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Non ho capito un passo del Vangelo (chiarimenti e approfondimenti sulla Scrittura)

Ultimo Aggiornamento: 26/02/2018 19:20
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Tra Prometeo e Giacobbe


Il termine “sfida” è la negazione della fede cristiana? Come intenderla?


di Gianfranco Ravasi dicembre 2001


Giacobbe  che lotta con l’angelo, Rembrandt Van Rijn, 1660 circa, Staatliche Museen, Berlino-Dahlem

Giacobbe che lotta con l’angelo, Rembrandt Van Rijn, 1660 circa, Staatliche Museen, Berlino-Dahlem

A prima vista il termine “sfida” sembra essere, a livello etimologico, la negazione della fede: non è forse, “dis-fida”, cioè una “fiducia/fede” negata dal prefisso dis che, nella sua matrice greca, indica negatività e ostilità? Dopo tutto, l’hybris, cioè la sfida di Prometeo, reiterata in molte culture, è il tentativo di occupare il trono divino, sostituendosi al Re trascendente. Eppure, la fede – se colta nella sua struttura costitutiva più intima – si rivela anch’essa come sfida, rischiosa ma esaltante. Scriveva il filosofo Sören Kierkegaard: «La fede è la più alta passione dell’uomo. Ci sono forse in ogni generazione uomini che non arrivano fino ad essa. Ma nessuno va oltre». A questo sforzo di giungere al livello vertiginoso del credere noi dedicheremo ora non tanto un’analisi quanto piuttosto una rappresentazione emblematica per quadri o scene, in una sorta di trattazione “impressionistica”.

Come Giacobbe e Davide...
Inizieremo con un notturno: la celebre lotta di Giacobbe, il patriarca ebreo, contro un essere misterioso, identificato dalla tradizione con un angelo, simbolo comunque del divino. Il racconto di Genesi 32, 23-33 vede il protagonista solitario lungo le rive del fiume Jabbok, un affluente orientale del Giordano. Le acque impetuose e la notte sono segno del nulla, del caos, del dramma. «Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora» (32,25). Quando sorge l’alba, Giacobbe avanza zoppicante, ferito all’articolazione del femore, e il suo nome non è più quello tribale di Giacobbe ma è “Israele”, che significa “contende con Dio”: dall’incontro-lotta con Dio non si esce indenni ma trasformati e trasfigurati. L’esperienza di fede consegna alla persona un compito, una missione, una vocazione, per Giacobbe quella di essere il progenitore, il capostipite e l’archetipo di un popolo.


Il credere, perciò, come era accaduto già ad Abramo costretto dal Signore a sacrificargli il figlio Isacco (Genesi 22),non è una pacifica acquisizione di benedizioni, ma è una sorta di incontro-scontro col mistero. Credere è rischio e il suo percorso si snoda su un sentiero d’altura, come lo era il monte Moria per Abramo, o lungo un fiume impetuoso, come accade a Giacobbe. Ma ci sono altre sfide che attendono il credente, dopo la sua lotta con Dio.

Ecco, allora, l’altro quadro che vorremmo evocare. La scena ora è solare: siamo in campo aperto, davanti a una platea di spettatori incuriositi. Si stanno confrontando in un duello due personaggi del tutto antitetici. Da un lato, si erge l’eroe filisteo Golia che enfaticamente è descritto dalla Bibbia – nel racconto del capitolo 17 del primo Libro di Samuele conun’imponenza di «sei cubiti e un palmo», quasi 2,80metri, capace di reggere una corazza a piastre di 5000sicli di bronzo, cioè di una trentina di chili. Dall’altro lato, avanza Davide, un «ragazzo fulvo di capelli e di bell’aspetto», armato solo di una fionda e di cinque ciottoli lisci di fiume.

È l’eterna sfida tra la corpulenza becera e muscolosa dell’arroganza, del potere, della forza bruta contro la bellezza, la delicatezza, l’intelligenza, la verità. A prima vista il confronto sembra essere impari; ma l’esito è alla fine sorprendente perché i valori dello spirito sono ben più resistenti e decisivi e non possono essere piegati dalla mera brutalità quantitativa. Essi partecipano dell’eternità e dell’infinito ed è per questo che è impossibile metterli in gara con realtà che poggiano solo sulla materialità, di sua natura caduca e finita. La fede è un invito permanente a schierarsi dalla parte della “debolezza”, della “fragilità”, del Bello, del Vero, del Giusto, dell’Amore.

«Resistere nel giorno malvagio»
Ma possiamo procedere oltre, verso un’altra e più inquietante sfida che è ambientata in un interno. Siamo in una sinagoga e Gesù è da poco entrato, creando scompiglio soprattutto in un ebreo fino a quel momento quietamente assiso sul suo scranno. Agitandosi sotto l’irruzione di «uno spirito immondo», egli si mette a urlare: «Che c’entri con noi, Gesù Nazareno? Tu sei venuto a rovinarci! Lo so chi tu sei: il Santo di Dio!».
Nella narrazione del capitolo 1 del Vangelo di Marco lo scontro ha il suo acme quando Cristo si rivolge non all’uomo ma allo “spirito immondo” che lo possiede. «Taci! Esci da quest’uomo!». E l’esito è immediato: «Lo spirito immondo, straziandolo e gridando forte, uscì da lui».


In questo episodio di forte tensione è idealmente rappresentata una sfida che non coinvolge solo Cristo ma ogni credente: siamo costantemente posti in conflitto col male morale e metafisico, siamo in perenne confronto con l’oscurità della storia, con l’ombra di Dio, col grumo incandescente della perversione, con la potenza tenebrosa della morte.
Per usare un’espressione di Bernanos, siamo spesso «sotto il sole di satana», un sole “nero” che scandisce molti tempi della storia e che ci costringe – come dice san Paolo – ad essere attrezzati con «l’armatura di Dio perché possiamo resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di carne e di sangue, ma contro principati e potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male. Prendiamo, perciò, l’armatura di Dio, perché possiamo resistere nel giorno malvagio e restare in piedi...» (Ef 6,11-13).


Questa, però, non è una sfida che si consuma solo all’esterno, nell’orizzonte e nello scenario della storia. Essa celebra i suoi atti più terribili e subdoli all’interno di noi stessi, nello spazio intimo della libertà. È ciò che Paolo dipinge in modo mirabile nel capitolo 7 della Lettera ai Romani: «Quando voglio fare il bene, è il male che mi è accanto. Aderirei alla legge di Dio ma nelle mie membra vedo un’altra legge che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo». Lo sbocco sembra essere inevitabile e approdare alle sabbie mobili del peccato e della “carne”, come ama dire l’Apostolo.

Forte come la Morte è l’Amore
In realtà, l’uomo in questa lotta intima non è solo, non solitario. La mano di Dio si stende ed effonde in noi «le primizie dello Spirito, così che gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo, perché nella speranza noi siamo stati salvati» (Rm 8,23-24).
Il verbo “gemere” è quello delle doglie del parto: siamo, quindi, di fronte a una sfida estrema che non produce morte bensì genera una ri-creazione, una nuova vita, una rinascita, compiuta dalla grazia divina.

È in questa luce che appare l’ultima sfida, l’estrema, quella con la morte che ha il suo emblema nella risurrezione di Cristo, ma che è già anticipata nella proclamazione della donna del Cantico dei Cantici:«Forte come la Morte è l’Amore... Le sue vampe sono ardenti, una fiamma del Signore!» (8,6).Affidandosi ad alcuni passi profetici, san Paolo introduce il duello supremo tra Vita e Morte e ne esalta l’esito finale: «La morte è stata ingoiata per la vittoria./ Dov’è, o morte, la tua vittoria? / Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?
Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la legge. Siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo!» (1Cor 15,54-57).

La fede si rivela, perciò, come un confronto aperto a tutto campo, che non teme di inoltrarsi anche sui terreni più incerti e ignoti. Come scriveva ancora Bernanos, «la fede è un rischio da correre. È addirittura il rischio dei rischi». Come ha insegnato Pascal, non è, però, una sfida insensata né solitaria. Il suo itinerario è motivato, i suoi risultati sono vigorosi, il suo tracciato è tormentato eppure nitido, il cammino è seguito da una Presenza. La sfida della fede è pesante ma anche gloriosa, è ardua ma anche serena, ed è un’esperienza aperta a tutti, anche a chi è agnostico.

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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)
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