prima volta San Pietro e fu proprio per il Giubileo del 1925. Ero in compagnia di mio padre, venivamo da Trastevere, dove ero nato in via San Cosimato e dove vivevo con la mia famiglia. Arrivammo percorrendo i vicoli, che poi furono distrutti, di Borgo Pio: un ammasso di casupole, piazzette, stradine. Poi, dietro l’ultimo muro di una casa che si aprì come un sipario, vidi questa immensa piazza. Il colonnato del Bernini, la cupola. Un colpo di scena da rimanere a bocca aperta. Ecco, quello che ricordo di più di quel Giubileo fu questa sorpresa». Sorride, Alberto Sordi, e non c’è nostalgia stucchevole nel suo racconto. È l’attore più caro agli italiani, quello che ne ha saputo raccontare la storia, i vizi, i pregi e i difetti meglio di tanti professori e intellettuali. Gli si spalancano gli occhi mentre ricorda: è un bambino di settantanove anni per come si entusiasma. «C’è la Roma dei Cesari e del Colosseo, quella dei papi e quella di Alberto Sordi. E prima ancora quella di Trilussa e di Petrolini», ha scritto Enzo Biagi. A giugno Sordi sarà nominato sindaco di Roma per un giorno, quello del suo ottantesimo compleanno, ma come per ogni vero “romano de Roma”, città che ha visto l’ascesa e il declino di papi, re e imperatori, le onoreficenze e le cariche sono sempre molto relative. Sic transit gloria mundi. Basta guardare sulle pareti del suo studio nei pressi di via Veneto (dove ci ha accolto come fossimo di famiglia, cortese ma senza tante inutili cerimonie): si sprecano premi e riconoscimenti avuti nella sua lunga carriera. Insieme alla carica di governatore onorario di Kansas City, ricevuta dalle mani del presidente americano Truman (tanta gloria fu per il successo dello spavaldo Nando Moriconi di Un americano a Roma) e ai premi di tanti festival internazionali, ci sono le targhe-ricordo di semplici gruppi di ammiratori, di serate in piccoli paesi, di amici. Dal Sordi “cattolico, apostolico, romano”, che ha visto passare tanta acqua sotto i ponti del Tevere, vogliamo farci dire come erano vissuti i giubilei del passato dal popolo, e alcune impressioni sull’Anno Santo che stiamo vivendo. Fa subito una premessa: «Noi abbiamo avuto il privilegio di nascere a Roma, e io l’ho praticata come si dovrebbe, perché Roma non è una città come le altre. È un grande museo, un salotto da attraversare in punta di piedi. I potenti che non l’hanno capito hanno prima portato qui tanti ministeri e poi l’hanno trasformata in una città industrializzata… Poi è arrivata tanta gente da fuori… Con la città è cambiato anche il modo di vivere la romanità. Ma quello di un tempo era senza dubbio il più vero».

Com’era la vita a Roma nel 1925, anno del primo Giubileo di Pio XI?

ALBERTO SORDI: Roma allora contava seicentomila abitanti e a Trastevere c’era la tipica atmosfera di un paese. La ricordo come un’isola felice piena di calore. Ci conoscevamo tutti e se a qualcuno capitava qualcosa di bello, era una gioia per tutti; se al contrario qualcuno viveva qualche dolore, aveva intorno tanta gente affettuosa. La vita cominciava all’alba e proseguiva fino a sera in un susseguirsi di avvenimenti e di appuntamenti ben precisi a cui nessuno poteva mancare. La festa del Carmine o quella dell’Immacolata Concezione, per esempio, con l’affluire disordinato e rumoroso dei devoti, per noi bambini erano sempre sinonimo di allegria. E poi c’era l’appuntamento fisso del sabato da Pasquino, una latteria-bar che faceva i maritozzi con la panna e “lo squaglio” di cioccolata. Per noi bambini tutto era stupore, tutto era motivo di curiosità e di commento. Ai nostri occhi ogni piccola cosa che accadeva assumeva un fascino particolare.

Forse era proprio l’essere un bambino che le faceva vedere tutto così…

SORDI: No, non credo. Semplicemente si viveva in maniera più umana. Ad esempio, per gli adulti il rapporto con la propria condizione sociale era più sereno. C’era la povertà ma c’era anche uno spirito di adattamento, un rispetto diverso gli uni per gli altri. Pensi che il “monnezzaro de Trastevere”, il signor Armando, era il primo attore del Teatro La Marmora, dove la domenica si andava a vedere drammoni tipo: Il padrone delle ferriere, Le due orfanelle, I miserabili. Ogni giorno lui si faceva anche sei piani di scale su e giù nei palazzi, con il sacco sulle spalle, strillando: «Monnezza!!». E quando si apriva la porta si diceva: «Oh, signor Armando, buongiorno, ecco ’a monnezza… E che ci prepara domenica?». E Armando rispondeva: «Il padrone delle ferriere». «Ah, grande! Complimenti, signor Armando, bravo». E questo era “er monnezzaro”! Oggi, anche se li chiamiamo “operatori ecologici” per non offenderli, nessuno vuol fare questo lavoro perché si sente declassato. La dignità, la considerazione allora erano un’altra cosa.

Questi sono anche gli anni della sua prima educazione cattolica in famiglia. Cosa ricorda?

SORDI: Il mio rapporto con il Padreterno si basa proprio sull’educazione che fin da piccolo i miei genitori mi hanno dato così come mi hanno insegnato a camminare e a parlare. Mi ritengo un uomo fortunato per questo. Mia madre era una donna rassicurante e affettuosa ma anche decisa. Seguiva alla lettera gli insegnamenti della Chiesa cattolica: era praticante convinta e si adoperava per gli altri tanto da farsi benvolere da tutto il quartiere. Era maestra elementare, anche se smise appena cominciò ad avere figli. Io la vedevo come la Madonna, senza peccato: per questo cercavo di preservarla da ogni dolore raccontandole, a volte, pietose bugie. Anche se lei mi vedeva come un angioletto, io avevo una predisposizione a tutto ciò che era proibito, e i pasticci me li andavo a cercare.

E i suoi primi contatti con la Chiesa?

SORDI: Ho cominciato da piccolo a frequentare il circolo cattolico della mia zona, e tutto quello che ho assimilato con il catechismo anche oggi lo metto in pratica giorno per giorno. Da allora non ho mai provato il minimo ripensamento: vado a messa, mi confesso, prego ogni giorno, credo nei dogmi e non li discuto. È bello credere, e non si crede facendo tanti ragionamenti: io sono cristiano, la vita mi ha sempre più convinto che il cristianesimo è vero. Che bisogno c’è di ragionarci su?


Eppure lei non è mai stato quello che si dice un “bacchettone”, e la sua vita non è stata quella di una “dama di san Vincenzo”…

SORDI: (ridendo) Certo non mi ritengo un santo, ma per questo c’è la confessione… La nostra pratica religiosa è sempre accompagnata dalla confessione: vieni perdonato dal prete, poi ricadi nello stesso peccato e torni a confessarti facendo il proposito di non ricaderci più. E stai di nuovo come un santo. L’importante è essere sinceri e non barare con il Padreterno. Tanto, dove non arrivo io arriva lui! Questo è quello che mi insegnavano al catechismo, ed erano anni in cui anche se andavi a vedere uno spettacolo di rivista dovevi poi confessarti…
Tornando a quando ero un bambino, ricordo che andavo spesso a fare il chierichetto a Santa Maria in Trastevere (dove una volta fui benedetto dopo essere uscito indenne da sotto le ruote di un furgone che mi aveva investito). Avevo sei anni, ma già vivevo nei miei sogni d’artista, e il fatto che volevo fare l’attore era noto a tutto il quartiere. Non riuscivo a resistere alla smania di comparire, di esibirmi, e lo facevo anche servendo la messa. Immaginavo che i fedeli in preghiera fossero il mio pubblico: agitavo l’incensiere, facevo piroette e cantavo a voce altissima; e ogni tanto il parroco scendeva dall’altare e diceva: «Ma che sta’ a fa’?». E volavano sonori schiaffoni, con la gente che rideva. Poi in sagrestia chiedevo perdono, ma il parroco mi diceva: «Ma che perdono e perdono, guarda che non stai mica sul palcoscenico. E vabbé che voi diventà n’attore… ma io la messa nun te la faccio più servì». I preti ci hanno insegnato tutto, la socializzazione, l’equilibrio tra il bene e il male, il piacere del perdono dopo uno strappo alle regole. Certo, oggi è tutto cambiato: la messa non è più in latino, ci sono le chitarre in chiesa, il prete dice messa rivolto ai fedeli come se si esibisse davanti al pubblico… j’ avessi dato io l’idea?
Non mi ritengo certo un santo, ma per questo c’è la confessione… E stai di nuovo come un santo. L’importante è essere sinceri


A proposito di spettacolarizzazione. Cosa ne pensa dell’inizio del Giubileo del 2000?

SORDI: Ripensando ai giubiei del passato, che erano solo eventi religiosi e non un pretesto per altro, un certo effetto me l’ha fatto… Ma d’altra parte ormai è un avvenimento solo quello che va in televisione. Siamo diventati una società esibizionista per effetto del piccolo schermo. Vedi la gente comune che si esibisce e saluta felice nella telecamera con la smania di uscire dall’anonimato e di mettersi in mostra in ogni occasione. E anche se non ci sono le telecamere, la gente va dove c’è la folla, perché pensa che quello e solo quello sia l’evento. Fanno code sulle autostrade, vanno ad ammucchiarsi sulle spiagge, e i giovani vanno ai concerti, a sentire uno che non si capisce che dice quando canta, solo perché lì si ritrovano in centomila. Così anche la Chiesa può peccare di esibizionismo, di leggerezza, come quando è ossessionata dal problema di catturare il consenso dei giovani.


Come è cambiato in tutti questi anni il rapporto dei romani con il “cupolone”?

SORDI: La Chiesa in questa città è sempre stata importante. E il degrado di Roma ha coinvolto anche la Chiesa. Noi romani ci siamo sempre sentiti più sudditi del papa che dei re o di Mussolini, che non a caso ha subito fatto un concordato. Ci siamo sempre sentiti sudditi di una grande monarchia, orgogliosi del fatto che il papa ce l’avevamo solo noi. In questo abbiamo anche un po’ influenzato il resto del Paese.


Il romano, a volte anche nei suoi film, è stato dipinto come un cinico, un disincantato, un indolente. Con che atteggiamento i romani accoglievano i pellegrini di tante nazioni durante l’anno giubilare?

SORDI: Cinico non direi. È più l’aria di chi ne ha viste tante. L’indolenza è una filosofia che raccomando a tutti: oggi il cittadino romano non esiste più, siamo presi da una vita convulsa, tutti vanno di fretta. A Roma un tempo, se uno passava di corsa, lo prendevano, lo sbattevano contro una porta e gli dicevano: «’Ndo’ scappi?». Perché a Roma, se correvi come un matto, poteva voler dire solo che scappavi. Ma l’indolenza era anche un aspetto della voglia di ragionare sulle cose, di non accettare tutto in maniera ottusa, di non seguire le mode. Oggi non riflettiamo più sulle nostre azioni, trasgrediamo o commettiamo delle crudeltà anche per mancanza di riflessione. Una volta anche solo il fatto di andare a piedi, di salutarsi, di sentirsi parte di una società, aiutava a essere più umani. Arrivando alla sua domanda, c’è poco da dire: il Giubileo noi romani l’abbiamo vissuto sempre con un certo atteggiamento da padroni di casa, da eredi di una città unica, con orgoglio.


Lei ha accennato al fatto che i preti le hanno insegnato tutto… Ci sono diversi rappresentanti del clero tra i suoi tanti personaggi, qualcuno buono e pio, qualcuno molto meno…


SORDI: Ho sempre desiderato far vedere gli uomini come sono nella realtà, con tutti i loro difetti ma anche con i loro pochi pregi, sempre con una certa bonarietà. Comunque, grazie al mio spirito di osservazione, nella fede e nella Chiesa ho trovato anche un modo per sorridere e far sorridere. Uno dei miei primi personaggi era il “compagnuccio della parrocchietta”. Era il 1948: nasceva l’Italia democristiana. Questo era un cocco di mamma tutto casa e chiesa, che in nome della bontà faceva i propri interessi e si infilava dappertutto. Rappresentava un tipo umano che vedevo crescere. Ma sono due i preti più importanti che ho rappresentato: quello di Contestazione generale (del 1970) e il monsignore di Quelle strane occasioni (del 1976). Il primo era un sacerdote “ignorante” nel senso evangelico: un semplice che viveva in un paese arroccato, semideserto, dove c’erano solo una sessantina di vecchie, pure cattive, che scrivevano lettere anonime contro di lui accusandolo di avere una relazione con la cassiera di un bar. E questo soltanto perché lui, poverino, entrava nel bar solo per andarsi a scaldare vicino a una stufetta. Alla fine del film, dopo aver scoperto il mondo esterno attraverso l’incontro con un prete protestante, moderno, che girava in Mercedes ed era pure sposato, viene chiamato dal suo vescovo. Lui, che tra l’altro era rimasto l’unico a vestirsi ancora con la tonaca, si preoccupa che volessero punirlo dopo le ingiuste lettere anonime. Il vescovo, invece, indifferente a tutto ciò, vuole solo dirgli che intende chiudere la sua chiesetta e chiedergli dove vuole essere trasferito. A quel punto il povero prete gli risponde: «Vorrei andare in una grande città, vorrei rendermi anche utile, magari lavorare. E siccome poi sono solo – è morta mamma e m’è zompata pure la stufetta del gas dove mi cucinavo – vorrei vestire un po’ più ordinato e pulito: mi vorrei fare quei vestiti col collettino bianco. E poi, siccome mi sento tanto solo, me vorrei pure sposà». Un personaggio a cui voglio molto bene, che faceva sorridere e commuovere per la sua ingenuità. L’altro è il prete di Quelle strane occasioni: freddo, calcolatore, un monsignore con tanto di calze rosse, che rimane chiuso in ascensore con la santarellina di turno, la Sandrelli. E il monsignore, con la scusa che non siamo padroni del nostro libero arbitrio, le “zompa” addosso. Alla fine, è pure convinto di non aver peccato! Tanto che le lascia il suo biglietto da visita! Certo, non tutti i preti erano e sono così, però erano storie che facevano pensare, che rispecchiavano dei fenomeni, dei cambiamenti che avvenivano nella Chiesa e nella società.


E la Chiesa di oggi, che personaggi potrebbe ispirarle?

SORDI: In realtà, la Chiesa di oggi offre pochi spunti. Un po’ perché i preti tendono a mimetizzarsi, vivono e vestono come laici e si vergognano di mettersi anche una crocetta sul maglione (così non c’è da stupirsi se finisce che il semplice fedele poi si vergogna pure a farsi il segno della croce in pubblico); un po’ perché la gente identifica la Chiesa solo con il Papa… non ci sono altre figure conosciute. Questo Papa fa sì che tutto si concentri su di lui e, non che reciti, ma ha una parte non facile. È stato provato da “un sacco de disgrazie”: gli hanno sparato, poi è cascato, poi quelli che non gli hanno accomodato bene le cose… insomma, è ridotto un ammasso di ossa. Era uno che una volta si tuffava nella piscina, andava a nuotare… voleva somigliare, come uomo, a quelli che praticano sport e che si mantengono in forma, poi invece è stato provato da un sacco di disgrazie. E malgrado questo continua. Ha aperto la Porta Santa piano piano, e, rappresentando la sofferenza, alcune sue espressioni sono arrivate a toccare di più i nostri sentimenti. D’altronde, ci sentiamo orgogliosi di aver conosciuto un uomo che rappresenta il papa così. Ha smentito il detto romano “sto come un papa”, che certo non si riferisce a lui, poveraccio…

Tra i papi qual è quello a cui è più affezionato?

SORDI: Giovanni XXIII. Avevo conosciuto Roncalli quando era patriarca di Venezia, dove andavo in occasione della Mostra del cinema. Fin da allora lo ricordo come una persona molto gentile. Era un Papa a cui tutti i romani si erano affezionati, come ad un buon parroco.

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http://www.30giorni.it/it/articolo.asp?id=8855


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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La storia di come si è sviluppato il modello di San Pietro Basilica

Per lungo tempo fu luogo comune ritenere che la basilica medioevale di San Pietro in Vaticano fosse stata abbattuta a causa delle sue miserevoli condizioni statiche. In realtà, a minarne le fondamenta e ad affrettarne la fine non furono la vecchiaia e il fatto, come si credeva, che fosse stata costruita in fretta e su terreno instabile, bensì lo spirito e le aspirazioni dei tempi mutati. [...]
Fu l'indomito Giulio II della Rovere a decretare la demolizione dell'immenso complesso e ad affidare il progetto della nuova basilica a Donato Bramante, l'architetto che, allora forse più d'ogni altro, conosceva i segreti delle antiche tecniche di edificazione. [...]

Alla morte di Giulio II, avvenuta il 21 febbraio 1513, seguì l'11 marzo dell'anno successivo, quella del Bramante.
Della nuova basilica erano stati innalzati i quattro giganteschi piloni e girati i quattro grandi archi che dovevano sostenere la cupola; era stato quasi compiuto il braccio di croce occidentale ed era stato iniziato quello meridionale.
I vent'anni che seguirono la morte del Bramante furono di non facile pontificato.
I lavori della fabbrica del nuovo San Pietro si arrestarono e perfino il progetto dell'architetto urbinate fu messo in discussione dallo stesso successore di lui, Raffaello, al quale, nella circostanza, erano stati affiancati Giuliano da Sangallo e Fra Giocondo da Verona. Dopo le tristi vicende del "sacco di Roma", nel 1527, che ridussero il papato in spaventevole miseria, si temette per la prosecuzione dei lavori della basilica, ma nel 1534 salì sulla cattedra di San Pietro Paolo III Farnese. [...]



Nel 1536 riconfermò nella carica di Architetto Capo della Fabbrica di San Pietro Antonio Cordini, detto comunemente Antonio da Sangallo il Giovane, e gli diede ordine di preparare un nuovo progetto e di attendere, nel frattempo, al restauro e al consolidamento delle fondazioni e delle altre strutture bramantesche; queste, esposte alle intemperie e prive delle mura che avrebbero dovuto sostenerle, presentavano già lesioni, così gravi da far disperare della costruzione della cupola e del resto del tempio.

Solo tre anni più tardi Antonio da Sangallo, che il Vasari definì "Eccellentissimo architettore, che merita non meno di essere lodato e celebrato come le sue opere ne dimostrano, che qualsivoglia altro architettore antico e moderno", perfezionò il progetto da cui si sarebbe potuto realizzare un modello, cioè uno strumento attraverso il quale la committenza e le maestranze, necessariamente in una scala ridotta rispetto al vero, avrebbero potuto vedere, comprendere e dimensionare le idee e le volontà dell'architetto. Il modello ligneo, che Antonio da Sangallo volle fosse realizzato nel rapporto di l:30 circa, perché ogni particolare fosse pienamente leggibile, fu iniziato nel luglio del 1539, dopo che la Congregazione della Fabbrica di San Pietro aveva decretato, in data 27 giugno, "... che gli Architetti non siano soddisfatti dei loro salari sino a che non sia incominciato ... ".

Lungo 736 cm, largo 602 cm e alto 468 cm, il modello venne ultimato verso la fine del 1546, poco dopo la morte dello stesso Sangallo, avvenuta il 3 agosto di quell'anno.

Il lavoro fu eseguito da maestranze dirette dall'architetto Antonio Labacco, stretto collaboratore del Sangallo, in un locale opportunamente allestito a ovest del muro divisorio di Paolo 111, che separava il cantiere della nuova basilica da quanto ancora rimaneva della chiesa medioevale. Alla realizzazione della struttura del modello presero parte, oltre al menzionato Labacco, mastro Guidetto, mastro Bernardo e mastro Paolo, falegnami, mentre gli elementi architettonici e decorativi furono commissionati a tornitori e intagliatori esterni. Per la supervisione il Sangallo ebbe 1000 scudi.

L'interno, che necessariamente doveva tener conto delle preesistenze, è a croce greca inscritta, come risulta dalla disposizione delle quattro braccia uguali, terminanti con absidi. All'esterno il modello si presenta invece a croce latina per il corpo aggiuntovi, unito al vestibolo e fiancheggiato dai due campanili.

La cupola, irta di cuspidi, è a due ordini di colonne e appare più slanciata di quella a un solo ordine ideata dal Bramante.

Il modello, che costò oltre 6000 scudi, fu aspramente criticato da Michelangelo, che il 2 dicembre 1546 visitò San Pietro, entrò nel modello del Sangallo e, nonostante il parere contrario del deputato della Fabbrica, Giovanni Arborino, ordinò la sospensione immediata dei lavori della basilica.

Così, poco dopo il prepotente ingresso di Michelangelo alla Fabbrica, il progetto di Antonio da Sangallo fu abbandonato e il modello venne rapidamente rimosso dalla tribuna e altrove collocato in prossimità della "lumacha", in uno degli stanzoni con volta a cupola, detti ottagoni, la cui costruzione si deve proprio allo stesso Sangallo, e precisamente nell'ottagono corrispondente all'odierno altare di San Basilio.

In seguito il modello fu trasportato, fuori dall'ambito della basilica, in una sala del Belvedere, da dove tornò nuovamente in basilica, in un altro ottagono; per l'esattezza in quello corrispondente all'altare della Trasfigurazione.

Nel 1925 venne smontato un'altra volta ancora, per essere collocato nella sala "D" del Museo Petriano, chiuso il quale fece ritorno in basilica per essere ricomposto in un altro ottagono, quello in corrispondenza all'altare della "Bugia".

Tanti rovinosi spostamenti e vicissitudini furono la causa di non pochi danni, ai quali tentarono di porre rimedio Clemente XI Albani, che nel 1704 fece intraprendere- un accurato restauro, e Leone XI Della Genga, nel 1825. In quest'ultima circostanza fu l'architetto Giuseppe Valadier a soprintendere ai lavori.


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Pierluigi Silvan, 1994


Arrow La Basilica nel 1450 prima dell'incendio



29 GIUGNO: SS. PIETRO E PAOLO




Roma festeggia il 29 giugno di ogni anno i Santi Pietro e Paolo, suoi patroni primari. Speciali cerimonie si svolgono in tutte le chiese cittadine, soprattutto in quelle intitolate ai Principi degli Apostoli


Secondo un’antica e consolidata memoria in Via Ostiense, tra gli odierni numeri civici 106 e 108 e a circa trecento metri dalla Basilica di S. Paolo fuori le mura, avvenne l’ultimo fraterno saluto tra Pietro e Paolo, separati, per essere avviati al martirio.

San Pietro venne condotto nell’antico circo neroniano che all’epoca insisteva dove ora è Piazza San Pietro, per essere crocifisso a testa in giù; il suo corpo fu composto dai discepoli e seppellito in una tomba in piena terra in quella zona.

La povertà della sepoltura faceva molto contrasto con le tombe dei pagani, anch’esse presenti in quell’area sepolcrale.

In seguito, sull’umile tomba sorse un’edicola, poi, l’Imperatore Costatino, agli inizi del IV secolo d. C., fece costruire una basilica imponente a cinque navate che, purtroppo andò distrutta nel periodo medievale.

Fu ricostruita più volte fino al Rinascimento dove artisti insigni furono incaricati del progetto sia di ricostruzione: Maderno, sia di ristrutturazione e arricchimento (cupola): Michelangelo, sia di ampliamento (colonnato): Bernini.

La tomba di Pietro è giù a 14 metri sotto l’Altare della Confessione; i vari edifici sacri che si sono susseguiti nei secoli, uno sull’altro, insistono su quella tomba quasi a voler confermare le parole del Cristo:"Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa".


Contemporaneamente alla costruzione della Basilica di San Pietro, Costatino fece erigere anche quella di San Paolo che venne distrutta da un pauroso incendio nel 1823; la Basilica esistente oggi è una ricostruzione eseguita quasi subito dopo l’incendio.

Poiché doveva venire eretta esattamente sul sepolcro dell’Apostolo,e siccome questo, secondo le antiche concezioni, non poteva essere traslato, la chiesa dovette essere costruita molto lontana dalla città, ed è per questo che venne chiamata: "San Paolo fuori le mura".


Secondo la tradizione Pietro e Paolo furono entrambi rinchiusi nel Carcere Mamertino, ai piedi del Campidoglio, dove Pietro riuscì a convertire i suoi carcerieri e li battezzò, ma non essendovi acqua in quell’ambiente ipogeo, batté sul terreno e sgorgò una fontanella, che esiste ancora.


San Paolo venne condotto "ad aquas salvias", nell’attuale zona delle Tre Fontane, sulla Via Laurentina, per essere decapitato; essendo un cittadino romano fu portato, dunque, fino al luogo del martirio e la storia ci tramanda che la sua testa avrebbe battuto tre volte al suolo facendo scaturire, ad ogni caduta, una fonte miracolosa; l’episodio assegnò il nome al luogo e alla chiesa sorta in onore dell’Apostolo.


Nel punto dove avvenne l’ultimo saluto, fu , in seguito, eretta una cappella, poi una chiesetta, detta della "Separazione", sopravvisse fino al novecento; oggi, esiste una lapide posata nel corso dell’Anno Santo 1975 che contiene in pochissime parole il ricordo dell’avvenimento:

"Nei pressi di questo sito

una devota cappellina

in onore del Santissimo Crocifisso

demolita agli albori del secolo XX

per l’allargamento della Via Ostiense

segnava il luogo

dove secondo una pia tradizione

i Principi degli Apostoli Pietro e Paolo

vennero separati nell’avvio

al glorioso martirio"

A coronamento di questa lapide un semplice bassorilievo rammenta i due Apostoli nell’atto dell’estremo abbraccio.


Nella ricorrenza del 29 giugno vengono celebrati solenni riti e, in particolare a San Pietro, il Santo Padre imporrà il "Pallio" ad alcuni vescovi simboleggiando così l’unione del supremo Pastore della Chiesa Universale con i più alti capi delle chiese locali.

Il Pallio è una stola di lana bianca riservata, oltre che al Papa stesso, ai patriarchi, ai vescovi e ai metropoliti.

Alla confezione del pallio concorre anche la lana di due agnellini bianchi che il giorno 21 gennaio di ogni anno vengono benedetti nella Chiesa di S. Agnese (la benedizione è attestata dalla metà del secolo XV) e la loro tosatura concorrerà alla confezione dei sacro pallio da donare al Papa.


Un’altra tradizione che si rinnova annualmente per la ricorrenza del 29 giugno è il bacio del piede della grande statua di bronzo di San Pietro situata nella navata centrale dell’omonima basilica.

Per l’occasione la statua sarà vestita con il "piviale" rosso (paramento sacro a forma di mantello).


Sempre come commemorazione della festa dei patroni romani è la processione che si svolge per le strade, all’imbrunire; in corteo sono recate le catene di San Paolo, una reliquia conservata presso la basilica ostiense e che consta di 14 anelli di ferro.




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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Sotto il Cupolone "dorme" Pietro
LA TOMBA DI PIETRO

Graffito tomba san Pietro
Graffito del muro rosso sulla tomba di Pietro
con il nome dell'apostolo in lettere greche.



Nel 64 dopo Cristo Roma fu colpita da un disastroso incendio. Non era la prima volta che Roma era colpita da un incendio. Bisogna anzi dire che erano frequenti, sia per l’uso quotidiano delle lampade ad olio, sia per la stretta vicinanza degli edifici che formavano un dedalo di vicoli, sia per l’abbondante uso del legno per costruirli. Ma questo incendio fu di proporzioni enormi. Si sparse la voce che era stato lo stesso Nerone a provocarlo: qualcuno diceva di aver visto i suoi domestici appiccare il fuoco. Ma Nerone riversò la colpa sui cristiani, dicendo che erano loro gli incendiari, e che per questo grave delitto andavano puniti. E così avvenne. Per molti mesi si scatenò una vera caccia ai cristiani. Le conseguenze furono drammatiche. Molti cristiani furono arrestati e condannati a morte. Molte esecuzioni, a quel tempo, avvenivano proprio nei circhi, come nel circo privato di Nerone, ma non nel Colosseo, come solitamente si pensa, perché ancora non esisteva. Erano esecuzioni cruente.

Durante le persecuzioni di Nerone si calcola che molte decine di cristiani furono uccisi nel suo circo privato che 2000 anni fa era stato edificato proprio in corrispondenza dell’area dove oggi sorge la Basilica (in proposito vedi scheda-link sulla Basilica di S. Pietro) o crocifissi nelle immediate vicinanze. Fu proprio nel corso di questi eccidi che ebbe luogo la crocifissione dell’Apostolo Pietro: a testa in giù, come lui stesso avrebbe chiesto, non ritenendosi degno di subire lo stesso supplizio di Gesù. Erano passati oltre 30 anni dalla morte del Cristo e secondo certi calcoli Pietro a quell’epoca doveva avere tra i 60 e i 70 anni: il martirio della croce pose fine anche alla sua vita.

Di solito i corpi dei suppliziati erano restituiti alle famiglie. E forse le spoglie di Pietro furono recuperate da un piccolo gruppo di cristiani che con il favore della notte lo seppellì, probabilmente non lontano dal luogo del suo martirio. La tomba a quei tempi era molto semplice. Una fossa nella nuda terra accoglie i resti mortali dell’Apostolo. Dopo averla ricoperta forse, la sepoltura, in un prima sistemazione, viene contrassegnata da grandi tegole sistemate come il tetto di una capanna. Un modo probabilmente per riconoscere un punto che, nei millenni, diventerà sacro per l’intera comunità cristiana. Scavi archeologici sembrano confermare questa ipotesi. Poco distante dal circo di Nerone passava infatti una via consolare, la via Cornelia che portava in Etruria. E le necropoli si trovavano lungo le vie consolari. L’Apostolo Pietro dunque venne probabilmente sepolto nella necropoli della via Cornelia.

S. Pietro quindi è stato sepolto qui? Secondo la tradizione infatti i costruttori della Basilica collocarono l’altare in quel punto proprio perché si sarebbe così venuto a trovare esattamente sopra la tomba di San Pietro: un piccolo monumento che è il cuore dell’intera basilica di San Pietro. In base alla ricostruzione fatta dagli archeologi, ecco come doveva apparire.
Doveva essere una piccola edicola, molto semplice, con due colonnine, una lastra di marmo e una nicchia scavata nel muro intonacato di rosso cui era appoggiata. A livello della terra, un’altra lastra, come il chiusino di una tomba. Ma era la tomba di San Pietro?

In realtà, San Pietro venne probabilmente sepolto nella terra nuda tra il 64 e il 67 d.C. Questa edicola, invece, sarebbe stata eretta sopra la tomba molto più tardi, nel 160 d.C. circa, cioè addirittura quasi 100 anni dopo, in rimembranza del suo sacrificio. E’ possibile che la memoria precisa del sito abbia potuto essere tramandata da una generazione all’altra per un tempo così lungo? C’è un fattore importante che si tende spesso a dimenticare: la forza della tradizione orale, assai diffusa in passato, che in casi come questi poteva essere molto efficace.
Gli scavi dunque hanno riportato alla luce una serie di ritrovamenti che mostrano un lunga continuità nella venerazione di questo luogo situato proprio sotto l’altare della Basilica. Una sequenza di altari, monumenti ed edicole che coprono quasi 2000 anni di storia, anche se non tutto è stato spiegato e certe questioni rimangono aperte.


GLI SCAVI

Saxa loquuntur: “Le pietre parlano”.
Furono queste le parole di Pio XII quando nel 1942 annunciò per la prima volta gli scavi vaticani.

Dagli scavi condotti è stata rilevata una necropoli intesa come “città dei morti”, importante cimitero pagano.
Infatti per la costruzione della Basilica Vaticana l’imperatore Costantino dovette autorizzare la copertura della necropoli e spogliare le famiglie dei mausolei che appartenevano loro.
La necropoli che si sviluppò nel corso del II-III d.C., probabilmente lungo la via Cornelia, si svolgeva su un percorso da est a ovest. Il colle vaticano era tagliato al centro dal Tevere che con la sua piena rendeva poco abitabili i piedi del colle e i pendii erano utilizzati invece per le coltivazioni e le sepolture. Percorrendo la strada da est a ovest si poteva osservare sulla sinistra il circo di Nerone e a destra i mausolei.

Questi erano decorati con stucchi, pitture e mosaici poiché originariamente appartenevano alle famiglie aristocratiche pagane; in seguito poi divennero cristiani, o perché comprati da questi ultimi, o perché appartenevano a famiglie pagane convertitesi al cristianesimo. Tutti questi mausolei formavano un complesso architettonico, che si addossava intorno ad un’area definita dagli archeologi CAMPO P. Dunque questo spazio insieme al contiguo campo Q, costituiscono indiscutibilmente delle aree per l’inumazione. Il campo P accoglie oggi la tomba di Pietro, una parte del muro rosso che integrava il Trofeo di Gaio, in compenso il muro G che molto probabilmente conteneva le reliquie di San Pietro.

Il muro rosso chiamato così per il suo originario colore, oggi è piuttosto pallido e sbiadito.
Per la destinazione iniziale, il muro rosso è semplicemente un muro di sostegno che delimita un passaggio in pendenza il CLIVUS, nel luogo in cui non c’era un mausoleo per fiancheggiarlo.
Nonostante ciò rivela particolarità molto curiose: innanzitutto sottoterra dove, a un certo punto, la muratura si innalza al di sopra di qualche cosa che rispetta. Infatti non corre dritta, ma mostra una interruzione, una specie di nicchia che tende ad aggirare un angolo per non sovrastarlo. Questa nicchia è chiamata n1. Su di essa, ad un livello superiore si eleva una seconda nicchia n2, sempre nel Muro Rosso, meno irregolare della precedente.


La “NICCHIA N2” ,si trovava proprio al di sopra del livello del suolo.
Un’altra nicchia, n3, si trovava più in alto, separata dalla n2 da una placca di travertino orizzontale della quale restano le inserzioni nel MURO ROSSO che era sostenuta da due colonnette, pure poggianti su una base di travertino, e sormontata in alto da un’edicola.
Le tombe che hanno preceduto il MURO ROSSO, si inseriscono in un sistema ortogonale leggermente diverso nel quale rientrano i due muretti sovrapposti m1 e m2, che delimitano a sud la nicchia n1.

Molto probabilmente questa è la risistemazione di una tomba anteriore che altera la struttura del MURO ROSSO, ma che quest’ultimo conserva, proprio con l’interruzione n1, di cui abbiamo parlato.
Questa struttura è chiamata TROFEO DI GAIO, poiché si riconosce in essa il trofeo dell’apostolo Pietro additato da Gaio a Proclo.
Il TROFEO DI GAIO, ricopre uno spazio anticamente svuotato e invaso, poi, dal terreno circostante.

C’erano molte ossa disperse mischiate alla terra, sia sotto il muro rosso, nel fondo della nicchia n1, che in altre parti del Campo P.
L’esplorazione del Campo P dunque, ha svelato un certo numero di sepolture. Tra i sepolcri più antichi, tre risalgono a prima della metà del II sec; furono indicati da tre lettere greche: g, q, h. Il sepolcro g è il più profondo e si trova a sud degli altri, dove il livello del suolo era più basso: è una tomba di un fanciullo. Ad ovest il MURO ROSSO passa al di sopra di essa.
Il sepolcro h si trova a meno di un metro davanti al muro rosso di fronte alle nicchie che lo invadono; passando sotto h a ovest , e nella stessa direzione del sepolcro g, il sepolcro q è un inumazione in piena regola, sormontato dalla pietra tombale che sosteneva le colonnette del trofeo di Gaio.

Questi tre sepolcri, come i muretti m1 e m2 , si iscrivono nel sistema ortogonale anteriore al MURO ROSSO e lasciano uno spazio vuoto davanti ad esso. E questo spazio è appunto il luogo privilegiato a partire dal quale sono state concepite le sistemazioni successive che portarono alla basilica che conosciamo oggi.

Appoggiate alle fondazioni del MURO ROSSO e in parte sopra le tombe q e i (iota), troviamo quelle di un altro muro: il Muro G.
Si tratta di un muro tozzo, elevato in un secondo tempo, perpendicolarmente al, MURO ROSSO.
Su questo intonaco, ci sono numerosissimi graffiti di visitatori che vi hanno inciso sopra i loro nomi accompagnati spesso da esclamazioni.

                                           

Colonnina del "trofeo" e resti murari
accanto alla tomba di Pietro.
Per elevare la basilica in onore dell'apostolo
furono necessari eccezionali lavori per ripianare
il colle Vaticano e per costruire la basilica al livello nella tomba di Pietro.
Gli architetti di Costantino inclusero in un rivestimento marmoreo il "trofeo" indicato da Gaio
come la tomba dell'apostolo.


***********************


È molto probabile che l’interno del muro G , sia stato scavato e sistemato per contenere le reliquie di San Pietro, all’epoca in cui si costruiva la prima sontuosa basilica.
Per quanto riguarda le ossa umane provenienti dalla sistemazione interna del muro G, da studi condotti dal Professor Correnti si è potuto capire che queste appartengono ad un solo individuo, di esse però, nessuna è integra, se si eccettuano la rotula sinistra, due ossa del polso sinistro e due falangi basali delle dita della mano sinistra.

Il sesso, è maschile, di età “senile”, tra i sessanta e i settanta anni, di corporatura chiaramente robusta, e alcune ossa che presentavano sulla superficie esterna piccole zone colorate.
Tutte queste osservazioni ci fanno presumere che l’individuo, in origine, fu inumato e che le aree colorate non fossero altro che i colori delle stoffe in cui il cadavere fu avvolto.

Comunque le ossa dei piedi mancano totalmente, il che potrebbe significare che la tomba è stata tagliata prima di essere sostituita, forse da una tomba posteriore.
Proprio perché il muro G fu rispettosamente conservato e incorporato nella memoria costantiniana, sembra difficile mettere in dubbio l’interesse dei resti che vi furono ritrovati. Nessun elemento al contrario ha invalidato la logica appartenenza allo scheletro di San Pietro. Gli storici hanno formulato varie ipotesi sulla base di alcune testimonianze:
- nel III sec. il culto è attestato “ad catacumbas”;
- nel IV sec. è testimonianza l’Iscrizione Damasiana di San Sebastiano che dice: “Tu devi sapere che qui prima hanno abitato i santi, tu che cerchi i nomi di Pietro e Paolo;
- nella metà del III sec. troviamo i graffiti della Triclia, sala dei banchetti funebri della memoria apostolica di Pietro e Paolo, “ad catacumbas”;
- nel IV sec. la Depositio Martyrum, il martirologio della chiesa romana che dice “Petri in Catacumbas e Pauli in Ostiense”.
- nel IV sec. c’è anche il calendario di San Girolamo (347-419) che attesta: “Petri in Vaticano, Pauli in via Ostiense, utriusque in catacumbas Tusco et Basso consulibus”. La celebrazione di Paolo ha sempre luogo nell’ostiense, quella di Pietro invece in catacumbas nel primo, nel secondo in Vaticano. Sempre nel IV sec troviamo anche l’editto di Milano (313) e la costruzione della basilica ad opera del papa Silvestro in Vaticano;
- nel V sec. abbiamo il Liber Pontificalis, la cui prima redazione si ha nel 530 circa. In questo si
- possono trovare notizie interessanti nella vita di San Anacleto, Papa dal 78 all’88: “edificò e decorò la memoria del beato Pietro” e di Papa Cornelio (251-252) “fece trasportare le reliquie da ad catacumbas in Vaticano” .
- Gregorio Magno (540-604) parla invece di reliquie portate prima ad catacumbas, subito dopo (64 - 68) in Vaticano.

UNA BREVE LETTURA DEI SEGNI E DEI SIMBOLI (i graffiti)

Il disegno mistico per eccellenza era il pesce, perché in greco si dice icquV che è l’acrostico di IesuV, CrisoV, Qeou, Uios, Swthr.
Per la simbologia pittorica, trovate sui muri attorno alla Tomba di Pietro, abbiamo molti graffiti svolti a più riprese:
L’agnello ,simbolo di Gesù, agnello immolato per la salvezza dell’umanità.
Il circolo , simbolo di eternità.
L’orante che rappresenta l’anima del defunto che prega, mentre la colomba è l’anima che è volata o deve volare, questa spesso, porta un ramoscello d’ulivo simbolo della pace.
Il vaso e la botte sono simboli della pratica del rito del refrigerium , libagioni che risollevavano l’anima e la conducevano alla vita eterna.
Il banchetto è l’agape, cioè un banchetto mistico davanti alla tomba del defunto .
Il faro e la lucerna sono simboli della luce divina che guida il navigante (l’anima).
La bilancia , simbolo del giudizio di Dio.
La zappa, l’ascia e il martello sono gli strumenti per costruire la croce e ricordano il martirio di Cristo.
La lepre, il cavallo e l’uccello rappresentano il volo dell’anima in cielo, in quanto animali veloci.
L’ancora , simbolo della salvezza, salvezza della croce, cioè salvezza in Cristo.
L’uva , un simbolo pagano e indica il vino dell’eucarestia.
Per quanto riguarda la simbologia alfabetica abbiamo invece:
a e w indicano rispettivamente l’inizio e la fine della vita , infatti compaiono già nell’Apocalisse di Giovanni e in Isaia.
CO indica la corona delle anime pie.
La D è deus e cioè Dio.
La E è il simbolo dell’Eden , che viene spesso rappresentata con ramificazioni dalle stanghette della lettera stessa , che richiamano i rami del giardino .
La F indica il Figlio.
La I, Iesus = Gesù.
Il C, Cristos=Cristo.
La M, Maria.
La L, la luce e quindi Cristo.
Il K,da kejalh=capo, inteso come principio.
La N, nikh ossia vittoria.
La O latina che riprende l’w greca=fine.
La P è la pace (pax), ( per la Guarducci, è Pietro).
La Q, quiete.
La RE è la resurrezione.
La S è la salute.
La U è ugeia.
La V è la vita.
La W è il segno augurale di vita.

Nel muro G, i simboli sono intrecciati perché si vuole dare un ulteriore significato mistico.

GLI STUDIOSI NON PONGONO PIU' DUBBI:

Presso la tomba di S.Pietro in Vaticano, sotto l'Altare principale della Confessione, sotto la grande Cupola, sono stati ritrovati veri graffiti, incisi alla fine del III secolo, di cui uno porta unito ai monogrammi di Cristo e Pietro: "Ch e Pe"; il nome intero "MARIA", sormontato dall'acclamazione "NICA" traslazione latina che vuol dire "vittoria".

Queste informazioni sono importanti per constatare come già un secolo prima della definizione del dogma della divina maternità di Maria, sancita ad Efeso nel 431, a Roma Maria è già venerata e associata a Cristo e a Pietro, nella medisima acclamazione di "vittoria".

Sempre databili al III secolo, sono stati rinvenuti nei cimiteri di Priscilla e di Pretestao su tegole e lapidi, dipinta una grande "M", accanto ad una croce, ed altre accanto al nome di Maria "MA", unito al simbolo di Cristo "X"...è qui evidente lo scopo di associare la protezione di Cristo con la mediazione della Madre.
Già nelle Catacombe si trovano affreschi mariani, il più antico è in quelle di Priscilla, dove dominano la scena dell'Annunciazione e datata alla fine del II secolo, e quella dell'adorazione dei Re Magi sempre dello stesso periodo.

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Fraternamente CaterinaLD

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Il Giubileo viaggio nella Storia - 1525 1550
Verso il Concilio di Trento



A cura di Vittorino Grossi



Mentre la città di Roma era dilaniata da disordini non piccoli e continuativi per l'elezione del nuovo Papa il conclave, che si trascinava da ben cinquanta giorni, si accordò sulla persona del cardinale Giulio de' Medici che prese il nome di Clemente VII. Il suo pontificato (1523-1534) fu un periodo di crisi per l'intera società tanto che lui stesso venne chiamato "papa malanno". Colossali catastrofi si abbatterono infatti in continuità, durante il suo pontificato, su Roma e sulla cristianità.


Egli dovette sostenere l'urto della crisi luterana, del sacco di Roma ad opera dei barbari Lanzichenecchi, lo scisma della Chiesa d'Inghilterra a motivo del non concesso divorzio ad Enrico VIII con Anna Bolena. La crisi del primo ventennio del sec.XVI che attraversò la Chiesa latina di Occidente aveva portato Martin Lutero a pubblicare il 31 ottobre del 1517 le 95 tesi sulle indulgenze. Esse divennero un pubblico cartello di contestazione alla Chiesa di Roma e di conseguenza all'indizione del Giubileo del 1525 fondato, come ogni Anno Santo, sulla possibilità per il pellegrino romeo di lucrare l'indulgenza giubilare. La risposta romana a Lutero si concretizzò nell'intervento di Leone X al cardinale legato Gaetano de Vio con il decreto "Postquam" del 9 novembre del 1518, nel quale si spiegava tra l'altro il sentire cattolico delle indulgenze.


 Il card. De Vio invitò Lutero alla ritrattazione delle sue tesi sulle indulgenze. Il suo rifiuto portò alla Bolla di Leone X "Exsurge Domine" del 15 giugno 1520 e alla scomunica del frate agostiniano con la Bolla "Decet romanum pontificem" del 3 gennaio 1521. Tra le proposizioni luterane condannate nella Bolla "Exurge Domine" vi erano, tra le altre, le seguenti riguardanti le indulgenze: n.17 (DS 1467): "I tesori della Chiesa dai quali il papa dà le indulgenze non sono meriti di Cristo e dei santi"; 18 (DS 1468): "Le indulgenze sono frodi pie dei fedeli"; 22 (DS 1472): "Le indulgenze non sono né necessarie né utili per sei generi di persone, vale a dire: per i morti o i moribondi, gli infermi, coloro che sono legittimamente impediti, coloro che non hanno commesso crimini o non pubblicamente, per coloro che operano bene".


La diffusione delle indulgenze, collegate all'offerta del penitente, si era dilatata di molto nella cristianità del rinascimento, date le necessità di fronteggiare la guerra con i turchi, l'instabilità politica generale, la ricostruzione di nuove chiese, non ultima della Basilica patriarcale di San Pietro. Inoltre l'applicazione, spesso solo interessata delle indulgenze, portò al durissimo scontro tra Lutero e Giovanni Eck che, coagulandosi ad altre cause di malcontento, sfociò nella posteriore divisione della Chiesa occidentale. Data la difficile situazione generale molti ecclesiastici erano contrari alla celebrazione del Giubileo del 1525, sia per ragioni di opportunità nel non provocare ulteriormente i luterani sull'argomento dell'indulgenza, sia anche per l'incombente pericolo di una guerra imminente tra Carlo V di Spagna e Francesco I di Francia.


L'instabile situazione politica non prometteva naturalmente nessuna rassicurazione per i pellegrini che intendevano mettersi in viaggio per Roma. L'ambiente generale perciò non si aspettava l'indizione del Giubileo del 1525 data l'allora aspra polemica sulle indulgenze. Queste, si diceva, più che promuovere la penitenza dei peccatori, favoriva il commercio delle cose sacre con i connessi scandali.

I protestanti le dileggiavano pubblicamente, qualificandole spiritualmente inutili e utili solo per la curia romana come strumento di guadagno. Nonostante le tante obbiettive obiezioni il papa Clemente VII fu tuttavia dell'avviso d'indire il Giubileo del 1525, e lo fece con la Bolla "Inter sollicitudines" che promulgò il 17 dicembre del 1524. Egli intervenne sul dibattuto problema dell'indulgenza giubilare, estendendola a quanti, in un modo o in un altro, si sarebbero messi in viaggio per Roma. E se, per svariate ragioni non sarebbero riusciti ad espletare i richiesti atti di pietà da compiersi nella città di Roma, avrebbero potuto lucrare lo stesso l'indulgenza accostandosi al sacramento della riconciliazione cristiana.

Il Papa, per facilitare a tutti l'acquisto della indulgenza giubilare, esentò i pellegrini anche dall'obbligo dell'offerta in moneta. Clemente VII, il 24 dicembre del 1524, munito di un martello di oro aprì solennemente in San Pietro la Porta Santa del nono Giubileo della storia della Chiesa.  Per la verità non vi accorse molta gente. I pellegrini romei non furono molti quell'anno. I luterani dal canto loro, invitati al pellegrinaggio giubilare per una riconciliazione generale, non accolsero l'iniziativa, che anzi profittarono della diffusione dell'invenzione della stampa per scrivere sull'argomento aspri libretti polemici.


Crearono anche la distinzione tra il giubileo di Cristo e quello del Papa: quello di Cristo è donato gratuitamente a tutti gli uomini tramite il legame della loro fede; quello del papa, che richiede un viaggio a Roma, è da considerare solo una lucrosa superstizione ideata a vantaggio della curia romana. L'ambiente generale, come dicevamo, non si aspettava l'indizione del Giubileo data l'allora aspra polemica sulle indulgenze. Queste, si diceva, più che promuovere la penitenza dei peccatori, favoriva il commercio delle cose sacre con i connessi scandali.

 L'Anno Santo del 1525 rimase quasi disatteso sia all'inizio che nei suoi frutti posteriori. I tempi del papato di Clemente VII erano, d'altra parte, molto tristi, in particolare per la città di Roma che, solo due anni dopo il Giubileo, cadde in mano ai Lanzichenecchi.


Oltre 13.000 soldati, guidati dall'avventuriero Giorgio Frundsberg, il 6 maggio del 1527 assalirono Roma avendo sulle labbra quale grido di battaglia il nome di Lutero. Nel furioso corpo a corpo, che si ebbe per le strade del Borgo, in particolare tra San Pietro e Santo Spirito, la guardia svizzera, schierata preso l'obelisco, venne tagliata a pezzi. L'intera popolazione del Borgo, non esclusi i malati dell'ospedale Santo Spirito e altri cittadini, si rifugiò nella basilica di San Pietro, ma tutti vi vennero trucidati.


Il Papa e altre tremila persone, benché rinchiusi in Castel S.Angelo, vennero fatti prigionieri e dovettero cedere alla richiesta di sborsare trecentomila ducati d'oro per essere risparmiati. Clemente VII dovette ancora subire, durante il suo pontificato, l'urto del re Enrico VIII d'Inghilterra il quale, per questioni matrimoniali, promosse lo scisma della Chiesa d'Inghilterra. Egli venne scomunicato nel consistoro del 23 marzo del 1534. Il Papa aveva negato a Enrico VIII d'Inghilterra il divorzio da Caterina d'Aragoma per poter sposare Anna Bolena. Clemente VII, di fronte ad un insieme di gravi questioni ecclesiali e civili che non riusciva a fronteggiare, iniziò allora a pensare alla convocazione di un concilio ecumenico. Una promessa in tal senso era stata avanzata ai protestanti dall'imperatore Carlo V nella pace di Norimberga del 23 luglio 1532. Egli tuttavia morì il 25 settembre del 1534.


Il dissidio tra protestanti e cattolici divenne, dopo il primo venmtennio del sec.XVI, sempre più forte, scavando un solco di tale profondità che ancora sussiste. La storiografia ama parlare del tempo della Riforma, sia cattolica che protestante. In realtà si trattava di come capire la riforma della Chiesa. Tale problematica condusse la cristianità occidentale all'assise del Concilio di Trento (1545-1563). 

 Il successore di Clemente VII fu Alessandro Farnese che prese il nome di Paolo III. Dpo 103 anni un romano risiedeva di nuovo sulla cattedra di Pietro, che tenne per quindici anni (1534-1549). Egli promosse la convocazione di un Concilio per affrontare le problematiche della Riforma e riuscì a vederne anche l'apertura, il Concilio di Trento si aprì infatti nel 1545, mentre Paolo III morì nel 1549. Paolo III diede, politicamente, molte energie per pacificare i due grandi regnanti del tempo (Carlo V e Francesco I di Francia) e per contrastare l'avanzata turca in Europa. Delle sue energie spese molte di più per la riforma della Chiesa, che gli stava molto a cuore. Egli, nonostante tutte le difficoltà, riuscì a convocare un Concilio ecumenico, il concilio di Trento. Nel concistoro del 2 giugno 1536 Paolo III ne pubblicò la Bolla d'indizione.


Per la località si pensò prima a Mantova, poi a Vicenza, infine ci si accordò sulla città di Trento che stava quasi ai confini dell'Italie a e del mondo di lingua tedesca, e ivi venne aperto il 13 dicembre del 1545. L'anno dopo morì anche Lutero nella nativa Eisleben, il 18 febbraio del 1546.  Paolo III fu anche un colto umanista. Nominò lui Michelangelo architetto a vita della Basilica Vaticana, commissionandogli tra l'altro il lavoro per il grandioso affresco del giudizio universale della Cappella Sistina. Si deve anche a lui l'assetto del Campidoglio, con ai lati le statue di Castore e Polluce e, in cima, col porre al centro l'antica statua dell'imperatore filosofo Marco Aurelio.


A Paolo III Nicolò Copernico dedicò la sua famosa opera innovativa delle scienze astronmomiche"Sulle rivoluzioni dei corpi celesti.  Quando il 10 novembre del 1549 il papa Paolo III morì, aveva indetto il Giubileo per il 1550 e già fervevano i solenni preparativi. Egli tuttavia, benché non l'abbia potuto godere, negli anni del suo pontificato aveva gettato quei semi di Riforma della Chiesa che maturarono nell'apertura del Concilio di Trento e consentirono al suo successore, Giulio III, d'indire l'Anno Santo della metà del Cinquecento anche se in ritardo e di veder fiorire le nuove congregazioni relgiose degli Oratoriani, Teatini, Somaschi, Scolopi, Camilliani, Orsoline. Il card. Giovanni Maria del Monte venne eletto papa l'8 febbraio del 1550, dopo il travaglio di un lungo conclave (durò dal 29 novembre 1549 all'8 febbraio del 1550).


Intronizzato il 22 febbraio, festività della cattedra di San Pietro, due giorni dopo, nel cuore del carnevale romano, aprì la Porta Santa inaugurando il Giubileo di metà secolo del 1500 con la Bolla "Si pastores ovium" (24\2\1550), protraendolo già dall'inizio sino all'Epifania dell'anno seguente. Durante l'Anno Santo del 1550 non accorsero a Roma molti pellegrini, vi giunsero tuttavia diverse legazioni di Stati italiani ed Europei. Quell'Anno Santo si avvalse della presenza romana di Ignazio di Loyola (aveva fondato la Compagnia di Gesù nel 1540) e di Filippo Neri, il fondatore dell'Oratorio. Quest'ultimo aprì a ponte Sisto l'ospizio della SS.Trinità per l'accoglienza dei pellegrini, amministrato dall'omonima Confraternita da lui fondata.


Essa ebbe inizio il 16 agosto del 1548 presso San Girolamo della carità con l'aiuto di alcuni giovani guidati dal prete Persiano Rosa, mentre la sede era presso San Salvatore in Campo. La Confraternita si trasferì poi nella chiesa di San Benedetto in Arenula. Essa venne riedificata e dedicata alla SS.Trinità, con la finalità di curare i pellegrini e gli ammalati. Quanto al numero degli assistiti, ricaviamo dal Giubileo del 1575 che la Confraternita si faceva carico di ben 600 pellegrini al giorno (si possiede un "Diario" dell'attività della Confraternita svolta nel 1600, che è conservato nella Biblioteca Vaticana).

Un biografo di Filippo Neri ha lasciato scritto in merito alla sua operosità per i pellegrini che si recavano a Roma per il Giubileo: "Fu cosa di molto esempio il veder l'affetto grande col quale Filippo e i compagni servivano a tanta moltitudine, provvedendoli del mangiare, accomodando i letti, lavando loro i piedi, consololandoli con parole e finalmente facendo a tutti compitissima carità. Per la qual cosa questa Confraternita prese in quell'anno così gran nome che si sparse il suo odore per tutta la cristianità; e molti fecero istanza grande d'essere ammessi in detta compagnia, la quale prese poi una casa a posta che dovesse servire per ospizio ai pellegrini" (in Paolo Brezzi, "Storia degli anni santi", ed. Mursia, Milano 1997, pp.89-90).

Per proteggere i pellegrini dagli esosi affitti innescati a Roma dai locandieri per l'aumentato afflusso di gente, il card. camerlengo Ascanio Sforza già il 29 aprile del 1549 aveva proclamato il blocco dei fitti per l'intero anno 1550 incluso l'anno precedente. L'azione ecclesiale di Giulio III mirò a risanare lo scisma d'Inghilterra e a continuare il concilio di Trento. La pace della Chiesa inglese con quella di Roma fu vista fattibile quando, alla morte di Edoardo VI (6 luglio 1553), salì sul trono d'Inghilterra Maria la Cattolica. Nel gennaio del 1555 fu anche decretata ufficialmente tale ri-unione. Ma in quello stesso anno il papa morì e, tre anni dopo, morì anche Maria la Cattolica lasciando il trono inglese alla regina Elisabetta.

Questa riportò la Chiesa inglese alla divisione da Roma. Miglior fortuna toccò alla riconvocazione del concilio di Trento da lui promossa prima che finisse l'Anno Santo del 1550, con la Bolla del 14 novembre 1550. Ne fissò la riapertura ancora a Trento per il 1 maggio del 1551. Sino al 28 aprile dell'anno seguente si tennero le sessioni XI-XVI che trattarono del sacramento dell'Eucarestia, della confessione, del sacramento degli infermi e della disciplina episcopale. Ripresero i colloqui con i protestanti venuti al Concilio, ma con non molto successo.


 I lavori conciliari furono così sospesi il 28 aprile del 1552, anche a motivo del rinascere delle lotte tra il re di Francia e Carlo V. Tale situazione rendeva infatti molto precaria la presenza a Trento dei Padri conciliari. Si sarebbe riaperto nel 1562 sotto il papa Pio IV, per concludersi il 4 dicembre del 1563. La pace religiosa di Augusta del 25 settembre del 1555 tra le varie componenti cattoliche e protestanti, se mise in qualche modo fine alle lotte religiose in Europa, rese tuttavia stabile la divisione della Chiesa occidentale tra protestanti e cattolici.


(Fonte: vaticano )


 

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"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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Al via il restauro del porticato di San Pietro

Nell'abbraccio di 284 colonne il sogno di Bernini


L'11 giugno, presso la Fiera di Milano, verrà presentato il progetto di restauro del colonnato di San Pietro. Anticipiamo il testo del direttore dei Musei Vaticani.

di Antonio Paolucci


"Modellare tutta la città con le sue mani come fosse una immensa scultura" (l'affermazione è di Giulio Carlo Argan) era il sogno di Gian Lorenzo Bernini. Per lui scultura e architettura, urbanistica e scenografia erano strumenti da usare contestualmente per ottenere la grande metamorfosi.
Dovevano  servire cioè a trasformare lo spazio urbano in spazio teatrale così da farlo diventare "l'altrove"  dello  stupore e della meraviglia.
 
colonnato del BerniniUna sola volta nella sua lunga carriera Gian Lorenzo Bernini ebbe l'occasione di realizzare compiutamente la sua idea di architettura totale. Fu quando - era il 17 Marzo 1657 - Alessandro vii Chigi approvò il progetto del portico di piazza San Pietro.

Il Papa aveva le idee chiare. Voleva un percorso coperto che unisse la basilica alla città, voleva uno scenario adeguato per le grandi cerimonie pubbliche quali la benedizione Urbi et Orbi e la processione del Corpus Domini. Voleva che la piazza, fino ad allora terreno vago e indefinito, diventasse la visibile cavea della Chiesa universale dove la folla dei credenti si raccoglie e si rivela a sé stessa come vero e proprio ecumene.

Voleva infine - la testimonianza è dell'oratoriano monsignor Virgilio Spada, colto uomo di Curia con competenze di architetto e responsabilità  di  Soprastante  alle  Fabbriche  -  che  i bracci del porticato fossero "servi del Palazzo e della Basilica di San Pietro e non emulatori".

Si discusse a lungo sulla forma da dare al porticato. Lo stesso Bernini valutò opzioni diverse rispetto a quella scelta. Seduceva molto l'idea della pianta rettangolare o meglio trapezoidale sul modello dell'assetto che Michelangelo, più di un secolo prima, aveva dato alla piazza del Campidoglio.

Da ultimo, per una di quelle felici coincidenze fra la volontà del committente e il genio dell'artefice che a volte si verificano nella storia dell'architettura, scavalcando pareri di tecnici anche autorevoli e relazioni di commissioni edilizie, il Bernini e il Papa si accordarono direttamente sulla soluzione che conosciamo.

I due emicicli colonnati avrebbero avuto un ordine di percorrenza a tre corsie di cui quella centrale voltata a botte. In pianta il porticato avrebbe assunto la forma dell'"ovato tondo". Non il cerchio perfetto che rischiava di produrre effetti di eccessiva regolarità e quindi di monotonia, ma l'impianto ovoidale elaborato in pieno Cinquecento dal Peruzzi e divulgato dal Serlio.

Il fuoco prospettico dell'intero impianto aveva da essere il gigantesco obelisco che l'architetto Fontana, nel 1586, aveva collocato nel cuore della piazza. Una serie ininterrotta di statue a tutto tondo ad altezza maggiore del vero avrebbe coronato al vertice i due emicicli.

Sorprende la velocità dell'esecuzione. Nonostante le endemiche difficoltà economiche, nonostante che il Bernini, all'apice della sua internazionale fortuna, fosse oberato di impegni, addirittura a Parigi al servizio di Luigi xiv, nel 1667, dieci anni dopo l'approvazione del progetto, i due emicicli colonnati e la corsia centrale voltata erano terminati.

Nel 1673 più della metà delle sculture apicali erano state realizzate e messe in opera. Sono centoquaranta le sculture a figura intera che da più di tre secoli coronano la piazza, vigilando sull'assembramento dei fedeli, dialogando con il cielo e con le nuvole di Roma, il biondo travertino di cui sono fatte mutando colore secondo le ore e le stagioni.

Sono immagini di santi e di sante, di vergini, di confessori, di dottori della Chiesa, di fondatori di ordini. Non le governa un ordine iconografico preciso. Sono il celeste esercito combattente della Chiesa cattolica, rappresentano il cristianesimo trionfante che partecipa della gioia e della fede del popolo quando il Papa di Roma lo convoca nella piazza dedicata al principe degli apostoli.

A Gian Lorenzo Bernini interessava l'effetto generale. Interessava il colpo di teatro, di altissimo valore simbolico e di straordinario coinvolgimento emotivo che l'esercito dei santi dislocati contro il cielo e intorno alla piazza suscitava - e ancora suscita  - sulle moltitudini di credenti.

Per questo motivo non si occupò più che tanto dell'esecuzione materiale delle singole sculture. Fornì alcuni disegni e affidò a Lorenzo Morelli coadiuvato da numerosi scultori - Bartolomeo Cennini, Giovan Maria de' Rossi, Filippo Carcani, Michele Maglia, Giuseppe Mazzuoli e altri  -  la  realizzazione  del  progetto.

Più tardi, nel 1702, regnando Clemente xi Albani, Lorenzo Ottoni e Jean Baptiste Théodon curarono l'esecuzione delle statue dei bracci diritti, disposte in coppia in corrispondenza dei pilastri.

I portici di San Pietro sono dunque una grandiosa opera seriale fatta di multipli - colonne, plinti, trabeazioni, stemmi, statue - prodotti in cantiere e messi in opera sotto la regia infallibile di Gian Lorenzo Bernini e dei suoi assistenti. Due erano i criteri che governavano il cantiere:  la rapidità esecutiva e il massimo contenimento dei costi. Il primo obiettivo è stato - come si è visto - pienamente raggiunto. Il secondo anche, sia pure con qualche conseguenza negativa se si pensa alla qualità non sempre eccellente del travertino impiegato.

Oggi che il porticato del Bernini è investito da un grande progetto di restauro totale - restauro affidato alla società Navarra e diretto dai funzionari dei Servizi Tecnici e dei Musei Vaticani - il concetto di "serialità" è diventato il principio ispiratore di un intervento destinato a continuare  per i prossimi quattro anni.
I problemi conservativi che riguardano i due emicicli porticati, dal suolo alle statue di coronamento, sono gli stessi per tutta l'estensione del monumento. Su ogni porzione modulare del porticato occorrerà intervenire per gli stessi obiettivi e con gli stessi criteri:  revisione delle coperture, controllo dei deflusso delle acque meteoriche, rimozione di vecchi restauri impropri, eliminazione delle solfatazioni, pulitura e consolidamento delle superfici, messa in opera di protettivi efficaci e così via...

Una volta individuato il metodo, messe a punto le procedure, testati, grazie al Gabinetto di ricerche scientifiche dei Musei, gli specifici da applicare, sarà possibile procedere con tecniche e per risultati omogenei su tutto l'intero porticato berniniano. Il cantiere pilota che abbiamo allestito in fondo all'emiciclo di sinistra, sta fornendo le linee guida che poi saranno per tutti vincolanti nel seguito della grande impresa.

La mirabile serialità berniniana si traduce oggi nella serialità scientificamente programmata di un restauro che ha l'obbligo di risultare, agli occhi del mondo, impeccabile ed esemplare.


(©L'Osservatore Romano - 10 giugno 2009)


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Uno studio inedito sui materiali e le tecniche di costruzione della cupola di San Pietro

Cemento armato per Michelangelo


Grazie a un geo-radar è stata individuata l'esatta posizione di cerchi, barre e catene


SANDRO BARBAGALLO

Nel secolo scorso fu grazie alla paziente ricerca dell'archeologa Margherita Guarducci che furono ritrovate le reliquie di san Pietro proprio al di sotto dell'altare papale. Oggi, a sessant'anni da quella sensazionale scoperta, sono ancora due studiose a proporci importanti novità. Le recenti indagini condotte da Marta Carusi e Barbara Baldrati nell'Archivio Storico Generale della Fabbrica di San Pietro, non solo ci fanno scoprire i materiali e le tecniche usate per la costruzione della grande cupola ma ci fanno apprendere anche il suo effettivo stato di salute.

Queste nuove ricerche hanno messo a fuoco un argomento che sembrava esaurito: la conoscenza dei materiali che compongono la struttura della cupola di San Pietro, in un primo tempo disegnata da Michelangelo, ma risolta e conclusa da Giacomo Della Porta (1532-1602).
La paternità geniale di quest'ultimo non è mai stata valorizzata quanto avrebbe dovuto. Questi infatti, pur non essendo edotto nella scienza delle costruzioni, all'epoca sconosciuta, lavorando d'intuito mise a punto un sistema di rinforzamento delle strutture molto simile al moderno cemento armato.

È vero che Michelangelo alla sua morte, nel 1564, aveva lasciato un modello di cupola in legno di tiglio (cm 500 x 400 x 200) molto dettagliato. Doveva servire da guida per i futuri esecutori dell'opera. Proprio quel modello, invece, conservato nella Fabbrica di San Pietro, doveva subire le prime modifiche. Quando Della Porta assume l'incarico capisce che la curvatura a tutto sesto della calotta, così come l'aveva progettata Michelangelo, avrebbe prodotto una spinta verso l'esterno all'altezza del tamburo, mettendo a rischio tutta la struttura. L'architetto risolve il problema aumentando la verticalità della calotta di sette metri. Alzando di poco il sesto della curvatura fa sì che il peso di tutta la struttura venga scaricato verso il basso, assicurandone la staticità.

Alla morte di Michelangelo la costruzione della cupola era arrivata solo al piano del tamburo. Papa Pio IV aveva affidato la prosecuzione dei lavori al Vignola, il quale, però, prima di morire, fece solo in tempo a iniziare la parte interna delle due cupole minori. Queste cupole sono state utili per sperimentare le varie possibilità esecutive e poi approdare all'esecuzione della maggiore.
Erano passati circa ventitré anni dalla morte di Michelangelo quando Giacomo Della Porta, assistito da Domenico Fontana, ricevette da Sisto V l'incarico di completare la cupola. Era il 19 gennaio del 1587. Della Porta firmò un contratto secondo il quale avrebbe avuto dieci anni di tempo per completare i lavori. Nonostante le difficoltà tecniche riuscì invece a portare a termine il cantiere in soli ventidue mesi. È vero che si servì di ottocento operai che lavorarono giorno e notte per portare a termine l'impresa, ma è anche vero che Della Porta in persona si dedicò, un giorno dopo l'altro, a un lavoro snervante. Nei primi diciotto mesi realizzò per le sue maestranze disegni in scala "uno a uno" tracciandoli sul pavimento della basilica di San Paolo fuori le Mura.

Tra luglio e agosto del 1588 iniziò a voltare la cupola usando materiali di altissima qualità, controllati uno a uno. Per esempio per i mattoni utilizzò due fornaci collocate dove attualmente è situata l'aiuola con lo stemma del Papa, dietro l'abside della basilica. Le cave di travertino erano quelle di Tivoli e Fiano Romano, mentre il legno proveniva dalle foreste di Camaldoli. Il legno di castagno, solido ma elastico, era molto usato sia per le impalcature che per la costruzione delle macchine con cui venivano sollevati notevoli pesi. Per non parlare poi delle travi, piegate a vapore, impiegate per realizzare le nervature della calotta esterna della cupola.

L'8 agosto del 1589, pochi giorni prima della morte di Papa Sisto V, erano state approntate anche trentasei colonne decorative. Invece la conclusione della lanterna e la copertura esterna con lastre di piombo si realizzò nel 1593 sotto Clemente VIII. Sotto questo pontificato venne collocata in cima alla cuspide del lanternino la grande sfera in bronzo dorato, sormontata dalla croce eseguita da Sebastiano Torrigiani. Anche se i lavori terminarono sotto il pontificato di Clemente VIII egli volle dedicare l'impresa ormai conclusa non solo alla gloria di san Pietro ma anche di Sisto V, facendo scrivere nell'anello interno di chiusura della lanterna S. Petri gloriae sixtus Pp. V. A mdxc pontif. V.

Per anni e anni illustri storici dell'arte hanno scritto centinaia di testi, tramandando pedissequamente informazioni uguali tra loro, perché mai verificate. Gli autori che si sono interessati alla cupola e che sono stati maggiormente citati e copiati sono Angelo Rocca (1591), Carlo Fontana (1694), Giovanni Poleni (1748), Ennio Francia (1977), Michele Basso (1987). Questi testi presentano numerose imprecisioni dovute principalmente alla trascrizione di notizie riportate senza alcuna possibilità di verifica, oppure "tramandate" oralmente, se non "ipotizzate".

Come si è arrivati alle odierne conclusioni? Le due studiose hanno pazientemente confrontato fra loro tutti i testi disponibili, rintracciando errori, incongruenze e marchiane scopiazzature. Hanno scoperto che di oltre cinquecento titoli sulla costruzione della cupola, solo una decina presentano notizie attendibili, anche se parziali. Infatti nessuno aveva mai indagato sui materiali usati e come erano stati usati. Solo con questa nuova ricerca apprendiamo ad esempio che le lastre di travertino sono state incernierate tra di loro con piombo fuso, così come tutta la struttura è tenuta insieme da sette grandi anelli di ferro, due dei quali posizionati sulla lanterna.

Dal punto di vista strutturale la cupola è "armata" da un gran numero di elementi metallici, predisposti a integrare la resistenza della muratura e ad assicurare l'aderenza dei blocchi. Le catene di ferro, collocate alle varie quote e disposte in concomitanza con le catene o le legature di travertino, assicurano il contenimento della parte più bassa della cupola, soggetta a una maggiore spinta, e di quella più alta, interessata dal peso della poderosa lanterna.

Le esatte informazioni sulla struttura metallica che determina la resistenza statica della cupola sono individuabili nei Libri del Fattore. Una raccolta di manoscritti, dal 1588 al 1593, catalogati per la prima volta negli anni Trenta e che riguardano la fornitura dei materiali al cantiere, riportandone anche i pesi delle singole parti. Poiché nell'Archivio della Fabbrica di San Pietro sono catalogati come Libri di Ricordi, forse è questo il motivo per cui nessuno ha avuto prima l'opportunità di studiare e confrontare tutte le notizie relative al cantiere. Si era infatti a conoscenza di due cerchiature di ferro e si ipotizzava l'esistenza di una terza, ma le indagini di Marta Carusi hanno individuato una struttura metallica complessa: 7 cerchi, 64 barre trasversali di collegamento tra le due calotte, 32 catene nella calotta interna, 16 catene nei costoloni, 16 paletti nella zona inferiore dell'occhio della cupola. Nascosti nella muratura, questi materiali non furono più individuabili e se ne perse la memoria.

Per appurare l'esattezza delle proprie intuizioni, la Carusi è arrivata al punto di farsi imbracare come un'alpinista per poter scansionare le pareti con un geo-radar appositamente fornitole dal Laboratorio SGM di Perugia. Questa eccentrica indagine le ha permesso di individuare la posizione esatta di cerchi, barre e catene.

Tra i ritrovamenti di Marta Carusi nell'Archivio della Fabbrica c'è anche il Parere di Mattia de' Rossi relativo ai danni rilevati sulla cupola nel 1680. Considerato perduto, lo si stava cercando dal 1740, si è trovato nell'Archivio, anche se anonimo e non datato. Con questo documento sono state rinvenute anche 26 composizioni fotografiche risalenti al 1857, che ritraggono i lati dei contrafforti del tamburo prima che questi venissero parzialmente demoliti e ricostruiti. Queste foto, realizzate da Baldassarre Simeli, sono di importanza storica e archivistica straordinaria e costituiscono una documentazione fondamentale del reale degrado dei contrafforti.

L'analisi della documentazione ritrovata e degli interventi di ordinaria manutenzione e controllo dei restauri effettuati ha permesso a Marta Carusi di capire come la cupola si è spostata nei secoli, individuandone gli eventuali punti deboli e la resistenza a un fenomeno tellurico consistente.
Ricordiamo che la cupola ha subito il terremoto del 1703, che ha costituito il violento inizio, per l'Italia centrale, di una delle più significative sequenze sismiche dell'ultimo millennio.
Ci volevano il coraggio, la spericolatezza e l'indifferenza di due giovani donne verso le intimidazioni di certi storici dell'arte per riuscire a conoscere tante inedite e interessanti notizie intorno a uno dei monumenti più famosi del mondo.

***

Donne in cantiere

Anche se assenti nelle liste di presenza giornaliera, molte donne hanno lavorato nel cantiere della Reverenda Fabbrica. Impegnate in operazioni per cui non era richiesta una specifica competenza tecnica, sono per lo più vedove di operai. Sostituiscono i mariti per non incorrere nelle penalità previste dai contratti. La vedova di Giacomo Carone, tale Antonina de Pozzo, è presente nell'elenco dei trasportatori di travertino dal 1548 al 1550. Madonna Pacifica de Cosciaris, "tinozzara", trasporta travertino da Tivoli. Mentre Marta di sor Ponzino carrettiere, rimasta vedova nel 1565, inizia a trasportare con i carri del marito i blocchi di travertino che carica al porto di Castello o nei pressi del Colosseo per consegnarli a San Pietro a 2 carlini la carrettata. Un caso a parte è quello di madonna Perna, "lavandara di N.S.", che nel 1542 affitta i suoi sei somari a mastro Lorenzo per trasportare a 15 baiocchi alla giornata la terra occorrente alla realizzazione di una strada di servizio dietro la basilica.

Durante tutto il XVI secolo la presenza femminile, oltre che per il trasporto dei materiali, appare anche tra la manovalanza e senza differenze remunerative con gli uomini. E non solo popolane. Anche alcune nobildonne stringono rapporti economici con la Reverenda Fabbrica, come Francesca Farnese e la contessa di Anguillara. La prima fornisce legna dalla selva di sua proprietà dal 28 agosto all'8 settembre 1546. L'altra, essendosi impegnata a tagliare in breve tempo i suoi abeti di Cerveteri, il 17 maggio 1549 viene sollecitata dai deputati ad affrettare la consegna in cantiere (sandro barbagallo).



(©L'Osservatore Romano 6 aprile 2011)

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